Nella rassegna stampa di oggi:
1) TEMPI/ Amicone: cara Europa, aveva proprio ragione Solzenicyn - Luigi Amicone martedì 17 novembre 2009
2) Meno soldi, più educazione - Alberto Piatti mercoledì 18 novembre 2009 – ilsussidiario.net
3) FRANCIA - Ospedale condannato per accanimento terapeutico - Notizia 12 novembre 2009 12:28 – da sito ADUC
4) LA BIZZARRA PRETESA DI UNO SVEDESE AIUTA A CAPIRE UN NODO CRUCIALE - Ma persino il nostro nome è un dovere prima che un diritto - FRANCESCO D’A GOSTINO – Avvenire, 18 novembre 2009
5) LA PARODIA CRESCE, L’ORIGINALE CALA. M A LA TV NON È TUTTA LA REALTÀ - Se a noi che siamo teatro il «Gf» comincia a piacer meno - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 18 novembre 2009
TEMPI/ Amicone: cara Europa, aveva proprio ragione Solzenicyn - Luigi Amicone martedì 17 novembre 2009
Nel nostro ultimo articolo sorridevamo intorno al gran ciacolare che si fa sul prossimo vertice di Copenaghen e mettevamo un po’ alla berlina la notizia dei fatidici “cinquanta giorni per salvare il clima” decretati dal più autorevole quotidiano italiano. In proposito suggerivamo di munirsi di più onesta informazione e raccontare come stanno sul serio le cose.
Prendiamo atto che, come ormai ci capita non di rado, avevamo ragione. Nei giorni scorsi il numero 1 dei potenti del mondo (secondo Forbes) ha incontrato il numero 2 e insieme hanno convenuto che “a Copenaghen sarà impossibile trovare una soluzione condivisa”. Ergo, come previsto, Usa e Cina (ma anche India e tutti gli altri cosiddetti paesi in via di sviluppo) non firmeranno nessun accordo vincolante in materia di energia ed emissione di gas serra. Era così difficile prevederlo?
La risposta naturalmente è: no, benché l’immaginario europeo sia invaso da una moltitudine di buone intenzioni e da troppe cattive divagazioni in tema di apocalissi climatiche, nessuna piccola e grande potenza mondiale è nelle condizioni di seguire l’Europa su questa china.
D’altra parte cos’è oggi l’Europa se non un Vecchio Continente di pensionati e di cittadini che vivacchiano sulle provvidenze statali e le azioni in Borsa, sui risparmi in banca e le case di proprietà? Molto meno di un gigante dai piedi di argilla, l’Europa è oggi un paese per vecchi e una piattaforma di approdo di immigrati. Questi sì con l’attitudine e la determinazione a diventare protagonisti della futura Unione che andrà dall’Atlantico agli Urali.
Altro paradosso: non è singolare che secondo la classifica stilata da Forbes l’uomo più potente d’Europa sia Silvio Berlusconi, il politico più perseguitato dai nostri illustri pm e il più criticato dai soloni dell’Unione degli scrittori, giornalisti e intellettuali della sinistra europea? Anche qui la realtà insegna che Europa è diventato sinonimo di provincia politicamente irrilevante a livello internazionale e di spazio mentale ristretto, ripiegato sulle proprie fissazioni, organizzato nella celebrazione della propria vanagloria.
Altro esempio? Sono appena rientrato dalla Russia, paese grande una decina di volte l’Europa e con metà della popolazione europea. Bene, la nostra grande stampa democratica è sempre lì a fare le pulci a Vladimir Putin e alla sua politica che dalle nostre parti definiscono immancabilmente come corrotta e autoritaria. Quanto alla corruzione è chiaro, cosa potevi aspettarti dopo quasi un secolo di quel comunismo di cui molti europei sono stoltamente e ignorantemente nostalgici? Quanto all’autoritarismo: ma crediamo sul serio che il nostro modello democratico sia l’unico concepibile sulla faccia della terra?
In realtà tutte le contraddizioni della Russia - corruzione, oligarchia, autoritarismo, opacità politica ed economica - sono il retaggio di un passato di corruzione, oligarchie, autoritarismi e opacità che probabilmente non ha eguali nella storia del pianeta. Da questo punto di vista - eccetto naturalmente gli utopisti democratici che calcano i convegni berlinesi e sono collegati alla buona stampa occidentale - tutti in Russia riconoscono a Putin di aver già compiuto un miracolo nell’aver dato stabilità e un certo ordine (sì, anche quello del pugno di ferro nei confronti dei clan e dei feroci guerriglieri islamisti che devastano e tengono abbarbicate nella miseria le popolazioni caucasiche) a un paese che si estende dalle pianure del Don all’oceano Pacifico.
Nonostante ciò l’Europa rimane ferma sui suoi principi astratti, sui suoi compitini da primi della classe in materia di democrazia, al suo ditino alzato in tema di diritti umani. Non vede e non sente - se non per motivi di squisito ricatto geopolitco e di interesse economico - l’immane sforzo che sta compiendo un potere politico che, per quanto poco trasparente e ruvido esso effettivamente sia, è oggi l’unico che possa garantire alla Russia una transizione verso quella piena democrazia che lo stesso presidente Dimitri Medvedev ha appena evocato e auspicato nel suo secondo discorso alla Nazione tenuto dalla remota regione siberiana di Tuva.
E dire che nel suo discorso ad Harvard, orsono più di trent’anni, il grande Aleksandr Solzenicyn ci aveva avvertito di cosa si preparava all’Occidente nel momento in cui si fosse affidato alla fede cieca nei principi astratti del diritto e dei diritti individualistici. Non lo abbiamo ascoltato, e ora eccoci qua a combattere la difficile impresa della libertà in un Continente di leader politici senza qualità e di gente preoccupata più della “buona morte” che della buona vita.
Tutto ciò accade, ammoniva profetico il grande Nobel della letteratura e della libertà, poiché «in conformità ai propri obiettivi la società occidentale ha scelto la forma d’esistenza che le era più comoda e che io definirei giuridica. I limiti (molto larghi) dei diritti e del buon diritto di ogni uomo sono definiti dal sistema delle leggi. A forza di attenersi a queste leggi, di muoversi al loro interno e di destreggiarsi nel loro fitto ordito, gli occidentali hanno acquisito in materia una grande e salda perizia (ma le leggi restano comunque così complesse che il semplice cittadino non è in grado di raccapezzarcisi senza l’aiuto di uno specialista).
Ogni conflitto riceve una soluzione giuridica, e questa viene considerata la più elevata. Se un uomo si trova giuridicamente nel proprio diritto, non si può chiedergli niente di più. Provate a dirgli, dopo la suprema sanzione giuridica, che non ha completamente ragione, provatevi a consigliargli di limitare da se stesso le sue esigenze e di rinunciare a quello che gli spetta di diritto, provatevi a chiedergli di affrontare un sacrificio o di correre un rischio gratuito… vi guarderà come si guarda un idiota.
Io che ho passato tutta la mia vita sotto il comunismo affermo che una società dove non esiste una bilancia giuridica imparziale è una cosa orribile. Ma nemmeno una società che dispone in tutto e per tutto solo della bilancia giuridica può dirsi veramente degna dell’uomo. Una società che si è installata sul terreno della legge, senza voler andare più in alto, utilizza solo debolmente le facoltà più elevate dell’uomo. Quando tutta la vita è compenetrata dai rapporti giuridici, si determina un’atmosfera di mediocrità spirituale che soffoca i migliori slanci dell’uomo. E contare di sostenere le prove che il secolo prepara reggendosi sui solo puntelli giuridici sarà per l’innanzi sempre meno possibile».
Meno soldi, più educazione - Alberto Piatti mercoledì 18 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Di fronte al superamento del miliardo di persone che soffrono la fame, fatto mai accaduto nella storia, l’umanità è sgomenta. Il Vertice Fao lo testimonia.
Tante ricerche per capire quanto costi uscire dalla fame, critiche alla sovrapposizione tra le agenzie che si occupano di agricoltura e cibo, battaglie per la leadership nel governo dell’agricoltura mondiale, Diouf che chiede 44 miliardi di dollari, qualcuno che ventila l’ipotesi di far slittare al 2025 la scadenza del traguardo di dimezzamento del numero di poveri prevista per il 2015. Sgomento.
La risposta che si legge nei documenti del vertice Fao di Roma sono principi di massima che nessuno potrebbe criticare: interventi di aiuto coordinati e non duplicati, sostegni che siano sia di emergenza che di medio e lungo termine, responsabilizzazione dei governi dei Paesi poveri, centralità degli organismi multilaterali. Divagazioni.
È evidente che le istituzioni non intendono farsi carico seriamente del problema. Non si tratta solo di soldi, neppure di trovare degli assetti organizzativi per governarlo. Si tratta di decidere se la fame di un miliardo di persone è un problema della comunità umana o no, soprattutto avendo appurato che il pianeta può dare nutrimento all’umanità intera. C’è una decisione da prendere: essere disposti a rompere i privilegi consolidati, sia come Stati che come singoli.
Farsi carico della fame nel mondo significa rompere i privilegi istituzionali: Benedetto XVI nel discorso al vertice Fao cita le sovvenzioni, l’accesso ai mercati internazionali, la speculazione sui prodotti alimentari. E poi la legalizzazione della proprietà dei terreni.
Ma il Papa coglie anche il sottile rischio che ogni singola persona si lasci contagiare dal cinismo istituzionale, aspettando sistemi perfetti in cui governi e organismi multilaterali possano con norme e regole risolvere il problema della povertà di ciascuno. «Vi è il rischio cioè che la fame venga ritenuta come strutturale, parte integrante delle realtà socio-politiche dei Paesi più deboli, oggetto di un senso di rassegnato sconforto se non addirittura di indifferenza».
Farsi carico della fame nel mondo significa essere disponibili a rompere con i privilegi privati di ciascuno di noi, con lo spreco, con modelli alimentari orientati al solo consumo e privi di una prospettiva di più ampio raggio.
Vorrei ricordare che i nostri nonni e bisnonni vivevano un mondo affamato o a rischio fame. L’uscita dalla fame, lo sviluppo dei nostri popoli europei si radica nell’esperienza della “famiglia rurale”, come in altre occasioni l’ha chiamata il Papa, che insieme ai saperi della coltivazione della terra era depositaria della cultura ossia dell’esperienza umana nella sua integralità. L’intelligenza e la laboriosità insieme alla ricerca hanno accresciuto i saperi e indirizzato lo sviluppo, nella loro inseparabilità da una fede concreta vissuta nel rispetto delle persone e della natura.
Come ci insegna la nostra storia, nello sviluppo è essenziale la costruzione di soggetti che, riscoprendo il valore di sé, si facciano carico della propria persona, della famiglia e della comunità. E questo corrisponde esattamente all’esperienza di una organizzazione che lavora nei Paesi poveri: perché una mamma possa farsi carico della denutrizione del proprio figlio non basta un aiuto economico, occorre che lei decida di prendersene cura, cioè di amare, cioè di vivere con consapevolezza.
Perché un uomo possa cercare di operare affinché il terreno produca non uno ma 2 o 3 raccolti, come accade in molti luoghi dove nonostante ciò i bimbi muoiono di fame, occorre che quell’uomo capisca che il suo lavoro valorizza la sua dignità, allora acquisisce le competenze tecniche. E occorre che intorno a loro ci siano persone disponibili a sostenere questa mamma e quest’uomo nel loro percorso.
Lo sgomento di fronte alla fame svanisce se l’esperienza umana della carità prevale sulla difesa degli interessi, sulla paura che vincere la fame sia rischioso per i nostri corpi sazi. La rivoluzione, il progresso nasce dal cuore dell’uomo. La persona fa la differenza.
FRANCIA - Ospedale condannato per accanimento terapeutico - Notizia 12 novembre 2009 12:28 – da sito ADUC
A memoria di medici e giuristi, è un inedito: non era mai capitato che un ospedale venisse condannato per aver salvato una vita umana. Eppure è questa la decisione resa dal tribunale amministrativo di Nimes (Gard) il 2 giugno scorso contro il centro ospedaliero d'Orange (Vaucluse). Una sentenza passata in sordina, ma da studiare con attenzione dal momento che è in corso una perizia per valutare la somma di risarcimento dovuta a Michael e ai suoi genitori.
Il bambino nasce nel dicembre 2002 all'ospedale pubblico d'Orange. Quando la mamma chiede assistenza per partorire, i medici, occupati altrove, tardano ad arrivare. E comunque troppo tardi per rilevare un'anomalia nel ritmo cardiaco fetale. Quando Michael nasce è in stato di "morte apparente". E' senza reazioni, il suo cuore batte molto lentamente e il cervello non riceve sufficiente ossigeno. L'équipe medica fa di tutto per migliorare la situazione, ma invano. Venti minuti dopo il parto il ginecologo avverte i genitori che il bimbo è morto. Nel frattempo i tentativi di rianimarlo continuano, e dopo venti minuti di cure intensive il cuore riparte. Un'ostinazione che causa al bambino di sette anni un handicap fisico e mentale molto pesante. Non camminerà mai e la sua colonna vertebrale è imbrigliata in un guscio. "Rendiamoci conto: il suo cervello è stato privo d'ossigeno per almeno venti minuti", afferma l'avvocato di famiglia. E' proprio questa durata e la doppia affermazione dei medici -l'annuncio della morte e poi della vita- che i giudici hanno sanzionato. "I medici hanno mostrato un'ostinazione irragionevole", rispetto al codice di deontologia sanitaria, "costitutiva d'errore medico". In altre parole: si è trattato d'accanimento terapeutico.
La decisione del tribunale fa discutere, e alcuni temono che faccia giurisprudenza. L'ospedale non ricorrerà in appello.
LA BIZZARRA PRETESA DI UNO SVEDESE AIUTA A CAPIRE UN NODO CRUCIALE - Ma persino il nostro nome è un dovere prima che un diritto - FRANCESCO D’A GOSTINO – Avvenire, 18 novembre 2009
Giunge dalla Svezia una notizia, obiettivamente piccola, ma non priva di interesse. In una località del Nord del Paese, un cittadino ha chiesto alle autorità competenti di mutare il suo nome proprio, maschile, con un nuovo nome anagrafico, femminile: una richiesta non accompagnata da quella di mutare la propria identità sessuale anagrafica. Perché questa richiesta? Perché sì: se si riconosce a un cittadino di uno Stato laico e liberale il diritto di autodeterminarsi nelle sue scelte personali e al limite in quelle di fine vita, perché non dovrebbe vedersi anche riconosciuto il diritto di liberarsi di una scelta – quella del nome – che altri hanno fatto per lui? Le autorità cui si è rivolto non hanno rigettato la domanda, ma hanno adottato una soluzione di compromesso: il ricorrente si è visto riconoscere il diritto di aggiungere al proprio il nome di sua elezione, 'Madeleine', come secondo nome.
Lasciamo da parte le questioni, che pure non sono banali, di ordine pubblico, inerenti alla necessità di poter identificare socialmente le persone anche e soprattutto a partire dal loro nome anagrafico: la decisione svedese sembra sotto questo profilo rendere ancora più liquida una società, come quella moderna, che avrebbe piuttosto bisogno di nuove forme di stabilizzazione ben più consistenti di quelle attuali. Il punto è che ci troviamo di fronte a qualcosa di molto diverso rispetto alle tante pratiche storicamente conosciute di mutamento di nome (dal soprannome al nuovo nome che ottiene chi entra in religione, dalla nuova denominazione che ottiene chi deve mutare identità per ragioni di protezione personale a quella che ottiene l’immigrato per meglio integrarsi nella comunità che lo accoglie). In tutti questi casi la nuova denominazione non entra in conflitto con la precedente, ma si limita a integrarla, più spesso a sublimarla, in casi estremi a occultarla per ragioni di forza maggiore. Ciò che invece contraddistingue il caso svedese è il rifiuto di motivare la richiesta con ragioni oggettive, valutabili socialmente. L’intenzione di alterare la propria identità e di adottare un nuovo nome proprio, per di più del sesso opposto, si unisce nella vicenda svedese a quella per la quale non dovrebbe avere alcun rilievo pubblico, e quindi nemmeno anagrafico, la distinzione sessuale, di cui il nome proprio è uno dei segni più rilevanti. A questa intenzione se ne unisce necessariamente un’altra, quella di rigettare quel dato della «stabilità dell’io» di cui il nome anagrafico è segno. Se infatti mi si riconosce come un diritto quello di mutar nome, perché questo diritto dovrebbe poter essere esercitato una volta soltanto e non tutte le volte in cui sorgesse in me il desiderio – insindacabile – di mutarlo? Giungiamo lentamente così al cuore della questione. Se tradizionalmente la richiesta del cambiamento del nome veniva avanzata, in casi peraltro molto rari, con oggettive motivazioni di tipo relazionale (tra le quali potremmo anche porre quella comprensibilissima di sostituire un nome percepito come ridicolo o umiliante), quella che ha iniziato a manifestarsi in Svezia – e che potrebbe ben presto dilagare nel resto del mondo occidentale – è piuttosto il segno di un profondo disagio nei confronti di se stessi, al quale si cerca (illusoriamente) di trovare soddisfazione attraverso una nuova denominazione anagrafica. Il punto però è che nessuno può realmente darsi il nome da sé, perché il nome non è una maschera, che si può cambiare a piacimento, ma è parte costitutiva del nostro io: riceviamo il nome da altri, come da altri riceviamo la vita, il linguaggio, l’educazione, la possibilità di un inserimento sociale. Restar fedeli al proprio nome è qualcosa di più della mera e passiva accettazione di un’identità debole: è piuttosto il percepirne le radici ultime e profonde, che non sta nelle nostre possibilità alterare e che siamo piuttosto chiamati a custodire e a difendere. Probabilmente tra le fatiche della modernità dovremo presto porre anche questa: far capire alle persone che non è dal nome che dobbiamo farci rappresentare (nel bene o nel male): siamo piuttosto noi a dover 'rappresentare' il nostro nome, aprendoci al mondo con uno sguardo limpido e sereno e operando in modo tale che tutti lo citino, se non con ammirazione, con rispetto ed amicizia.
LA PARODIA CRESCE, L’ORIGINALE CALA. M A LA TV NON È TUTTA LA REALTÀ - Se a noi che siamo teatro il «Gf» comincia a piacer meno - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 18 novembre 2009
M a l’Italia è quella roba che si vede al Grande Fratello ? In molti se lo chiedono.
Soprattutto ora che il reality zio di tutti i reality va malino e mentre a crescere è la parodia che ne fanno i simpatici guasconi della Gialappa’s. Insomma, sembra che al peggio dell’esibizionismo non ci sia fine. La irrisione dell’esibizionismo è anch’essa una forma addirittura un po’ masochista di esibizione? Gli italiani, noi, dunque siamo così? Siamo ridotti così? In molti lo pensano. E dicono che quel che si vede, come tipo di homo italianus, è il tipo medio. E che in giro per ipermercati, autogrill, stazioni o vari ritrovi italici, le scene che si vedono non sono lontane in quanto a 'tasso di buon gusto' da quel che si vede nella Casa più spiata d’Italia.
La tv, dunque, non fa che ritrarre come siamo. E con questo ritornello, in genere, si quietano le coscienze di coloro che ci ammanniscono questi programmi e con essi si arricchiscono. Ma la faccenda è un po’ più complessa. Gli italiani (lo sostengo da sempre) sono un tipo di gente che ama il teatro. Non nel senso che accorrano ad abbonarsi in folla alle stagioni, anzi. Ma hanno (abbiamo) addosso quel miscuglio di amore al bello e vanità, di senso drammatico ed esibizionismo, che rendono le nostre vite un po’ come sempre su un palco. Alcuni di certo esagerano, e non solo in tv. E dunque è facile imbattersi un po’ ovunque in scene e scenette, con parecchie inevitabili cadute di buon gusto. Avere un animo teatrale, infatti, non coincide se non a costo di un po’ di educazione, con avere poi un senso dignitoso della scena. E l’educazione, come si sa, sta scarseggiando.
Però va ricordata assolutamente una cosa. La tv non è Dio, anche se taluni suoi protagonisti sembrano pensarlo. E così come la fama non ha per niente il sapore inimitabile dell’eterno (essendone una brutta malacopia), così anche l’occhio della tv è limitato, non è come quello onnivedente del Padreterno. E dunque, per quanto l’occhio della telecamera si metta a frugare ovunque, non sarà mai capace di farci vedere tutta la realtà. Nemmeno tutta la realtà di quella cosa, tutto sommato piccola nell’universo, che è il popolo italiano. La tv seleziona, eccome.
Sceglie cosa far vedere e cosa no. E mostrando certe cose invece di altre, può finire per abituarci a notare in giro certe cose più di altre. Ci rende più sensibili a certe cose invece che ad altre.
A furia di farci vedere 'truzzi' (o come li chiamate voi i tipi grossolani?) si finisce per notare in giro un sacco di truzzi, e di ridurci a questa presa d’atto della realtà.
La tv non è un ente anonimo ma è in mano a certi autori di programmi, certi direttori di rete e produttori che hanno nome e cognome, e vanno ricordati.
Costoro vogliono farci vedere e renderci sensibili a certe cose invece che ad altre.
Probabilmente, se ci facessero vedere altro, vedremmo che in Italia ci sono un sacco di giovani anche (e forse di più) 'non truzzi'. Forse se ci facessero vedere più farfalle, noteremo di più le tante farfalle che ci sono.
Il fatto è che la tv non rappresenta tutta la realtà. Dice di farlo, i suoi uomini dicono di farlo, ma non è vero, non può essere vero. In quello schermo, per quanto grande, ci sta poca roba. E se non è la migliore, non occorre cedere alla presunzione che i capi della tv hanno per giustificare la loro sedia e i loro stipendi: di essere semidei che vedono e fanno vedere tutto. No, scelgono. Eccome se scelgono. E a noi tocca giudicare come.
Sul grande fratello, ad esempio, il giudizio è calato.
1) TEMPI/ Amicone: cara Europa, aveva proprio ragione Solzenicyn - Luigi Amicone martedì 17 novembre 2009
2) Meno soldi, più educazione - Alberto Piatti mercoledì 18 novembre 2009 – ilsussidiario.net
3) FRANCIA - Ospedale condannato per accanimento terapeutico - Notizia 12 novembre 2009 12:28 – da sito ADUC
4) LA BIZZARRA PRETESA DI UNO SVEDESE AIUTA A CAPIRE UN NODO CRUCIALE - Ma persino il nostro nome è un dovere prima che un diritto - FRANCESCO D’A GOSTINO – Avvenire, 18 novembre 2009
5) LA PARODIA CRESCE, L’ORIGINALE CALA. M A LA TV NON È TUTTA LA REALTÀ - Se a noi che siamo teatro il «Gf» comincia a piacer meno - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 18 novembre 2009
TEMPI/ Amicone: cara Europa, aveva proprio ragione Solzenicyn - Luigi Amicone martedì 17 novembre 2009
Nel nostro ultimo articolo sorridevamo intorno al gran ciacolare che si fa sul prossimo vertice di Copenaghen e mettevamo un po’ alla berlina la notizia dei fatidici “cinquanta giorni per salvare il clima” decretati dal più autorevole quotidiano italiano. In proposito suggerivamo di munirsi di più onesta informazione e raccontare come stanno sul serio le cose.
Prendiamo atto che, come ormai ci capita non di rado, avevamo ragione. Nei giorni scorsi il numero 1 dei potenti del mondo (secondo Forbes) ha incontrato il numero 2 e insieme hanno convenuto che “a Copenaghen sarà impossibile trovare una soluzione condivisa”. Ergo, come previsto, Usa e Cina (ma anche India e tutti gli altri cosiddetti paesi in via di sviluppo) non firmeranno nessun accordo vincolante in materia di energia ed emissione di gas serra. Era così difficile prevederlo?
La risposta naturalmente è: no, benché l’immaginario europeo sia invaso da una moltitudine di buone intenzioni e da troppe cattive divagazioni in tema di apocalissi climatiche, nessuna piccola e grande potenza mondiale è nelle condizioni di seguire l’Europa su questa china.
D’altra parte cos’è oggi l’Europa se non un Vecchio Continente di pensionati e di cittadini che vivacchiano sulle provvidenze statali e le azioni in Borsa, sui risparmi in banca e le case di proprietà? Molto meno di un gigante dai piedi di argilla, l’Europa è oggi un paese per vecchi e una piattaforma di approdo di immigrati. Questi sì con l’attitudine e la determinazione a diventare protagonisti della futura Unione che andrà dall’Atlantico agli Urali.
Altro paradosso: non è singolare che secondo la classifica stilata da Forbes l’uomo più potente d’Europa sia Silvio Berlusconi, il politico più perseguitato dai nostri illustri pm e il più criticato dai soloni dell’Unione degli scrittori, giornalisti e intellettuali della sinistra europea? Anche qui la realtà insegna che Europa è diventato sinonimo di provincia politicamente irrilevante a livello internazionale e di spazio mentale ristretto, ripiegato sulle proprie fissazioni, organizzato nella celebrazione della propria vanagloria.
Altro esempio? Sono appena rientrato dalla Russia, paese grande una decina di volte l’Europa e con metà della popolazione europea. Bene, la nostra grande stampa democratica è sempre lì a fare le pulci a Vladimir Putin e alla sua politica che dalle nostre parti definiscono immancabilmente come corrotta e autoritaria. Quanto alla corruzione è chiaro, cosa potevi aspettarti dopo quasi un secolo di quel comunismo di cui molti europei sono stoltamente e ignorantemente nostalgici? Quanto all’autoritarismo: ma crediamo sul serio che il nostro modello democratico sia l’unico concepibile sulla faccia della terra?
In realtà tutte le contraddizioni della Russia - corruzione, oligarchia, autoritarismo, opacità politica ed economica - sono il retaggio di un passato di corruzione, oligarchie, autoritarismi e opacità che probabilmente non ha eguali nella storia del pianeta. Da questo punto di vista - eccetto naturalmente gli utopisti democratici che calcano i convegni berlinesi e sono collegati alla buona stampa occidentale - tutti in Russia riconoscono a Putin di aver già compiuto un miracolo nell’aver dato stabilità e un certo ordine (sì, anche quello del pugno di ferro nei confronti dei clan e dei feroci guerriglieri islamisti che devastano e tengono abbarbicate nella miseria le popolazioni caucasiche) a un paese che si estende dalle pianure del Don all’oceano Pacifico.
Nonostante ciò l’Europa rimane ferma sui suoi principi astratti, sui suoi compitini da primi della classe in materia di democrazia, al suo ditino alzato in tema di diritti umani. Non vede e non sente - se non per motivi di squisito ricatto geopolitco e di interesse economico - l’immane sforzo che sta compiendo un potere politico che, per quanto poco trasparente e ruvido esso effettivamente sia, è oggi l’unico che possa garantire alla Russia una transizione verso quella piena democrazia che lo stesso presidente Dimitri Medvedev ha appena evocato e auspicato nel suo secondo discorso alla Nazione tenuto dalla remota regione siberiana di Tuva.
E dire che nel suo discorso ad Harvard, orsono più di trent’anni, il grande Aleksandr Solzenicyn ci aveva avvertito di cosa si preparava all’Occidente nel momento in cui si fosse affidato alla fede cieca nei principi astratti del diritto e dei diritti individualistici. Non lo abbiamo ascoltato, e ora eccoci qua a combattere la difficile impresa della libertà in un Continente di leader politici senza qualità e di gente preoccupata più della “buona morte” che della buona vita.
Tutto ciò accade, ammoniva profetico il grande Nobel della letteratura e della libertà, poiché «in conformità ai propri obiettivi la società occidentale ha scelto la forma d’esistenza che le era più comoda e che io definirei giuridica. I limiti (molto larghi) dei diritti e del buon diritto di ogni uomo sono definiti dal sistema delle leggi. A forza di attenersi a queste leggi, di muoversi al loro interno e di destreggiarsi nel loro fitto ordito, gli occidentali hanno acquisito in materia una grande e salda perizia (ma le leggi restano comunque così complesse che il semplice cittadino non è in grado di raccapezzarcisi senza l’aiuto di uno specialista).
Ogni conflitto riceve una soluzione giuridica, e questa viene considerata la più elevata. Se un uomo si trova giuridicamente nel proprio diritto, non si può chiedergli niente di più. Provate a dirgli, dopo la suprema sanzione giuridica, che non ha completamente ragione, provatevi a consigliargli di limitare da se stesso le sue esigenze e di rinunciare a quello che gli spetta di diritto, provatevi a chiedergli di affrontare un sacrificio o di correre un rischio gratuito… vi guarderà come si guarda un idiota.
Io che ho passato tutta la mia vita sotto il comunismo affermo che una società dove non esiste una bilancia giuridica imparziale è una cosa orribile. Ma nemmeno una società che dispone in tutto e per tutto solo della bilancia giuridica può dirsi veramente degna dell’uomo. Una società che si è installata sul terreno della legge, senza voler andare più in alto, utilizza solo debolmente le facoltà più elevate dell’uomo. Quando tutta la vita è compenetrata dai rapporti giuridici, si determina un’atmosfera di mediocrità spirituale che soffoca i migliori slanci dell’uomo. E contare di sostenere le prove che il secolo prepara reggendosi sui solo puntelli giuridici sarà per l’innanzi sempre meno possibile».
Meno soldi, più educazione - Alberto Piatti mercoledì 18 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Di fronte al superamento del miliardo di persone che soffrono la fame, fatto mai accaduto nella storia, l’umanità è sgomenta. Il Vertice Fao lo testimonia.
Tante ricerche per capire quanto costi uscire dalla fame, critiche alla sovrapposizione tra le agenzie che si occupano di agricoltura e cibo, battaglie per la leadership nel governo dell’agricoltura mondiale, Diouf che chiede 44 miliardi di dollari, qualcuno che ventila l’ipotesi di far slittare al 2025 la scadenza del traguardo di dimezzamento del numero di poveri prevista per il 2015. Sgomento.
La risposta che si legge nei documenti del vertice Fao di Roma sono principi di massima che nessuno potrebbe criticare: interventi di aiuto coordinati e non duplicati, sostegni che siano sia di emergenza che di medio e lungo termine, responsabilizzazione dei governi dei Paesi poveri, centralità degli organismi multilaterali. Divagazioni.
È evidente che le istituzioni non intendono farsi carico seriamente del problema. Non si tratta solo di soldi, neppure di trovare degli assetti organizzativi per governarlo. Si tratta di decidere se la fame di un miliardo di persone è un problema della comunità umana o no, soprattutto avendo appurato che il pianeta può dare nutrimento all’umanità intera. C’è una decisione da prendere: essere disposti a rompere i privilegi consolidati, sia come Stati che come singoli.
Farsi carico della fame nel mondo significa rompere i privilegi istituzionali: Benedetto XVI nel discorso al vertice Fao cita le sovvenzioni, l’accesso ai mercati internazionali, la speculazione sui prodotti alimentari. E poi la legalizzazione della proprietà dei terreni.
Ma il Papa coglie anche il sottile rischio che ogni singola persona si lasci contagiare dal cinismo istituzionale, aspettando sistemi perfetti in cui governi e organismi multilaterali possano con norme e regole risolvere il problema della povertà di ciascuno. «Vi è il rischio cioè che la fame venga ritenuta come strutturale, parte integrante delle realtà socio-politiche dei Paesi più deboli, oggetto di un senso di rassegnato sconforto se non addirittura di indifferenza».
Farsi carico della fame nel mondo significa essere disponibili a rompere con i privilegi privati di ciascuno di noi, con lo spreco, con modelli alimentari orientati al solo consumo e privi di una prospettiva di più ampio raggio.
Vorrei ricordare che i nostri nonni e bisnonni vivevano un mondo affamato o a rischio fame. L’uscita dalla fame, lo sviluppo dei nostri popoli europei si radica nell’esperienza della “famiglia rurale”, come in altre occasioni l’ha chiamata il Papa, che insieme ai saperi della coltivazione della terra era depositaria della cultura ossia dell’esperienza umana nella sua integralità. L’intelligenza e la laboriosità insieme alla ricerca hanno accresciuto i saperi e indirizzato lo sviluppo, nella loro inseparabilità da una fede concreta vissuta nel rispetto delle persone e della natura.
Come ci insegna la nostra storia, nello sviluppo è essenziale la costruzione di soggetti che, riscoprendo il valore di sé, si facciano carico della propria persona, della famiglia e della comunità. E questo corrisponde esattamente all’esperienza di una organizzazione che lavora nei Paesi poveri: perché una mamma possa farsi carico della denutrizione del proprio figlio non basta un aiuto economico, occorre che lei decida di prendersene cura, cioè di amare, cioè di vivere con consapevolezza.
Perché un uomo possa cercare di operare affinché il terreno produca non uno ma 2 o 3 raccolti, come accade in molti luoghi dove nonostante ciò i bimbi muoiono di fame, occorre che quell’uomo capisca che il suo lavoro valorizza la sua dignità, allora acquisisce le competenze tecniche. E occorre che intorno a loro ci siano persone disponibili a sostenere questa mamma e quest’uomo nel loro percorso.
Lo sgomento di fronte alla fame svanisce se l’esperienza umana della carità prevale sulla difesa degli interessi, sulla paura che vincere la fame sia rischioso per i nostri corpi sazi. La rivoluzione, il progresso nasce dal cuore dell’uomo. La persona fa la differenza.
FRANCIA - Ospedale condannato per accanimento terapeutico - Notizia 12 novembre 2009 12:28 – da sito ADUC
A memoria di medici e giuristi, è un inedito: non era mai capitato che un ospedale venisse condannato per aver salvato una vita umana. Eppure è questa la decisione resa dal tribunale amministrativo di Nimes (Gard) il 2 giugno scorso contro il centro ospedaliero d'Orange (Vaucluse). Una sentenza passata in sordina, ma da studiare con attenzione dal momento che è in corso una perizia per valutare la somma di risarcimento dovuta a Michael e ai suoi genitori.
Il bambino nasce nel dicembre 2002 all'ospedale pubblico d'Orange. Quando la mamma chiede assistenza per partorire, i medici, occupati altrove, tardano ad arrivare. E comunque troppo tardi per rilevare un'anomalia nel ritmo cardiaco fetale. Quando Michael nasce è in stato di "morte apparente". E' senza reazioni, il suo cuore batte molto lentamente e il cervello non riceve sufficiente ossigeno. L'équipe medica fa di tutto per migliorare la situazione, ma invano. Venti minuti dopo il parto il ginecologo avverte i genitori che il bimbo è morto. Nel frattempo i tentativi di rianimarlo continuano, e dopo venti minuti di cure intensive il cuore riparte. Un'ostinazione che causa al bambino di sette anni un handicap fisico e mentale molto pesante. Non camminerà mai e la sua colonna vertebrale è imbrigliata in un guscio. "Rendiamoci conto: il suo cervello è stato privo d'ossigeno per almeno venti minuti", afferma l'avvocato di famiglia. E' proprio questa durata e la doppia affermazione dei medici -l'annuncio della morte e poi della vita- che i giudici hanno sanzionato. "I medici hanno mostrato un'ostinazione irragionevole", rispetto al codice di deontologia sanitaria, "costitutiva d'errore medico". In altre parole: si è trattato d'accanimento terapeutico.
La decisione del tribunale fa discutere, e alcuni temono che faccia giurisprudenza. L'ospedale non ricorrerà in appello.
LA BIZZARRA PRETESA DI UNO SVEDESE AIUTA A CAPIRE UN NODO CRUCIALE - Ma persino il nostro nome è un dovere prima che un diritto - FRANCESCO D’A GOSTINO – Avvenire, 18 novembre 2009
Giunge dalla Svezia una notizia, obiettivamente piccola, ma non priva di interesse. In una località del Nord del Paese, un cittadino ha chiesto alle autorità competenti di mutare il suo nome proprio, maschile, con un nuovo nome anagrafico, femminile: una richiesta non accompagnata da quella di mutare la propria identità sessuale anagrafica. Perché questa richiesta? Perché sì: se si riconosce a un cittadino di uno Stato laico e liberale il diritto di autodeterminarsi nelle sue scelte personali e al limite in quelle di fine vita, perché non dovrebbe vedersi anche riconosciuto il diritto di liberarsi di una scelta – quella del nome – che altri hanno fatto per lui? Le autorità cui si è rivolto non hanno rigettato la domanda, ma hanno adottato una soluzione di compromesso: il ricorrente si è visto riconoscere il diritto di aggiungere al proprio il nome di sua elezione, 'Madeleine', come secondo nome.
Lasciamo da parte le questioni, che pure non sono banali, di ordine pubblico, inerenti alla necessità di poter identificare socialmente le persone anche e soprattutto a partire dal loro nome anagrafico: la decisione svedese sembra sotto questo profilo rendere ancora più liquida una società, come quella moderna, che avrebbe piuttosto bisogno di nuove forme di stabilizzazione ben più consistenti di quelle attuali. Il punto è che ci troviamo di fronte a qualcosa di molto diverso rispetto alle tante pratiche storicamente conosciute di mutamento di nome (dal soprannome al nuovo nome che ottiene chi entra in religione, dalla nuova denominazione che ottiene chi deve mutare identità per ragioni di protezione personale a quella che ottiene l’immigrato per meglio integrarsi nella comunità che lo accoglie). In tutti questi casi la nuova denominazione non entra in conflitto con la precedente, ma si limita a integrarla, più spesso a sublimarla, in casi estremi a occultarla per ragioni di forza maggiore. Ciò che invece contraddistingue il caso svedese è il rifiuto di motivare la richiesta con ragioni oggettive, valutabili socialmente. L’intenzione di alterare la propria identità e di adottare un nuovo nome proprio, per di più del sesso opposto, si unisce nella vicenda svedese a quella per la quale non dovrebbe avere alcun rilievo pubblico, e quindi nemmeno anagrafico, la distinzione sessuale, di cui il nome proprio è uno dei segni più rilevanti. A questa intenzione se ne unisce necessariamente un’altra, quella di rigettare quel dato della «stabilità dell’io» di cui il nome anagrafico è segno. Se infatti mi si riconosce come un diritto quello di mutar nome, perché questo diritto dovrebbe poter essere esercitato una volta soltanto e non tutte le volte in cui sorgesse in me il desiderio – insindacabile – di mutarlo? Giungiamo lentamente così al cuore della questione. Se tradizionalmente la richiesta del cambiamento del nome veniva avanzata, in casi peraltro molto rari, con oggettive motivazioni di tipo relazionale (tra le quali potremmo anche porre quella comprensibilissima di sostituire un nome percepito come ridicolo o umiliante), quella che ha iniziato a manifestarsi in Svezia – e che potrebbe ben presto dilagare nel resto del mondo occidentale – è piuttosto il segno di un profondo disagio nei confronti di se stessi, al quale si cerca (illusoriamente) di trovare soddisfazione attraverso una nuova denominazione anagrafica. Il punto però è che nessuno può realmente darsi il nome da sé, perché il nome non è una maschera, che si può cambiare a piacimento, ma è parte costitutiva del nostro io: riceviamo il nome da altri, come da altri riceviamo la vita, il linguaggio, l’educazione, la possibilità di un inserimento sociale. Restar fedeli al proprio nome è qualcosa di più della mera e passiva accettazione di un’identità debole: è piuttosto il percepirne le radici ultime e profonde, che non sta nelle nostre possibilità alterare e che siamo piuttosto chiamati a custodire e a difendere. Probabilmente tra le fatiche della modernità dovremo presto porre anche questa: far capire alle persone che non è dal nome che dobbiamo farci rappresentare (nel bene o nel male): siamo piuttosto noi a dover 'rappresentare' il nostro nome, aprendoci al mondo con uno sguardo limpido e sereno e operando in modo tale che tutti lo citino, se non con ammirazione, con rispetto ed amicizia.
LA PARODIA CRESCE, L’ORIGINALE CALA. M A LA TV NON È TUTTA LA REALTÀ - Se a noi che siamo teatro il «Gf» comincia a piacer meno - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 18 novembre 2009
M a l’Italia è quella roba che si vede al Grande Fratello ? In molti se lo chiedono.
Soprattutto ora che il reality zio di tutti i reality va malino e mentre a crescere è la parodia che ne fanno i simpatici guasconi della Gialappa’s. Insomma, sembra che al peggio dell’esibizionismo non ci sia fine. La irrisione dell’esibizionismo è anch’essa una forma addirittura un po’ masochista di esibizione? Gli italiani, noi, dunque siamo così? Siamo ridotti così? In molti lo pensano. E dicono che quel che si vede, come tipo di homo italianus, è il tipo medio. E che in giro per ipermercati, autogrill, stazioni o vari ritrovi italici, le scene che si vedono non sono lontane in quanto a 'tasso di buon gusto' da quel che si vede nella Casa più spiata d’Italia.
La tv, dunque, non fa che ritrarre come siamo. E con questo ritornello, in genere, si quietano le coscienze di coloro che ci ammanniscono questi programmi e con essi si arricchiscono. Ma la faccenda è un po’ più complessa. Gli italiani (lo sostengo da sempre) sono un tipo di gente che ama il teatro. Non nel senso che accorrano ad abbonarsi in folla alle stagioni, anzi. Ma hanno (abbiamo) addosso quel miscuglio di amore al bello e vanità, di senso drammatico ed esibizionismo, che rendono le nostre vite un po’ come sempre su un palco. Alcuni di certo esagerano, e non solo in tv. E dunque è facile imbattersi un po’ ovunque in scene e scenette, con parecchie inevitabili cadute di buon gusto. Avere un animo teatrale, infatti, non coincide se non a costo di un po’ di educazione, con avere poi un senso dignitoso della scena. E l’educazione, come si sa, sta scarseggiando.
Però va ricordata assolutamente una cosa. La tv non è Dio, anche se taluni suoi protagonisti sembrano pensarlo. E così come la fama non ha per niente il sapore inimitabile dell’eterno (essendone una brutta malacopia), così anche l’occhio della tv è limitato, non è come quello onnivedente del Padreterno. E dunque, per quanto l’occhio della telecamera si metta a frugare ovunque, non sarà mai capace di farci vedere tutta la realtà. Nemmeno tutta la realtà di quella cosa, tutto sommato piccola nell’universo, che è il popolo italiano. La tv seleziona, eccome.
Sceglie cosa far vedere e cosa no. E mostrando certe cose invece di altre, può finire per abituarci a notare in giro certe cose più di altre. Ci rende più sensibili a certe cose invece che ad altre.
A furia di farci vedere 'truzzi' (o come li chiamate voi i tipi grossolani?) si finisce per notare in giro un sacco di truzzi, e di ridurci a questa presa d’atto della realtà.
La tv non è un ente anonimo ma è in mano a certi autori di programmi, certi direttori di rete e produttori che hanno nome e cognome, e vanno ricordati.
Costoro vogliono farci vedere e renderci sensibili a certe cose invece che ad altre.
Probabilmente, se ci facessero vedere altro, vedremmo che in Italia ci sono un sacco di giovani anche (e forse di più) 'non truzzi'. Forse se ci facessero vedere più farfalle, noteremo di più le tante farfalle che ci sono.
Il fatto è che la tv non rappresenta tutta la realtà. Dice di farlo, i suoi uomini dicono di farlo, ma non è vero, non può essere vero. In quello schermo, per quanto grande, ci sta poca roba. E se non è la migliore, non occorre cedere alla presunzione che i capi della tv hanno per giustificare la loro sedia e i loro stipendi: di essere semidei che vedono e fanno vedere tutto. No, scelgono. Eccome se scelgono. E a noi tocca giudicare come.
Sul grande fratello, ad esempio, il giudizio è calato.