venerdì 27 novembre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) LA STORIA/ "Noi dipendenti in cassa integrazione faremo la Colletta" - Redazione venerdì 27 novembre 2009 – ilsussidiario.net
2) COLLETTA/ Passera: la vera povertà è l’individualismo in cui siamo immersi - INT. Corrado Passera venerdì 27 novembre 2009 – ilsussidiario.net
3) … E infine la Supplica del 27 novembre - 26 novembre 2009 / - dal blog di Antonio Socci
4) Prima di tutto la vita - Convegno a Brescia organizzato da Heptavium, un progetto del MPV italiano - di Elisabetta Pittino
5) Il Gesù uomo visto con gli occhi di Erri De Luca - Intervista allo scrittore autore di “Penultime notizie di Ieshu/Gesù’ - di Silvia Gattas
6) L’Europa che difende il crocifisso - Mario Mauro venerdì 27 novembre 2009 – ilsussidiario.net
7) 24 Novembre. John Rawls. Un filosofo per la democrazia - Autore: Restelli, Silvio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it E-mail: silvio.restelli@poste.it - giovedì 26 novembre 2009
8) Avvenire, 27 Novembre 2009 - INTERVISTA AL SOTTOSEGRETARIO AL WELFARE ROCCELLA - «Così tuteliamo la salute delle donne»
9) Colletta alimentare, i bisogni dei poveri entrano nel carrello - DA MILANO PAOLO FERRARIO – Avvenire, 27 novembre 2009


LA STORIA/ "Noi dipendenti in cassa integrazione faremo la Colletta" - Redazione venerdì 27 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Che questo sia un periodo difficile e critico per molti lavoratori lo vediamo tutti. Ce lo dicono i dati sulla disoccupazione, sull’aumento del ricorso alla cassa integrazione e lo osserviamo nelle immagini di manifestazioni di dipendenti che a volte arrivano ad atti dimostrativi come, per esempio, salire sul tetto della propria azienda. Ma tra questi volti c’è anche una storia particolare. È quella che ci racconta Valeriano Sottura, delegato della Rsu della Metalli Preziosi di Paderno Dugnano, provincia di Milano.


Fino a marzo di quest’anno l’azienda, che produceva semilavorati in leghe preziose, impiegava 123 lavoratori poi è arrivato il fallimento. Ma per capire meglio la situazione bisogna partire esattamente da un anno fa: novembre 2008. «Allora, il proprietario - racconta Sottura - ci ha chiesto di slittare il pagamento dello stipendio di qualche giorno. A dicembre, non avevamo visto ancora niente in busta paga, nemmeno la tredicesima. Siamo andati avanti così fino alla terza settimana di marzo, perché da gennaio c’era stato detto che esisteva un concordato preventivo con un’azienda slovena».



Purtroppo però si rivela tutta una farsa. «Ci siamo informati e abbiamo scoperto che questa azienda aveva un capitale sociale versato di 8.000 euro e un solo dipendente. Come poteva salvarci?». Un grosso abbaglio anche per il giudice che aveva autorizzato la procedura. «Lo abbiamo avvisato e così ha dovuto dichiarare il fallimento dell’azienda. Ma proprio il giorno prima il proprietario ha portato i libri in Tribunale e quindì è rimasto impunito».



Così terminano 20 anni di lavoro nella stessa azienda, di cui 13 in fonderia. Sottura aveva visto nella sua carriera diversi passaggi di proprietà. Poi nel 2005 era arrivato Marcel Astolfi a rilevarne il 60%. Il restante 40% era in mano a soci russi. Tutta colpa della crisi? Non proprio, perché «ordini e lavoro continuavano a esserci. Abbiamo però smesso di lavorare già all’inizio dell’anno perché mancava l’argento, la materia prima: l’azienda aveva smesso di comprarlo».



«Il fatto è - spiega Sottura - che la proprietà ha voluto farci chiudere. Su quest’area vogliono costruire un hotel, alcune case e un centro commerciale in vista dell’Expo del 2015. Siamo infatti a circa 7-8 km dalla Fiera di Rho-Pero e vicini alla Tangenziale Nord che porta lì».



Da gennaio a marzo Sottura e un manipolo scarno di suoi colleghi continuano ad andare lo stesso in azienda per timbrare il cartellino e cercare di salvaguardare il posto di lavoro e iniziano un presidio in mensa. «In quel periodo dovevamo mangiare lì, abbiamo quindi chiesto aiuto alla Caritas e alla San Vincenzo e loro hanno incominciato a darci dei pacchi settimanali di cibo».



I lavoratori chiedono quindi la Cassa integrazione straordinaria, avendo già quasi 5 mesi di stipendi arretrati e non pagati. Non è per niente una passeggiata. «Sembrava non arrivare mai. Siamo andati da tutte le istituzioni: comune, provincia, Regione e Ministero. Finalmente a fine luglio sono arrivati i primi soldi (relativi all’ultima settimana di marzo e ai mesi di aprile e maggio) e ai primi di novembre sono arrivati altri quattro mesi».



Ma c’è chi non ce la fa ancora. «Per qualcuno siamo riusciti ad avere il Fondo anti-crisi di Tettamanzi, che è stata una bella cosa, peccato sia finita. Per altri abbiamo dato il nominativo alla San Vincenzo che li sta aiutando. All’inizio erano una ventina di persone poi sono aumentate».



Un ulteriore sostegno arriva dal Banco Alimentare. «Sono venuti loro, si sono presentati in azienda e hanno detto che erano disponibili per chiunque avesse bisogno. Visto che sono venuti, qualcuno che era indeciso e che aveva vergogna ad andare a chiedere aiuto si è fatto avanti. Ora ricevono dei pacchi di cibo. Io personalmente li ritiro per altri che ancora si vergognano di chiedere. Per ora in famiglia, grazie a mia moglie che lavora, riusciamo ancora a cavarcela».

Nel frattempo il manipolo aumenta di numero. «Adesso in azienda siamo quasi in 20 tutti i giorni. A inizio settembre siamo stati anche sul tetto dell’azienda per 8-9 giorni. Abbiamo cercato di far capire che ci siamo ancora, che non siamo morti. Abbiamo organizzato anche serate con i comici di Zelig e Colorado, concerti e spettacoli (anche in azienda), faremo un mercatino con gli oggetti fatti in questi mesi in ditta per alimentare il fondo di solidarietà che ci serve anche per mantenere il presidio».



Tutto in attesa del 3 dicembre quando «ci sarà l’assemblea dei creditori e probabilmente si deciderà di andare all’asta». Il futuro sembra quindi ancora incerto. Ma intanto Sottura e altri suoi colleghi hanno già preso un impegno per domani. Saranno infatti tra i volontari della Giornata nazionale della colletta alimentare, organizzata dalla Fondazione Banco Alimentare. «Domani andremo anche noi a dare una mano per quel che possiamo. Così come siamo stati aiutati, vogliamo aiutare gli altri perché è una esperienza che è utile a tutti».



Sottura sa infatti che oltre ai lavoratori della Metalli Preziosi e della Lares (altra azienda di Paderno in liquidazione e di cui era proprietario Astolfi), «molti altri avranno presto bisogno data la situazione di crisi. Già altre aziende di Paderno e paesi limitrofi sono nella stessa situazione (senza stipendio, senza cassa integrazione), quindi daremo una mano, visto che siamo stati aiutati».



Non è stato nemmeno difficile convincere i suoi colleghi a partecipare. «Abbiamo visto che è una cosa che serve e abbiamo anche capito che c’è gente che ha più bisogno di noi. In questi mesi siamo andati anche alla San Vincenzo a piastrellare e imbiancare un locale gratuitamente. Quando ho detto ai miei colleghi che c’era questa cosa da fare, tanti si sono offerti di venire, anche chi non ha mai ricevuto il loro aiuto».



Del resto la gratuità è proprio quello che ha toccato e colpito Sottura, soprattutto quando avviene rispettando la dignità della persona. «Questo è molto importante ed è ciò che mi ha colpito delle persone che ci hanno aiutato».


COLLETTA/ Passera: la vera povertà è l’individualismo in cui siamo immersi - INT. Corrado Passera venerdì 27 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Sabato 28 novembre è la giornata nazionale della Colletta alimentare, un momento di carità vissuta e praticata per milioni di italiani. E un colpo inferto all’individualismo che domina la mentalità corrente, sempre più convinta che per realizzare se stessi bisogna fare a meno degli altri. Lo ha detto di recente don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Cl: «l’individualista vede nell’altro una minaccia per raggiungere lo scopo della nostra felicità. È quanto si può riassumere nello slogan che definisce l’atteggiamento proprio di questa mentalità: homo homini lupus». Ma questa non può essere la risposta, perché la vita dell’uomo è affetto, carità. Ed è proprio la carità la sfida più grande contro la crisi: «andare incontro ai bisogni crescenti della gente - dice Corrado Passera, Ceo di Intesa Sanpaolo - richiede persone capaci non solo di portare doni, ma anche di donare se stesse».



Dottor Passera, di recente don Julián Carrón ha detto che la principale tentazione dei nostri tempi è proprio l’individualismo, ma che «in questo la modernità dimostra la mancanza di conoscenza dell’autentica natura dell’uomo». Che ne pensa?



È vero. Viviamo in un’ideologia per la quale il bene comune deve nascere dalla contrapposizione di interessi personali. Ma è una tesi indimostrata e indimostrabile, e sicuramente fallace, perché la società - se funziona - non è fatta dalla somma di interessi particolari, egoisticamente intesi, ma dalla convergenza di responsabilità. Occorrono persone che in quello che fanno si sentano responsabili non solo per la propria parte, ma per il tutto. Del resto è la storia stessa a dimostrare che la spinta eccessiva verso l’individualismo non porta in nessun modo alla massimizzazione del bene comune, ma alla disgregazione.



Cosa insegna la carità a un’economia che non ha saputo attenersi a regole ragionevoli di sensato sviluppo?



Tra le società che meglio hanno superato la crisi, o che più hanno creato bene comune, ci sono quelle che hanno saputo far coesistere la competitività e la capacità di crescere nel mercato globale, con la capacità di garantire coesione sociale attraverso quei meccanismi di solidarietà, di fraternità e di condivisione di valori, di cura e di difesa dalla paura, basati anche sulle varie forme di welfare che la nostra civiltà europea è riuscita a costruire.



E il nostro paese?


In questo senso l’Italia ha dei vantaggi. Abbiamo una serie di difficoltà e di debolezze in tanti campi che dobbiamo senz’altro risolvere, ma abbiamo saputo anche costruire e salvaguardare nel tempo un livello di coesione sociale superiore a quello di molti altri Paesi. Dobbiamo valorizzare e consolidare, nel rispetto della solidarietà e della sussidiarietà, il nostro sistema di welfare, adeguandolo alle nuove esigenze della società e della demografia.



Lo stato può sperare da solo di farsi carico della povertà?



L’attuale welfare ha costi difficilmente sostenibili e per sopravvivere deve riformarsi. Ma nemmeno il privato da solo può far fronte alla povertà e alle varie forme di disagio. Tra stato e privato si apre un enorme spazio che solo il terzo settore saprà colmare, perché andare incontro ai bisogni crescenti della gente - di cui la povertà, e la povertà alimentare, sono solo un aspetto accanto a molti altri - richiede persone capaci non solo di portare doni, ma anche di donare parte di se stesse. In quest’azione pubblico e privato sono deficitari: il privato perché non vi trova ritorno, il pubblico perché non ha sufficienti risorse. Ma quando anche le avessero entrambi, non avrebbero la capacità di dono e la passione che alimenta il privato sociale. Il bisogno della persona non è mai puramente materiale.



Che significato ha, per lei, sostenere l’iniziativa del Banco alimentare?



Noi di Intesa Sanpaolo siamo appassionati “supporter” del Banco alimentare ormai da tanti anni. Abbiamo visto crescere anno dopo anno, sia in quantità che in qualità e spazio di intervento, un’iniziativa unica nel suo genere. Poiché abbiamo messo in campo una serie di iniziative per aiutare chi aiuta - basti pensare a Banca Prossima - e, pertanto, con un operatore come il Banco alimentare non potevamo che trovarci in perfetta assonanza. È per questo che ne sosteniamo e ne sosterremo le iniziative.



Che senso ha promuovere nel tempo opere di carità, anziché limitarsi a “staccare” un assegno?



Sono iniziative ugualmente apprezzabili. Ma tra regalare "una tantum" dei soldi o del cibo, e aiutare chi gestisce una grande ed efficiente macchina logistica in grado di dar da mangiare ogni anno a milioni di persone, assicurando continuità e stabilità all’aiuto, sostenere questo secondo livello - senza nulla togliere a chi dà l’assegno - vuol dire alleviare strutturalmente il disagio sociale. Disagio crescente in questa fase di recessione economica, che rende ancor più cruciale il ruolo del Banco alimentare.


… E infine la Supplica del 27 novembre - 26 novembre 2009 / - dal blog di Antonio Socci
Quanto è grande il dolore del mondo… In ospedale, dal letto di Caterina, si vede uno sconfinato e sconsolato panorama di sofferenze. Quanti afflitti da confortare, quante lacrime da asciugare…

Si può sostenere tutto questo solo fissando lo sguardo su Colui che davvero sostiene tutta l’afflizione umana sulle sue spalle, che la porta al Golgota e infine vince il Male e asciuga ogni lacrima…

Perché davvero Egli ha misericordia di tutti… di tutti… Quanto amore avvolge l’umanità ferita, quanti santi sconosciuti a tutti, quanti piccoli e semplici che fasciano ferite e sono l’abbraccio di Gesù e sono la carezza del Nazareno…

E’ specialmente Lei, la Madre di Dio che, oggi come a Cana, vede il dramma di ciascuno prim’ancora che l’interessato se ne accorga… E’ lei che previene e soccorre prima di tutti perché Lei è veramente Madre. Di ciascuno di noi! Sempre! Soprattutto nei momenti che sembrano più bui… Lei non ci abbandona mai!

A santa Caterina Labouré infatti disse: “Il momento verrà, il pericolo sarà grande, si crederà tutto perduto. Allora io sarò con voi”.

Con questo pensiero propongo di concludere la Novena della Medaglia miracolosa con la Supplica che va recitata alle ore 17 del 27 Novembre, in ricordo di quell’apparizione di Rue du Bac (ma anche il 27 di ogni mese e in ogni necessità).

Ecco il testo:


O Vergine Immacolata, noi sappiamo che sempre ed ovunque sei disposta ad esaudire le preghiere dei tuoi figli esuli in questa valle di pianto, ma sappiamo pure che vi sono giorni ed ore in cui ti compiaci di spargere più abbondantemente i tesori delle tue grazie.

Ebbene, o Maria, eccoci qui prostrati davanti a te, proprio in quello stesso giorno ed ora benedetta, da te prescelta per la manifestazione della tua Medaglia.

Noi veniamo a te, ripieni di immensa gratitudine ed illimitata fiducia, in quest’ora a te sì cara, per ringraziarti del gran dono che ci hai fatto dandoci la tua immagine, affinché fosse per noi attestato d’affetto e pegno di protezione.

Noi dunque ti promettiamo che, secondo il tuo desiderio, la santa Medaglia sarà il segno della tua presenza presso di noi, sarà il nostro libro su cui impareremo a conoscere, seguendo il tuo consiglio, quanto ci hai amato e ciò che noi dobbiamo fare, perché non siano inutili tanti sacrifici tuoi e del tuo divin Figlio.

Sì, il tuo Cuore trafitto, rappresentato sulla Medaglia, poggerà sempre sul nostro e lo farà palpitare all’unìsono col tuo. Lo accenderà d’amore per Gesù e lo fortificherà per portar ogni giorno la propria croce dietro a Lui.

Questa è l’ora tua, o Maria, l’ora della tua bontà inesauribile, della tua misericordia trionfante, l’ora in cui facesti sgorgare per mezzo della tua Medaglia, quel torrente di grazie e di prodigi che inondò la terra.

Fai, o Madre, che quest’ora, che ti ricorda la dolce commozione del tuo Cuore, la quale ti spinse a venirci a visitare e a portarci il rimedio di tanti mali, fai che quest’ora sia anche l’ora nostra: l’ora della nostra sincera conversione, e l’ora del pieno esaudimento dei nostri voti.

Tu che hai promesso proprio in quest’ora fortunata, che grandi sarebbero state le grazie per chi le avesse domandate con fiducia: volgi benigna i tuoi sguardi alle nostre suppliche. Noi confessiamo di non meritare le tue grazie, ma a chi ricorreremo, o Maria, se non a te, che sei la Madre nostra, nelle cui mani Dio ha posto tutte le sue grazie?

Abbi dunque pietà di noi. Te lo domandiamo per la tua Immacolata Concezione e per l’amore che ti spinse a darci la tua preziosa Medaglia.

O Consolatrice degli afflitti, che già ti inteneristi sulle nostre miserie, guarda ai mali da cui siamo oppressi.

Fai che la tua Medaglia sparga su di noi e su tutti i nostri cari i tuoi raggi benefici: guarisca i nostri ammalati, dia la pace alle nostre famiglie, ci scampi da ogni pericolo.

Porti la tua Medaglia conforto a chi soffre, consolazione a chi piange, luce e forza a tutti.

Ma specialmente permetti, o Maria, che in quest’ora solenne ti domandiamo la conversione dei peccatori, particolarmente di quelli, che sono a noi più cari.

Ricordati che anch’essi sono tuoi figli, che per essi hai sofferto, pregato e pianto. Salvali, o Rifugio dei peccatori, affinché dopo di averti tutti amata, invocata e servita sulla terra, possiamo venirti a ringraziare e lodare eternamente in Cielo. Cosi sia.

Recitare il Salve Regina e tre volte

“O Maria, concepita senza peccato, prega per noi che ricorriamo a Te”.


Prima di tutto la vita - Convegno a Brescia organizzato da Heptavium, un progetto del MPV italiano - di Elisabetta Pittino
BRESCIA, giovedì, 26 novembre 2009 (ZENIT.org).- Grande successo di pubblico al convegno sul tema "Prima di tutto la vita. O morte, dov'è la tua vittoria?", che si è svolto l’11 novembre nell’Aula Magna dell'Università Cattolica di Brescia.

Organizzato da Heptavium, progetto del MPV italiano, il convegno ha ricevuto i saluti dal dott. Luigi Morgano, Direttore di sede dell’Università Cattolica di Brescia, dal dott. Paolo Picco, Presidente di Federvita Lombardia, dal prof. Massimo Gandolfini, Presidente AMCI Lombardia e Scienza e Vita Brescia, dalle associazioni CVS (Centro Volontari della Sofferenza), Silenziose Operaie della Croce, ANFASS, Famiglie numerose Cattoliche, Famiglie Numerose, Forum Famiglie, Scout, Identità Cristiana.

Laura Gavazzoni, volontaria del CVS, in sedia a rotelle, ha detto agli oltre 220 partecipanti: “noi siamo cristiani ammalati che si impegnano a valorizzare la loro sofferenza (…) l’ammalato si faccia apostolo presso altri ammalati (…) il limite, insito nella disabilità sia uno stimolo a costruire rapporti sociali basati sulla gratuità e non sulla logica del do ut des”.

“Ogni vita - ha sottolineato la Gavazzoni -, anche se segnata dalla malattia, se si unisce a Gesù Cristo, trova la sua ragion d’essere e come tale è sempre degna di essere vissuta”.

Il Presidente della regione, Roberto Formigoni, ha inviato una lettera sulle azioni concrete della Lombardia nella vicenda Englaro. Tra queste la premiazione alle Suore Misericordine di Lecco che l’hanno accudita per anni.

Il prof. Massimo Gandolfini, Associato di Neurochirurgia e direttore del Dipartimento di Neuroscienze della Poliambulanza di Brescia, è entrato nel vivo del tema, ed ha affermato: “Da un’idea di accanimento terapeutico si è passati all’estremo opposto, l’abbandono terapeutico”.

Gandolfini ha precisato che c’è nettissima differenza, tra accanimento e insistenza terapeutica. “Insistenza terapeutica è il prolungamento delle terapie e/ o cure di sostegno vitale, anche per lungo tempo, a fronte di situazioni cliniche con prognosi non sicuramente prevedibile”.

“Il coma – ha aggiunto –, che studia anche gli stati comatosi e le tecniche di neuro stimolazione cerebrale profonda talamica è una tappa di passaggio verso: restitutio ad integrum o restituzione parziale, o morte, o stato vegetativo”.

A proposito del “don’t resuscitate order”, ordine di non rianimare, Gandolfini ha rilevato che al pronto soccorso numerosi pazienti arrivano in coma. Di 100 pazienti in coma se ne possono salvare con disabilità variabili o con restituito ad integrum più del 90%. Sarebbe folle dal punto di vista scientifico pensare di non rianimarli.

L’espressione “vite non degne di essere vissute” - ha ricordato Gandolfini- è stata introdotta il primo settembre del 1939 dal Terzo Reich.

Il dr. Mario Melazzini, Presidente AISLA, Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica, è intervenuto come testimone: malato di SLA, paziente e medico allo stesso tempo.

Nel 2003 gli fu diagnosticata la SLA. Si ribellò e pensò di cercare la morte. Prese contatti con le cliniche della “dolce morte” in Svizzera. Attraversò un’angoscia esistenziale profonda. Poi all’improvviso la rinascita.

La malattia può cambiare una persona in meglio dice oggi perchè “ti fa affrontare la vita in modo diverso” in un modo nuovo che non avevi mai sospettato. Ti si aprono orizzonti, che non sapevi esistessero. Torna la voglia di vivere, perché la vita è bella anche per un malato.

Da qui il suo battersi per i malati come lui. “C’è uno stato di completo abbandono assistenziale per i malati di SLA”, ha affermato. Non solo per loro.

Emettono sentenze sulla vita e la morte dei malati, dice Melazzini, persone che si definiscono normali. “Vivere – conclude – è una meravigliosa malattia inguaribile”.

Il dott. Pino Morandini, Vice Presidente del MPV nazionale, citando, tra gli altri, Romano Guardini ha spiegato perché il MPV si occupa anche del fine vita: “la vita dell’uomo non può essere violata perché l’uomo è persona”. L’uomo è inviolabile dal concepimento fino alla morte naturale.

Morandini ha poi incoraggiato l’approvazione della nuova legge sulle cure palliative dopo un veloce excursus sulla situazione legislativa attuale, sul disegno di legge in discussione, sulle DAT, una parola in codice che significa testamento biologico.

Il prof. Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Piacenza, ha affermato che, secondo l’art. 2 della Costituzione,“la titolarità dei diritti fondamentali non dipende dalle condizioni esistenziali, da un giudizio su qualità, capacità… età. I diritti inviolabili dipendono dall’esistenza in vita. Il mutuo rispetto della vita ha a che fare con il fondamento stesso della democrazia moderna, è il cuore della democrazia”.

“La giustizia – ha continuato – non sta nella reciprocità dei comportamenti: se io giudico uno negativo, sono autorizzato ad agire negativamente. Non sta nella reciprocità del male per il male, ma è l’avere coraggio di fare un progetto di bene dinanzi al male. La giustizia ha a che fare sempre con il riconoscimento dell’altro come portatore di dignità… fosse anche il malato terminale”.

Il dr. Giovanni Zaninetta, direttore dell’Unità operativa di cure palliative- Hospice della Domus Salutis di Brescia, ha proposto un’alternativa concreta a eutanasia e accanimento terapeutico.

La terapia del dolore è una parte delle cure palliative, che sono tecnicamente qualificate e hanno una loro evidenza scientifica. Hanno un obiettivo diverso dalle altre cure, quello di offrire la miglior vita possibile nonostante la malattia in atto. Occorre partire da una cultura della vita per affrontare sofferenza, malattia e morte.

La condivisione con il malato e con la sua famiglia è il primo passo. Quindi è necessaria un’assistenza tecnica, medica e infermieristica. Non solo. “Quando non c’è più possibilità di guarigione – dice Zaninetta – bisogna prendersi cura attiva e globale del paziente”.

Il prendersi cura deve tenere conto di tutte le dimensioni della persona. L’architettura di un hospice, dunque, è la fitta rete di relazioni personali, il lavoro d’équipe. “La risposta alla fine – ha concluso Zaninetta – deve essere l’amore. Solo riconducendo il tutto alla dimensione della carità riusciremo ad accompagnare il malato”.

Secondo Giacomo Samek Lodovici, docente di Storia della dottrine morali e ricercatore in Filosofia morale presso l’Università Cattolica di Milano, “l’eutanasia è l’uccisione di una persona per motivi economici, eugenetici, o per una perversa idea di pietà”.

Nel 1907 nacque la prima società eugenetica. Le Fondazioni Ford e Rockefeller sovvenzionavano il movimento eugenetico, che accolse e sostenne il nazismo. Nietszche affermava che bisogna “ripristinare i sacrifici umani. Se il degenerato e il malato devono avere altrettanto valore del sano allora che ne è dell’evoluzione?”.

Ecco da dove nasce l’ideologia eutanasica. Per questo, ha concluso Samek Lodovici, l’eutanasia nelle sue varie forme calpesta la dignità umana (Agnoli F., Scritti di un pro life).

La dott.ssa Maria Pia Buracchini, psicologa e responsabile del Progetto Heptavium, ha detto che nel momento di grande fragilità il sostegno è necessario per fare un percorso con il malato ed eliminare due rischi terribili: la paura della morte e il fattore emotivo. La paura della morte crea grande insicurezza, disagio, sofferenza psicologica profonda che porta a rifiutare la vita e alla depressione, che fa desiderare la morte.

Una famiglia, un’assistenza solida che conducano questo percorso di avvicinamento alla morte, aiutano il malato ad uscire dalla depressione. Il fattore emotivo serve alla relazione di aiuto per stare accanto. “Non si può – ha aggiunto la Buracchini – parlare di morte con il sentimento, si deve decidere con la ragione. La vita della persona è sacra”.

Il convegno è stato concluso da Paolo Marchiori, volontario del CVS, malato di SLA: “Anche io ho detto 'piuttosto che vivere come uno in carrozzina, meglio morire'. Poi ho cambiato idea nel mio cammino di sofferenza. Mi sono riavvicinato a Dio. Chiedevo la forza per affrontare le difficoltà. Ho conosciuto il CVS. Nel tempo, dal 2005 al 2008, ho maturato l’accettazione della sofferenza”.

“Dal buio sono passato alla luce, grazie a un viaggio a Lourdes – ha concluso –. Ho visto con occhi diversi la malattia, i malati mi hanno trasmesso la pace. Sono innamorato della vita. La speranza mi ha cambiato. Il mio cuore oggi è colmo di amore. La malattia non è stato una disgrazia, posso dirlo, mi ha aiutato a capire il senso della vita. Ho capito la sofferenza e oggi sono un suo volontario”.


Il Gesù uomo visto con gli occhi di Erri De Luca - Intervista allo scrittore autore di “Penultime notizie di Ieshu/Gesù’ - di Silvia Gattas
ROMA, giovedì, 26 novembre 2009 (ZENIT.org).- Non è trascorso nemmeno un mese dalla pubblicazione del suo ultimo libro, intitolato ‘Penultime notizie di Ieshu/Gesù’ (edizioni Messaggero di Sant’Antonio) ed è già boom di vendite: 10mile copie per il nuovo libro di Erri De Luca, scrittore napoletano, appassionato di Sacre Scritture e profondo conoscitore dell’ebraico antico che non definisce una lingua difficile.


“Sono non credente, ma scrivo di Maria e di Gesù di Nazareth, perché sono un narratore e distinguo il piano personale da quello di scrittore”, dice in questa intervista a ZENIT.

Nel libro su Gesù si raccolgono diverse storie: quella di Abramo e Isacco, l’Annuncio, la nascita, la storia di Giuseppe, i re magi, Gesù ragazzo, Gesù morto sulla croce.

“Queste pagine – scrive l’autore – si aggirano nella seconda metà del 3700 secondo il calendario ebraico. Non era ancora stato inaugurato il nuovo calcolo cristiano. Il suo anno zero e i successivi appartenevano ad altra numerazione”.

Erri De Luca, lei si definisce ‘non credente’. Però scrive di Maria, di Gesù…

De Luca: Non mischio quello che faccio con la mia scrittura narrativa, con la lettura delle cose sacre. Penso di tenerle ben separate, di distinguere il ruolo di scrittore e quello di lettore. Sono dei libri in cui racconto dei dettagli di quelle vicende, che sono per me facili da identificare conoscendo la matrice ebraica di quelle storie.

Perché ‘penultime’ notizie su Gesù?

De Luca: Perché quelle che si trovano nei Vangeli sono necessariamente penultime. Le ultime notizie spetteranno al ritorno della promessa cristiana e alla sua realizzazione.


Come è nato il progetto di un libro su Gesù?

De Luca: Sono un lettore assiduo di Scritture Sacre, in particolare quelle dell’Antico Testamento, e uno studioso dell’ebraico antico. Non faccio distinzione fra l’Antico e il Nuovo Testamento, tra la divinità dell’Antico e la divinità del Nuovo. Li considero naturalmente un testo unico. Nel caso di Ieshu, Gesù, mi capita spesso di ricevere, soprattutto vicino alle feste comandate, richieste da parte di organi di informazione di qualche commento alla festività in corso. Così come è avvenuto per ‘In nome della madre’ (una riflessione su Maria, ndr), perché considero il Natale la festa della Madre e non del figlio. Il resto e il seguito di quella vita, invece, mi riguarda sempre come lettore non credente, considerando quella storia una storia unica, eccezionale anche dentro quel corpo di Scritture Sacre. Quelle vicende sono continuamente delle eccezioni alla regola, sono continuamente una forzatura della vicenda umana nell’ambito del progetto divino. Sin dalla trasgressione dell’albero del bene e del male.


Perché questa passione così forte per l’ebraico antico? C’è un motivo particolare, un’origine?

De Luca: Sì, in effetti c’è un’origine. Una volta, ero in un luogo sperduto, ma non rivelo quale, e mi sono imbattuto in una Bibbia. C’era solamente quel libro e mi è piaciuto tanto, perché non era letteratura, non voleva accattivarsi l’interesse del lettore. Invece raccontava una storia che non permetteva nessuna identificazione tra una divinità che voleva rivelarsi e delle creature che accettavano la sua novità.

L’ebraico antico è una lingua molto difficile?

De Luca: No, affatto. Il russo sì che è difficile. Delle lingue che studio, il russo è più difficile. L’ebraico antico è una lingua ferma e scritta, non la trovo così difficile.

Lei si definisce ‘non credente’ e non usa il termine ‘ateo’. Perché?

De Luca: Ateo è qualcuno che ha risolto il problema una volta per tutte. Esclude la possibilità proprio dal suo orizzonte e in questo modo riduce la sua relazione con le persone di fede perché le considera delle persone bisognose di un supporto, di un appoggio, di una protesi per mantenersi. L’ateo è un soggetto che ha risolto la questione e in questo è simile al talebano, che non ammette obiezioni alla sua conclusione. Il ‘non credente’, invece, è una persona che tutti i giorni frequenta le Scritture Sacre, anche se resta una persona che non può rivolgersi alla divinità.

Lei dunque ammette la possibilità di diventare credente?

De Luca: No, ammetto nella vita degli altri la possibilità di credere. Ho conosciuto tanti cattolici, specialmente al tempo della guerra in Bosnia, quando ero autista dei loro convogli. Vedevo che con quella notizia svolgevano una attività magnifica. Ma io non posso rivolgermi nella mia vita alla divinità, posso parlare della divinità, ma non gli do del Tu. Posso parlarne, ma non mi ci rivolgo.

Quante volte ha letto la Bibbia?

De Luca: Non tengo il conto, la leggo tutti i giorni, diciamo che è una unità di misura molto elevata. Considerata la mia età faccia lei il conto.


Lei crede che in Italia si possa parlare di ingerenza della Chiesa nel dibattito politico?

De Luca: Sì, più per tradizione. Nel passato era una cosa più organica. Il partito di maggioranza, la Democrazia cristiana, era legato alla Chiesa. Adesso interviene più che altro sui temi etici.

Ma anche in politica? Che ne pensa dei cattolici in politica?

De Luca: Più che ingeranza della Chiesa, direi che si verifica il contrario: i cattolici in politica cercano di guadagnarsi il consenso della Chiesa. Nella politica c’è un uso strumentale del fatto religioso; la politica cerca di guadagnarsi il consenso della Chiesa.

Quale analisi traccia dello stato attuale della letteratura italiana?

De Luca: Mi piacciono le letterature di popoli che vengono da esperienze potenti. La letteratura ha questo potere di rendere ragionevoli e sopportabili i morti, i lutti, le grandi disavventure e avventure. Mi interessa ad esempio la letteratura israeliana e di tutti quei Paesi che hanno tanto da insegnare. Il nostro è un Paese che ha poco da raccontare. Mancano delle belle storie…

Si dice che in Italia si legge poco, i giovani leggono poco…


De Luca: Non credo che i giovani leggano poco, anzi mi sembra che il formato libro sia un prodotto oggi molto più venduto di vent’anni fa. Mancano però delle belle storie, delle grandi esperienze, ci raccontiamo le storie di trentenni che vivono un disagio urbano sentimentale. E questo è triste.

Ha mai pensato di occuparsi anche di altre religioni? Di islam, di buddhismo? E di scrivere libri su questo?

De Luca: No, non lo faccio. Non sono arrivato mai all’islam, o al buddhismo. Per una questione di distanza geografica. Mi tengo alla Sacra Scrittura.


L’Europa che difende il crocifisso - Mario Mauro venerdì 27 novembre 2009 – ilsussidiario.net
«La Commissione ricorda che le leggi nazionali sui simboli religiosi negli edifici pubblici rientrano nelle competenze dell'ordinamento giuridico interno». «La Commissione ricorda altresì che l'esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo rientra nelle competenze del Consiglio d'Europa».


È stata molto secca ma assolutamente non banale la risposta fornita dalla Commissione europea all’interrogazione parlamentare presentata lo scorso 10 novembre dal collega Antonio Cancian del Popolo della Libertà nella quale si ricordava come, oltre all’episodio della donna italofinlandese in Italia, «analoghi episodi sono avvenuti in Spagna, Germania, Francia e Italia, dove nel 1988 il Consiglio di Stato rilevò che il crocifisso “non è solo il simbolo della religione cristiana ma ha una valenza di carattere indipendente dalla specifica confessione”».



Cancian ha lanciato una provocazione chiedendo «se la Commissione ravvisa il rischio che il principio enunciato dalla Corte di Strasburgo possa mettere in discussione l'esposizione in luoghi pubblici dei simboli religiosi e culturali, persino della bandiera europea, che s'ispira alla simbologia cattolica mariana?».



La Commissione europea, nella prima parte della sua risposta, ha rimesso il problema nelle mani dei governi nazionali, riconoscendo quindi la validità delle sentenze italiane favorevoli al crocifisso. Se venisse respinto il ricorso del Governo italiano non solo dovremmo rimuovere i crocifissi dai luoghi pubblici, ma andrebbero sostituite anche le bandiere degli Stati europei che hanno al centro una croce.



Gran Bretagna, Svezia, Finlandia, Malta, Portogallo, Slovacchia, Grecia sarebbero costrette a cambiare il proprio simbolo nazionale, perchè l’esposizione di quella croce nelle bandiere, presente ovviamente in migliaia di luoghi pubblici, non ha una ragion d’essere diversa dall’esposizione del crocifisso.



Stessa sorte toccherebbe alla bandiera dell’Unione europea, che ufficialmente «rappresenta non solo il simbolo dell'Unione europea ma anche quello dell'unità e dell'identità dell'Europa in generale. La corona di stelle dorate rappresenta la solidarietà e l'armonia tra i popoli d'Europa. Le stelle sono dodici in quanto il numero dodici è tradizionalmente simbolo di perfezione, completezza e unità». In realtà per l’autore del disegno aveva davvero un significato cristiano, il blu infatti è il manto del colore della notte di Maria e le 12 stelle sono la corona dell’apocalisse.



La questione della libertà religiosa riguarda l’Unione Europea come ente sovranazionale, come organizzazione democratica, e non può riguardare in maniera distinta ogni singolo Stato membro. Il problema di fondo è che la tipologia della sentenza pretende di omologare le culture quando l’Unione europea si basa sul motto “unità nella diversità”.



La Commissione, ricordando che «l’esecuzione delle sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo rientra nelle competenze del Consiglio d’Europa», pare proprio voler prendere le distanze da una sentenza in pieno disaccordo con i principi di convivenza civile a cui si ispirano i Trattati Ue. Una freddezza calcolata insomma, per non far trapelare un disagio comunque evidente nei confronti del Consiglio d’Europa, le cui ambiguità continuano ad aumentare i dubbi sul reale apporto di questo ente alla libertà dei cittadini europei.



Questa presa di distanze però non basta, le istituzioni europee devono uscire dall’impasse e dare un giudizio chiaro su libertà religiosa e laicità delle istituzioni, per questo sulla scorta dell’interrogazione appena descritta chiederemo un dibattito in aula che faccia vedere di che pasta è fatta il nuovo esecutivo presieduto da Barroso. I tempi sono maturi per una svolta in questo senso, come dimostra il grande risultato della petizione promossa dai deputati del Popolo della Libertà in Parlamento europeo sul tema del crocifisso.



«Tutti i Paesi dell’Europa sono permeati dalla civiltà cristiana. Essa è l’anima dell’Europa che occorre ridarle». Lo disse il 19 marzo 1958, di fronte al Parlamento Europeo, Robert Schuman. Lui, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi erano tre credenti cristiani cattolici. Ed erano, come si dice con un’espressione tanto ambigua quanto abusata, tre “laici”. Nessuno di essi si è mai sognato di imporre il cristianesimo come confessione “di Stato” europea. Ma nessuno di essi avrebbe potuto immaginare che l’Europa potesse farne a meno.


24 Novembre. John Rawls. Un filosofo per la democrazia - Autore: Restelli, Silvio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it E-mail: silvio.restelli@poste.it - giovedì 26 novembre 2009
Oggi 24 Novembre, nel 2002, moriva uno dei maggiori filosofi della politica, John Rawls.
Anche i suoi più strenui oppositori, come, ad esempio, Robert Nozick, riconoscono che coloro che si occupano di questi temi o devono lavorare con Rawls o devono spiegare perché non farlo. E Amartya Sen giunge a considerare la teoria della giustizia rawlsiana "di gran lunga la più influente - e [...] più importante - che sia stata presentata in questo secolo".

Vita e opere
Nato a Baltimora nel 1921, John Rawls ha studiato a Princeton e a Oxford e ha insegnato nella prestigiosa Università di Harvard.
I suoi scritti principali sono: "Una teoria della giustizia" (1971) e "Liberalismo politico" (1993). La giustizia è per Rawls "il primo requisito delle istituzioni sociali", così come la verità lo è dei sistemi di pensiero.
Come una teoria, egli argomenta, deve essere abbandonata o modificata se non risulta vera, così le leggi e le istituzioni devono essere abolite o riformate se sono ingiuste, anche se fornissero un certo grado di benessere alla società nel suo complesso, in quanto "ogni persona possiede un'inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. Per questa ragione la giustizia nega che la perdita della libertà per qualcuno possa essere giustificata da maggiori benefici goduti da altri" ("Una teoria della giustizia").

Pensiero
L'idea essenziale di Rawls, - secondo Hosle -che ha dato tanta attualità alla sua opera, è di immaginarsi uno stato, non nel senso di un sistema politico, ma di una situazione umana, in cui l'egoismo razionale porta a principi della giustizia.
Questo è interessante in quanto le scienze sociali moderne sono dominate dalla categoria dell'egoismo razionale.
Una persona è razionale se, secondo i criteri della teoria delle decisioni, riesce a perpetrare il proprio interesse nella maniera più efficiente.
Questo concetto di razionalità non presuppone che gli interessi della persona siano morali; ciò distingue nettamente il concetto di razionalità delle scienze sociali del nostro secolo per esempio dal concetto di ragione pratica di Kant, per cui la ragione pratica è la ragione morale.
Mentre l'uomo razionale nell'economia neoclassica non è l'uomo morale, ma l'uomo che pensa al suo interesse in maniera razionale.
Però Rawls è riuscito a immaginarsi una situazione nella quale l'interesse razionale porta ai risultati della giustizia. Questo ha reso la sua opera interessante per vari strati del mondo intellettuale; le persone che rimanevano fedeli al concetto di ragione pratica nel senso kantiano di giustizia, potevano dire che Rawls era riuscito ad argomentare per la giustizia basandosi sulla "forma mentis" che domina oggi nelle scienze sociali.
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Certo. L'idea fondamentale di Rawls è molto semplice. Lui si immagina una situazione originaria in cui gli attori, che devono decidere sui principi da osservare in futuro in questa società, hanno gli occhi chiusi dal velo dell'ignoranza, cioè non sanno che posizione, che talenti, che capacità avranno nella società. Sotto questo velo d'ignoranza devono decidere per i principi di giustizia basandosi sul criterio di egoismo razionale.
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Secondo Rawls ci sono due principi di giustizia.

1) Il primo principio di giustizia è che è preferibile quel sistema che garantisce a tutti uguale misura di una libertà il più grande possibile. In questo primo principio vengono cioè integrate le categorie di uguaglianza e libertà; Rawls è liberale e vuole avere la libertà individuale il più grande possibile: ognuno deve avere la libertà massima, però il sistema deve essere tale che tutti abbiano questa libertà massima, cioè la libertà deve essere uguale per tutti però nella maniera maggiore.

2) Il secondo principio afferma che esistono però casi dove l'uguaglianza mette in una situazione peggiore i più deboli, mentre si potrebbe immaginare una situazione dove introducendo e permettendo l'inuguaglianza le persone che sono nella situazione peggiore oggettivamente stanno meglio. Facciamo due esempi.
Ci si può immaginare uno Stato in cui tutti abbiamo dieci unità di benessere, possiamo immaginarci un altro sistema in cui alcune persone hanno mille altre hanno trecento, altre hanno dieci alcune hanno due o tre.
Rawls direbbe naturalmente questo sistema è meno giusto del primo; però possiamo immaginarci un terzo sistema nel quale alcuni hanno mille, altri settecento, altri trecento, alcuni trenta ed è garantito che ognuno abbia almeno undici o dodici; allora Rawls ritiene che questo terzo sistema sia migliore del primo perché anche se c'è maggiore inuguaglianza che nel primo le persone che sono svantaggiate stanno meglio nel terzo che nel primo: hanno undici o dodici unità invece di dieci; dunque questo sistema sarebbe preferibile.
E secondo Rawls solo l'invidia può negare questo secondo principio che accetta la differenza dal momento che l'introduzione della differenza fa star meglio anche quelli che starebbero peggio senza questo principio.

L'utilitarismo era la teoria dominante nell'ambito dell'economia neoclassica che era basata sul principio morale della maggior felicità per il maggior numero.
Rawls afferma, e non è il primo a farlo, che questa teoria non è accettabile perché evidentemente in un sistema utilitarista se uccidendo una persona innocente si causa un'utilità negativa di cinquanta e si riesce a dare a cento persone una utilità positiva di uno si è allora legittimati perché nell'insieme si è creato più benessere di quanto se ne era tolto. E Rawls afferma che questo non ha niente da fare con la giustizia, perciò l'utilitarismo non può essere la base di una teoria della giustizia.


Avvenire, 27 Novembre 2009 - INTERVISTA AL SOTTOSEGRETARIO AL WELFARE ROCCELLA - «Così tuteliamo la salute delle donne»
Eugenia Roccella Il Parlamento non fa il dottore, certo. Non si occupa di farmaci o princìpi attivi. Ma delle leggi e del loro rispetto, sì, anche quando a porre il problema è una procedura medica o farmacologica. Parla chiaro, il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella, dopo che la commissione Sanità del Senato sulla pillola abortiva Ru486 ha deciso lo stop all’immissione in commercio previo parere del governo: «Nessun boicottaggio. Viene semplicemente ripristinato l’ordine delle competenze e data la priorità alle indicazioni del governo circa la compatibilità del metodo con la legge italiana, in particolare la 194».

Sottosegretario, sta dicendo che l’Aifa ha preso una decisione che non le spettava?
Sì. L’indagine parlamentare ha evidenziato un vizio nel processo di regolazione della Ru486. In particolare l’audizione del direttore dell’ufficio legale dell’Emea (l’agenzia europea del farmaco, ndr) ha chiarito che l’Aifa avrebbe dovuto chiedere al governo il parere sulla compatibilità della pillola abortiva con la 194 prima di convocare il Cda con cui le ha dato il via libera.

Dunque, ora la parola va al governo. Prima di tutto, che cosa dirà?
Quello che ci preme, fin dall’inizio del dibattito sulla Ru486, è che la sua introduzione avvenga nel rispetto delle legge 194, che poi significa nel rispetto e nella garanzia assoluta della salute delle donne. Il governo insisterà su questo punto, sostanzialmente chiedendo che venga specificata in modo chiaro e inequivocabile l’obbligatorietà del ricovero ordinario in ospedale per le pazienti.

Non era già stato indicato nella delibera dell’Aifa?
Si faceva riferimento al ricovero in ospedale, ma solo fino alla "certezza dell’avvenuta interruzione di gravidanza": una dicitura che lasciava spazio a interpretazioni diverse, tra cui quella che le donne presa la prima pillola potessero allontanarsi dall’ospedale. Il governo insiste sul ricovero per tutta la procedura, fino all’espulsione del feto.

E dopo il parere del governo, cosa succederà?
Il parere arriverà entro 24 ore. A quel punto l’Aifa dovrà convocare un nuovo Cda e votare una nuova delibera sulla Ru486. La pillola abortiva – lo ribadisco – potrà essere impiegata in Italia solo a questa condizione: che la donna sia in ospedale per tutta la procedura, che un medico sia accanto a lei, che l’aborto non avvenga a casa o su un tram».

Però c’è già chi parla di un nuovo attentato alla libertà della donna.
E invece è proprio il contrario. Un attentato alla donna è non voler garantire il rispetto della legge 194, non volerla tutelare da eventuali eventi avversi che potrebbero verificarsi quando è sola – penso alle emorragie, così frequenti in seguito all’assunzione della Ru486 – ed essere sottovalutati. Le donne sono libere di scegliere, anche la modalità dell’aborto: ma se scelgono quello chimico devono avere la stessa assistenza di chi sceglie quello chirurgico.

La commissione Sanità del Senato ha evidenziato problemi di farmacovigilanza sulla Ru486 anche a livello europeo. Cosa significa?
I dati sulla mortalità, sugli effetti collaterali e sul follow-up della pillola sono troppo scarsi, visto che in quasi tutta Europa la Ru486 si assume fuori dagli ospedali. Questo significa che la modalità dell’aborto chimico non è ancora sicura.

Che fare?
Il governo, tramite l’Aifa, potrebbe sollevare la questione davanti all’Emea. E il dibattito potrebbe essere riaperto anche a livello internazionale.
Viviana Daloiso


Colletta alimentare, i bisogni dei poveri entrano nel carrello - DA MILANO PAOLO FERRARIO – Avvenire, 27 novembre 2009
F are la spesa non solo per sè e per la propria famiglia. Domani questo semplice gesto, che per molti è quotidiano, potrà assumere, per chi lo vorrà, anche un altro significato: venire in­contro alle necessità dei tanti che, anche in Italia, non si possono permettere il “lusso” di varcare la soglia di un supermercato. Secondo una recente in­dagine della Fondazione per la Sussidiarietà, in­fatti, nel nostro Paese sono più di tre milioni le per­sone che faticano ad acquistare cibo a sufficienza. Anche e soprattutto a loro si rivolgerà, quindi, il la­voro dei più di 100mila volontari che, domani, a­nimeranno la 13esima edizione della Colletta ali­mentare, iniziativa promossa dalla Fondazione Banco alimentare e dalla Compagnia delle Opere, in collaborazione con l’Associazione nazionale al­pini e la Società San Vincenzo De Paoli.
La Colletta di quest’anno si svol­gerà in oltre 7.600 supermerca­ti dove i volontari inviteranno i clienti ad acquistare e donare a­limenti non deperibili (preferi­bilmente olio, omogeneizzati e alimenti per l’infanzia, tonno e carne in scatola, pelati e legumi in scatola), che saranno distri­buiti a circa 1,3 milioni di indigenti attraverso gli 8mila enti convenzionati con la rete del Banco a­limentare (mense per i poveri, comunità per mi­nori, banchi di solidarietà, centri d’accoglienza...). Alla Colletta dello scorso anno parteciparono più di 5 milioni di italiani, donando 8.970 tonnellate di cibo per un valore economico di oltre 27 milioni di euro. «L’obiettivo di questa edizione – spiegano i promotori – è quello di sensibilizzare ancora di più le persone a questo gesto di carità e alla condivi­sione dei bisogni di chi è in difficoltà».
Alla Fondazione Banco alimentare fa riferimento anche un’altra realtà che, in appena cinque anni, è riuscita a radicarsi nel territorio, soprattutto al Nord, dove è nata. “Siticibo”, che ha visto la luce a Milano nel dicembre 2003 da un’idea di Cecilia Ca­nepa, ha l’obiettivo di recuperare cibo invenduto da mense aziendali, ospedali, refettori scolastici, al- berghi, ristoranti e dalle altre strutture della risto­razione organizzata (non da singoli privati, dun­que), per donarlo a 88 enti caritativi che si occu­pano di fornire pasti ai poveri (mense, comunità residenziali di accoglienza, case famiglia, Caritas, Banchi di solidarietà...).
«Siticibo – spiega la responsabile nazionale, Giu­liana Malaguti – raccoglie cibo cucinato ma non servito, alimenti freschi come frutta e verdura, pa­ne e dolci, che nel giro di poche ore vengono con­segnati e consumati». La giornata tipo dei 119 volontari di Siticibo co­mincia alle 7,30 e termina alle 17 con la consegna degli ultimi prodotti per la cena. Tra gennaio 2004 e ottobre 2009, nelle cinque città finora coinvolte dall’iniziativa (Milano, Como, Roma, Firenze e Mo­dena, ma è allo studio la fattibilità di allargare la re­te anche a Busto Arsizio, Varese e Gallarate, nel nord milanese), sono state rac­colte 350 tonnellate di pane (per un controvalore di 770mila eu­ro), 330 tonnellate di frutta (va­lore 462mila euro) e 727mila porzioni di piatti pronti (primi piatti, pietanze e contorni), per un controvalore di quasi 1,5 mi­lioni di euro.
Al programma di raccolta par­tecipano, donando alimenti, 27 mense aziendali, 5 hotel, un ristorante e 118 scuo­le. Soprattutto con queste ultime, Siticibo ha av­viato un vero e proprio percorso educativo.
«Nelle scuole dove ritiriamo le porzioni non servi­te – aggiunge Giuliana Malaguti – abbiamo nota­to un grande cambiamento nei ragazzi per quello che riguarda l’approccio con il bene-cibo. Da quan­do sanno che ciò che loro non comsumano è pre­zioso per tante persone povere, hanno un maggior rispetto di quello che trovano in tavola e stanno imparando che non è scontato trovarlo tutti i gior­ni. Il cibo, insomma, per questi studenti è tornato ad essere davvero un dono. Un atteggiamento senz’altro controcorrente per il mondo di oggi ma che, magari, può contribuire a crearne uno mi­gliore domani. Naturalmente, ci sono ancora tan­ti comportamenti sbagliati da correggere ma il ter­reno è molto fertile».
Domani, in tutta Italia, i clienti dei supermercati invitati a donare parte degli acquisti