Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI e la controversia fra San Bernardo ed Abelardo - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
2) A Strasburgo inganni linguistici che oscurano la verità sulla persona - Il Forum delle Associazioni familiari respinge le politiche antivita - di Angela Maria Cosentino
3) CESNUR) L'anticristo porta la toga - L’Europa e il crocefisso, la cristianofobia al potere - di Massimo Introvigne
4) J'ACCUSE/ Mauro: sono i cristiani i più discriminati d'Europa - Mario Mauro venerdì 6 novembre 2009 – ilsussidiario.net
5) Gente che non sta al guinzaglio - Giorgio Vittadini venerdì 6 novembre 2009 – ilsussidiario.net
6) Quei muri appesi ai Crocefissi…- 5 novembre 2009 dal Blog di Antonio Socci
7) La sfida educativa per il Papa: offrire un "pensiero forte" ai giovani - Raccoglie l'eredità intellettuale di Paolo VI nella sua terra natale
8) A 40 anni dal primo testamento biologico, è ancora eutanasia - di Renzo Puccetti* - ROMA, domenica, 8 novembre 2009 (ZENIT.org).- Quando l'avvocato Luis Kutner presentò pubblicamente il primo testamento biologico nel 1967, la sua iniziativa avvenne per conto della Euthanasia Society of America, che provvide alla diffusione e divulgazione del documento allo scopo di promuovere le istanze eutanasiche. Sono passati da allora 40 anni, ma il dibattito attorno al testamento biologico non pare proprio essersi affrancato dalla questione dell'eutanasia.
9) Il «Leone di Münster» - di Oscar Sanguinetti - Il cardinale von Galen diventa beato. Defensor Fidei, per amore della verità e della patria resistette a Hitler. Quando si rischiava la vita opponendosi al nazionalsocialismo.
10) L’utopia oltre il muro - Pigi Colognesi lunedì 9 novembre 2009 – ilsussidiario.net
11) IDEE/ Ecco le grandi domande alle quali filosofi e scienziati non rispondono - Angelo Campodonico lunedì 9 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Benedetto XVI e la controversia fra San Bernardo ed Abelardo - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 4 novembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI nell'incontrare i fedeli e i pellegrini in piazza San Pietro per la tradizionale Udienza generale.
Nella sua catechesi, il Papa, continuando a parlare dello sviluppo della teologia nel XII secolo, si è soffermato sulla controversia fra San Bernardo ed Abelardo.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
nell’ultima catechesi ho presentato le caratteristiche principali della teologia monastica e della teologia scolastica del XII secolo, che potremmo chiamare, in un certo senso, rispettivamente "teologia del cuore" e "teologia della ragione". Tra i rappresentanti dell’una e dell’altra corrente teologica si è sviluppato un dibattito ampio e a volte acceso, simbolicamente rappresentato dalla controversia tra san Bernardo di Chiaravalle ed Abelardo.
Per comprendere questo confronto tra i due grandi maestri, è bene ricordare che la teologia è la ricerca di una comprensione razionale, per quanto è possibile, dei misteri della Rivelazione cristiana, creduti per fede: fides quaerens intellectum – la fede cerca l’intellegibilità – per usare una definizione tradizionale, concisa ed efficace. Ora, mentre san Bernardo, tipico rappresentante della teologia monastica, mette l’accento sulla prima parte della definizione, cioè sulla fides - la fede, Abelardo, che è uno scolastico, insiste sulla seconda parte, cioè sull’intellectus, sulla comprensione per mezzo della ragione. Per Bernardo la fede stessa è dotata di un’intima certezza, fondata sulla testimonianza della Scrittura e sull’insegnamento dei Padri della Chiesa. La fede inoltre viene rafforzata dalla testimonianza dei santi e dall’ispirazione dello Spirito Santo nell’anima dei singoli credenti. Nei casi di dubbio e di ambiguità, la fede viene protetta e illuminata dall’esercizio del Magistero ecclesiale. Così Bernardo fa fatica ad accordarsi con Abelardo, e più in generale con coloro che sottoponevano le verità della fede all’esame critico della ragione; un esame che comportava, a suo avviso, un grave pericolo, e cioè l’intellettualismo, la relativizzazione della verità, la messa in discussione delle stesse verità della fede. In tale modo di procedere Bernardo vedeva un’audacia spinta fino alla spregiudicatezza, frutto dell’orgoglio dell’intelligenza umana, che pretende di "catturare" il mistero di Dio. In una sua lettera, addolorato, scrive così: "L’ingegno umano si impadronisce di tutto, non lasciando più nulla alla fede. Affronta ciò che è al di sopra di sé, scruta ciò che gli è superiore, irrompe nel mondo di Dio, altera i misteri della fede, più che illuminarli; ciò che è chiuso e sigillato non lo apre, ma lo sradica, e ciò che non trova percorribile per sé, lo considera nulla, e rifiuta di credervi" (Epistola CLXXXVIII,1: PL 182, I, 353).
Per Bernardo la teologia ha un unico scopo: quello di promuovere l’esperienza viva e intima di Dio. La teologia è allora un aiuto per amare sempre di più e sempre meglio il Signore, come recita il titolo del trattato sul Dovere di amare Dio (De diligendo Deo). In questo cammino, ci sono diversi gradi, che Bernardo descrive approfonditamente, fino al culmine quando l’anima del credente si inebria nei vertici dell’amore. L’anima umana può raggiungere già sulla terra questa unione mistica con il Verbo divino, unione che il Doctor Mellifluus descrive come "nozze spirituali". Il Verbo divino la visita, elimina le ultime resistenze, l’illumina, l’infiamma e la trasforma. In tale unione mistica, essa gode di una grande serenità e dolcezza, e canta al suo Sposo un inno di letizia. Come ho ricordato nella catechesi dedicata alla vita e alla dottrina di san Bernardo, la teologia per lui non può che nutrirsi della preghiera contemplativa, in altri termini dell’unione affettiva del cuore e della mente con Dio.
Abelardo, che tra l’altro è proprio colui che ha introdotto il termine "teologia" nel senso in cui lo intendiamo oggi, si pone invece in una prospettiva diversa. Nato in Bretagna, in Francia, questo famoso maestro del XII secolo era dotato di un’intelligenza vivissima e la sua vocazione era lo studio. Si occupò dapprima di filosofia e poi applicò i risultati raggiunti in questa disciplina alla teologia, di cui fu maestro nella città più colta dell’epoca, Parigi, e successivamente nei monasteri in cui visse. Era un oratore brillante: le sue lezioni venivano seguite da vere e proprie folle di studenti. Spirito religioso, ma personalità inquieta, la sua esistenza fu ricca di colpi di scena: contestò i suoi maestri, ebbe un figlio da una donna colta e intelligente, Eloisa. Si pose spesso in polemica con i suoi colleghi teologi, subì anche condanne ecclesiastiche, pur morendo in piena comunione con la Chiesa, alla cui autorità si sottomise con spirito di fede. Proprio san Bernardo contribuì alla condanna di alcune dottrine di Abelardo nel sinodo provinciale di Sens del 1140, e sollecitò anche l’intervento del Papa Innocenzo II. L’abate di Chiaravalle contestava, come abbiamo ricordato, il metodo troppo intellettualistico di Abelardo, che, ai suoi occhi, riduceva la fede a una semplice opinione sganciata dalla verità rivelata. Quelli di Bernardo non erano timori infondati ed erano condivisi, del resto, anche da altri grandi pensatori del tempo. Effettivamente, un uso eccessivo della filosofia rese pericolosamente fragile la dottrina trinitaria di Abelardo, e così la sua idea di Dio. In campo morale il suo insegnamento non era privo di ambiguità: egli insisteva nel considerare l’intenzione del soggetto come l’unica fonte per descrivere la bontà o la malizia degli atti morali, trascurando così l’oggettivo significato e valore morale delle azioni: un soggettivismo pericoloso. È questo – come sappiamo - un aspetto molto attuale per la nostra epoca, nella quale la cultura appare spesso segnata da una crescente tendenza al relativismo etico: solo l’io decide cosa sia buono per me, in questo momento. Non bisogna dimenticare, comunque, anche i grandi meriti di Abelardo, che ebbe molti discepoli e contribuì decisamente allo sviluppo della teologia scolastica, destinata a esprimersi in modo più maturo e fecondo nel secolo successivo. Né vanno sottovalutate alcune sue intuizioni, come, ad esempio, quando afferma che nelle tradizioni religiose non cristiane c’è già una preparazione all’accoglienza di Cristo, Verbo divino.
Che cosa possiamo imparare, noi oggi, dal confronto, dai toni spesso accesi, tra Bernardo e Abelardo, e, in genere, tra la teologia monastica e quella scolastica? Anzitutto credo che esso mostri l’utilità e la necessità di una sana discussione teologica nella Chiesa, soprattutto quando le questioni dibattute non sono state definite dal Magistero, il quale rimane, comunque, un punto di riferimento ineludibile. San Bernardo, ma anche lo stesso Abelardo, ne riconobbero sempre senza esitazione l’autorità. Inoltre, le condanne che quest’ultimo subì ci ricordano che in campo teologico deve esserci un equilibrio tra quelli che possiamo chiamare i principi architettonici datici dalla Rivelazione e che conservano perciò sempre la prioritaria importanza, e quelli interpretativi suggeriti dalla filosofia, cioè dalla ragione, e che hanno una funzione importante ma solo strumentale. Quando tale equilibrio tra l’architettura e gli strumenti di interpretazione viene meno, la riflessione teologica rischia di essere viziata da errori, ed è allora al Magistero che spetta l’esercizio di quel necessario servizio alla verità che gli è proprio. Inoltre, occorre mettere in evidenza che, tra le motivazioni che indussero Bernardo a "schierarsi" contro Abelardo e a sollecitare l’intervento del Magistero, vi fu anche la preoccupazione di salvaguardare i credenti semplici ed umili, i quali vanno difesi quando rischiano di essere confusi o sviati da opinioni troppo personali e da argomentazioni teologiche spregiudicate, che potrebbero mettere a repentaglio la loro fede.
Vorrei ricordare, infine, che il confronto teologico tra Bernardo e Abelardo si concluse con una piena riconciliazione tra i due, grazie alla mediazione di un amico comune, l’abate di Cluny, Pietro il Venerabile, del quale ho parlato in una delle catechesi precedenti. Abelardo mostrò umiltà nel riconoscere i suoi errori, Bernardo usò grande benevolenza. In entrambi prevalse ciò che deve veramente stare a cuore quando nasce una controversia teologica, e cioè salvaguardare la fede della Chiesa e far trionfare la verità nella carità. Che questa sia anche oggi l’attitudine con cui ci si confronta nella Chiesa, avendo sempre come meta la ricerca della verità.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Nel salutare i pellegrini italiani, rivolgo un cordiale benvenuto alle Religiose di diverse Congregazioni che partecipano al corso promosso dall’USMI, ed auspico che esso susciti in tutte un rinnovato impegno a testimoniare la presenza e l’amore di Dio. Saluto le Suore di Santa Dorotea di santa Paola Frassinetti, che celebrano il Capitolo Generale e assicuro la mia preghiera affinchè l’importante evento sia per l’Istituto momento di riflessione e di rilancio nell’azione spirituale e missionaria. Saluto con affetto il Cardinale Salvatore De Giorgi, che accompagna il nutrito gruppo di genitori e amici del Movimento "Ragazzi in cielo" e, nel ricordo sempre vivo di quanti sono prematuramente scomparsi per incidenti o malattie, incoraggio tutti, specialmente i genitori a coltivare la speranza nella vita eterna fondata nella morte e risurrezione di Cristo. Molti di questi "Ragazzi in cielo" facevano parte della Federazione Italiana Esercizi Spirituali. Rivolgo ora un pensiero speciale alla Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata dal compianto don Oreste Benzi, morto due anni or sono. Cari amici, la feconda eredità spirituale di questo benemerito sacerdote sia per voi stimolo a far fruttificare nella Chiesa e per il mondo la provvidenziale opera da lui iniziata a favore degli ultimi della nostra società. Vi accompagno volentieri con la preghiera.
Saluto infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Ricorre oggi la memoria liturgica di San Carlo Borromeo, Vescovo insigne della Diocesi di Milano, che, animato da ardente amore per Cristo, fu instancabile maestro e guida dei fratelli. Il suo esempio aiuti voi, cari giovani, a lasciarvi condurre da Cristo nelle vostre scelte quotidiane; incoraggi voi, cari ammalati, ad offrire la vostra sofferenza per i Pastori della Chiesa e per la salvezza delle anime; sostenga voi, cari sposi novelli, a fondare la vostra famiglia sui valori evangelici.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
A Strasburgo inganni linguistici che oscurano la verità sulla persona - Il Forum delle Associazioni familiari respinge le politiche antivita - di Angela Maria Cosentino
ROMA, giovedì, 5 novembre 2009 (ZENIT.org).- Rispetto ad un documento illustrato dalla britannica Christine McCafferty, al Parlamentary Assembly of Council of Europa (PACE) di Strasburgo in cui si richiedevano una serie di misure per la riduzione e selezione delle nascite, il Forum italiano delle Associazioni Familiari ha espresso il totale disaccordo e rifiuto delle politiche neomalthusiane di controllo demografico.
Nel corso di un articolato rapporto (doc. 11992), relativo all’applicazione dei piani di controllo demografico varati alla Conferenza ONU de il Cairo (1994), presentato dalla signora McCafferty il 5 agosto 2009 al Social, Health and Family Affairs Committee, del PACE il Forum ha risposto con una lettera inviata il 26 ottobre del 2009 e firmata dal Presidente Francesco Belletti e dal Vicepresidente delegato per le questioni europee Giuseppe Barbaro.
Nella lettera indirizzata a Ms. Maud de Boer-Buquicchio Acting Secretary General of the Council of Europe, e per conoscenza ai parlamentari italiani della PACE, il Forum italiano delle Associazioni familiari ha espresso il totale disaccordo circa la proposta elaborata in merito a “quindici anni dalla Conferenza Internazionale sulla Popolazione e lo Sviluppo” (documento 11992 del 05-08-09), a cura di Ms. Christine McCafferty.
Nella lettera è spiegato che la salute procreativa comprende l’insieme di interventi preventivi e terapeutici finalizzati alla promozione delle condizioni fisiche, psichiche, socioeconomiche e ambientali ottimali per il concepimento , la gestazione e la nascita.
Invece, il termine ambiguo di “salute riproduttiva”, legato a quello di “diritti riproduttivi” (per indicare l’accesso a contraccezione, aborto sicuro, sterilizzazione e fecondazione artificiale) introdotto dalle Conferenze Internazionali ONU, ha veicolato una mentalità antivita e antipersona, penetrata ormai anche nelle risoluzioni dei Paesi europei.
“Il nostro disaccordo e le nostre preoccupazioni – riporta Francesco Belletti, Presidente del Forum e Giuseppe Barbaro, vicepresidente delegato per le questioni europee – nascono dalle seguenti considerazioni: La filosofia soggiacente al documento è neo-malthusiana (§ 33-37), per cui la lotta alla povertà si realizza eliminando le bocche da sfamare. La fecondità umana e la crescita della popolazione sono “una minaccia alla salute umana, lo sviluppo sociale e economico, l’ambiente” (§ 33)”.
Il documento presentato è poi orientato a:
- finanziare ONG per la pianificazione della natalità (§ 54).
- promuove l’aborto (“nuovi mezzi” di controllo delle nascite) e la sua legalizzazione comunque attraverso:
a) la promozione - dovuta dagli Stati - del concetto di “diritti riproduttivi”,
b) l’offerta di garanzia che l’aborto sia realizzato in modo sicuro, necessitando gli stati membri a legiferare in merito (diritto ad avere un aborto sicuro).
c) come diritto riproduttivo, in generale
d) come strumento di controllo delle nascite: nel senso della singola pianificazione familiare (§ 26).
e) nel senso di controllo della crescita della popolazione (aborto sicuro e “contraccezione di emergenza”), cfr. sommario iniziale.
f) tramite finanziamenti pubblici (§ 20 e altri)
- introduce e riproduce sistematicamente e programmaticamente i termini chiave di “diritti sessuali e riproduttivi” dell’IPPF (International Planned Parenthood Federation).
Vuole obbligare gli Stati membri (§ 16) ad intraprendere azioni per i “diritti riproduttivi”.
Intercetta e tende a modificare allargandola – entrando nell’ordinamento giuridico riservato ad uno stato membro (l’Italia) – la Legge 40/2004, a proposito della disponibilità per chiunque di accedere alle tecniche di cura dell’infertilità (§41).
Dedica più paragrafi alla “non discriminazione di genere”. Espropria la famiglia di qualsiasi ruolo educativo in campo sessuale e riproduttivo, attribuendolo alla scolarizzazione e ai servizi pubblici. Contraddice, pianificando il controllo della popolazione, gli obiettivi di ripresa della fecondità in Europa.
CESNUR) L'anticristo porta la toga - L’Europa e il crocefisso, la cristianofobia al potere - di Massimo Introvigne
Ci siamo. Da diverso tempo si accumulavano i segnali di un prossimo colpo delle istituzioni europee contro il cristianesimo e la Chiesa Cattolica. Qualche mese fa, il 4 marzo 2009, avevo avuto occasione di partecipare come esperto a Vienna a una conferenza dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) dove era stato lanciato l’allarme su una montante «cristianofobia», che in diversi Paesi non si limitava più alla propaganda ma si esprimeva in leggi e sentenze contro la libertà religiosa e di predicazione dei cristiani e contro i loro simboli. L’attacco anticristiano si era finora svolto in modo prevalentemente indiretto, attraverso la proclamazione di presunti «nuovi diritti»: anzitutto, quello degli omosessuali a non essere oggetto di giudizi critici o tali da mettere in dubbio che le unioni fra persone dello stesso sesso debbano godere degli stessi riconoscimenti di quelle fra un uomo e una donna. Tutelando gli omosessuali non solo – il che sarebbe ovvio e condivisibile – da violenze fisiche, ma da qualunque giudizio ritenuto discriminante ed etichettato come «omofobia», le istituzioni europee violavano fatalmente la libertà di predicazione di tutte quelle comunità religiose, Chiesa Cattolica in testa, le quali hanno come parte normale del loro insegnamento morale la tesi secondo cui la pratica omosessuale è un disordine oggettivo e uno Stato bene ordinato non può mettere sullo stesso piano le unioni omosessuali e il matrimonio eterosessuale.
La sentenza Lautsi c. Italie del 3 novembre 2009 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo segna il passaggio della cristianofobia dalla fase indiretta a una diretta. Non ci si limita più a colpire il cristianesimo attraverso l’invenzione di «nuovi diritti» che, proclamando il loro normale insegnamento morale, le Chiese e comunità cristiane non potranno non violare, ma si attacca la fede cristiana al suo cuore, la croce. I giudici di Strasburgo – dando ragione a una cittadina italiana di origine finlandese – hanno affermato che l’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche italiane viola i diritti dei due figli, di undici e tredici anni, della signora Lautsi, li «perturba emozionalmente» e nega la natura stessa della scuola pubblica che dovrebbe «inculcare agli allievi un pensiero critico». Ove tornasse in Finlandia, la signora Lautsi dovrebbe chiedere al suo Paese natale di cambiare la bandiera nazionale, dove come è noto figura una croce, con quale perturbazione emozionale dei suoi figlioli è facile immaginare. Basta questa considerazione paradossale per capire come, per qualunque persona di buon senso, la croce a scuola o sulla bandiera non è uno strumento di proselitismo religioso ma il simbolo di una storia plurisecolare che, piaccia o no, non avrebbe alcun senso senza il cristianesimo. In Italia la signora Lautsi intascherà cinquemila euro dai contribuenti – un piccolo omaggio della Corte di Strasburgo – e avrà diritto di far togliere i crocefissi dalle aule dove studiano i figli. Certo, ci sarà l’appello, e giustamente il nostro governo rifiuterà di applicare questa sentenza ridicola e folle. Ma le «toghe rosse» italiane si sentiranno incoraggiate dai colleghi europei. Che non sono tutti «stranieri» dal momento che uno dei firmatari della sentenza è il giudice italiano a Strasburgo, il dottor Vladimiro Zagrebelsky, campione – insieme al fratello minore Gustavo – del laicismo giuridico nostrano.
J'ACCUSE/ Mauro: sono i cristiani i più discriminati d'Europa - Mario Mauro venerdì 6 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Si è svolta ieri a Vienna la Riunione plenaria del Consiglio permanente dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), durante la quale, insieme agli altri due rappresentanti permanenti contro le discriminazioni, ho redatto un bilancio del lavoro svolto in questi primi 11 mesi di incarico come Rappresentante permanente contro Razzismo, xenofobia e discriminazione con particolare riferimento alla discriminazione dei cristiani.
L’OSCE rappresenta una regione abitata da popoli con differenti origini, culture e confessioni religiose. In questo contesto, il modello del pluralismo rappresenta un riferimento doveroso per ogni Stato membro. Il pluralismo non è qualcosa che noi possiamo ritenere garantito per sempre, ma è un processo che richiede un lavoro costante nonché uno sforzo comune degli Stati membri.
Sin dal primo giorno di mandato, siamo stati testimoni di una crisi economica senza precedenti che ha interessato tutta la regione OSCE. Tuttavia alcuni gruppi hanno subito l’impatto della crisi in modo più profondo rispetto ad altri. A causa della loro posizione vulnerabile, gli effetti della crisi economica sui migranti, sui rifugiati e su altre minoranze sono stati devastanti e hanno contribuito a peggiorare non poco una situazione che era già insostenibile in partenza.
Istituzioni come OSCE e ODHIR (ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani) devono quindi assumere un ruolo centrale collaborando con gli Stati in particolare per rafforzare la legislazione in materia, per la raccolta dei dati e per lo sviluppo di programmi educativi.
La seconda parte del mio intervento si è focalizzato sui cristiani. La corte europea per i diritti umani ha prodotto una sentenza che impedisce di esporre il crocifisso nelle scuole, disconoscendo duemila anni di storia di un paese e calpestando quindi l’identità del suo popolo. Questa sentenza, è comunque il messaggio di un’istituzione inutile, il Consiglio d’Europa, che non ha nulla a che vedere con l’Unione europea.
La Commissione europea ha infatti precisato puntualmente che «si tratta di una decisione che viene da un'istituzione che non appartiene all'Unione europea». Un’ istituzione che più che promuovere i diritti umani non fa che oscurarli. Ma nel quotidiano, all’interno delle nostre società, esistono discriminazioni nei confronti dei cristiani anche in Europa?
La risposta è purtroppo affermativa e le proporzioni sono tutt’altro che trascurabili. Si tratta di un fenomeno consistente che interessa non solo i paesi nei quali il cristianesimo è una minoranza, ma anche quelli in cui è maggioranza.
Le discriminazioni possono essere intenzionali (quando c’è una netta posizione anticristiana), o non intenzionali, quando le leggi di qualche Governo apparentemente neutrali, risultano inique nei confronti dei cristiani.
Un’importante conclusione cui si è arrivati durante l’incontro sulla libertà religiosa a cui ho partecipato lo scorso luglio è che intolleranza e discriminazione delle comunità religiose sono strettamente collegate con le limitazioni della libertà di religione o di credo.
In alcune parti dell’area OSCE, le chiese cristiane e i membri di altre religioni si trovano a dover fronteggiare problemi basilari, come la proibizione di acquisire uno status legale, pregare liberamente o diffondere letteratura.
In questo contesto, su richiesta del Ministro degli esteri Frattini, il Consiglio europeo di novembre preparerà una dichiarazione formale sulla libertà religiosa, con particolare riferimento alle persecuzioni che subiscono le minoranze cristiane nel mondo.
L’impegno delle (vere) istituzioni europee che ha come obiettivo la creazione di un quadro formale di salvaguardia della libertà di religione rappresenta un precedente molto positivo, che conferma una crescente attenzione e una nuova sensibilità istituzionale per questo problema.
Gente che non sta al guinzaglio - Giorgio Vittadini venerdì 6 novembre 2009 – ilsussidiario.net
In un periodo in cui dominano gossip e scandali, sembra particolarmente arduo anche veder descritta con realismo la vita delle realtà sociali e il loro rapporto con il mondo pubblico. L’Italia è purtroppo ancora vittima dei famigerati cinquant’anni successivi all’unità d’Italia in cui l’ideologia massonica e laicista ha cercato di stravolgere una tradizione italiana in cui vigeva una mentalità “sussidiaria” capace di valorizzare l’iniziativa diffusa e operosa della gente e dei corpi sociali.
Esponente di spicco di questa ideologia fu Crispi che nel 1891 giustificò l’espropriazione dei beni ecclesiastici teorizzando il diritto dello Stato di avere il monopolio dell’assistenza ai cittadini. Nessuno disconosce il valore dello stato sociale, i livelli minimi garantiti di assistenza e l’universalità dei servizi ma, come acutamente afferma Pierpaolo Donati, ciò ha significato «rendere irrilevanti le relazioni fra i consociati, sminuire l’importanza delle comunità e formazioni sociali intermedie, anche come soggetti di cittadinanza, limitare il pluralismo sociale, in sintesi svalutare la socialità della persona umana, anche e precisamente come elemento costitutivo del welfare»: è l’avvento dello Stato hobbesiano nel mondo del welfare.
Oggi, quella mentalità da Italietta post risorgimentale continua nello statalismo di una certa destra, in parte del mondo di sinistra svincolato dalla sua tradizione popolare e sociale e in un certo mondo cattolico senza identità e perciò succube della mentalità dominante. Così, in questi ben individuabili ambienti ha continuato a dominare l’idea che qualunque intervento del privato e del privato sociale nell’assistenza, nella sanità, nell’educazione, nel tempo libero sia portatore di interessi particolari in contrasto con il bene comune.
Non si capisce che ci possa essere un pubblico non statale, una capacità di dare un apporto al bene comune anche quando, sotto il profilo giuridico, si appartenga al diritto privato. Misconoscendo la realtà storica e il valore del principio costituzionale della sussidiarietà (art. 118), non si vuole ammettere che esistono ideali della persona che possono essere al servizio di tutti, in quella dimensione di gratuità e di dono sottolineata dall’Enciclica Caritas in Veritate.
Eppure il nostro Paese è popolato di opere sociali di origine religiosa e laica, di centri di formazione professionale, vecchi e nuovi, nati dal privato sociale, di realtà sportive, di associazioni a difesa della natura che nessun ente pubblico saprebbe mai far nascere. Non si vuole ammettere che il desiderio di verità, giustizia, bellezza educato da movimenti ideali, attraverso la costruzione di opere sia in grado di perseguire, almeno insieme allo Stato, il bene comune. Sembra che ci si sia dimenticati della battaglia per l’autonomia delle fondazioni di origine bancaria: realtà di diritto privato che la Corte costituzionale, nelle sentenze nn. 300 e 301 del 2003, ascrive tra «i soggetti dell’organizzazione delle libertà sociali».
Nell’ottica statalista sopra citata, qualunque forma di organizzazione sociale, qualunque movimento, qualunque realtà organizzata deve essere vista con sospetto. Dovrebbero esistere solo l’individuo e lo Stato, e il rapporto tra i due dovrebbe essere mediato solo da qualche padrone del vapore mediatico e da qualche intellettuale illuminato che, come demiurghi tra la terra e il cielo, indicano ai cittadini, ridotti a burattini, quali sono i comportamenti virtuosi da tenere.
Allo stesso modo è vista come una minaccia l’iniziativa di qualche lungimirante e purtroppo ancora isolata amministrazione che, per evitare che i servizi siano erogati da un welfare state inefficiente, inefficace e costoso, e ispirandosi a interventi tipici della sinistra europea di tipo blairista, cerca di rendere le persone e le realtà sociali protagoniste del welfare; e in quest’ottica, attraverso sistemi di voucher, fa sì che i cittadini scelgano gli erogatori di servizi più capaci di rispondere ai loro bisogni tra quelli accreditati in base alla loro qualità.
Questo sistema, che attua una reale democrazia, evidentemente ridà potere reale ai cittadini e impedisce altresì che i politici di turno possano favorire in modo clientelare alcune realtà a loro più vicine, al di là della loro qualità. Dovrebbe essere, questo, un sistema che trova il plauso di intellettuali, politici e operatori dei media che amano davvero il bene comune.
Invece, contro il parere favorevole del popolo (vedi enorme consenso al cinque per mille: nel 2007 lo hanno devoluto 15.618.714 italiani) c’è chi, ideologico o disonesto, considera troppo pericoloso che esista gente che non sta al guinzaglio e per questo, senza alcuna reale correttezza e verifica reale dei fatti, diffonde notizie scandalistiche.
Quei muri appesi ai Crocefissi…- 5 novembre 2009 dal Blog di Antonio Socci
Gesù è stato giudicato – duemila anni fa – dalle varie magistrature del suo tempo. E sappiamo cosa decise la “giustizia” di allora.
Oggi la Corte europea di Strasburgo ha emesso una sentenza secondo cui lasciare esposta nelle scuole la raffigurazione di quell’Innocente massacrato dalla “giustizia umana” viola la libertà religiosa.
E’ stato notato che semmai il crocifisso ricorda a tutti che cosa è la giustizia umana e cosa è il potere ed è quindi un grande simbolo di laicità (sì, proprio laicità) e di libertà (viene da chiedersi se gli antichi giudici di Gesù sarebbero contenti o scontenti che una sentenza di oggi cancelli l’immagine di quel loro “errore giudiziario” o meglio di quella loro orrenda ingiustizia).
Ma discutiamo pacatamente le ragioni della sentenza di oggi: il crocifisso nelle aule, dicono i giudici, costituisce “una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni” e una violazione alla “libertà di religione degli alunni”.
Per quanto riguarda la prima ragione obietto che quel diritto dei genitori è piuttosto leso da legislazioni stataliste che non riconoscono la libertà di educazione e che magari usano la scuola pubblica per indottrinamenti ideologici.
La seconda ragione è ancor più assurda. Il crocifisso sul muro non impone niente a nessuno, ma è il simbolo della nostra storia. Una sentenza simile va bocciata anzitutto per mancanza di senso storico, cioè di consapevolezza culturale, questione dirimente visto che si parla di scuole. Pare ignara di cosa sia la storia e la cultura del nostro popolo.
Per coerenza i giudici dovrebbero far cancellare anche le feste scolastiche di Natale (due settimane) e di Pasqua (una settimana), perché violerebbero la libertà religiosa.
Stando a questa sentenza, l’esistenza stessa della nostra tradizione bimillenaria e la fede del nostro popolo (che al 90 per cento sceglie volontariamente l’ora di religione cattolica) sono di per sé un “attentato” alla libertà altrui.
I giudici di Strasburgo dovrebbero esigere la cancellazione dai programmi scolastici di gran parte della storia dell’arte e dell’architettura, di fondamenti della letteratura come Dante (su cui peraltro si basa la lingua italiana: cancellata anche questa?) o Manzoni, di gran parte del programma di storia, di interi repertori di musica classica e di tanta parte del programma di filosofia.
Infatti tutta la nostra cultura è così intrisa di cristianesimo che doverla studiare a scuola dovrebbe essere considerato – stando a quei giudici – un attentato alla libertà religiosa. In lingua ebraica le lettere della parola “italia” significano “isola della rugiada divina”: vogliamo cancellare anche il nome della nostra patria per non offendere gli atei? E l’Inno nazionale che richiama a Dio?
Perfino lo stradario delle nostre città (Piazza del Duomo, via San Giacomo, piazza San Francesco) va stravolto? Addirittura l’aspetto (che tanto amiamo) delle vigne e delle colline umbre e toscane – come spiegava Franco Rodano – è dovuto alla storia cristiana e ad un certo senso cattolico del lavoro della terra: vogliamo cancellare anche quelle?
Ma non solo. Come suggerisce Alfredo Mantovano, “se un crocifisso in un’aula di scuola è causa di turbamento e di discriminazione, ancora di più il Duomo che ‘incombe’ su Milano o la Santa Casa di Loreto, che tutti vedono dall’autostrada Bologna-Taranto: la Corte europea dei diritti dell’uomo disporrà l’abbattimento di entrambi?”
Signori giudici, si deve disporre un vasto piano di demolizioni, di cui peraltro dovrebbero far parte pure gli ospedali e le università (a cominciare da quella di Oxford) perlopiù nati proprio dal seno della Chiesa?
Infine (spazzata via la Magna Charta, san Tommaso e la grande Scuola di Salamanca) si dovrebbero demolire pure la democrazia e gli stessi diritti dell’uomo (a cominciare dalla Corte di Strasburgo) letteralmente partoriti e legittimati (con il diritto internazionale) dal pensiero teologico cattolico e dalla storia cristiana?
La stessa Costituzione italiana – fondata sulle nozioni di “persona umana” e di “corpi intermedi” (le comunità che stanno fra individui e Stato) – è intrisa di pensiero cattolico. Cancelliamo anche quella come un attentato alla libertà di chi non è cattolico?
E l’Europa? L’esistenza stessa dell’Europa si deve alla storia cristiana, se non altro perché senza il Papa e i re cristiani prima sui Pirenei, poi a Lepanto e a Vienna, l’Europa sarebbe stata spazzata via diventando un califfato islamico.
Direte che esagero a legare al crocifisso tutto questo. Ma c’è una controprova storica. Infatti sono stati i due mostri del Novecento – nazismo e comunismo – a tentare anzitutto di spazzare via i crocifissi dalle aule scolastiche e dalla storia europea.
Odiavano l’innocente Figlio di Dio massacrato sulla croce, furono sanguinari persecutori della Chiesa e del popolo ebraico (i due popoli di Gesù) che martirizzarono in ogni modo e furono nemici assoluti (e devastatori) della democrazia e dei diritti dell’uomo (oltreché della cultura cristiana dell’Europa e della civiltà).
Il nazismo appena salito al potere scatenò la cosiddetta “guerra dei crocefissi” con la quale tentò di far togliere dalle mura delle scuole germaniche l’immagine di Gesù crocifisso.
Non sopportavano quell’ebreo, il figlio di Maria, e volevano soppiantare la croce del Figlio di Dio, con quella uncinata, il simbolo esoterico dei loro dèi del sangue e della forza. Lo stesso fece il comunismo che tentò di sradicare Cristo dalla storia stessa.
Se le moderne istituzioni democratiche europee si fondano sulla sconfitta dei totalitarismi del Novecento, non spetterebbe anche alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo considerare che la tragedia del Novecento è stata provocata da ideologie che odiavano il crocifisso (e tentarono di sradicarlo) e che i loro milioni di vittime si ritrovano significate proprio dal Crocifisso?
Non a caso è stata una scrittrice ebrea, Natalia Ginzburg, a prendere le difese del crocifisso quando – negli anni Ottanta – vi fu un altro tentativo di cancellarlo dalle aule: “Non togliete quel crocifisso” fu il titolo del suo articolo.
Scriveva:
“il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. E’ l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino allora assente. La rivoluzione cristiana ha cambiato il mondo. Vogliamo forse negare che ha cambiato il mondo? (…) Dicono che da un crocifisso appeso al muro, in classe, possono sentirsi offesi gli scolari ebrei. Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato, e non è forse morto nel martirio, come è accaduto a milioni di ebrei nei lager? Il crocifisso è il segno del dolore umano”.
La Ginzburg proseguiva:
“Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino. Il crocifisso fa parte della storia del mondo… prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei e neri e bianchi, e nessuno prima di lui aveva detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini… A me sembra un bene che i ragazzi, i bambini, lo sappiano fin dai banchi della scuola”.
Con tutto il rispetto auspichiamo che pure i giudici lo apprendano. “Il crocifisso fa parte della storia del mondo”, scrive la Ginzburg.
Infine il crocifisso è il più grande esorcismo contro il Male. Infatti non è il crocifisso ad aver bisogno di stare sui nostri muri, ma il contrario. Come dice un verso di una canzone di Gianna Nannini: “Questi muri appesi ai crocifissi…”. Letteralmente crolla tutto senza di lui, tutti noi siamo in pericolo.
Per questo potranno cancellarlo dai muri e alla fine – come accade in Arabia Saudita – potranno proibirci anche di portarne il simbolo al collo, ma nessuno può impedirci di portarlo nel cuore. E questa è la scelta intima di ognuno. La più importante.
Antonio Socci
Da Libero, 4 novembre 2009
La sfida educativa per il Papa: offrire un "pensiero forte" ai giovani - Raccoglie l'eredità intellettuale di Paolo VI nella sua terra natale
BRESCIA, domenica, 8 novembre 2009 (ZENIT.org).- Raccogliendo l'eredità intellettuale di Papa Paolo VI durante la visita nella sua terra natale, Benedetto XVI ha considerato questa domenica pomeriggio che la sfida educativa consiste nell'offrire ai giovani un "pensiero forte".
Il Pontefice ha affrontato l'attuale "emergenza educativa", che sperimentano genitori ed educatori, alla luce degli insegnamenti di Giovanni Battista Montini durante l'inaugurazione della nuova sede dell'Istituto Paolo VI a Concesio.
Nel suo lungo e articolato discorso, Benedetto XVI, nominato Arcivescovo di Monaco e creato Cardinale da quel "grande Papa", ha deciso di concentrarsi sulla sua "capacità educativa" come studente, sacerdote, Vescovo e Papa.
Ha scelto questo approccio, ha confessato, perché "viviamo in tempi nei quali si avverte una vera 'emergenza educativa'. Formare le giovani generazioni, dalle quali dipende il futuro, non è mai stato facile, ma in questo nostro tempo sembra diventato ancor più complesso".
"Si vanno diffondendo un'atmosfera, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona, del significato della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Eppure si avverte con forza una diffusa sete di certezze e di valori".
"Occorre allora trasmettere alle future generazioni qualcosa di valido, delle regole solide di comportamento, indicare alti obiettivi verso i quali orientare con decisione la propria esistenza - ha constatato - . Aumenta la domanda di un'educazione capace di farsi carico delle attese della gioventù; un'educazione che sia innanzitutto testimonianza e, per l'educatore cristiano, testimonianza di fede".
In questo contesto, raccogliendo l'eredità intellettuale e spirituale di Papa Montini, Benedetto XVI ha spiegato che "il giovane va educato a giudicare l'ambiente in cui vive e opera, a considerarsi come persona e non numero nella massa: in una parola, va aiutato ad avere un 'pensiero forte'".
"Il pensiero forte", ha aggiunto, è "capace di un 'agire forte', evitando il pericolo, che talora si corre, di anteporre l'azione al pensiero e di fare dell'esperienza la sorgente della verità".
Ha quindi sintetizzato questa visione di Paolo VI con le parole che questi pronunciò quando era Papa: "L'azione non può essere luce a se stessa. Se non si vuole curvare l'uomo a pensare come egli agisce, bisogna educarlo ad agire com'egli pensa. Anche nel mondo cristiano, dove l'amore, la carità hanno importanza suprema, decisiva, non si può prescindere dal lume della verità, che all'amore presenta i suoi fini e i suoi motivi".
Constatando "nelle nuove generazioni una ineludibile domanda di significato, una ricerca di rapporti umani autentici", Benedetto XVI ha proposto una famosa frase di Montini: "L'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni".
Per questa ragione, il Papa ha concluso presentando il suo predecessore come un "maestro di vita e coraggioso testimone di speranza", anche se "non sempre capito, anzi più di qualche volta avversato e isolato da movimenti culturali allora dominanti".
"Ma, solido anche se fragile fisicamente, ha condotto senza tentennamenti la Chiesa - ha concluso -; non ha perso mai la fiducia nei giovani, rinnovando loro, e non solo a loro, l'invito a fidarsi di Cristo e a seguirlo sulla strada del Vangelo".
A 40 anni dal primo testamento biologico, è ancora eutanasia - di Renzo Puccetti* - ROMA, domenica, 8 novembre 2009 (ZENIT.org).- Quando l'avvocato Luis Kutner presentò pubblicamente il primo testamento biologico nel 1967, la sua iniziativa avvenne per conto della Euthanasia Society of America, che provvide alla diffusione e divulgazione del documento allo scopo di promuovere le istanze eutanasiche. Sono passati da allora 40 anni, ma il dibattito attorno al testamento biologico non pare proprio essersi affrancato dalla questione dell'eutanasia.
Non si tratta di una questione sollevata per suscitare inesistenti fantasmi, ma dalla constatazione della realtà che ci viene indicata e attraversa il mondo occidentale non risparmiando l'Italia.
Il 26 settembre 2006 viene depositato un disegno di legge alla Camera dei Deputati dal titolo significativo: "Disciplina dell'eutanasia e del testamento biologico". Quando il 27 giugno 2006 il senatore Marino deposita il proprio disegno di legge per la istituzione del testamento biologico, concepisce uno strumento da redigere obbligatoriamente da parte di tutti i cittadini, vincolante per il medico, senza alcuna limitazione nel contenuto. Successivamente la commissione Giustizia, relatore Felice Casson, emette un parere secondo cui "l'idratazione e la nutrizione parenterale (e la ventilazione artificiale) praticate in un organismo altrimenti privo di vitalità, per assoluta e definitiva incapacità di autonoma idratazione e idratazione e respirazione in via ordinaria costituiscono accanimento terapeutico", aggiungendo inoltre che nell'esecuzione delle direttive anticipate i sanitari "sono dichiarati esenti da ogni responsabilità [...] precisando che l'esonero riguarda ogni forma di responsabilità, anche di natura penale".
Appare verosimile pensare che il combinato della vincolatività delle istruzioni e l'assenza di qualsiasi responsabilità penale nel darvi corso possa costituire una porta spalancata alla giurisprudenza eutanasica. Nel confronto sulla materia è piombato come un masso l'esito del caso Englaro, che ha oggettivamente posto le basi per una prassi eutanasica attraverso la condotta attiva di interruzione del sostegno vitale, seppure limitandola ai casi di stato vegetativo dichiarato permanente sulla base di un criterio probabilistico (oggettivamente quindi non permanente, ma solamente persistente) e secondo volontà ricostruite retrospettivamente sulla base di testimonianze e di indizi.
L'episodio ha fatto scattare in molti l'idea della necessità di una legge che disciplini la materia, giustamente ritenendo necessario porre un argine ad una giurisprudenza che si è spinta ad ammettere la disponibilità della vita umana attraverso una procedura ritenuta inammissibile per disporre di qualsiasi altro bene di natura meramente patrimoniale (nessun tribunale accoglierebbe la richiesta di destinazione dei beni sulla base di semplici testimonianze facenti riferimento a dichiarazioni rese a voce del defunto).
Come in una battuta di caccia in cui i battitori fanno un gran chiasso per spingere la preda in una determinata direzione pianificata, vi sono ragionevoli motivi per temere che la direzione intrapresa per scongiurare la pista eutanasica vada invece nel senso desiderato da quanti ardono dal desiderio di aprire una breccia e porre fine "alla concezione sacrale della vita umana".
La partita è estremamente delicata; vale la pensa ricordare quanto affermato dalla filosofa australiana Helga Kuhse in occasione della conferenza mondiale delle società eutanasiche del 1984: "Se riusciamo a fare accettare alla gente la rimozione di ogni trattamento ed assistenza, specialmente del cibo e dei liquidi, ci si accorgerà di come sia doloroso questo modo di morire e quindi, nel migliore interesse del paziente, accetteranno l'iniezione letale".
Il caso di Kerrie Wooltorton, morta suicida a 26 anni a causa di una sindrome depressiva, giunta viva in ospedale, ma non soccorsa dai medici inglesi che temevano di essere denunciati per mancato rispetto di quello che la giovane donna aveva scritto come testamento biologico prima del suicidio, pone drammaticamente a tema la concreta ed insidiosa trama di relazioni che può legare il testamento biologico all'eutanasia.
Al tam-tam giudiziario ha iniziato a fare da corollario la fioritura di iniziative comunali volte alla istituzione di registri dei testamenti biologici caratterizzate dalla assai incerta valenza giuridica, ma comunque volte ad accreditare una fantomatica esigenza di riconoscimento delle dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT) proveniente dai cittadini. I numeri forniti da una breve verifica di Andrea Bernardini rispecchiano l'eloquente titolo dell'articolo pubblicato su Avvenire il 29 Ottobre: "Toscana, troppi registri, pochi registrati".
Ma la battuta di caccia non può non prevedere un'esca. Personalmente la individuo in quei melliflui tentativi che come un mantra invitano al "disarmo bilaterale", all'"abbandono delle ideologie", all'imboccare la strada del "diritto mite", dimenticando di denunciare la violenza ideologica dell'intrusione giurisprudenziale. L'ultima sirena in tal senso mi sembra possa essere individuata nelle conclusioni annunciate alla stampa scaturite dal seminario a porte chiuse promosso dalla fondazione Farefuturo, nata con il contributo essenziale dell'attuale presidente della Camera, e dalla Konrad Adenauer Stiftung, la fondazione tedesca che afferma di ispirarsi alle idee del grande statista tedesco. "Bioetica e biopolitica" è stato il titolo scelto dagli organizzatori, ma a dire il vero, di bioetica pare difficile si sia parlato. Non si capisce infatti come un seminario di bioetica possa dirsi tale in assenza di un qualche relatore medico, figura di cui non si rileva traccia tra i resoconti del convegno. Non è pecca formale, ma sostanziale. La bioetica o è interdisciplinare o non è.
Chissà chi e come avrà informato gli estensori del documento finale di come funziona effettivamente un testamento biologico quando lo si deve applicare nella realtà, laddove, fino a prova contraria, sono sempre coinvolti, quantomeno un paziente ed un medico deputato ad assisterlo. Indifferenti a questo che evidentemente gli organizzatori hanno ritenuto un dettaglio di poco conto, il documento finale, seppure con cenni assai fumosi, si limita a condannare la sola eutanasia attiva, probabilmente non riuscendo o volendo distinguere tra lecita sospensione di cure sproporzionate ed eutanasia passiva, cosa che non stupisce se l'orizzonte di riferimento è il relativismo etico e la sua declinazione sociologica rappresentata dall'esaltazione del multiculturalismo.
Certo è che diventa difficile comprendere, in presenza di una relazione medico-paziente ancora in atto, l'opposizione all'eutanasia attiva da un lato e il sostegno dall'altro a pratiche destinate a condurre a morte certa il paziente attraverso condotte attive di interruzione, od omissive di astensione dall'impiego di sostegni vitali proporzionati. Incuriosisce conoscere come le eminenti competenze giuridiche presenti al convegno siano riuscite a superare le difficoltà derivanti dall'articolo 40 del codice penale che così recita: "Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo"; chissà perché l'iniezione letale su richiesta del paziente non va bene, ma lasciare morire di sete è un atto dovuto, se si tratta di una volontà dichiarata precedentemente.
Desta non poca inquietudine la tesi secondo cui la legge da poco approvata dal Parlamento tedesco sarebbe un modello di mediazione cui ispirarsi. Il solo pensiero che per legge le volontà espresse dal paziente siano vincolanti per il medico anche quando ricostruite a posteriori sulla base di semplici testimonianze, il fatto che la volontà del paziente venga fissata in modo arbitrario a dichiarazioni inattuali e decontestualizzate superabili solamente in caso di sopraggiunte innovazioni terapeutiche non previste dal paziente, fanno rabbrividire perché rivelatrici di una paurosa non conoscenza di almeno venti anni di studi clinici che hanno esplorato la reale natura del testamento biologico, pubblicamente accessibili, tra l'altro oggetto di una nostra recente revisione.
Il V congresso nazionale della Società Medico-Scientifica Promed Galileo offrirà l'occasione per cercare di superare un certo sonno della ragione attraverso un confronto aperto tra competenze filosofiche, giuridiche, mediche e politiche di fronte ad una platea di centinaia di medici che interverranno al congresso il prossimo sabato a Pisa.
* Renzo Puccetti è specialista in Medicina Interna e segretario del Comitato "Scienza & Vita" di Pisa-Livorno.
Il «Leone di Münster» - di Oscar Sanguinetti - Il cardinale von Galen diventa beato. Defensor Fidei, per amore della verità e della patria resistette a Hitler. Quando si rischiava la vita opponendosi al nazionalsocialismo.
[Da «il Timone» n. 48, Dicembre 2005]
Se si osservano le immagini delle città rase al suolo, dei vecchi e dei fanciulli inviati al fronte per l’ultima, più accanita, battaglia e se si riflette che la guerra totale prosegue anche dopo la morte del Füher, l’idea di Germania che se ne ricava è quella di un popolo rimasto fedele a oltranza al suo tiranno, anche quando la tragedia della sconfitta ha assunto toni da «caduta degli dei» wagneriana.
Ed è senz’altro vero: ma vero solo in parte.
Senza dubbio l’equivoca idea di nazione e di patria dei nazionalsocialisti, il risentimento per l’ingiustizia dovuta al Trattato di Versailles al termine della prima guerra mondiale e, dopo la svolta della guerra nel 1943, il terrore della vendetta sovietica hanno saldato intorno al regime un insospettabile consenso. Ma tutta questo non basta per affermare che nella Germania hitleriana non vi siano state né un’opposizione, né una Resistenza.
Infatti, se è vero che il potere assoluto hitleriano — che ricerche recenti rivelano peraltro alquanto meno coeso di quanto si supponga — soffocava ogni manifestazione di dissenso, va notato che il nazionalsocialismo è stato sempre un totalitarismo in fieri, cioè non ha avuto il tempo o la forza, come Lenin e Stalin in Russia, di spezzare del tutto la resistenza dei corpi sociali e di invadere ogni ambito della società.
Se Hitler riesce a eliminare l’opposizione politica e sa conquistarsi le classi dirigenti tedesche, egli in realtà deve costantemente confrontarsi — e non sempre riuscendo a reprimerle — con critiche e resistenze interne, provenienti dall’aristocrazia prussiana e tedesca, da alcune comunità evangeliche, dal mondo cattolico, da ambienti militari, da circoli intellettuali.
A mano a mano che il terribile conflitto volge al peggio, quando opporsi diviene ancor più rischioso, queste resistenze prendono sempre più corpo. Quella militare e aristocratica, «per l’onore tedesco», cercherà di eliminare fisicamente il tiranno — scelta che porterà al fallito attentato del 20 luglio 1944 —, la resistenza religiosa e intellettuale invece si sforzerà di dare una testimonianza — è il caso della Rosa Bianca a Monaco —, di minare il consenso al regime oppure — nel caso dei vescovi — di arginarne le decisioni più brutalmente contrarie alla fede e alla morale. Oltre che da magnifiche figure come Rupert Mayer, Alfred Delp, i fratelli Schöll, Dietrich Bonhoeffer, la resistenza religiosa sarà così animata da eroici presuli, come Konrad von Preysing, di Berlino, Michael von Faulhaber, di Monaco e Clemens August von Galen, di Münster.
Quest’ultimo nasce nel 1878 nel castello di Dinklage, nella Bassa Sassonia, da un’antica famiglia nobiliare cattolica. Allievo dei gesuiti, la sua vocazione matura fin dall’adolescenza. Nel 1904 viene ordinato sacerdote a Münster, in Westfalia. Spostato a Berlino, in anni densi di avvenimenti politici, il giovane prete si segnala per la sua intensa azione sociale. Una visione della fede e della Chiesa quanto mai rigorosa, una mentalità prettamente giuridica, l’influenza delle tradizioni familiari lo inducono a militare fra i cattolici conservatori e nazionali.
Nel 1929 torna a Münster e nel 1933 — quando sale al potere Hitler — viene inaspettatamente eletto vescovo della diocesi «monestariensis». Fin da subito, nello stile d’inflessibilità espresso dal motto episcopale che si sceglie — «Nec laudibus, nec timore» —, inizia a protestare contro il regime. Nella sua prima lettera pastorale, nel 1934, ammonisce che l’asserita supremazia dell’elemento razziale è contro le radici stesse della fede cristiana. Fa poi pubblicare Studi sul Mito del XX secolo, che confuta scientificamente Il mito del XX secolo di Alfred Rosenberg, una delle «bibbie» del nazionalsocialismo. Prosegue predicando contro l’assorbimento delle organizzazioni giovanili cattoliche nel partito. Fra il 1936 e il 1938 rinnova instancabilmente la protesta contro le ormai abituali intimidazioni nei confronti della Chiesa, che raggiungono il culmine dopo la pubblicazione, nel 1937, dell’enciclica Mit brennender Sorge di Pio XI.
Con lo scoppio della guerra il suo atteggiamento si fa ancor più intransigente, soprattutto a misura che vede il partito procedere imperterrito all’attuazione del suo tragico programma razzista e totalitario.
Due cose in particolare von Galen non perdona: l’esproprio delle case religiose e la politica eugenetica, a cui dedica le cosiddette «grandi prediche» dell’estate del 1941, all’apogeo della potenza del Terzo Reich.
Nella prima, il 13 luglio, condanna le violenze contro i religiosi, ricorda che la violazione della giustizia fa venir meno la ragion d’essere dello Stato e rigetta l’accusa di indebolire il «fronte interno». Il sabato successivo torna a sfidare il regime con la famosa predica «dell’incudine e del martello», usando questa immagine per denunciare qual era allora la condizione dei cattolici tedeschi. Nell’intervento del 3 agosto si scaglia invece contro i provvedimenti eugenetici e il programma di eutanasia degli handicappati promossi dal governo.
I gerarchi, temendo le reazioni del Papa e dei cattolici westfaliani al fronte, si limitano in un primo momento a coprire il vescovo di contumelie, rimandando la loro vendetta a dopo la «vittoria finale».
Il nazionalsocialismo crolla infine travolto dalla sconfitta e la Germania si trova alle prese con lo spaventoso lascito della guerra: l’occupazione, le violenze sovietiche a Est, l’internamento ai limiti dell’annientamento fisico dei soldati nei campi alleati, le agghiaccianti distruzioni delle città, una crisi economica gravissima e una lacerante «de-nazificazione». Davanti alle immani macerie materiali e morali del suo paese, il «Leone di Münster», offeso dal comportamento degli alleati, tornerà a ergersi in tutta la sua statura morale per condannare le ingiustizie degli occupanti e i crimini dei soldati rossi; Von Galen — memore di quanti tedeschi erano finiti nei Lager nazionalsocialisti —, rigetterà anche l’accusa di «colpa collettiva» rivolta al popolo tedesco, e non tacerà sulla tragedia dei tedeschi orientali, caduti sotto un regime politico peggiore di quello nazionalsocialista.
Nel 1946 il vescovo di Münster si reca a Roma per ricevere il galero cardinalizio da Pio XII, sempre trepido verso la diletta nazione tedesca. Il 16 marzo fa ritorno a Münster, accolto da una folla straripante. Pochi giorni dopo, il 22 marzo, misteriosamente, il Signore lo chiama a sé.
Il 9 ottobre del 2005, dopo il riconoscimento dell’indispensabile miracolo — la guarigione, nel 1995, di un giovane indonesiano di Timor Est, Hendrikus Nahak —, Clemens August cardinal von Galen, vescovo, conte, confessore e martire incruento della fede, è stato proclamato beato nella basilica di San Pietro a Roma, presente alla cerimonia il regnante Pontefice tedesco..
Ricorda
«Lo zelo, con il quale tu, venerabile fratello, tieni viva nei tuoi fedeli la coscienza dell’appartenenza alla Chiesa universale e il legame al vicario di Cristo ci fa bene, e ci fa bene per il vostro bene. Sarebbe fatale se guadagnassero terreno i tentativi di incapsulare i cattolici tedeschi e allontanarli dal Papa. […] Di’ ai tuoi fedeli che noi, negli imponenti accadimenti di questo momento, pensiamo e lavoriamo unicamente per alleviare le devastazioni della guerra, soprattutto quelle spirituali — allontanamento da Dio, odio e crudeltà — e per spianare la strada alla pace; una pace che rispetti la legge di Dio e la libertà della sua santa Chiesa, una pace conciliabile con l’onore, con i diritti e le necessità vitali di tutti i popoli coinvolti, cosi come da noi proclamato nei Messaggi natalizi degli ultimi due anni».
(Lettera di Pio XII al vescovo Von Galen, 16 febbraio 1941).
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L’utopia oltre il muro - Pigi Colognesi lunedì 9 novembre 2009 – ilsussidiario.net
La caduta del muro di Berlino, vent’anni fa, è stato forse l’avvenimento centrale della storia europea del secondo dopoguerra. Sia per le sue conseguenze immediate, la riunificazione della Germania, sia perché è diventata il simbolo di una svolta epocale: la fine dell’influenza sovietica su quella metà del continente che la cortina di ferro aveva innaturalmente isolato dai secolari nessi con l’altra metà.
Il 9 novembre 1989 a Berlino (almeno nella percezione simbolica che ne abbiamo; la realtà storica è ovviamente più complessa) una nuova rivoluzione, fortunatamente pacifica, segnava la fine della rivoluzione, tragica nei suoi esiti, iniziata a Pietroburgo nell’ottobre del 1917. Quell’avvenimento è stato così determinante e decisivo che qualcuno, allora, ha parlato di «fine della storia». L’euforia era alle stelle; e certamente la vita di milioni di persone è cambiata, in meglio.
Ma a vent’anni la percezione di quell’avvenimento è molto diversa. Una recente inchiesta tra i giovani tedeschi mostra una vasta ignoranza su cosa fosse la DDR e, soprattutto, una scarsa voglia di approfondire il passato. In tutti i paesi dell’ex blocco sovietico, Russia compresa, si diffonde la ostalgie, cioè la nostalgia del passato comunista, percepito come privo delle durezze e difficoltà del presente.
Forse è necessario riflettere sul fatto che l’entusiasmo provocato dalla caduta del muro aveva in sé, almeno in parte, un aspetto proprio dell’ideologia di cui si celebrava la fine. Intendo parlare dell’utopismo. Il comunismo realizzato ha sempre dato di sé l’immagine di un paradiso in terra, di una rivoluzione delle strutture sociali ed economiche così radicale e definitiva che il singolo non avrebbe dovuto fare altro che goderne felice. Anche nel più piccolo villaggio sovietico si poteva trovare, oltre che il monumento all’onnipresente Lenin, una statua con giovani operai o contadini o soldati gioiosamente soddisfatti per l’imminente conquista del “sol dell’avvenire”.
Caduto il muro, questa stessa visione utopica è sopravvissuta. Soltanto rovesciata di segno. Sarebbe stata la nuova condizione sociale e politica a garantire automaticamente la “felicità”. Anche in campo religioso si pensò che la fine delle persecuzioni avrebbe spontaneamente significato una rinascita. Ma non poteva essere così; da qui l’inevitabile delusione.
Il cambiamento reale, il cammino verso la felicità è di un altro ordine rispetto ai pur decisivi mutamenti circostanziali. È dell’ordine infinitamente più semplice e reale della vita personale quotidiana; che non si nutre di ideologie utopiche, ma di fatti semplici, concreti, apparentemente banali.
La rivoluzione autentica non si realizza rincorrendo l’abbaglio dell’utopia, che si rivela poi sempre violenta. La rivoluzione, per dirla con Péguy, è «l’effetto ben ordinato di una lunga e invincibile pazienza». Per questo «noi dobbiamo cominciare la rivoluzione sociale dalla rivoluzione morale di noi stessi». Infatti «i grandi uomini d’azione rivoluzionaria sono eminentemente dei grandi uomini di grande vita interiore, dei meditativi, dei contemplativi; non sono gli uomini del “di fuori” che fanno la rivoluzione, ma gli uomini del “di dentro”».
IDEE/ Ecco le grandi domande alle quali filosofi e scienziati non rispondono - Angelo Campodonico lunedì 9 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Si è da poco conclusa l'edizione 2009 del Festival della Scienza di Genova e, tra i numerosi appuntamenti e iniziative, vale la pena riprendere alcuni spunti dal dibattito svoltosi nella sala del minor consiglio del Palazzo ducale, promosso dal Centro Culturale Charles Péguy e da Universitas-University sul tema “Quale futuro per quale scienza. Metodo scientifico e ragione umana”. Hanno partecipato l’astrofisico Marco Bersanelli e chi scrive.
Che cosa è emerso? Nessuna dimensione conoscitiva, neppure la scienza, prescinde dal soggetto che ricerca, come ha mostrato uno scienziato e filosofo del calibro di Michael Polanyi. Le emozioni, in particolare la curiosità e la capacità di stupirsi, sono fondamentali nel tentativo di formulare ipotesi di spiegazione della realtà. Ma il confronto, il dialogo e la discussione con gli altri favoriscono la criticità e l’oggettività nella ricerca della verità. La scienza garantisce oggettività più di altre forme di sapere (poesia, filosofia ecc.), ma non si può dire che i suoi esiti siano più veri e più determinanti di quelli di altre dimensioni e discipline umane. L’equivoco è già all’origine del pensiero moderno: mentre per Galileo, padre del metodo sperimentale, la scienza non coincide con tutto il sapere e non è neppure il paradigma metodologico di ogni sapere, a partire da filosofi come Hobbes ogni sapere diverso dalla scienza deve conformarsi al paradigma scientifico.
Proprio perché la scienza per costituirsi come tale ritaglia aspetti e prospettive sulla realtà, grazie all’intervento di strumenti di misurazione, essa può essere più oggettiva su aspetti parziali, ma meno decisivi per l’uomo. Altre dimensioni e discipline (per esempio la poesia e la filosofia) trattano di aspetti e prospettive ineludibili e fondamentali, anche se più dibattuti, perché connessi con qualcosa che ci interessa in prima persona: il senso della vita. La filosofia, in particolare, si sofferma sulla totalità di un singolo essere e sulla totalità dell’essere nel suo complesso (cioè sul suo senso). L’uomo, per esempio, può essere oggetto di molteplici scienze. Non potremmo capirlo se provassimo a ridurlo alle sue componenti atomiche. Ma l’interdisciplinarietà non basta, anche se è importante per conoscerlo. Occorre, invece, una prospettiva sull’uomo nella sua totalità e ciò significa necessariamente considerarlo nella prospettiva della totalità dell’essere: che cosa ci stiamo a fare nell’universo? «Ed io che sono?» (Leopardi). Anche sostenere che non c’è una risposta a queste domande è già porsi su un piano filosofico e non meramente scientifico. Pure la cosmologia lascia aperti problemi metafisici sull’origine e senso ultimo dell’universo. Non è detto che l’essere nella sua totalità comprenda solo ciò che la scienza ci documenta e che si può osservare e verificare. Inoltre la pratica della scienza stessa implica che la realtà sia conoscibile, che vi sia una corrispondenza fra la nostra ragione e la realtà. Essa apre, quindi, inevitabilmente ad altre dimensioni quali la filosofia e la teologia.
D’altro lato non è vero, per esempio, che la filosofia non sia rigorosa e che non faccia progressi che pure le scienze riconoscono. Nel caso dei neuroni specchio, per esempio, sono state confermate intuizioni di fenomenologi come Husserl o Merleau Ponty. Per capire chi è l’uomo occorre in primo luogo osservare quali sono le sue reali capacità senza prima ridurle per meglio spiegarle sul piano scientifico. Alla base della stessa pratica scientifica v’è sempre il presupposto della conoscenza di noi e degli altri come realtà psicocorporee con cui interagiamo e dialoghiamo e che è oggetto di riflessione filosofica.
Un compito incombe, quindi, sulla razionalità umana: tenere insieme molteplici aspetti data l’ampiezza degli ambiti che è chiamata ad abbracciare, aspetti che talora sono stati evidenziati meglio nel passato. Non si sbaglia mai in filosofia e in genere nella vita perché si afferma qualcosa di radicalmente errato, ma perché si assolutizza un particolare: «Un uomo non può mai sbagliarsi completamente. C’è sempre qualcosa di vero nella sua conoscenza» (Kant). Di qui l’urgenza di educare l’intelligenza ad integrare molteplici aspetti. In quanto uomo, anche lo scienziato è chiamato, in un secondo momento, a ricomporre l’essere che ha oggettivato per meglio conoscerlo, svolgendo il cammino inverso rispetto a quello del metodo scientifico. L’unità delle scienze è innanzitutto, quindi, problema di unità della persona. Lo scienziato è anche un uomo e, quindi, in certa misura, anche un filosofo. Può essere un buon o un cattivo filosofo, cioè un ideologo, per esempio quando fa della divulgazione. Per unificare la vita ed il sapere è importante dare più peso (amare di più) a ciò che possiamo conoscere in maniera meno esauriente, ma è più determinante per la nostra vita. Come affermava Aristotele che ne Le parti degli animali, esaltando la conoscenza precisa della natura infima, valorizzava ancor di più quella più imprecisa delle realtà celesti «come una visione pur fuggitiva e parziale della persona amata ci è più dolce che un’esatta conoscenza di molte altre cose…».
Che la scienza e la tecnologia non costituiscano l’ultima istanza di giudizio traspare dal fatto che pure il problema morale del bene e il male si radica nell’esperienza umana prescientifica (che sempre precede e accompagna la stessa ricerca scientifica). L’esperienza umana, in ultima analisi, non può non giudicare anche la scienza e la tecnologia, perché queste nonostante i loro successi, non possono per loro natura fornire criteri morali. Esse ci offrono dei dati oggi imprescindibili, perché occorre essere bene informati per ben giudicare (e questo è un problema morale), ma non ci dicono mai che cosa sia bene e che cosa sia male. I progressi vertiginosi della tecnoscienza possono suggerire l’illusione che vi sia una conoscenza oggettiva “automatica” che ci dispensa dal confronto con la nostra coscienza. Contrariamente a quanto spesso si pensi la bioetica è più etica che scienza.
Lo scienziato, ma neppure l’attrice intervistata sono più competenti in campo morale di qualunque uomo. Anche se lo scienziato conosce meglio i dati, potrebbe essere un uomo dimezzato. Ciò vale anche per il filosofo. Il filosofo morale non è necessariamente più “morale”.
Spesso capita di sentire giudizi rozzi in campo religioso e politico da parte di scienziati e filosofi, di persone cioè che sono molto competenti e capaci di criticità in certi settori. La cosa, a ben vedere, non è strana. È un vizio dell’intelligenza quello di impegnarsi unilateralmente in ambiti specifici e affidarsi pigramente ad una fede acritica in altri campi. Come notava Wittgenstein, non v’è conoscenza senza presupposti. Ci affidiamo facilmente ad un fede acritica, quando impieghiamo tutte le nostre energie razionali in certi ambiti che ci danno soddisfazione e successo. Ma allora viene facilmente meno l’unità dell’uomo e, quindi, del suo sapere. Dal momento che non possiamo fare a meno di una fede, cioè d’infondere senso e unità alla nostra vita, la nostra fede dev’essere il meno acritica possibile.
Per affrontare i drammatici problemi etici posti dalla tecnologia, intimamente intrecciata al potere economico e che sembra suggerire che «tutto ciò che si può fare, si deve fare», non ci si può affidare passivamente alla stessa tecnologia, né solo a procedure “scientifiche” di risoluzione dei conflitti. Occorre cercare soluzioni il più possibili condivise sulla base di un confronto tenace con le fondamentali istanze umane. Di qui l’urgenza di educare ad una sensibilità umana integrale a partire dagli stessi ambiti in cui si comunica il sapere scientifico e tecnologico come la scuola e l’università.