venerdì 13 novembre 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) UNA PRESENZA IRRIDUCIBILE - A proposito della sentenza della Corte europea sui crocifissi – volantino di Comunione e Liberazione
2) L’essere umano non è mai riducibile al solo corpo - Monsignor Zygmunt Zimowski ha aperto l’anno accademico del “Camillianum” - di Antonio Gaspari
3) "Il farmacista di Auschwitz" di Dieter Schlesak - Agghiacciati di fronte alla banalità del male - di Gaetano Vallini - L'Osservatore Romano - 13 novembre 2009
4) I diritti umani capovolti - Autore: Spinelli, Stefano Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 11 novembre 2009

UNA PRESENZA IRRIDUCIBILE - A proposito della sentenza della Corte europea sui crocifissi – volantino di Comunione e Liberazione
La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo contro i crocifissi nelle aule scolastiche ha suscitato una vasta eco di proteste: giustamente quasi tutti gli italiani - l’84% secondo un sondaggio del Corriere della Sera - si sono scandalizzati della decisione.

«E voi chi dite che io sia?». Questa domanda di Gesù ai discepoli ci raggiunge dal passato e ci sfida ora.
Quel Cristo sul crocifisso non è un cimelio della pietà popolare per il quale si può nutrire, al massimo, un devoto ricordo.
Non è neppure un generico simbolo della nostra tradizione sociale e culturale.
Cristo è un uomo vivo, che ha portato nel mondo un giudizio, una esperienza nuova, che c’entra con tutto: con lo studio e il lavoro, con gli affetti e i desideri, con la vita e la morte. Un’esperienza di umanità compiuta.
I crocifissi si possono togliere, ma non si può togliere dalla realtà un uomo vivo. Tranne che lo ammazzino, come è accaduto: ma allora è più vivo di prima!

Si illudono coloro che vogliono togliere i crocifissi, se pensano di contribuire così a cancellare dallo “spazio pubblico” il cristianesimo come esperienza e giudizio: se è in loro potere - ma è ancora tutto da verificare e noi confidiamo che siano smentiti - abolire i crocifissi, non è nelle loro mani togliere dei cristiani vivi dal reale.
Ma c’è un inconveniente: che noi cristiani possiamo non essere noi stessi, dimenticando che cos’è il cristianesimo; allora difendere il crocifisso sarebbe una battaglia persa, perché quell’uomo non direbbe più nulla alla nostra vita.

La sentenza europea è una sfida per la nostra fede. Per questo non possiamo tornare con tranquillità alle cose solite, dopo avere protestato scandalizzati, evitando la questione fondamentale: crocifisso sì, crocifisso no, dov’è l’avvenimento di Cristo oggi? O, detto con le parole di Dostoevskij: «Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?».

Novembre 2009
Comunione e Liberazione


L’essere umano non è mai riducibile al solo corpo - Monsignor Zygmunt Zimowski ha aperto l’anno accademico del “Camillianum” - di Antonio Gaspari
ROMA, giovedì, 12 novembre 2009 (ZENIT.org).- “Il corpo di un essere umano, fin dai suoi primi stadi di esistenza, non è mai riducibile all’insieme delle sue cellule”. E’ quanto ha ribadito ieri 11 novembre, monsignor Zygmunt Zimowski, Presidente del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, all'Istituto Internazionale di Teologia Pastorale Sanitaria “Camillianum” nell’apertura del nuovo anno accademico.

Il Presidente del Pontificio Consiglio ha sottolineato che “ad ogni essere umano, dal concepimento alla morte naturale, va riconosciuta la dignità della persona” e questo principio della dignità è talmente fondamentale che deve richiamare a un grande “Si” alla vita umana.

Pertanto, il sì alla vita umana “deve essere posto al centro della riflessione etica sulla ricerca biomedica che riveste un’importanza sempre maggiore nel mondo di oggi”.

Monsignor Zimowski ha spiegato che le scienze mediche hanno sviluppato in modo considerevole le loro conoscenze sulla vita umana negli stadi iniziali della sua esistenza, fino a conoscere meglio le strutture biologiche dell’uomo e il processo della sua generazione.

“Questi sviluppi – ha affermato – sono certamente positivi e meritano di essere sostenuti, quando servono a superare o a correggere patologie e concorrono a ristabilire il normale svolgimento dei processi generativi”.

“Ma - ha rilevato -, ed è quanto va detto con ogni chiarezza, essi sono invece negativi, e pertanto non si possono condividere quando implicano la soppressione di esseri umani o usano mezzi che ledono la dignità della persona oppure sono adottati per finalità contrarie al bene integrale dell’uomo”.

Il Presidente del Pontificio Consiglio ha spiegato che “la grande sfida della vita umana riguarda anzitutto e soprattutto il suo inizio” e che c’è un tentativo di spostare l’inizio della vita dal concepimento all’impianto e ciò significherebbe un “pieno nulla osta etico per l’aborto, poiché si impiegano circa 15 giorni dal momento della fecondazione dell’ovulo fino al momento all’impianto nell’utero materno”.

Riprendendo le parole di Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte, monsignor Zimowski ha precisato che la Chiesa deve svolgere un compito di radicalità evangelica senza timore delle critiche perchè la difesa della vita è “nell’agenda ecclesiale della carità” e risponde al “dovere di impegnarsi per il rispetto di ciascun essere umano dal concepimento fino al suo naturale tramonto”.

“Allo stesso modo - ha commentato poi -. il servizio all’uomo ci impone di gridare, opportunamente e importunamente, che quanti s’avvalgono delle nuove potenzialità della scienza, specie sul terreno della biotecnologia, non possono mai disattendere le esigenze fondamentali dell’etica, appellandosi magari ad una discutibile solidarietà che finisce per discriminare tra vita e vita, in spregio della dignità propria di ogni essere umano”.

In questo contesto l’illustre prelato ha affermato che la vita dell’uomo sta al cuore del messaggio di Cristo, perchè “è l’Uomo, grande e meravigliosa figura vivente, più prezioso agli occhi di Dio che tutta la creazione: è l’Uomo, è per lui che esistono il cielo e la terra e il mare e la totalità della creazione, ed è alla sua salvezza che Dio ha dato tanta importanza da non risparmiare, per lui, neppure il suo Figlio Unigenito”.

“Nel piano di Dio-Creatore - ha aggiunto -, tutto è stato creato per l’uomo, ma l’uomo è stato creato per servire Dio e per offrirgli tutta la creazione” e per questo la difesa della vita intesa come carità “è necessariamente al servizio della cultura, della politica, dell’economia, della famiglia, perché dappertutto vengano rispettati i principi fondamentali dai quali dipende il destino dell’essere umano ed il futuro della civiltà”.


"Il farmacista di Auschwitz" di Dieter Schlesak - Agghiacciati di fronte alla banalità del male - di Gaetano Vallini - L'Osservatore Romano - 13 novembre 2009
"Sono stata deportata con i miei genitori e mia sorella ad Auschwitz nel giugno del 1944. Arrivammo che era buio... dovevano essere le tre o le quattro. I lampioni erano ancora accesi. Entrambi i miei genitori conoscevano da tempo il dottor Capesius, che si presentava spesso nel loro studio quale rappresentante dei prodotti della IG-Farben. Quando mia madre vide l'ufficiale che si occupava della selezione dei prigionieri, disse: "Ma quello è il dottor Capesius di Klausenburg". Io credo che lui allora abbia riconosciuto mia madre, perché fece un cenno di saluto con la mano. Ma poi spedì a sinistra, nel gas, mia madre e mia sorella, io invece fui mandata a destra, cosicché potei vivere. Più tardi ho incontrato un conoscente che era accanto a mio padre alla selezione. Mi raccontò che mio padre aveva salutato Capesius e gli aveva chiesto dove fossero sua moglie e la sua figlioletta di undici anni. E Capesius gli avrebbe risposto: "Mando anche lei là dove si trovano sua moglie e la sua bambina, è un bel posto"".
L'agghiacciante testimonianza della dottoressa Adrienne Krausz, riportata da Dieter Schlesak nel libro Il farmacista di Auschwitz (Milano, Garzanti, 2009, pagine 446, euro 18,60), descrive efficacemente il protagonista di questo romanzo-documento, un uomo che incarna alla perfezione quella che Hannah Arendt aveva identificato come "la banalità del male". Viktor Capesius dal 1943 è il farmacista della più gigantesca fabbrica della morte della storia dell'umanità. Sulla famigerata banchina dove giungono i convogli carichi di ebrei, seleziona personalmente le vittime, fa loro lasciare i bagagli e le manda a morire. Ed è sempre lui a distribuire i barattoli di Zyklon b che viene immesso nelle camere a gas.
Fra le persone che destina alla morte con inumana indifferenza ci sono non soltanto persone a lui sconosciute, ma anche alcuni suoi antichi vicini di casa a Sighisoara, gli stessi che in una fotografia del 1929 lo circondano sorridenti nella scuola di nuoto della cittadina romena, la Schässburg dell'impero austroungarico. Sono suoi compaesani, come Ella Salomon, che da ragazzina entrava nella sua farmacia per ricevere una caramella o un bloc-notes in regalo e che rivede arrampicarsi alla piccola feritoia del vagone deportati alla ricerca di un po' di aria; conoscenti come il dottor Mauritius Berner, che appena arrivato al campo si vede strappare dalle braccia le sue gemelline di soli sei anni, mute e atterrite, che moriranno poche ore dopo con la mamma soffocate dal gas, e al quale dice come fosse la cosa più normale del mondo: "Andate soltanto a fare un bagno, fra un'oretta vi rivedrete tutti".
È un libro durissimo, crudo, quello di Schlesak, che presenta un solo personaggio inventato: Adam, colui che in qualche modo fa da voce narrante in un crescendo di testimonianze e resoconti allucinanti, tratti da verbali di interrogatori e dalle udienze al processo ai carnefici di Auschwitz svoltosi nel 1964 a Francoforte. A lui - deportato costretto a far parte del Sonderkommando, un uomo che custodisce ricordi che sono come "bestie nere", che gli stanno alle costole, e ridono, e ghignano, ogni notte, atrocemente - lo scrittore affida le sue riflessioni.
Nato anch'egli nella transilvana Schässburg-Sighisoara, Schlesak conosce bene Victor Capesius. La sua trasformazione in mostro diviene oggetto di studio. Del resto nessuno avrebbe potuto farlo meglio di lui, "notevolissimo scrittore che ha vissuto - come rileva Claudio Magris nella interessante prefazione al libro - le contraddizioni della sua identità di autore di lingua tedesca in Romania come un destino di frontiera. Non certo solo quella geopolitica della sua vicenda personale, bensì la frontiera esistenziale che nella storia contemporanea attraversa e divide così spesso non soltanto i territori, ma anche e soprattutto le persone, il loro cuore e la loro intelligenza".
Per Schlesak, come per il grande poeta tedesco Paul Celan, nato in Bucovina, che perse la mamma proprio ad Auschwitz, la madrelingua diviene la lingua degli assassini. Ma non riesce a rinnegarla. "È comunque la mia madrelingua! - fa dire ad Adam - l'ho difesa anche là. Anche nel campo di concentramento io non la odiavo come i miei compagni polacchi, russi, francesi. E scrivevo in tedesco. Tacere non era bene". E spiega: "Sono convinto che sia l'unica lingua che può colpire il centro (...) Non perché sia la mia madrelingua, no, ma per recuperare il dono perduto di parlare di Dio, perché certamente Dio a partire da Auschwitz si è ritratto dall'ambito dell'esperienza umana. E un ritorno dovrebbe provenire dall'idioma stesso della morte".
Un ritorno che lo scrittore vuole dunque far passare anche attraverso la narrazione di ciò che molti hanno definito indicibile, ma che pure deve essere raccontato. E lo fa ricostruendo la "metamorfosi infame" di Capesius, secondo l'efficace definizione di Magris, attraverso la quale l'idillio di provincia diviene "il più atroce e fetido mattatoio della storia", in cui "i commensali di liete tavolate domenicali nelle colline transilvane si dividono in assassini e assassinati".
Per mezzo di quell'anonimo farmacista, arruolatosi come ufficiale nelle ss, Schlesak cerca una spiegazione a come sia stato possibile lo sterminio di milioni di uomini. Soprattutto cerca di capire come un uomo normale possa essersi trasformato, al pari di migliaia di altri, in "volenteroso carnefice", per dirla con Daniel Goldhagen.
Convinto di comportarsi da buon tedesco, Capesius è diligente nell'eseguire gli ordini che gli vengono impartiti, perché, come dice lui stesso al processo, "non si poteva fare altrimenti". E comunque manca il senso della colpa. "Sempre di nuovo questo urto fra la normale vita quotidiana - racconta Adam - e ciò che incarna, che è effettivamente l'uniforme delle ss. Con il suo modo di fare gioviale, Capesius agiva sempre come se non fosse successo niente, come se tutto fosse assolutamente normale". È indubbiamente un uomo che ha difficoltà a capire il male che si sta compiendo e che lui contribuisce a compiere. "Io - risponde al giudice che gli chiede se quanto accadeva ad Auschwitz gli sembrasse illegale - sono cresciuto in Transilvania, con la più grande venerazione per il germanesimo. Nella casa paterna lo stato tedesco mi fu presentato come stato modello. Mio padre, in particolare, mi ha sempre spiegato che la Germania è un modello di ordine e di legalità. Sulla base di questo atteggiamento ho ritenuto che ciò che accadeva ad Auschwitz fosse legale, benché mi sembrasse crudele (...) Io non ho mai pensato che in Germania fosse possibile una cosa del genere senza una legge corrispondente".
Per Capesius, dunque, non si può scegliere, bisogna obbedire; e comunque lo sterminio non può essere in discussione se ad attuarlo è la Germania. "Non prova neppure sentimenti di colpa o di rifiuto e di orrore per ciò che ha visto e a cui ha partecipato. Lui - si legge - ha dovuto partecipare, e basta. Ricorda sempre e solamente il comando, l'ordine, il regolamento e le date, e i numeri, e il calendario. Rammenta solo dettagli burocratici univoci e comprensibili: per lui sono tutta la realtà".
Ma certamente dopo la guerra, sfuggito temporaneamente alla giustizia, gode di alcuni vantaggi tratti dalla sua permanenza ad Auschwitz. "Durante le mie ore di lavoro - racconta un deportato selezionato per il lavoro nella farmacia del campo - guardavo cosa facesse e ho visto che Capesius selezionava gli oggetti più preziosi e i pezzi di maggior pregio, li infilava nelle valigie di cuoio migliori e più tardi le portava via con sé (...) Del resto noi dovevamo ripartire i medicinali in diverse stanze. In una di queste notai venticinque, quaranta valigie con migliaia di singoli denti strappati via e intere protesi. Questi denti provenivano da prigionieri uccisi nelle camere a gas". Come altri, quindi, anch'egli si appropria dei beni dei deportati assassinati. Protesi d'oro, in particolare. E con quell'oro insanguinato dopo la guerra si ricostruisce una vita rispettabile e più che agiata a Stoccarda, dove apre una farmacia e un salone di bellezza, si sposa e ha tre figlie. Dopo un primo arresto senza conseguenze penali nel 1948, viene riarrestato nel 1959 e al processo è condannato a nove anni di carcere. Muore a Göppingen il 20 marzo 1985.
Ripercorrendo la vicenda del dottor Capesius, nella quale compaiono personaggi tristemente noti, come "l'angelo della morte" Josef Mengele, "l'assassino per bene" Fritz Klein e il comandante del campo Rudolf Höss, lo scrittore ricostruisce la terrificante storia di Auschwitz: il trauma dell'arrivo, lo strazio delle selezioni, l'orrore delle gassazioni e delle cremazioni; crimini che non hanno bisogno di iperboli per essere raccontati. Per questo Schlesak scrive con uno stile asciutto, quasi con il distacco del cronista, consegnandoci un'altra impressionante testimonianza sulla banalità del male. Un libro che conferma quando a volte la verità sia più inimmaginabile della più orribile fantasia.
(©L'Osservatore Romano - 13 novembre 2009)


I diritti umani capovolti - Autore: Spinelli, Stefano Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 11 novembre 2009
Sulla questione del crocifisso molto è già stato detto (anche su questo sito ed anche prima dell’affondo poi venuto dalla corte europea dei diritti umani).
Vorrei quindi porre l’attenzione su di una questione più generale: il (preteso) nuovo diritto al rispetto delle convinzioni religiose e filosofiche della singola persona, considerato come diritto assoluto ed opponibile a chiunque altro, in modo da limitare e restringere le possibili manifestazioni esteriori della libertà religiosa altrui.
Ancora una volta paiono rovesciati i criteri di giudizio. La nostra costituzione, all’art. 19, tutela il diritto alla libertà religiosa, che implica anche la libertà di fare testimonianza e di manifestare all’esterno, in forma singola o associata, in privato ed anche in ambienti pubblici, la propria fede. Ovvio che detta libertà venga salvaguardata anche attraverso l’utilizzo e l’esposizione di simboli che quella fede rappresentano. La medesima tutela viene peraltro affermata dall’art. 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ed anche dall’art. 9 della stessa Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (CEDU).
La corte europea ha invece statuito che “la presenza del crocifisso può facilmente essere interpretata da alunni di tutte le età come un simbolo religioso ed essi si sentiranno educati in un ambiente scolastico caratterizzato da una data religione. Ciò che può essere incoraggiante per certi alunni religiosi, può turbare sentimentalmente (peut etre perturbant emotionnellement) alunni di altre religioni o chi non professa alcuna religione”. Essa reputa violato proprio l’art. 9 CEDU sulla libertà religiosa, in combinato disposto con l’art. 2 del Protocollo 1 della CEDU, sul diritto all’istruzione, per il quale “lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di provvedere a tale educazione e a tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche”. La sentenza continua poi sostenendo che “l’esposizione di uno o più simboli religiosi non può giustificarsi neppure su domanda di altri genitori che sperano in una educazione religiosa conforme alle loro convinzioni… Il rispetto delle convinzioni dei genitori in materia d’educazione deve tener conto del rispetto delle convinzioni degli altri genitori. Lo Stato è tenuto alla neutralità confessionale nell’ambito dell’educazione pubblica… la quale deve cercare di inculcare agli alunni un pensiero critico (inculquer aux élèves une pensée critique)”.
Come si vede, la corte europea fonda il proprio convincimento sul concetto di rispetto, ma diverso da quello comunemente inteso; non rispetto di una libertà religiosa comune a tutti ed affermata al fine di rendere possibile quella altrui; bensì di una singola libertà religiosa, affermata come personale ed assoluta, la cui salvaguardia diventa capace di negare o limitare quella altrui.
Si capovolge la natura stessa dei diritti umani. Di solito questi vengono espressi in positivo in modo che – riconosciuti a tutti – questi siano poi esistenti anche per ciascuna singola persona. Qui invece si parte dal diritto riconosciuto al singolo, per negare quello di tutti gli altri, in virtù di un (anch’esso preteso) principio di neutralità.
Vi è quindi l’accoglimento di un diverso criterio di libertà religiosa: non più apertura ad ogni manifestazione religiosa esterna, anche in pubblico e con l’utilizzo dei propri simboli, ciascuna secondo la vivacità culturale e la presenza sul territorio che la caratterizza; bensì chiusura rispetto ad ogni presenza religiosa esterna, anche simbolica, per non “turbare sentimentalmente” la religione interna di ciascuno (è questa, ad esempio, la deriva culturale di diversi ordinamenti, tra cui quello francese, ove si tende a proibire ogni simbolo religioso).
Mentre la prima impostazione è inclusiva, parte cioè dall’accoglienza altrui e rispetta la libertà religiosa assicurandola a tutti, la seconda è esclusiva e per affermarsi chiede un rispetto assoluto della propria singolarità. Ma dove porta questa forma di neutralità? La sua affermazione nell’ordinamento ha potenzialità dirompenti: si è partiti dall’educazione, ma si pensi ad una processione su una pubblica via o una piazza, che potrebbe “turbare” un singolo passante e la sua particolare coscienza di fede o filosofica; si pensi ad una messa pubblica (anche quelle di inizio o fine anno scolastico, già si trovano impedimenti burocratici per limitarle); si pensi alla partecipazione delle istituzioni a celebrazioni religiose (si dovrebbe impedire che i sindaci con la fascia tricolore possano parteciparvi); si pensi al segno della croce dello sportivo al traguardo, ripreso dalla televisione pubblica (si dovrebbe emanare un regolamento per sanzionare chi lo faccia); e quanti altri esempi si possono fare?
Ecco il punto. Sotto un falso concetto di rispetto umano viene ricondotto il tentativo di sopprimere definitivamente ogni dimensione religiosa nell’uomo.
Dietro una facciata di crescita democratica si nasconde un pericoloso cedere ad altri (al preteso custode del cd. pensiero critico) il criterio di giudizio della nostra vita.

Avv. Stefano Spinelli
Presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Sezione di Forlì Cesena


I protagonisti della nuova Europa - Mario Mauro venerdì 13 novembre 2009 – ilsussidiario.net
Con la ratifica del Trattato di Lisbona da parte di tutti gli Stati membri siamo usciti dalla paralisi istituzionale aprendo la strada di un sicuro rafforzamento dell’efficacia e della democraticità dell’Unione europea. Il potenziale offerto dal nuovo Trattato è enorme. Tocca a noi sfruttarlo nel modo migliore.



Un Presidente stabile guiderà per due anni e mezzo il Consiglio dei Ministri. Ovviamente questi non dovrà svolgere un ruolo autoritario ma dovrà basarsi su un'incessante cooperazione e collegialità con i vari Stati membri. L'intento è chiaramente quello di assicurare una maggior coerenza nel preparare e seguire la continuità dei vertici del Consiglio.



È chiaro che gli obiettivi ambiziosi richiedono che il ruolo sia ricoperto da personalità che, innanzitutto, abbiano una rilevanza politica nazionale e internazionale tali da riuscire a sostenerne il peso. Il Nuovo Trattato stabilisce che il Presidente «presiede e anima i lavori del Consiglio europeo» e «assicura la preparazione e la continuità dei lavori del Consiglio europeo». Inoltre, «il Presidente del Consiglio europeo assicura, al suo livello e in tale veste, la rappresentanza esterna dell'Unione per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune»



Il futuro presidente, insieme con il nuovo Ministro degli esteri, avranno dunque un ruolo chiave nel determinare la politica dell'Unione e nelle relazioni con la comunità internazionale. La prima investitura avrà un peso simbolico maggiore, sia per i cittadini dell'Unione europea sia per l'immagine dell'Unione nel mondo. Queste persone avranno il compito di mettere la potenza economica, umanitaria, politica e diplomatica dell’Europa al servizio dei suoi interessi e valori in tutto il mondo, pur rispettando gli interessi particolari degli Stati membri in politica estera.



Si rivela indispensabile quindi che vengano scelte personalità che incarnano lo spirito e i valori del progetto europeo, qualcuno che sappia assicurare all'Europa il ruolo da protagonista delle relazioni internazionali che, per diventare effettivo, non può non passare da una riaffermazione degli ideali propri dei suoi fondatori, unico vero elemento unificante e quindi dirompente sulla scena mondiale.



Come tutti sanno Massimo D’Alema potrebbe andare a ricoprire la carica di Ministro degli esteri. Un uomo il cui spessore è riconosciuto da tutti, ma che ha suscitato qualche dubbio in merito ad alcune posizioni su dossier chiave. Il collega Elmar Brock, ad esempio, ha chiesto chiarimenti sulla questione israeliana.



Qualora si dovesse propendere per un Ministro degli esteri popolare, nella lista dei papabili metterei l’estone Vika Freiberg o l’inglese Kathrin Ashton. Uno scenario inedito ma da non escludere, sarebbe quello di un Tony Blair che converge sulla carica di Ministro degli esteri al posto di quella di presidente del Consiglio.

Per quanto riguarda la carica di Presidente del Consiglio, i nomi che ci sono sul piatto sono arcinoti, l’attuale Primo Ministro belga Van Rompuy mi sembra la persona più adeguata. È vero, non è notissimo a livello internazionale, ma se andassimo ad analizzare quello che sta facendo in patria capiremmo che potrebbe essere davvero l’uomo giusto. E se lui non accetterà la presidenza lo farà soltanto per il bene del suo paese, ma rimarrà comunque il modello da seguire.



Il Belgio fino a pochissimi mesi fa, dopo essere stato immerso in una crisi politico-istituzionale che pareva non avere vie d’uscita, sembrava essere addirittura sull’orlo della secessione. Van Rompuy è l’uomo della stabilizzazione, colui che ha rimesso insieme il popolo belga nel momento di massima divisione. Oltre ad essere un uomo di spessore umano e politico, Van Rompuy è anche un grande economista. È stato Presidente della banca Centrale belga e Ministro delle finanze. In quel periodo è stato protagonista di un clamoroso risanamento dei conti pubblici con una riduzione del debito senza precedenti.



L'Ue non è un blocco monolitico ma il risultato delle azioni di uomini e che, in quanto tale, per vivere è chiamata a rinnovarsi nel tempo. L'Europa deve ripartire dai valori su cui è stata creata, dai buoni risultati finora raggiunti e da una buona dose di realismo. Il nuovo Presidente dovrà avere il carisma e il coraggio di guardare in questa direzione.