Nella rassegna stampa di oggi:
1) Papa: Emmaus, Gesù risorto si fa compagno di viaggio per rafforzare la nostra fede in crisi
2) MESSAGGIO DEL VESCOVO MONS. LUIGI NEGRI AL CLERO, AI RELIGIOSI E AL POPOLO DI DIO DI QUESTA CHIESA PARTICOLARE, NELL’IMMINENZA DELLE ELEZIONI POLITICHE ITALIANE.
3) UDIENZA AI PARTECIPANTI AL CONGRESSO INTERNAZIONALE PROMOSSO DAL PONTIFICIO ISTITUTO GIOVANNI PAOLO II PER STUDI SU MATRIMONIO E FAMIGLIA, DELLA PONTIFICIA UNIVERSITÀ LATERANENSE - DISCORSO DEL SANTO PADRE
4) IL PAPA: PERCHÉ IL NO AD ABORTO, DIVORZIO, EUTANASIA - I sì della Chiesa alle persone ferite del nostro tempo
5) Sì Juno, no Alitalia, qualche urlo, tanta gente e vita nella sala francescana
6) Il Foglietto – L’ultima di Rosy Bindi
7) Oremus et pro Iudaeis", di Gianfranco Ravasi
8) Deforme una ragazza incinta? No, lo sguardo storto di un’altra donna, di Marina Corradi
06/04/2008 12:15
VATICANO
Papa: Emmaus, Gesù risorto si fa compagno di viaggio per rafforzare la nostra fede in crisi
Benedetto XVI sottolinea che “oggi” si può incontrare Gesù risorto nella celebrazione eucaristica, alla mensa della Parola e del Corpo e del Sangue di Cristo. Un saluto ai partecipanti del primo Congresso sulla Divina Misericordia, conclusosi stamane e l’invito a essere nel mondo testimoni della Misericordia di Dio, “sorgente di speranza per ogni uomo”.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Il racconto evangelico dei discepoli “sconfortati” e “delusi” di Emmaus sono un messaggio per tutti i cristiani: attraverso l’incontro con Gesù risorto, essi possono tornare a una “fede robusta” che “si nutre non di idee umane, ma della Parola di Dio e dell’Eucaristia”. È il commento di Benedetto XVI al vangelo di questa domenica – la terza di Pasqua - dove si racconta (cfr. Lc 24,13-35) “di due seguaci di Cristo i quali, nel giorno dopo il sabato, cioè il terzo dalla sua morte, tristi e abbattuti lasciarono Gerusalemme diretti ad un villaggio poco distante chiamato, appunto, Emmaus. Lungo la strada si affiancò ad essi Gesù risorto, ma loro non lo riconobbero. Sentendoli sconfortati, egli spiegò, sulla base delle Scritture, che il Messia doveva patire e morire per giungere alla sua gloria. Entrato poi con loro in casa, sedette a mensa, benedisse il pane e lo spezzò, e a quel punto essi lo riconobbero, ma lui sparì dalla loro vista, lasciandoli pieni di meraviglia dinanzi a quel pane spezzato, nuovo segno della sua presenza. E subito i due tornarono a Gerusalemme e raccontarono l’accaduto agli altri discepoli”.
Gli archeologi della Terra Santa non hanno ancora individuato con precisione questa località e si fanno almeno 3 ipotesi. Per il papa, questo ha un valore suggestivo: Emmaus è in realtà “ogni luogo, la strada che vi conduce è il cammino di ogni cristiano, anzi, di ogni uomo. Sulle nostre strade Gesù risorto si fa compagno di viaggio, per riaccendere nei nostri cuori il calore della fede e della speranza e spezzare il pane della vita eterna”.
Il pontefice commenta le parole usate da uno dei discepoli (“Noi speravamo…”), esempio di una fede in crisi e delusa: “Questo verbo al passato dice tutto: Abbiamo creduto, abbiamo seguito, abbiamo sperato…, ma ormai tutto è finito. Anche Gesù di Nazaret, che si era dimostrato profeta potente in opere e in parole, ha fallito, e noi siamo rimasti delusi. Chi non ha sperimentato nella vita un momento come questo? A volte la stessa fede entra in crisi, a causa di esperienze negative che ci fanno sentire abbandonati e traditi anche dal Signore”.
Il racconto di Emmaus suggerisce invece che è possibile un incontro con Gesù risorto “anche oggi”. “Anche oggi – aggiunge il papa a braccio – Gesù ci parla nella Scrittura ; anche oggi Gesù ci dona il suo Corpo e il suo Sangue”. Ll’incontro con Cristo Risorto – egli continua - ci dona una fede più profonda e autentica, temprata, per così dire, attraverso il fuoco dell’evento pasquale; una fede robusta perché si nutre non di idee umane, ma della Parola di Dio e dell’Eucaristia”.
“Questo stupendo testo evangelico – conclude Benedetto XVI - contiene già la struttura della Santa Messa: nella prima parte l’ascolto della Parola attraverso le Sacre Scritture; nella seconda la liturgia eucaristica e la comunione con Cristo presente nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Nutrendosi a questa duplice mensa, la Chiesa si edifica incessantemente e si rinnova di giorno in giorno nella fede, nella speranza e nella carità. Per intercessione di Maria Santissima, preghiamo affinché ogni cristiano ed ogni comunità, rivivendo l’esperienza dei discepoli di Emmaus, riscopra la grazia dell’incontro trasformante con il Signore risorto”.
Dopo la preghiera del Regina Caeli, il papa ha ricordato ancora gli organizzatori del primo Congresso mondiale Divina Misericordia, conclusosi oggi con una messa nella basiica di san Pietro, presieduta dal card. Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna. “A tutti i partecipanti - ha aggiunto il pontefice - rivolgo il mio cordiale saluto, che diventa ora unna consegna: andate e siate testimoni della misericordia di Dio, sorgente di speranza per ogni uomo e per il mondo intero. Il Signore risorto sia sempre con voi!”.
MESSAGGIO DEL VESCOVO MONS. LUIGI NEGRI AL CLERO, AI RELIGIOSI E AL POPOLO DI DIO DI QUESTA CHIESA PARTICOLARE, NELL’IMMINENZA DELLE ELEZIONI POLITICHE ITALIANE.
Il Vescovo di San Marino-Montefeltro, nella imminenza delle elezioni politiche italiane comunica queste direttive a tutto il Clero e Religiosi di San Marino-Montefeltro e a tutto il Popolo di Dio di questa Chiesa Particolare.
Il Vescovo intende immedesimarsi completamente nelle indicazioni che sono state pubblicamente formulate nell’ambito della Conferenza Episcopale Italiana, soprattutto nella prolusione del Card. Bagnasco, Presidente della Cei e nel comunicato finale del Consiglio permanente della stessa Cei.
Ma poiché tocca e lui e soltanto a lui dare indicazioni di carattere normativo per il suo popolo e per il popolo di Dio di questa Chiesa Sammarinese-Feretrana, lo fa con un particolare senso di obbedienza alle autorità ultime della Chiesa e con una piena e totale responsabilità nei confronti del suo Popolo.
1) I valori fondamentali che devono essere rigorosamente salvaguardati e promossi nell’ambito della competizione elettorale, sono i valori fondamentali della Dottrina Sociale della Chiesa, quelli che Papa Benedetto XVI con felice espressione ha indicato come valori non negoziabili.
• Il valore della vita in tutte le fasi del suo attuarsi,
• il rispetto della sacralità della vita,
• la libertà di coscienza, di religione, di cultura, di educazione.
In particolare la Conferenza Episcopale Italiana indica, per i prossimi 10 anni della sua attività pastorale, l’emergenza educativa come un’emergenza che è ormai inderogabile, non soltanto per la Chiesa, ma per tutta la società italiana.
Per questo il Vescovo di San Marino-Montefeltro chiarisce che non è possibile dare il proprio voto a formazioni di qualunque tipo che esplicitamente contestino questi valori fondamentali; o abbiano già formulato o si apprestino a presentare disegni di legge programmaticamente contrari a tali principi fondamentali.
2) Il Vescovo di San Marino-Montefeltro depreca, come altre autorità della Chiesa italiana, che in quasi tutte le liste che vengono presentate alla scelta degli elettori italiani, i candidati dichiaratamente cattolici siano stati posti in posizione subalterna, quando non esplicitamente eliminati.
Al loro posto può essere accaduto, come nella nostra Regione Marche, che siano stati messi in posizione di quasi sicura elezione, candidati che non solo hanno esplicitamente contestato i valori fondamentali della Dottrina Sociale della Chiesa lungo tutta la loro carriera politica, ma che abbiano fatto particolarmente della difesa ad oltranza dello statalismo scolastico, una bandiera dell’attività politica contestando, quando non sopprimendo quando è stato possibile, anche quel minimo di libertà scolastica che vige in Italia.
Allo stesso modo che nel punto precedente il Vescovo ribadisce che è gravemente contraddittorio andare a votare per coloro che , anche solo personalmente, contestano i valori fondamentali della Dottrina Sociale della Chiesa e, in particolare, la libertà di educazione e di scuola.
3) Il Vescovo di San Marino-Montefeltro non può non deprecare, vivamente, quel sostanziale attacco alla democrazia del nostro Paese rappresentato dall’attuale legge elettorale, la quale andrà bene per qualcuno ma non può andar bene per una coscienza autenticamente democratica. Il popolo italiano è, di fatto, espropriato di quella minima capacità di scelta che era caratterizzata dalle preferenze. L’eliminazione della preferenza consegna la competizione elettorale ai padroni dei vari partiti e delle varie formazioni politiche che hanno preteso di intervenire, anche nelle più piccole realtà locali dettando dal centro candidati, nella maggior parte dei casi, assolutamente ignoti.
E’ una vicenda intollerabile che deve al più presto finire; il Vescovo confida che il nuovo Parlamento saprà fare giustizia di una legge elettorale che rimane vergognosa.
4) Il Vescovo non può che indicare delle linee fondamentali di riferimento affidando alla coscienza di ciascuno dei suoi fedeli le necessarie mediazioni fra i principi formulati e le scelte particolari che rimangono esclusiva responsabilità della coscienza personale. Certo la coscienza personale cristiana non si forma automaticamente; la coscienza cristiana si forma nel confronto con le indicazioni autorevoli che vengono dalla Chiesa, cercando di immedesimarsi con esse e cercando di prendere, di fronte ad esse, la propria responsabilità, anche quella di sbagliare.
Un grande padre spirituale della mia infanzia e giovinezza diceva comunque che è meglio aver torto con il Vescovo che avere ragione da soli.
Con queste indicazioni che mi sembrano non soffrano di nessuna possibilità di interpretazione equivoca, affido a questa Chiesa Particolare una linea di approfondimento e di cammino che matura la propria responsabilità personale, che non può essere delegata a nessuno, né al Vescovo né ai giornali, a cui normalmente ci si riferisce per le questioni sostanziali della vita personale e sociale.
Benedico di cuore questo Popolo e gli chiedo di essere all’altezza della grande Tradizione cattolica che è stata in questi luoghi per decenni, se non per secoli, una tradizione religiosa e, insieme, una realtà perfettamente laica.
Pennabilli, 25 Marzo 2008
+ Luigi Negri
AI PARTECIPANTI AL CONGRESSO INTERNAZIONALE PROMOSSO DAL PONTIFICIO ISTITUTO GIOVANNI PAOLO II PER STUDI SU MATRIMONIO E FAMIGLIA, DELLA PONTIFICIA UNIVERSITÀ LATERANENSE - DISCORSO DEL SANTO PADRE
5.4.2008
Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!
E’ con grande gioia che mi incontro con voi in occasione del Congresso Internazionale "L’olio sulle ferite". Una risposta alle piaghe dell’aborto e del divorzio, promosso dal Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, in collaborazione con i Knights of Columbus. Mi compiaccio con voi per la tematica che è oggetto delle vostre riflessioni di questi giorni, quanto mai attuale e complessa, e in particolare per il riferimento alla parabola del buon samaritano (Lc 10, 25-37), che avete scelto come chiave per accostarvi alle piaghe dell’aborto e del divorzio, le quali tanta sofferenza comportano nella vita delle persone, delle famiglie e della società. Sì, davvero gli uomini e le donne dei nostri giorni si trovano talvolta spogliati e feriti, ai margini delle strade che percorriamo, spesso senza che nessuno ascolti il loro grido di aiuto e si accosti alla loro pena, per alleviarla e curarla. Nel dibattito, spesso puramente ideologico, si crea nei loro confronti una specie di congiura del silenzio. Solo nell’atteggiamento dell’amore misericordioso ci si può avvicinare per portare soccorso e permettere alle vittime di rialzarsi e di riprendere il cammino dell’esistenza.
In un contesto culturale segnato da un crescente individualismo, dall’edonismo e, troppo spesso, anche da mancanza di solidarietà e di adeguato sostegno sociale, la libertà umana, di fronte alle difficoltà della vita, è portata nella sua fragilità a decisioni in contrasto con l’indissolubilità del patto coniugale o con il rispetto dovuto alla vita umana appena concepita ed ancora custodita nel seno materno. Divorzio e aborto sono scelte di natura certo differente, talvolta maturate in circostanze difficili e drammatiche, che comportano spesso traumi e sono fonte di profonde sofferenze per chi le compie. Esse colpiscono anche vittime innocenti: il bambino appena concepito e non ancora nato, i figli coinvolti nella rottura dei legami familiari. In tutti lasciano ferite che segnano la vita indelebilmente. Il giudizio etico della Chiesa a riguardo del divorzio e dell’aborto procurato è chiaro e a tutti noto: si tratta di colpe gravi che, in misura diversa e fatta salva la valutazione delle responsabilità soggettive, ledono la dignità della persona umana, implicano una profonda ingiustizia nei rapporti umani e sociali e offendono Dio stesso, garante del patto coniugale ed autore della vita. E tuttavia la Chiesa, sull’esempio del suo Divino Maestro, ha sempre di fronte le persone concrete, soprattutto quelle più deboli e innocenti, che sono vittime delle ingiustizie e dei peccati, ed anche quegli altri uomini e donne, che avendo compiuto tali atti si sono macchiati di colpe e ne portano le ferite interiori, cercando la pace e la possibilità di una ripresa.
A queste persone la Chiesa ha il dovere primario di accostarsi con amore e delicatezza, con premura e attenzione materna, per annunciare la vicinanza misericordiosa di Dio in Gesù Cristo. E’ lui infatti, come insegnano i Padri, il vero Buon Samaritano, che si è fatto nostro prossimo, che versa l’olio e il vino sulle nostre piaghe e che ci conduce nella locanda, la Chiesa, in cui ci fa curare, affidandoci ai suoi ministri e pagando di persona in anticipo per la nostra guarigione. Sì, il vangelo dell’amore e della vita è anche sempre vangelo della misericordia, che si rivolge all’uomo concreto e peccatore che noi siamo, per risollevarlo da qualsiasi caduta, per ristabilirlo da qualsiasi ferita. Il mio amato predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II, di cui abbiamo appena celebrato il terzo anniversario della morte, inaugurando il nuovo santuario della Divina Misericordia a Cracovia ebbe a dire: «Non esiste per l’uomo altra fonte di speranza, al di fuori della misericordia di Dio» (17 agosto 2002). A partire da questa misericordia la Chiesa coltiva un’indomabile fiducia nell’uomo e nella sua capacità di riprendersi. Essa sa che, con l’aiuto della grazia, la libertà umana è capace del dono di sé definitivo e fedele, che rende possibile il matrimonio di un uomo e una donna come patto indissolubile, che la libertà umana anche nelle circostanze più difficili è capace di straordinari gesti di sacrificio e di solidarietà per accogliere la vita di un nuovo essere umano. Così si può vedere che i "no" che la Chiesa pronuncia nelle sue indicazioni morali e sui quali talvolta si ferma in modo unilaterale l’attenzione dell’opinione pubblica, sono in realtà dei grandi "sì" alla dignità della persona umana, alla sua vita e alla sua capacità di amare. Sono l’espressione della fiducia costante che, nonostante le loro debolezze, gli esseri umani sono in grado di corrispondere alla altissima vocazione per cui sono stati creati: quella di amare.
In quella stessa occasione, Giovanni Paolo II proseguiva: «Bisogna trasmettere al mondo questo fuoco della misericordia. Nella misericordia di Dio il mondo troverà la pace». Si innesta qui il grande compito dei discepoli del Signore Gesù, che si trovano compagni di cammino con tanti fratelli, uomini e donne di buona volontà. Il loro programma, il programma del buon samaritano, è «un cuore che vede. Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente» (Enc. Deus caritas est, 31). In questi giorni di riflessione e di dialogo vi siete chinati sulle vittime colpite dalle ferite del divorzio e dell’aborto. Avete innanzitutto constatato le sofferenze, talvolta traumatiche, che colpiscono i cosiddetti "figli del divorzio", segnando la loro vita fino a renderne molto più difficile il cammino. E’ infatti inevitabile che quando si spezza il patto coniugale ne soffrano soprattutto i figli, che sono il segno vivente della sua indissolubilità. L’attenzione solidale e pastorale dovrà quindi mirare a far sì che i figli non siano vittime innocenti dei conflitti tra i genitori che divorziano, che sia per quanto possibile assicurata la continuità del legame con i loro genitori ed anche quel rapporto con le proprie origini familiari e sociali che è indispensabile per una equilibrata crescita psicologica e umana.
Avete anche volto la vostra attenzione al dramma dell’aborto procurato, che lascia segni profondi, talvolta indelebili nella donna che lo compie e nelle persone che la circondano, e che produce conseguenze devastanti sulla famiglia e sulla società, anche per la mentalità materialistica di disprezzo della vita, che favorisce. Quante egoistiche complicità stanno spesso alla radice di una decisione sofferta che tante donne hanno dovute affrontare da sole e di cui portano nell’animo una ferita non ancora rimarginata! Benché quanto compiuto rimanga una grave ingiustizia e non sia in sé rimediabile, faccio mia l’esortazione rivolta, nell’Enciclica Evangelium vitae, alle donne che hanno fatto ricorso all’aborto: "Non lasciatevi prendere dallo scoraggiamento e non abbandonate la speranza. Sappiate comprendere, piuttosto, ciò che si è verificato e interpretatelo nella sua verità. Se ancora non l'avete fatto, apritevi con umiltà e fiducia al pentimento: il Padre di ogni misericordia vi aspetta per offrirvi il suo perdono e la sua pace nel sacramento della Riconciliazione. Allo stesso Padre e alla sua misericordia potete affidare con speranza il vostro bambino" (n. 99).
Esprimo profondo apprezzamento a tutte quelle iniziative sociali e pastorali che sono rivolte alla riconciliazione e alla cura delle persone ferite dal dramma dell’aborto e del divorzio. Esse costituiscono, insieme con tante altre forme di impegno, elementi essenziali per la costruzione di quella civiltà dell’amore, di cui mai come oggi l’umanità ha bisogno.
Nell’implorare dal Signore Dio misericordioso che vi assimili sempre più a Gesù, Buon Samaritano, perché il suo Spirito vi insegni a guardare con occhi nuovi la realtà dei fratelli che soffrono, vi aiuti a pensare con criteri nuovi e vi spinga ad agire con slancio generoso nella prospettiva di un’autentica civiltà dell’amore e della vita, a tutti imparto una speciale Benedizione Apostolica.
Sala Stampa
IL PAPA: PERCHÉ IL NO AD ABORTO, DIVORZIO, EUTANASIA - I sì della Chiesa alle persone ferite del nostro tempo
NON SI HA IL CORAGGIO DI METTERE IN DISCUSSIONE SE STESSI QUELLA CONGIURA DEL SILENZIO SULLE SOFFERENZE PIÙ INTIME
FRANCESCO D’AGOSTINO
Ci sono dolori che vengono esibiti, dolori che vengono negati, dolori che vengono nascosti, dolori che vengono rimossi. Per chi osservi la vicenda dall’esterno, la rimozione del dolore possiede sempre un carattere inquietante: rimuovere implica un ottuso ostinarsi a voltare il capo e a guardare da un’altra parte, per non vedere ciò che avremmo invece il dovere di vedere, per non voler vedere ciò che è comunque sotto gli occhi di tutti. Quando la rimozione non dipende esclusivamente dall’intenzionalità di un singolo ma viene ad acquistare una dimensione, per dir così, collettiva, il suo carattere inquietante diviene ancora più evidente. Perché la società contemporanea si ostina a non prendere atto del dolore che alcune sue pratiche, ancorché consolidate anche legalmente, attivano e propagano? Perché il tema del divorzio è rimosso dal discorso pubblico e quello dell’aborto così platealmente manipolato, da essere, nei fatti, rimosso anche esso?
Ricevendo i partecipanti ad un Convegno internazionale dedicato alle 'piaghe' dell’aborto e del divorzio, e rivolgendo loro una densa allocuzione, Benedetto XVI ha sottolineato come nel dibattito su questi temi sia da tempo attiva una sorta di 'congiura del silenzio' sulle sofferenze che le scelte abortive e le scelte divorziste portano inevitabilmente con sé. Queste sofferenze le conosciamo tutti benissimo: sono le sofferenze dei figli che vedono divorziare i genitori, sono le sofferenze del coniuge che crede nel matrimonio, ma è comunque costretto a subire il divorzio, sono le sofferenze che colpiscono inevitabilmente la famiglia e gli amici, perché è inevitabile che il dolore, quanto più è autentico e profondo, tanto più si allarghi e coinvolga persone apparentemente, ma solo apparentemente, estranee alla vicenda che lo ha prodotto. Accanto a queste sofferenze che potremmo qualificare 'innocenti', vanno altresì annoverate le sofferenze, per dir così, 'colpevoli', inevitabilmente presenti anche in coloro che ne sono direttamente la causa: le sofferenze delle donne che scegliendo l’aborto rinunciano alla maternità, dei padri, che non aiutando la propria compagna a vincere la tentazione abortista (ed anzi talora favorendola) perdono, a volte per sempre, la possibilità di avere un figlio; le sofferenze dei coniugi che, rinunciando a battersi per salvare il loro matrimonio, invece di ritrovare l’agognata 'libertà' scoprono nuove, inaspettate e tristi dimensioni di banalità nella vita quotidiana così 'liberata'.
Tutte queste dimensioni di sofferenza si accumulano e si compattano nel mondo di oggi, in un mondo che si rifiuta di vederle, perché non ha il coraggio di mettere in discussione se stesso e di portare sul banco degli accusati quella sintesi di individualismo e di edonismo, che unita alla carenza di solidarietà e di adeguato sostegno sociale alla libertà umana, rende la libertà umana sempre più fragile e sempre meno adatta a fronteggiare le difficoltà della vita.
Non è naturalmente compito primario della Chiesa analizzare scientificamente le ragioni, in particolare quelle politiche, sociologiche e ideologiche, che attivano questa 'congiura del silenzio', questa rimozione nei confronti del dolore che divorzio ed aborto producono e diffondono: suo compito è però rilevarlo, soprattutto nella dimensione per la quale tale dolore nasce da una ingiustizia. Ma il vero compito della Chiesa è un altro: ricordare che per quanto grandi siano le sofferenze umane e per quanto gravi siano le colpe che in persone innocenti attivano dolori che a volte nemmeno dopo anni ed anni si riesce a consolare, ancora più grande è però la misericordia di Dio.
Ricordando e rinnovando una splendida esortazione di Giovanni Paolo II nell’enciclica
Evangelium Vitae rivolta alle donne che hanno fatto ricorso all’aborto, Benedetto XVI insiste nell’annunciare che a nessun essere umano è negata la possibilità di ritrovare attraverso il pentimento la pace, il perdono, il sollievo dalla sofferenza. Semplicemente, non si deve mai camuffare la colpa per un diritto; non si deve mai voltare la faccia da un’altra parte; bisogna avere il coraggio di guardare con fermezza le ferite che la vita ci ha inflitto e soprattutto quelle che noi stessi abbiamo inflitto ad altri. La speranza si nutre anche, e forse soprattutto, di questi sguardi.
5 aprile 2008
Dal Foglio.it
Le idee della lista pazza in tour
Sì Juno, no Alitalia, qualche urlo, tanta gente e vita nella sala francescana
Milano. Milano pochissimo da bere. Venerdì sera. Centro Rosetum, metropolitana Gambara. Ospite dei frati francescani, arriva in città la lista pazza contro l’aborto. Sala stracolma, posti solo in piedi. Sul palco ci sono una decina di candidati, due donne, due gemelli, un ex dirigente di Lotta continua, un pannelliano bergamasco, un cantante sanremese. Ore 21. Giuliano Ferrara entra dal retro, scortato, provato dai precedenti impegni di campagna elettorale, ma felice. Fuori c’è un grande schieramento di polizia, a tamponare una ventina di giovani e meno giovani dei centri sociali che lanciano prezzemolo su chi entra al Rosetum. Tra i tanti cori possibili, i contestatori scelgono “assassini, assassini”. Urlato da un gruppo pro-abortisti e rivolto a chi non vorrebbe interrompere le gravidanze, non è niente male.
La gente che entra nella sala francescana – persone normali, facce sorridenti, molti ragazzi, il radicale storico Lorenzo Strik Lievers in bicicletta – non capisce: “Assassini? Ma perché urlano assassini?”, dice una signora al marito.
I fotografi sono a caccia di immagini forti, ma non succede niente. I giornalisti – poco interessati alle cose che si dicono sul palco – si lamentano di non avere niente da scrivere. In sala, dopo una canzone con testi anti aborto, si comincia. Paolo Sorbi è arzillo come ai tempi delle assemblee studentesche. Paola Bonzi racconta la sua esperienza alla Mangiagalli e commuove con le storie di tutte quelle ragazze che ha aiutato a non abortire. Lei non fa nascere bambini, fa nascere mamme.
Poi parla Ferrara. Spiega perché non è lui a essere strano, malgrado si diverta a definire la lista “pazza”. Quelli strani, dice, sono gli altri, indifferenti alla sorte degli ex nascituri burocraticamente chiamati “rifiuti ospedalieri”. Il direttore di questo giornale parla di “Juno”. Lo racconta nei dettagli e se la prende con i giornali acrobaticamente impegnati a negare che il film parli di una ragazzina che sceglie di non abortire. Dopo una decina di minuti, un giornalista alza gli occhi dal taccuino e chiede a un collega: “Ma di che film sta parlando?”. E l’altro: “Boh”.
Ferrara continua con Umberto Veronesi, Barack Obama e Lietta Tornabuoni, brave persone a cui capita di dire enormità. Veronesi, candidato Pd, è il guru in camice bianco che fa compiere alla nostra società il salto culturale dal “sesso senza figli” di trent’anni fa, ai “figli senza sesso” della moderna tecnoscienza. Obama dice che, in caso di “incidente”, non vorrebbe che le sue figlie “fossero punite con un bimbo”. Tornabuoni dà di “pervertiti” ai sostenitori pro life di Juno che godono a vedere il “corpo deformato dalla gran pancia della gravidanza”.
La gente applaude. Nel foyer, il candidato Maurizio Crippa si scola una pinta di birra. Ferrara dice che in Italia c’è un pregiudizio anti cattolico. A quel punto prima una, poi un’altra contestatrice si alza e, a voce alta, dice civilmente a Ferrara che “non siamo strani noi, sono strane le persone con le sue idee” e qualcosa di poco chiaro sull’Iraq. Ferrara replica con “Viva Verdi”, si compiace di averle convinte perlomeno fino a quel momento e sospetta che abbiano ceduto al solo citare il cattolicesimo. Il direttore del Foglio propone un piano nazionale per la vita, promette “privilegi” di legge alle donne in attesa di un bambino e ripete che non vuole abrogare la 194, per quanto sia una legge infame, ma applicarla in tutte le sue parti, non dimenticandosi che il titolo della legge è “Norme per la tutela sociale della maternità” prima ancora di “interruzione della gravidanza”. Ferrara chiude con la Ru486, la chiusura del cerchio della cultura abortista, un “veleno chimico” che indurrà le donne ad abortire da sole, clandestinamente, con una pillolina ingerita tra il tinello e il bagno di casa, lontane da medici e soprattutto da gente pericolosa come Paola Bonzi che potrebbe, non sia mai, convincerle a scegliere la vita. Applausi. Poi tutti sul palco, a salutare i candidati. Due ragazze si avvicinano a Ferrara e gli dicono: “Comunione e liberazione le vuole bene”. Fuori gridano ancora “assassini, assassini”.
Il Foglietto
Spoil system Dico. Bindi nomina Cofferati e Vendola membri dell’Osservatorio sulla famiglia. Geniale…Grande Rosy. A noi Rosy Bindi sta così simpatica che non possiamo non parlare sempre di lei. L’ultima che ha combinato, dopo due anni da ministro della Famiglia in cui non si è segnalata pressoché per nulla, se non una furibonda battaglia sul nulla dei Dico, è stata di nominare tutti suoi amici nell’Osservatorio nazionale sulla famiglia. L’organismo, voluto nel 2004 dall’ex ministro Roberto Maroni, era nato con lo scopo di fornire studi di settore sulle problematiche inerenti il tema. Sede a Bologna, pochi membri, scelte bipartisan. Bindi ha atteso due anni, e due settimane dalle elezioni, per rendere noti i nomi dei nuovi dirigenti dell’Osservatorio. Intanto ha triplicato le sedi (Bologna, Bari, Roma), nominato 46 membri, di cui “di diritto” i sindaci Nichi Vendola e Sergio Cofferati (noti per le loro lotte a favore di mamme e papà), fatto fuori l’ex direttore Pierpaolo Donati (unanimemente riconosciuto come uno dei migliori studiosi in materie di politiche familiari) e gli esperti dell’università Cattolica di Milano, messo sulla sedia della vicepresidenza Renato Balduzzi, suo consigliere ed estensore della bozza Dico. Non lontane dalla realtà, dunque, le critiche di chi vi vede un «Osservatorio formato Dico» o un «Bindiosservatorio». I nominati, infatti, rimarranno in carica tre anni, e ci pare proprio difficile che con il prossimo governo possano andare d’amore e d’accordo. A guadagnarci solo i famigli della Bindi. A smenarci le famiglie italiane.
Tempi 02 Aprile 2008
Oremus et pro Iudaeis", di Gianfranco Ravasi
Un giorno Kafka all'amico Gustav Janouch che lo interrogava su Gesù di Nazaret rispose: "Questo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi".
Il rapporto tra gli ebrei e questo loro "fratello maggiore", come l'aveva curiosamente chiamato il filosofo Martin Buber, è stato sempre intenso e tormentato, riflettendo anche la ben più complessa e travagliata relazione tra ebraismo e cristianesimo. Forse sia pure nella semplificazione della formula è suggestiva la battuta di Shalom Ben Chorin nel suo saggio dal titolo emblematico "Fratello Gesù", del 1967: "La fede di Gesù ci unisce ai cristiani, ma la fede in Gesù ci divide".
Abbiamo voluto ricreare questo fondale, in realtà molto più vasto e variegato, per collocarvi in modo più coerente il nuovo "Oremus et pro Iudaeis" per la Liturgia del Venerdì Santo.
Non c'è bisogno di ripetere che si tratta di un intervento su un testo già codificato e di uso specifico, riguardante la Liturgia del Venerdì Santo secondo il "Missale Romanum" nella stesura promulgata nel 1962 dal beato Giovanni XXIII, prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Un testo, quindi, già cristallizzato nella sua redazione e circoscritto nel suo uso attuale, secondo le ormai note disposizioni contenute nel motu proprio di Benedetto XVI "Summorum Pontificum" del luglio 2007.
All'interno, dunque, del nesso che unisce intimamente l'Israele di Dio e la Chiesa cerchiamo di individuare le caratteristiche teologiche di questa preghiera, in dialogo anche con le reazioni severe che essa ha suscitato in ambito ebraico.
* * *
La prima è una considerazione "testuale" in senso stretto: si ricordi, infatti, che il vocabolo "textus" rimanda all'idea di un "tessuto" che è elaborato con fili diversi. Ebbene, la trentina di parole latine sostanziali dell'Oremus è totalmente frutto di una "tessitura" di espressioni neotestamentarie. Si tratta, quindi, di un linguaggio che appartiene alla Scrittura Sacra, stella di riferimento della fede e dell'orazione cristiana.
Si invita innanzitutto a pregare perché Dio "illumini i cuori", così che anche gli ebrei "riconoscano Gesù Cristo come salvatore di tutti gli uomini". Ora, che Dio Padre e Cristo possano "illuminare gli occhi e la mente" è un auspicio che san Paolo già destina agli stessi cristiani di Efeso di matrice sia giudaica sia pagana (Efesini 1, 18; 5, 14). La grande professione di fede in "Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini" è incastonata nella Prima lettera a Timoteo (4, 10), ma è anche ribadita in forme analoghe da altri autori neotestamentari, come, ad esempio, il Luca degli Atti degli Apostoli che mette in bocca a Pietro questa testimonianza davanti al Sinedrio: "In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati" (Atti 4, 12).
A questo punto ecco l'orizzonte che la preghiera vera e propria delinea: si chiede a Dio, "che vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità", di far sì "che, con l'ingresso della pienezza delle genti nella Chiesa, anche tutto Israele sia salvo". In alto si leva la solenne epifania di Dio onnipotente ed eterno il cui amore è come un manto che si allarga sull'intera umanità: egli, infatti si legge ancora nella Prima lettera a Timoteo (2, 4) "vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità". Ai piedi di Dio si muove, invece, come una grandiosa processione planetaria, che è fatta di ogni nazione e cultura e che vede Israele quasi in una fila privilegiata, con una presenza necessaria.
È ancora l'apostolo Paolo che conclude la celebre sezione del suo capolavoro teologico, la Lettera ai Romani, dedicata al popolo ebraico, l'olivo genuino sul quale noi siamo stati innestati, con questa visione la cui descrizione è "intessuta" su citazioni profetiche e salmiche: l'attesa della pienezza della salvezza "è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti; allora tutto Israele sarà salvato come sta scritto: Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà le empietà da Giacobbe. Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati" (Romani 11, 25-27).
Un'orazione, quindi, che risponde al metodo compositivo classico nella cristianità: "tessere" le invocazioni sulla base della Bibbia così da intrecciare intimamente il credere e il pregare, la "lex credendi" e la "lex orandi".
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A questo punto possiamo proporre una seconda riflessione di indole più strettamente contenutistica. La Chiesa prega per aver accanto a sé nell'unica comunità dei credenti in Cristo anche l'Israele fedele. È ciò che attendeva come grande speranza escatologica, cioè come approdo ultimo della storia, san Paolo nei capitoli 9-11 della Lettera ai Romani a cui sopra accennavamo. È ciò che lo stesso Concilio Vaticano II proclamava quando, nella costituzione sulla Chiesa, affermava che "quelli che non hanno ancora accolto il Vangelo in vari modi sono ordinati ad essere il popolo di Dio, e per primo quel popolo al quale furono dati i testamenti e le promesse e dal quale è nato Cristo secondo la carne, popolo in virtù dell'elezione carissimo a ragione dei suoi padri, perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili" (Lumen gentium, n. 16).
Questa intensa speranza è ovviamente propria della Chiesa che ha al centro, come sorgente di salvezza, Gesù Cristo. Per il cristiano egli è il Figlio di Dio ed è il segno visibile ed efficace dell'amore divino, perché come aveva detto quella notte Gesù a "un capo dei Giudei", Nicodemo, "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, e non lo ha mandato per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (cfr Giovanni, 3, 16-17). È, dunque, da Gesù Cristo, figlio di Dio e figlio di Israele, che promana l'onda purificatrice e fecondatrice della salvezza, per cui si può anche dire in ultima analisi, come fa il Cristo di Giovanni, che "la salvezza viene dai Giudei" (4, 22). L'estuario della storia sperato dalla Chiesa è, quindi, radicato in quella sorgente.
Lo ripetiamo: questa è la visione cristiana ed è la speranza della Chiesa che prega. Non è una proposta programmatica di adesione teorica né una strategia missionaria di conversione. È l'atteggiamento caratteristico dell'invocazione orante secondo il quale si auspica anche alle persone che si considerano vicine, care e significative, una realtà che si ritiene preziosa e salvifica. Scriveva un importante esponente della cultura francese del Novecento, Julien Green, che "è sempre bello e legittimo augurare all'altro ciò che è per te un bene o una gioia: se pensi di offrire un vero dono, non frenare la tua mano". Certo, questo deve avvenire sempre nel rispetto della libertà e dei diversi percorsi che l'altro adotta. Ma è espressione di affetto auspicare anche al fratello quello che tu consideri un orizzonte di luce e di vita.
È in questa prospettiva che anche l'Oremus in questione, pur nella sua limitatezza d'uso e nella sua specificità, può e deve confermare il nostro legame e il dialogo con "quel popolo con cui Dio si è degnato di stringere l'Antica Alleanza", nutrendoci "della sua radice di olivo buono su cui sono innestati i rami dell'olivo selvatico che siamo noi Gentili" (Nostra aetate, n. 4). E come pregherà la Chiesa nel prossimo Venerdì Santo secondo la liturgia del Messale di Paolo VI, la comune e ultima speranza è che "il popolo primogenito dell'alleanza con Dio possa giungere alla pienezza della redenzione".
Deforme una ragazza incinta? No, lo sguardo storto di un’altra donna
Avvenire, 6 aprile 2008
MARINA CORRADI
Sulla Stampa Lietta Tornabuoni recensisce Juno, iI film americano su un’adolescente che scappa da una clinica per aborti e sceglie di mettere al mondo il bambino. La Tornabuoni definisce il film «grazioso», fatto per contentare tutti: i benpensanti così come «i pervertiti, che godono a vedere sullo schermo una ragazzina, quasi una bambina, con il corpo deformato dalla gran pancia della gravidanza avanzata». Dove è quell’aggettivo, 'deformato', che fa sussultare. Dunque, il corpo di una donna incinta è 'deforme'; e che lo scriva una donna, colpisce di più.
Perché quella madre è troppo giovane?
La ragazza di Juno ha gli anni delle donne che per millenni diventavano madri a sedici, diciotto anni, età a cui, fisiologicamente, si è donne. È il nostro tempo che ha creato un’adolescenza prolungata, per cui fino a trent’anni si è 'ragazzi', e i figli si fanno a trentacinque – scoprendo poi che non è più così facile. Non c’è nulla di perverso se una ragazza che ha l’età per fare l’amore resta incinta; è nella natura delle cose.
Invece, quella adolescente col ventre grosso infastidisce, tanto da dirla 'deformata'. La fragilità di un corpo giovanissimo come deturpata da un oscuro peso, segno di un figlio, quindi di responsabilità, quindi della fine precoce di una adolescenza che certi maestri vogliono spensierata, leggera e infinita.
Quel peso come una condanna, e dunque il ventre gravido bruttura, deformità che non si vorrebbe vedere.
Che cosa triste scorgere dipinta la gravidanza con questo sguardo. Uno sguardo in realtà di segno maschile, ma di quei maschi che nella donna vedono solo una cosa. Che la vogliono sempre seducente, e impongono questo modello come un imperativo morale.
Viene in mente la madre che due anni fa annegò il suo bambino di pochi mesi nell’acqua del bagno. Quando confessò, disse in lacrime che dopo la gravidanza il suo corpo non era più bello come prima, e che non la invitavano più a fare la comparsa sulle tv private. La gravidanza come deformazione, imbruttimento. Il corpo, come dice la Tornabuoni, 'deformato'. Sinistro, questo aggettivo pronunciato con noncuranza, perché sembra non riconoscere più in quel ventre gonfio il segno di cui è portatore: la vita, il principio di una vita, la meraviglia di un altro figlio che nasce. Nei paesi, nelle strade, ancora oggi in Italia la gente semplice, e soprattutto i vecchi, se ti incrociano quando sei incinta ti sorridono, chiedono quando nascerà, si rallegrano come se quel figlio un po’ li riguardasse. Ed è vero, un figlio che nasce riguarda tutti. È ricchezza, e stupore. Ma, siamo capaci ancora di questo sguardo? Non è, un figlio, oppressione e femminile destino di condanna, come una certa vulgata veterofemminista ha sottinteso per decenni. Avere un figlio, portarselo per nove mesi addosso, è splendido.
Disturba, che la ragazzina di Juno
istintivamente lo scelga, inorridita da una triste clinica d’aborti. Perché si mette contro la corrente, va contromano rispetto a ciò che 'è giusto', e quasi obbligatorio, pensare e fare. È 'giusto' fare sesso a quattordici anni, ma è un’assurda disgrazia se si resta incinte.
Da rimediare con una pillola che avveleni l’intruso, o con un corretto aborto. I figli, si fanno dopo i trentacinque, quando si è fatta carriera.
Se poi non arrivano, ci si danna in un’odissea di provette, perché quel figlio che un tempo era un inciampo ora è dolorosa ansia, e pretesa. L’adolescente che semplicemente quel bambino lo fa nascere, irrita. Povero corpo di fanciulla deformato. Magre bisogna essere, a sedici anni, magrissime. Magari anche anoressiche, come ammiccano certe pubblicità. Corpi di ossa, evidentemente incapaci di concepire. Di portare la vita, e continuare. Efebiche maschere di un nichilismo educato, per cui la vita è solo divertirsi, essere liberi, consumare. Ma continuare nei figli, in questo nulla, non ha senso. Povera Juno con la sua grossa pancia, povera bambina deforme.