Nella rassegna stampa di oggi:
1) Messa a tre anni dalla morte di Giovanni Paolo II
2) Papa: "Wojtyla aveva doti soprannaturali"
3) Il cristiano è uomo di un altro mondo, di Inos Biffi
4) Molto livore e poco buonumore in piazza Maggiore contro Ferrara - Uova contro la vita
5) Censura fallita - Il dibattito sull’aborto dovrà proseguire alle Camere anche dopo il 14 aprile Il Parlamento, nel riformare la legge sull’interruzione di gravidanza, potrà tener conto dei risultati ottenuti dalla rete dei Cav, di Carlo Casini
6) MEDICO NON ESECUTORE DI RICHIESTE (sulla vicenda del rifiuto di prescrivere il Norlevo la pillola del giorno dopo n.d.r.)
7) Stiamo ballando allegramente sull’orlo del precipizio, di Davide Rondoni
Messa a tre anni dalla morte di Giovanni Paolo II
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 2 aprile 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'omelia pronunciata da Benedetto XVI nel presiedere questo mercoledì, sul sagrato della Basilica Vaticana, la celebrazione della Messa nel terzo anniversario della morte di Giovanni Paolo II.
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Cari fratelli e sorelle!
La data del 2 aprile è rimasta impressa nella memoria della Chiesa come il giorno della partenza da questo mondo del servo di Dio Papa Giovanni Paolo II. Riviviamo con emozione le ore di quel sabato sera, quando la notizia della morte fu accolta da una grande folla in preghiera che gremiva Piazza San Pietro. Per diversi giorni la Basilica Vaticana e questa Piazza sono state davvero il cuore del mondo. Un fiume ininterrotto di pellegrini rese omaggio alla salma del venerato Pontefice e i suoi funerali segnarono un’ulteriore testimonianza della stima e dell’affetto, che egli aveva conquistato nell’animo di tantissimi credenti e di persone d’ogni parte della terra. Come tre anni fa, anche oggi non è passato molto tempo dalla Pasqua. Il cuore della Chiesa è ancora profondamente immerso nel mistero della Risurrezione del Signore. In verità, possiamo leggere tutta la vita del mio amato Predecessore, in particolare il suo ministero petrino, nel segno del Cristo Risorto. Egli nutriva una fede straordinaria in Lui, e con Lui intratteneva una conversazione intima, singolare e ininterrotta. Tra le tante qualità umane e soprannaturali, aveva infatti anche quella di un’eccezionale sensibilità spirituale e mistica. Bastava osservarlo quando pregava: si immergeva letteralmente in Dio e sembrava che tutto il resto in quei momenti gli fosse estraneo. Le celebrazioni liturgiche lo vedevano attento al mistero-in-atto, con una spiccata capacità di cogliere l’eloquenza della Parola di Dio nel divenire della storia, al livello profondo del disegno di Dio. La Santa Messa, come spesso ha ripetuto, era per lui il centro di ogni giornata e dell’intera esistenza. La realtà "viva e santa" dell’Eucaristia gli dava l’energia spirituale per guidare il Popolo di Dio nel cammino della storia.
Giovanni Paolo II si è spento alla vigilia della seconda Domenica di Pasqua; al compiersi del "giorno che ha fatto il Signore". La sua agonia si è svolta tutta entro questo "giorno", in questo spazio-tempo nuovo che è l’"ottavo giorno", voluto dalla Santissima Trinità mediante l’opera del Verbo incarnato, morto e risorto. In questa dimensione spirituale il Papa Giovanni Paolo II più volte ha dato prova di trovarsi in qualche modo immerso già prima, durante la sua vita, e specialmente nell’adempimento della missione di Sommo Pontefice. Il suo pontificato, nel suo insieme e in tanti momenti specifici, ci appare infatti come un segno e una testimonianza della Risurrezione di Cristo. Il dinamismo pasquale, che ha reso l’esistenza di Giovanni Paolo II una risposta totale alla chiamata del Signore, non poteva esprimersi senza partecipazione alle sofferenze e alla morte del divino Maestro e Redentore. "Certa è questa parola – afferma l’apostolo Paolo – se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo" (2 Tm 2,11-12). Fin da bambino, Karol Wojtyła aveva sperimentato la verità di queste parole, incontrando sul suo cammino la croce, nella sua famiglia e nel suo popolo. Egli decise ben presto di portarla insieme con Gesù, seguendo le sue orme. Volle essere suo fedele servitore fino ad accogliere la chiamata al sacerdozio come dono ed impegno di tutta la vita. Con Lui visse e con Lui volle anche morire. E tutto ciò attraverso la singolare mediazione di Maria Santissima, Madre della Chiesa, Madre del Redentore intimamente e fattivamente associata al suo mistero salvifico di morte e risurrezione.
Ci guidano in questa riflessione rievocativa le Letture bibliche appena proclamate: "Non abbiate paura, voi!" (Mt 28,5). Le parole dell’angelo della risurrezione, rivolte alle donne presso il sepolcro vuoto, che ora abbiamo ascoltato, sono diventate una specie di motto sulle labbra del Papa Giovanni Paolo II, fin dal solenne inizio del suo ministero petrino. Le ha ripetute più volte alla Chiesa e all’umanità in cammino verso il 2000, e poi attraverso quello storico traguardo e ancora oltre, all’alba del terzo millennio. Le ha pronunciate sempre con inflessibile fermezza, dapprima brandendo il bastone pastorale culminante nella Croce e poi, quando le energie fisiche andavano scemando, quasi aggrappandosi ad esso, fino a quell’ultimo Venerdì Santo, in cui partecipò alla Via Crucis dalla Cappella privata stringendo tra le braccia la Croce. Non possiamo dimenticare quella sua ultima e silenziosa testimonianza di amore a Gesù. Anche quella eloquente scena di umana sofferenza e di fede, in quell’ultimo Venerdì Santo, indicava ai credenti e al mondo il segreto di tutta la vita cristiana. Il suo "Non abbiate paura" non era fondato sulle forze umane, né sui successi ottenuti, ma solamente sulla Parola di Dio, sulla Croce e sulla Risurrezione di Cristo. Via via che egli veniva spogliato di tutto, da ultimo anche della stessa parola, questo affidamento a Cristo è apparso con crescente evidenza. Come accadde a Gesù, pure per Giovanni Paolo II alla fine le parole hanno lasciato il posto all’estremo sacrificio, al dono di sé. E la morte è stata il sigillo di un’esistenza tutta donata a Cristo, a Lui conformata anche fisicamente nei tratti della sofferenza e dell’abbandono fiducioso nella braccia del Padre celeste. "Lasciate che vada al Padre", queste – testimonia chi gli fu vicino – furono le sue ultime parole, a compimento di una vita totalmente protesa a conoscere e contemplare il volto del Signore.
Venerati e cari fratelli, vi ringrazio tutti per esservi uniti a me in questa santa Messa di suffragio per l’amato Giovanni Paolo II. Un pensiero particolare rivolgo ai partecipanti al primo Congresso mondiale sulla Divina Misericordia, che inizia proprio oggi, e che intende approfondire il suo ricco magistero su questo tema. La misericordia di Dio – lo disse egli stesso – è una chiave di lettura privilegiata del suo pontificato. Egli voleva che il messaggio dell’amore misericordioso di Dio raggiungesse tutti gli uomini ed esortava i fedeli ad esserne testimoni (cfr Omelia a Cracovia-Łagiewniki, 18.8.2002). Per questo volle elevare all’onore degli altari suor Faustina Kowalska, umile Suora divenuta per un misterioso disegno divino messaggera profetica della Divina Misericordia. Il servo di Dio Giovanni Paolo II aveva conosciuto e vissuto personalmente le immani tragedie del XX secolo, e per molto tempo si domandò che cosa potesse arginare la marea del male. La risposta non poteva trovarsi che nell’amore di Dio. Solo la Divina Misericordia è infatti in grado di porre un limite al male; solo l’amore onnipotente di Dio può sconfiggere la prepotenza dei malvagi e il potere distruttivo dell’egoismo e dell’odio. Per questo, durante l’ultima visita in Polonia, tornando nella sua terra natale ebbe a dire: "Non c’è altra fonte di speranza per l’uomo che la misericordia di Dio" (ibid.).
Rendiamo grazie al Signore per aver donato alla Chiesa questo suo fedele e coraggioso servitore. Lodiamo e benediciamo la Beata Vergine Maria per avere vegliato incessantemente sulla sua persona e sul suo ministero, a beneficio del Popolo cristiano e dell’intera umanità. E mentre offriamo per la sua anima eletta il Sacrificio redentore, lo preghiamo di continuare a intercedere dal Cielo per ciascuno di noi, per me in modo speciale, che la Provvidenza ha chiamato a raccogliere la sua inestimabile eredità spirituale. Possa la Chiesa, seguendone gli insegnamenti e gli esempi, proseguire fedelmente e senza compromessi la sua missione evangelizzatrice, diffondendo senza stancarsi l’amore misericordioso di Cristo, sorgente di vera pace per il mondo intero.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Papa: "Wojtyla aveva doti soprannaturali"
di Andrea Indini
il Giornale 2-4-2008
Oltre 60mila fedeli hanno affollato piazza San Pietro per partecipare alla messa che Benedetto XVI celebrerà in occasione del terzo anniversario della morte di Papa Wojtyla.
Roma - Sessantamila volti per ricordare papa Giovanni Paolo II al terzo anniversario della morte. Sessantamila paia di occhi fissi a guardare papa Benedetto XVI proprio mentre parla di "qualità soprannaturali" riferendosi al proprio predecessore. Durante la messa solenne, il Santo Padre ha ricordato che "tra le tante qualità umane e soprannaturali, Wojtyla aveva anche quella di un’eccezionale sensibilità spirituale e umanistica". E i sessantamila fedeli, che affollavano la piazza, si sono stretti attorno al ricordo dell'ultimo grido di Wojtyla: "Non abbiate paura".
Una morte che resta nel cuore "La data del 2 aprile è rimasta impressa nella memoria della Chiesa come il giorno della partenza da questo mondo del servo di Dio Giovanni Paolo II". Benedetto XVI rivive "con emozione" le ore di quel sabato sera, quando la notizia della morte fu accolta da una grande folla in preghiera che gremiva piazza San Pietro. "Per diversi giorni la Basilica Vaticana e questa piazza - ha ricordato il Pontefice - sono state davvero il cuore del mondo". Un fiume ininterrotto di pellegrini aveva reso omaggio alla salma del venerato Pontefice. Agli stessi funerali segnarono un’ulteriore testimonianza della stima e dell’affetto che aveva conquistato nell’animo di tantissimi credenti e di persone d’ogni parte della terra.
L'agonia di Wojtyla Giovanni Paolo II si spense alla vigilia della seconda Domenica di Pasqua. Al compiersi del giorno che ha fatto il Signore. "La sua agonia si è svolta tutta entro l’ottavo giorno, voluto dalla Santissima Trinità mediante l’opera del Verbo incarnato, morto e risorto - ha spiegato il Pontefice - in questa dimensione spirituale Giovanni Paolo II più volte ha dato prova di trovarsi in qualche modo immerso già prima, durante la sua vita, e specialmente nell’adempimento della missione di Sommo Pontefice". Il pontificato di Giovanni Paolo II appare infatti come un segno e una testimonianza della Risurrezione di Cristo. Così la sua morte è stata da Ratzinger come "il sigillo di un’esistenza tutta donata a Cristo, a Lui conformata anche fisicamente nei tratti della sofferenza e dell’abbandono fiducioso nella braccia del Padre celeste".
Le ultime parole prima di morire Benedetto XVI ha ricordato le ultime parole di Giovanni Paolo II: "Lasciate che vada al Padre". Questa la testimonianza di sofferenza fino all’ultimo respiro. "Queste, testimonia chi gli fu vicino, furono le sue ultime parole - ha detto il Papa, nella messa celebrata in piazza San Pietro per il terzo anniversario dalla scomparsa del Papa polacco - a compimento di una vita totalmente protesa a conoscere e contemplare il volto del Signore". Parole che sono diventate una specie di motto sulle labbra del Papa Giovanni Paolo II, fin dal solenne inizio del suo ministero petrino. Le ha ripetute più volte alla Chiesa e all’umanità in cammino verso il 2000, e poi attraverso quello storico traguardo e ancora oltre, all’alba del terzo millennio. "Non possiamo dimenticare - ha concluso il Papa - quella sua ultima e silenziosa testimonianza di amore a Gesù".
La signoria del Risorto
Il cristiano è uomo di un altro mondo
di Inos Biffi
"Fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte; salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente": lo professiamo nel Simbolo apostolico, come sintesi, chiara ed essenziale, degli eventi che il Figlio di Dio fatto uomo ha vissuto. Nessuno di essi si stempera nella metafora, ma tutti si presentano col realismo e la consistenza della storia.
Al loro vertice e compimento - e come loro conferma e segno di riuscita - si pone la Risurrezione che di tutti i precedenti misteri è conferma e riuscita, e che, al pari di essi, è un fatto storicamente avvenuto.
Se Gesù di Nazaret non fosse risorto, la sua concezione e natività, la sua passione, morte e sepoltura avrebbero perduto significato e valore; sarebbero rimaste sospese e incomprensibili, quasi disorientate e dissipate. Il Figlio di Dio sarebbe nato vanamente, inutilmente avrebbe patito e sarebbe sterilmente morto.
Senza dubbio, Gesù risorto è in una condizione radicalmente diversa rispetto a quella in cui si trovava nella precedente vita terrena: non è più visibile e attingibile come lo era quando si trovava nel tempo; come si dice: con la risurrezione egli non torna alla vita di prima, ma entra nello stato "escatologico"; ma non per questo la risurrezione è una "parabola", il frutto o la creazione soggettiva della fede; al contrario, è un avvenimento oggettivo, che la pura esperienza sensibile non è in grado di avvertire, ma della cui realtà storica la fede ha fondatamente la certezza.
E proprio perché questa fede fosse stabilita sulla realtà e sottratta al mondo soggettivo del desiderio o dell'allegoria, Gesù risuscitato - come afferma il libro degli Atti - si è "mostrato vivo agli apostoli dopo la sua passione, con molte prove convincenti, apparendo per quaranta giorni" (Atti, 1, 3).
Da un lato, si avverte chiaramente che il Risorto, con la sua rinnovata corporeità, si trova in uno stato incomparabile e di radicale divario rispetto a quello della sua esistenza precedente, e che solo per la sua iniziativa di mostrarsi può essere percepito come risorto.
Ma, dall'altro lato, con non minore evidenza, si assiste a tutto un "piano" di Gesù risuscitato che, con le sue ripetute apparizioni e sparizioni, le sue sorprendenti partecipazioni conviviali e l'invito esplicito a non considerarlo, avendo "carne e ossa", una specie di fantasma, mirava a edificare la fede dei discepoli e a liberarli dai dubbi, dagli abbagli delle illusioni o dagli ingannevoli giuochi della fantasia.
Del resto, proprio gli apostoli e i discepoli, per i quali la figura di Gesù non era più sperimentabile e documentabile come in precedenza, dopo la costatazione dei "segni" della risurrezione, fanno di essa la sostanza della predicazione e l'evidente riprova della validità del Vangelo.
"Morì, fu sepolto e fu risuscitato, e apparve" (1 Corinzi, 15, 3-5), scrive Paolo, per il quale predicazione e fede sarebbero "vuote", se non fosse vero, e quindi storico, che "Cristo è stato risuscitato dai morti" (1 Corinzi, 15, 20).
La monotona e vecchia affermazione che, essendo la risurrezione di Gesù oggetto della fede, è, in conclusione, sprovveduta del suo supporto e della sua conferma storica, è totalmente inconsistente, così come lo è la separazione tra il Gesù storico e il Cristo della fede.
In sedicenti teologi, che rifriggono malamente eresie antiche, queste asserzioni non stupiscono; dovrebbero invece evitare una certa deleteria fumosità i teologi ancora credenti. Ma oggi si ha l'impressione che non pochi di essi non siano soddisfatti se non fanno affermazioni sensazionali, ed eccoli parlare della sofferenza nell'intimo della Trinità, o dell'oscurità della fede di Gesù, o di Dio che spera nella riuscita del suo disegno. Si direbbe che non perdonano a Dio di essere Dio, per cui si impegnano puntigliosamente a ricrearlo a immagine dell'uomo.
In realtà, la consolazione della fede e la gioia della teologia in tempo pasquale è specialmente quella di contemplare e di ammirare Gesù risorto come l'eternamente predestinato.
Infatti, secondo il disegno divino attestato nelle Scritture, è Gesù risorto il fine della creazione, la ragione che unicamente giustifica il mondo, il motivo per cui Dio ha chiamato gli esseri all'esistenza.
Dall'eternità Dio ha concepito e voluto anzitutto il Crocifisso glorioso, che "esiste prima di tutte le cose", mentre "tutte hanno consistenza in lui" (Colossesi, 1, 17).
"Il Signore" è la "forma" di tutto quanto sorga nell'universo: "Tutti gli esseri nei cieli e sulla terra, i visibili e gli invisibili sono stati creati in lui", esistono grazie alla sua mediazione e in lui ritrovano la causa finale: "Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui" (Colossesi, 1, 16); egli è il "Principio e Primogenito dei risuscitati, così da primeggiare in tutto" (Colossesi, 1, 18).
Da sempre e per definizione Gesù è "il Primeggiante".
E fin che la teologia non riparta programmaticamente da lui e dalla sua predestinazione, non potrà che rimanere insignificante e monotona, e indugiare negli sterili propositi di animare la cultura.
L'umanità glorificata del Figlio di Dio si rivela, così, la scelta trinitaria prima e assoluta; in essa il Padre trova la sua immensa compiacenza e la sua esauriente soddisfazione. Ciò che alla Trinità "preme" eternamente è che ci sia Gesù di Nazaret.
Tutto il resto - a qualsiasi natura appartenga, angelica o umana - è riconoscibile e apprezzabile nella misura in cui vi si rinvengano la "grazia" e la bellezza del Risorto e ne sia il riflesso. Le altre opere di Dio partono tutte da quella intenzione divina originaria e tutte vanno comprese risalendo a essa.
Ne consegue che non esiste, né mai è esistito, briciolo di tempo o frammento di spazio che possa essere stornato dal rapporto con Gesù o essere sottratto alla sua signoria.
In nessun momento il Signore è stato distante dalla storia; egli è stato sempre imminente ad essa, rappresentandone l'intima e insopprimibile "attrattiva". La prima Lettera di Pietro insegna che già "nei profeti era presente lo Spirito di Cristo" (1 Pietro, 1, 11).
Se poi, in particolare, ci soffermiamo sull'uomo - che di tutti gli esseri è quello più caro a Dio, visto che il Figlio suo si è fatto uomo -, possiamo affermare che ogni uomo, dal primo che aprì gli occhi su questa terra, fino all'ultimo che la abiterà, porta dentro di sé, "nativamente" e rigorosamente, il medesimo destino del Signore e la vocazione a portare in sé la sua immagine. E questo, non in base a una esigenza "naturale" dell'uomo stesso, né in virtù di una sua deliberazione, ma a causa della misteriosa elezione di Dio, che da sempre, per pura e segreta sua grazia, ha voluto l'intera umanità plasmata su quella del Figlio morto in croce, risorto e assiso alla destra del Padre.
Fin dalla concezione, prima ancora che ne sia cosciente e a prescindere dalla sua volontà, ogni uomo si ritrova collocato nell'"area" di Gesù e sotto l'influsso del suo amore, che lo ha legato all'uomo dall'eternità; nessuno nasce escluso dalla sua predestinata gratificazione.
Gesù sulla croce salva l'uomo non per una determinazione divina "subentrata" o "successiva", ma perché il Crocifisso glorioso è stato scelto come fondamento del destino dell'uomo, quale sua "necessità" e quale suo "recapito".
Sant'Ambrogio parla dei cristiani che "hanno avuto inizio nella predestinazione".
La stessa redenzione dal peccato va compresa in questo disegno cristico, che rigorosamente impronta di sé tutti gli uomini.
Se, a motivo della colpa originale, l'uomo viene al mondo segnato dall'"assenza di giustizia" - cioè difforme da Gesù risorto, unico e di fatto necessario modello dell'uomo -, con la redenzione quell'assenza viene colmata e l'uomo riceve la grazia della conformità al Signore. Ancora nella prima Lettera di Pietro leggiamo che il riscatto è avvenuto "col sangue prezioso di Cristo, sacrificato come Agnello puro e senza macchia, previsto prima della fondazione del mondo" (1 Pietro, 1, 19-20).
Per quali vie Dio abbia sempre soccorso - e sempre soccorra - della grazia di Gesù tutti gli uomini - a meno che espressamente la rifiutino - lo ignoriamo; ma "le vie di Dio son molte", e noi non possiamo dubitarne, per due ragioni. La prima è la seguente: quando ancora non si svolgeva il tempo e l'uomo non era ancora sorto, Gesù risuscitato era stato stabilito come il Primogenito salvatore dell'uomo. Ed ecco la seconda ragione: assolutamente, non c'è mai stato né mai ci sarà un uomo "trascurato da Dio" o a lui "indifferente", un uomo, che non sia intimamente avvolto dallo stesso affetto con cui Dio ama il suo Figlio Crocifisso risuscitato.
L'opera salvifica di Gesù è in atto ancor prima che egli storicamente muoia sul Calvario e risorga il terzo giorno. Lo dimostra il caso emblematico della Vergine Maria: la grazia nella quale essa viene concepita è già frutto dei previsti meriti di Cristo, e quindi è già una grazia che proviene dalla Croce e dalla Risurrezione, secondo il principio che Tommaso d'Aquino enunzia in questi termini: "Nessuno si può santificare, se non per la mediazione di Cristo"; "la causa della santificazione umana è una sola: il sangue di Cristo" (Summa Theologica, III, 61, 3, c; 60, 3. ob. 3).
Com'è detto nella Lettera agli Ebrei: "Gesù è lo stesso, ieri, oggi, e nei secoli" (13, 8).
Ora però siamo nel tempo in cui Gesù è storicamente risuscitato, ed è in atto il suo glorioso e "attraente" innalzamento, non più solo nella forma della previsione e dell'efficace profezia, ma nella forma dell'avvenimento compiuto. Egli aveva annunziato: "Quando sarò innalzato da terra" - e lo fu sulla croce e per sempre lo sarà nella gloria alla destra del Padre - "attirerò tutti", o "tutte le cose", "a me".
Ma prima consideriamo in se stesso Gesù risorto, costituito "Signore" e "Giudice dei vivi e dei morti", con una signoria unica e liberante, che, sciogliendo da qualsiasi schiavitù, ci pone tutti ugualmente al suo servizio e ci sottrae a qualsiasi giudizio che non sia il suo. Nella sua umanità gloriosa egli è il principio del mondo nuovo, la riuscita del disegno eterno, il segno che il progetto divino si è avverato.
Per questo il Risorto da morte è motivo di infinita gioia per la Trinità e di indubitabile e beata speranza per l'umanità, che ravvisa in lui la Primizia dei risorti (1 Corinzi, 15, 23) e l'inizio della propria risurrezione. Ormai, per quante vicissitudini possano accadere nella storia, non intaccheranno mai Gesù risuscitato, né potranno intralciare e compromettere la sua regalità, e la forza che avvicina e unisce a lui.
Anzi, secondo Paolo, il cristiano, avendo nel lavacro condiviso la morte di Cristo, con la nuova vita partecipa già ora misteriosamente della sua risurrezione e della gloria del Padre. Egli è già un "vivente per Dio in Cristo Gesù" (Romani, 6, 11), un "risorto con Cristo", tutto occupato alla ricerca delle "cose di lassù, dove è il Cristo, assiso alla destra di Dio" (Colossesi, 3, 1-2). Anzi, in certa misura, il battezzato non appartiene già più a questo mondo corruttibile e transitorio. La sua vita è "nascosta con Cristo in Dio", e quindi è già da adesso partecipe dell'escatologia, in attesa di assumere pienamente l'"affinità" col Risorto e di apparire con lui rivestito di gloria (Colossesi, 3, 4).
Tutta questa "attrattiva" al Risorto e questa comunione con lui è iniziata e incessantemente prosegue in virtù della continua effusione dello Spirito Santo, meritato dalla sua morte ed elargito in sovrabbondanza dalla destra del Padre. Tutta l'opera di Gesù mirava a ottenere all'umanità il dono escatologico dello Spirito, che a Pentecoste iniziò la sua presenza nell'umanità e nell'universo con la creazione della Chiesa, che è il sacramento di Cristo e del suo Spirito, il quale attinge alla ricchezza salvifica del Signore e ce ne rende partecipi.
Ora Gesù esercita nel mondo la sua signoria celeste o la sua "potestà" attraverso l'azione dello Spirito Santo. Grazie allo Spirito i cuori sono aperti alla Parola e ha successo l'annunzio del Vangelo; per sua virtù è conferita validità ai sacramenti; per lui i credenti ricevono la vita nuova del Risorto e la loro esistenza diviene un cammino nello Spirito, dal quale alla fine saranno compiutamente trasformati a immagine del Crocifisso risuscitato.
In particolare è il caso di sottolineare l'energia "spirituale" nei gesti sacramentali. I sacramenti sono azioni regali del Signore, che, sovrastando i limiti del tempo e dello spazio, ci inserisce nel mistero della sua passione e della sua morte, pegni della risurrezione. Vale specialmente nell'Eucaristia, in cui non cessano di essere ritrovati il Corpo dato e il Sangue sparso; ma si avvera in tutti i sacramenti, che sono come una "porzione" di Eucaristia.
Certo, il mondo di Gesù risorto, la sua attrattiva, l'azione del suo Spirito che trasforma il credente, la grazia che lo rinnova sono realtà sottratte all'esperienza sensibile, ma le sole assolutamente vere, di fronte alla precarietà di quelle visibili, fatte di ombre e di immagini. Il cristiano è un uomo dell'altro mondo - quello autentico - che tuttavia ancora vive in questo mondo, destinato a passare come una scena nel teatro; nel tempo fuggevole della storia egli annuncia, nella speranza, l'escatologia; ancora attraversato dalla passione e dalla morte è il testimone della risurrezione.
In questo senso è "alienato", come lo è Gesù risorto.
Per tornare alla teologia: essa è una "scienza" tutta diversa dalle altre, con un suo linguaggio proprio; è Parola di Dio o "Sapienza che viene dall'alto", che discende dal cielo, come Gesù Cristo; è per sua natura "regale" e non sarà a suo agio nel concerto delle "arti", per usare categorie medievali, né proverà troppo gusto a occuparsene, anche perché si accorgerà presto del tanto tempo che vi perde.
La vocazione originale della "sacra dottrina" è quella di esplorare il disegno divino, e quindi di intrattenere i credenti a contemplare e ammirare Cristo risorto, a esultare nel suo Spirito, a godere della sua grazia. Il suo discorso è supremamente interessante; solo che, per prendervi gusto, bisogna essere dei credenti, cioè discepoli del Signore, persuasi - come diceva sant'Ambrogio - che le "opere invisibili" del Signore "sono più numerose" di quelle che si vedono, e più avvincenti e stabili.
D'altra parte la teologia è generata dalla fede, e la fede non è una facoltà dagli occhi spenti. Al contrario: essa è dotata di visione. Fin dai tempi di Tertulliano si usa l'espressione: fides oculata.
(©L'Osservatore Romano - 3 aprile 2008)
3 aprile 2008
Molto livore e poco buonumore in piazza Maggiore contro Ferrara - Uova contro la vita
A Bologna un revival degli anni Settanta contro la lista pazza
Dal Foglio.it
Bologna. In un vivace pomeriggio di vera campagna elettorale, il tour della lista pazza arriva a Bologna, i candidati salgono sul palco di piazza Maggiore, parlano per quasi un’ora del programma e dopo aver visto arrivare un migliaio di persone, sotto Palazzo Podestà, concludono il secondo comizio di giornata in mezzo a una contestazione energica e piuttosto invadente. Uova, bottiglie, pomodori, mortadelline, lampeggianti della polizia fracassati, macchine in fuga, un po’ di legnate in testa e qualche monetina sul palco. Urlavano molto, i contestatori arrivati di fronte alla bellissima Basilica di San Petronio, più o meno a metà comizio e pronti a far scorrere nel cuore di Bologna un goffo revival degli anni Settanta. I manifestanti, poco prima che il comizio si concludesse, hanno superato il lungo cordone di polizia che ieri pomeriggio abbracciava tutta Piazza Maggiore, si sono avvicinati al palco con poco buonumore e, alzando il dito medio e ringhiando un po’, hanno provato a interrompere il comizio. Solo che dal palco, il capolista di “Aborto? No, grazie” urlava molto di più, raccoglieva pomodori, li rilanciava tra la folla e fino alle 19 ha continuato a far la sua serissima campagna elettorale. “Oggi vogliamo muoverci in spazi ampi, oggi ci serve tutta Piazza Maggiore per sottrarci al vostro controllo. Non accettiamo una vita di paura e inconsapevolezza dal momento che nulla conta più della potenza dei nostri corpi, che continueranno ad attraversare la città e lo faranno anche il 28 giugno in occasione dell’LGBT Pride”, avevano scritto alcune femministe brontolone poche ore prima, le stesse che, dopo aver contestato a Livorno, avevano organizzato già da tempo la protesta di ieri pomeriggio, e si erano date appuntamento in via San Felice e poi, in piazza, avevano cominciato a lanciare uova sul palco. “Sono qui con un uovo marcio sul taschino della giacca di velluto chiaro”, dirà Giuliano Ferrara pochi minuti prima di arrivare ad Imola, quell’uovo che a Bologna, sorridendo, aveva definito “una medaglia”. Il momento più delicato e incivile della giornata è stato quando, il direttore di questo giornale è sceso dal palco bolognese. I contestatori si sono avvicinati, hanno circondato i poliziotti di scorta, hanno spintonato e, seguendo Ferrara fino allo sportello dell’auto, hanno fracassato un lampeggiante, una fiancata e un faro della macchina. Nessuna fuga, però. Il comizio è finito, il candidato della lista pazza è salito in macchina, ed è arrivato ad Imola. Sul palco, a Bologna, insieme con Ferrara, c’erano anche Matilde Leonardi e l’ex vicesindaco di Bologna Giovanni Salizzone. “Questa però non è democrazia. Non mi fate parlare. Avete contestato il comizio ma non siete a riusciti a impedirci di parlare a Bologna. Domani finirete su tutti i giornali, siete contenti?”. “Vi piace che ogni anno nel mondo ci siano 50 milioni di aborti? A me no! L’aborto è maschio, come voi che contestate”, dirà a fine giornata Ferrara. Contestazione per nulla civile, ma comunque significativa lo stesso, perché oggi non si fanno manifestazioni né contro W, né contro il Cav.; né contro la Nato né contro le basi militari. No: in campagna elettorale si contesta solo ciò che vale un po’ di più di un semplice lancio di agenzia. Si contesta ciò di cui si discute davvero: la vita. “E’ inaccettabile che una piazza venga trasformata nel luogo dell’intolleranza. Tutti devono essere in condizione di poter sostenere pubblicamente le proprie tesi e le proprie opinioni e a nessuno deve essere impedito di parlare. Trasformare la campagna elettorale da confronto tra le idee in scontro è una responsabilità grave che si assumono tutti coloro che praticano intolleranza. Non condividere un’idea non deve mai diventare azione ostile contro chi la sostiene. Per questo quello che è capitato oggi a Bologna è un danno oggettivo per la città e la sua storia di democrazia e di tolleranza”. Così in serata il sindaco di Bologna Sergio Cofferati.
Censura fallita - Il dibattito sull’aborto dovrà proseguire alle Camere anche dopo il 14 aprile Il Parlamento, nel riformare la legge sull’interruzione di gravidanza, potrà tener conto dei risultati ottenuti dalla rete dei Cav
Avvenire, 3 aprile 2008
DI CARLO CASINI
« L a rivolta dei fatti contro la legge 194»: potrebbe essere questo il giudizio di sintesi su ciò che da mesi rompe il silenzio di anni ed occupa prime pagine di giornali e servizi televisivi. Poche vetero-femministe ed alcune ragazzine nate dopo la 194/1978 gridano ancora: «La legge 194 non si tocca!»; la maggioranza dei politici ripete: «La 194 non è materia di campagna elettorale».
Anche chi proclama il diritto alla vita fin dal concepimento precisa spesso che non intende mettere in discussione la legge e la prudenza suggerisce a molti, da sempre critici della legge, di proporre un cambiamento della sua gestione piuttosto che del suo contenuto.
Eppure mai come in questa campagna elettorale si è parlato dell’aborto e della legge che lo regola. Perché i fatti sono sotto gli occhi di tutti.
Dal 19 dicembre scorso i gridi e gli insulti contro il parallelo proposto da Giuliano Ferrara tra pena di morte ed aborto dimostrano una inquietudine che non può essere cancellata. Perché l’ironia o l’indifferenza sarebbero state la risposta se la provocazione del Direttore de Il Foglio fosse una stupidaggine e non un pensiero serio, che tocca corde profonde e problemi sociali e individuali non risolti. Come non parlare della legge 194? Il suo presupposto è il riconoscimento o la negazione dell’umanità del concepito?
Si moltiplicano le lettere a Il Foglio
(e ad altri giornali) di donne che confessano di avere a suo tempo difeso la legge, ma che ora dichiarano: «ho cambiato idea».
Molte raccontano un loro aborto provocato e testimoniano un dolore persistente, un rimpianto implacabile. Ma l’aborto legale non avrebbe dovuto «guarire» una «malattia psichica della madre»?
Non sarà che, invece, la genera?
A Napoli dal 13 febbraio scorso, a Genova dall’inizio di marzo si svolgono indagini su aborti ritenuti clandestini: nel primo caso erroneamente, nel secondo facendo venire alla luce una rete vasta e sistematica di aborti illegali. Immediatamente viene difesa anche la illegalità, perché le donne debbono poter interrompere la gravidanza liberamente, senza impacci, nei tempi e nei modi da loro scelti. Ma l’obiettivo della 194 non era la lotta alla clandestinità?
Perché insorgere quando si tenta di arginarla applicando la legge? Non è forse vero che la Corte Costituzionale ha ancorato la liceità della Ivg (interruzione volontaria di gravidanza) alla «necessità» e non alla «libera scelta»?
Le relazioni ministeriali dicono che gli aborti clandestini sono quasi scomparsi e annunciano, trionfanti che la legge, con la contraccezione e i consultori familiari, ha ridotto anche quelli legali. Tuttavia negli ultimi tre mesi vengono scoperte reti di aborti clandestini non solo a Genova, ma anche a Milano, Firenze, Ischia: la punta di iceberg di un fenomeno ancora massiccio?
Il 7 dicembre scorso la stampa ha riportato l’allarme di Lord Still, principale autore della legge permissiva inglese di 40 anni fa.
Insieme a lui è manifestata anche la preoccupazione di una speciale commissione del servizio sanitario nazionale inglese: nel Regno Unito, nonostante la diffusissima contraccezione, l’aborto è in continua crescita, ha superato i 200.000 casi all’anno e ha toccato il record della frequenza. Lo stesso fenomeno si registra in Francia.
Francia e Regno Unito hanno quantità di popolazione e legge simile a quella dell’Italia, ma un assai più vasto uso della contraccezione. Ma allora, che cosa può aver determinato in Italia la auspicabile riduzione delle Ivg?
La legge 194 oppure la resistenza, fatta di pensiero e solidarietà verso la vita, di chi vi si oppone?
Il 9 gennaio, Il Giornale documenta con una mini inchiesta ciò che tutti già sanno, che, cioè, i consultori pubblici per lo più non svolgono nessuna attività di prevenzione post-concezionale, ma si limitano a registrare la volontà della donna.
I quattro colloqui registrati in quattro consultori restano nel silenzio, ma è l’ennesima prova che i consultori, in cui oltretutto si rivolge una minoranza di donne, non hanno affatto ridotto il numero degli aborti. Perché l’art. 2 della legge 194 non viene applicato? Difetto di gestione o difetto strutturale?
Panorama del 28 febbraio (n. 9) pubblica un ampio servizio sul Cav Mangiagalli, lodandone l’azione e rende noto il numero verde nazionale S.O.S. Vita (8008.13000).
Dunque l’opinione pubblica comincia a capire che è possibile evitare l’aborto anche quando è in corso una gravidanza non desiderata. Perché non tener conto di queste esperienze e di quella di tutti i Cav per modificare la legge 194? Nei giorni immediatamente successivi alla pubblicazione di Panorama si moltiplicano le chiamate a S.O.S. Vita: decine di bambini salvati. Perché non predisporre una più completa informazione? Perché non valorizzare il volontariato?
L’8 febbraio un corpicino di neonato viene trovato a Roma in un compattatore di immondizie, il 17 a Genova, un altro in uno scantinato, un altro, non ricordo dove, in una autovettura. Sono gli ultimi abbandoni di una ininterrotta serie. Ma l’aborto legale non avrebbe dovuto eliminare gli infanticidi? Non sarà, invece, che la perdita di cuore verso i bambini non ancora nati incrina anche la capacità di accoglienza dei neonati?
Il 25 marzo la stampa rende noto che a Pordenone una ragazzina di 15 anni si è rivolta a un avvocato per difendersi da genitori che la vogliono costringere ad abortire.
Un caso analogo si era verificato poco prima a Torino con un’altra minorenne fuggita dall’ospedale.
Dove sta la libertà della donna?
Forse anch’ella in molti casi è vittima, non solo se minorenne, dell’ambiente, dei mass media, del gruppo familiare e amicale. La legge 194 è preoccupata soprattutto di garantire la libertà della donna di abortire. Lo scopo primario non dovrebbe, invece, essere quello di restituirle il coraggio e la libertà di non abortire?
Milano, 28 febbraio 2007: aborto selettivo su due gemelli. Il feto è sbagliato, viene ucciso quello sano.
Bisogna subito eliminare anche l’altro «malato», vero destinatario dei ferri letali. Non è il primo caso.
Con degrado di attenzione quando si tratta di aborto?
In una recente intervista il ginecologo radicale di Torino, Silvio Viale, dichiara essere normale che da un aborto «terapeutico» tardivo possa derivare un feto per qualche tempo vivo. Ma la legge 194, all’art. 7, non stabilisce che l’Ivg è vietata, salvo il pericolo di vita della madre, quando vi è possibilità di vita autonoma del figlio? Tuttavia vi sono pronunciamenti di medici e politici: i neonati troppo prematuri devono essere lasciati morire se non vi è richiesta di rianimazione da parte dei genitori: nel caso di aborto lo volevano eliminare!
Perché contrastare la loro volontà?
La Regione Lombardia ha ridotto a 22 settimane di gestazione il limite estremo dell’aborto «terapeutico» e scrive nelle sue leggi il diritto alla vita fin dal concepimento. Le altre Regioni e soprattutto lo Stato, che faranno?
All’inizio di dicembre grande clamore perché scienziati giapponesi e statunitensi hanno potuto ottenere da tessuti adulti cellule staminali aventi le stesse caratteristiche di quelle embrionali senza distruggere embrioni.
Avvenire lancia la «moratoria europea» sul finanziamento della ricerca distruttiva su embrioni umani. Marzo 2008: risposta negativa dal Commissario competente. Una volta di più si rivela l’opportunità della richiesta del Movimento per la vita e del Forum delle famiglie di riconoscere la capacità giuridica ad ogni essere umano fin dal concepimento, rimuovendo anche l’equivocità nefasta, radice di ogni degrado, dell’art. 1 della legge 194.
La descrizione della linea del fronte potrebbe continuare a lungo. Vi sono la questione della obiezione di coscienza riguardo alla «pillola del giorno dopo», il tentativo di introdurre in Italia l’uso della Ru486, la pretesa del Ministro Turco di interpretare in senso peggiorativo la legge 194, mediante l’emanazione di apposite linee guida, il parallelo attorno alla legge 40 sulla procreazione artificiale condotto anche mediante intervento della Magistratura ( Tar Lazio, 31 ottobre 2007; Tribunale di Firenze, 17 dicembre 2007).
Ve ne è, dunque, abbastanza per tenere la legge 194 bene dentro la riflessione che prima delle elezioni conduce alla scelta del voto e dopo all’impegno per una sua possibile, realistica revisione.
OBIEZIONE DI SCIENZA
MEDICO NON ESECUTORE DI RICHIESTE
Avvenire, 3.4.2008
FRANCESCO D’AGOSTINO
La vicenda, di per sé, ha un rilievo tutto sommato limitato: a quanto si è letto sui giornali, due ragazze pisane hanno cercato – una a notte fonda, l’altra sul far della sera – di farsi prescrivere il Norlevo (cioè la cosiddetta 'pillola del giorno dopo', di cui ancora non si è assodato se sia un semplice anticoncezionale, o un vero e proprio farmaco che uccide la vita di un embrione già concepito). I medici a cui si sono rivolte, però, si sono rifiutati di farlo ed esse hanno dovuto aspettare alcune ore, per ottenere da un altro medico la prescrizione desiderata. Niente di particolarmente drammatico. Ma è stata l’occasione per alcuni laicisti per riaprire polemiche stantie, per accusare i cattolici di oscurantismo, per stigmatizzare i medici obiettori, per ricordare che non viviamo più in uno Stato governato dal Papa… Limitiamoci a stabilire alcuni punti fermi.
Primo punto: la 'pillola del giorno dopo' non è un farmaco 'da banco', posto liberamente in vendita su semplice richiesta del 'paziente'. È indispensabile che un medico lo prescriva. Questa è stata la decisione delle autorità sanitarie competenti e dobbiamo rispettarla, fino a quando non venga eventualmente mutata.
Secondo punto: nessun medico è 'obbligato' a prescrivere qualsiasi farmaco, per il quale sia necessaria una ricetta, qualora egli non ne ravvisi l’opportunità e l’utilità. Esiste una libertà di scienza, prima ancora che di coscienza, che ha un essenziale valore epistemologico e deontologico: il medico è un 'alleato' del paziente e deve sempre cercare di operare per il suo bene, secondo le sue competenze professionali; non è e non deve mai diventare il cieco esecutore di una richiesta, di qualsiasi richiesta farmacologica il paziente possa avanzare. È per questa ragione che siamo tutti convinti che è biasimevole la prassi di alcuni medici, peraltro purtroppo diffusa, di prescrivere farmaci 'alla cieca', senza neanche visitare il malato.
Terzo punto: questa particolarissima autonomia del medico è ribadita espressamente dal codice deontologico e non ha nulla propriamente a che vedere con l’obiezione di coscienza (è stata questa anche l’opinione del Comitato nazionale per la Bioetica). Potremmo parlare piuttosto di 'obiezione di scienza': al paziente che gli chiede un certo farmaco, il medico potrà (se questo sarà il caso) opporre un rifiuto in quanto medico, prima ancora che in quanto 'cattolico'. Naturalmente sarà professionalmente responsabile se il suo rifiuto sarà la causa determinante di un danno alla salute (si badi: alla salute!) del paziente, ma la sua responsabilità non sarà morale, bensì scientifica: lo si potrà cioè accusare sul piano della perizia professionale, non su quello etico.
Quarto punto: va stigmatizzato il medico che non intende prescrivere il Norlevo? Perché dovrebbe esserlo? Sul piano scientifico, egli opera una scelta in prima battuta 'medica', nella serena coscienza che il rifiuto di un anticoncezionale di emergenza (peraltro facilmente procurabile per altre vie, come appunto è avvenuto nel caso di Pisa) molto, ma molto difficilmente può produrre un danno alla salute di una donna. Non si ha alcun diritto, una volta riconosciuto che la decisione del medico è per l’appunto specificamente 'medica', procedere a valutazioni 'etiche' nei suoi confronti.
Quinto punto: l’obiezione di coscienza all’aborto è (come ogni altra autentica obiezione) cosa molto seria, che da troppo tempo i laicisti banalizzano e avviliscono e contro la quale è chiaramente in atto un’aggressione mediatica. Non confondiamo il semplice rifiuto di prescrivere una pillola contraccettiva, in quanto potrebbe in linea di principio avere effetti nocivi sulla salute femminile (e questo è un giudizio medico insindacabile!), con l’obiezione di coscienza, che non è in prima battuta un problema medico, ma un problema morale. E smettiamola di indicare quei medici cattolici che si proclamano obiettori come i primi responsabili di alcune difficoltà che concernono la pratica dell’aborto legale. Facendo obiezione, i medici (non solo quelli cattolici!) difendono l’onore ippocratico della loro professione. Difendono paradossalmente l’onore anche di quei medici che non sono obiettori: fino a quando, infatti, sarà possibile obiettare, si avrà la testimonianza che il primo dovere di un medico è quello di lottare per la vita.
Stiamo ballando allegramente sull’orlo del precipizio
Avvenire, 3.4.2008
DAVIDE RONDONI
C i sono risultati di indagini statistiche che possono far discutere. E altre possono far arrabbiare. Ci sono, voglio dire, risultati di indagini statistiche – come ad esempio quelli che continuano a offrirci i candidati in campagna elettorale – che possono far scaldare gli animi. O altri che fanno divertire. Ma ci sono anche risultati che fanno restare in silenzio. Che fanno ammutolire. Di fronte ai quali è difficile riprendere la parola. Uno di questi è quello riportato in questi giorni dai giornali: quasi il 22 per cento dei giovani italiani non ha lavoro. È il peggior risultato tra i paesi europei del gruppo dei quindici. Poco consola che a livello generale la disoccupazione italiana sia meno di quella tedesca, o meno della media europea. Il fatto che siano così tanti giovani senza lavoro fa tremare. E ammutolire. Come quando si vede una cosa forse irrimediabile. Come quando si vede un precipizio che inghiotte. Perché se così tanti giovani non lavorano, significa che la vita dell’Italia è gravemente ammalata. Gli economisti riescono forse a tirar fuori qualcosa di intelligente da dire. E ieri su queste colonne il prof. Rosina, un demografo, ne ha dette alcune. I politici forse riescono a tirar fuori qualche parola, qualche altro slogan. Ma chi non è economista, chi non è niente se non un italiano, rimane con le braccia lungo i fianchi, desolatamente. Perché se più di venti ragazzi su cento non lavorano significa che stiamo andando all’indietro. E che tante delle energie migliori restano inerti, inoperose. Invece che impiegate vengono ripiegate. Ragazzi che vivono in ripiego. Non si sa bene cosa dire. Anche se si sa che evidentemente bisogna rimettere mano al sistema di formazione, all’intero welfare. E magari smetterla con tante ciance su falsi problemi. Come ad esempio il tanto decantato 'precariato', visto che le statistiche ci informano che oltre il 77 per cento dei contratti di lavoro è a tempo indeterminato. Non si sa bene cosa dire, ma si diventa insofferenti ai discorsi che non mettano a fuoco questo problema. Che non si concentrino su tale 'questione giovanile'. Che è stata trattata in questi mesi e anni troppo superficialmente, tra battute e slogan, tra bamboccioni e precari. Mentre invece il disagio, anzi la malattia è profonda. Perché un giovane che non lavora è un giovane dimezzato. E bisogna capire se non lavora perché ha aspettative troppo alte (quanti mestieri ignorati, quante carriere pretese) o se anni di istruzione lo hanno reso solo più tonto.
O se non ha un contratto perché non c’è lavoro, o non c’è un contratto adeguato.
Insomma, si resta muti come di fronte a una ragazza che si veda invecchiare precocemente. Poiché il lavoro dei giovani è quel che ringiovanisce un paese. Non le loro scorribande, non gli aperitivi fuori dai locali per strada, o le birre in mano fino a tardi la sera, non una vita ipertecnologica e televisiva. È il lavoro che ridà vita a un uomo e a un paese, se quest’uomo conosce la dignità del lavoro. Ma se conosce la noia e il patema della disoccupazione, la sua esistenza avrà perlopiù il sapore della noia e del patema. Se non si fanno lavorare i giovani, se non si dà la possibilità di lavorare, se non lo si insegna, e se non si insegna la passione, la dignità; se insomma si indica il lavoro solo come una pena da fuggire e basta; se non si educano i ragazzi a lavorare, l’Italia semplicemente finisce. E come diceva un importante poeta non finisce con uno schianto, ma con questo lamento di disoccupati. Ed è la fine peggiore, persino peggio di una guerra.
Perché dalla guerra ci si può risollevare, per amore, magari per ardore. Ma nella noia e nel patema d’essere senza lavoro e abbandonati da un Paese che si occupa d’altro è molto difficile che si conosca l’ardore. E una giovinezza senza lavoro è come un fiore soffocato. Un’aberrazione.
Qualcosa che lascia senza parole.