Nella rassegna stampa di oggi:
1) Fumogeni, equivoci e voti - A Rosy, al giornalista collettivo, al Cav., ai vescovi, ai lettori
2) Benedetto XVI presenta la figura di San Benedetto da Norcia
3) OLTRE IL DIBATTITO IDEOLOGICO SULLE «RADICI» - QUEI MODELLI VIVENTI PER LA CASA DA RICOSTRUIRE, di Francesco Botturi
4) Il Cardinale Kasper e la missione verso gli ebrei - Risponde alle critiche sulla nuova preghiera del Venerdì Santo per gli ebrei
5) Magdi Cristiano Allam non interviene a Madrid per questioni di sicurezza Dichiara l'ambasciata d'Italia nella capitale spagnola
6) Norlevo: per la scienza è un abortivo, di Ilaria Nava
7) Non solo mosche bianche: a rifiutarla sono tanti E nel pieno rispetto della legge 194 sull’aborto
9 aprile 2008
Dal Foglio.it
Anticipazione del Foglio del 10 aprile
Fumogeni, equivoci e voti - A Rosy, al giornalista collettivo, al Cav., ai vescovi, ai lettori
Cara Rosy Bindi, a Firenze lei ha dichiarato che due libertà sono in conflitto, quella di abortire e quella di obiettare. Non so se sia una verità cattolica, e ne dubito, ma so che non è giusto da un punto di vista laico. Al solo scopo di combattere l’orrendo fenomeno dell’aborto clandestino, e non come mezzo di controllo delle nascite, la legge italiana 194 concede dal 1978 la possibilità di interrompere volontariamente la gravidanza, a certe condizioni e soltanto nelle strutture pubbliche. Non esiste una generica libertà di aborto. Che un ex ministro della Salute e della Famiglia cada in un simile lapsus, omaggiando l’idolo libertario celebrato nelle piazze in cui si lanciano in suo onore sedie, fumogeni, pomodori e uova, è la conferma del fatto che l’aborto è diventato una convenzione moralmente indifferente e che negli ultimi trent’anni siamo scivolati in una cultura oscurantista, primitiva e barbarica. Ci rifletta laicamente, onorevole Bindi, visto che per umanità, per cultura e per fede con quella cultura lei non ha o non dovrebbe avere niente da spartire. Senza rancore.
Caro giornalista collettivo, dovresti imparare a distinguere, nei testi e nei titoli, in modo tale da perfezionare la tua padronanza della lingua. “Ferrara contestato anche a Palermo” è un errore blu. Contestare significa criticare, irridere, fischiare, controargomentare, incalzare, rigettare, anche dileggiare, obiettare rumorosamente, insomma rompere i coglioni a uno che dice una cosa sgradita. Da Bologna in avanti il titolo giusto è: “Comizio elettorale aggredito a …”. Domanda al bravissimo Michele Smargiassi di Repubblica, sulla cui testa è caduta una sedia nel corso di un tentativo di linciaggio, se si senta contestato. Domanda, caro giornalista collettivo, agli agenti che hanno ricevuto due bottiglie piene sul vetro anteriore della loro blindata, che ne è risultato scheggiato, se si sentano contestati. Domanda a Aldo Cazzullo del Corriere come si è sentito quel giorno ristretto in quell’Alfetta. E poi usa il termine che credi. Scemino. (continua sul Foglio quotidiano)
Benedetto XVI presenta la figura di San Benedetto da Norcia
Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 9 aprile 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole pronunciate questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale in piazza San Pietro dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura di San Benedetto da Norcia.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
vorrei oggi parlare di san Benedetto, Fondatore del monachesimo occidentale, e anche Patrono del mio pontificato. Comincio con una parola di san Gregorio Magno, che scrive di san Benedetto: "L’uomo di Dio che brillò su questa terra con tanti miracoli non rifulse meno per l’eloquenza con cui seppe esporre la sua dottrina" (Dial. II, 36). Queste parole il grande Papa scrisse nell’anno 592; il santo monaco era morto appena 50 anni prima ed era ancora vivo nella memoria della gente e soprattutto nel fiorente Ordine religioso da lui fondato. San Benedetto da Norcia con la sua vita e la sua opera ha esercitato un influsso fondamentale sullo sviluppo della civiltà e della cultura europea. La fonte più importante sulla vita di lui è il secondo libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno. Non è una biografia nel senso classico. Secondo le idee del suo tempo, egli vuole illustrare mediante l’esempio di un uomo concreto – appunto di san Benedetto – l’ascesa alle vette della contemplazione, che può essere realizzata da chi si abbandona a Dio. Quindi ci dà un modello della vita umana come ascesa verso il vertice della perfezione. San Gregorio Magno racconta anche, in questo libro dei Dialoghi, di molti miracoli compiuti dal Santo, ed anche qui non vuole semplicemente raccontare qualche cosa di strano, ma dimostrare come Dio, ammonendo, aiutando e anche punendo, intervenga nelle concrete situazioni della vita dell’uomo. Vuole mostrare che Dio non è un’ipotesi lontana posta all’origine del mondo, ma è presente nella vita dell’uomo, di ogni uomo.
Questa prospettiva del "biografo" si spiega anche alla luce del contesto generale del suo tempo: a cavallo tra il V e il VI secolo il mondo era sconvolto da una tremenda crisi di valori e di istituzioni, causata dal crollo dell’Impero Romano, dall’invasione dei nuovi popoli e dalla decadenza dei costumi. Con la presentazione di san Benedetto come "astro luminoso", Gregorio voleva indicare in questa situazione tremenda, proprio qui in questa città di Roma, la via d’uscita dalla "notte oscura della storia" (cfr Giovanni Paolo II, Insegnamenti, II/1, 1979, p. 1158). Di fatto, l’opera del Santo e, in modo particolare, la sua Regola si rivelarono apportatrici di un autentico fermento spirituale, che mutò nel corso dei secoli, ben al di là dei confini della sua Patria e del suo tempo, il volto dell’Europa, suscitando dopo la caduta dell’unità politica creata dall’impero romano una nuova unità spirituale e culturale, quella della fede cristiana condivisa dai popoli del continente. E’ nata proprio così la realtà che noi chiamiamo "Europa".
La nascita di san Benedetto viene datata intorno all’anno 480. Proveniva, così dice san Gregorio, "ex provincia Nursiae" – dalla regione della Nursia. I suoi genitori benestanti lo mandarono per la sua formazione negli studi a Roma. Egli però non si fermò a lungo nella Città eterna. Come spiegazione pienamente credibile, Gregorio accenna al fatto che il giovane Benedetto era disgustato dallo stile di vita di molti suoi compagni di studi, che vivevano in modo dissoluto, e non voleva cadere negli stessi loro sbagli. Voleva piacere a Dio solo; "soli Deo placere desiderans" (II Dial., Prol 1). Così, ancora prima della conclusione dei suoi studi, Benedetto lasciò Roma e si ritirò nella solitudine dei monti ad est di Roma. Dopo un primo soggiorno nel villaggio di Effide (oggi: Affile), dove per un certo periodo si associò ad una "comunità religiosa" di monaci, si fece eremita nella non lontana Subiaco. Lì visse per tre anni completamente solo in una grotta che, a partire dall’Alto Medioevo, costituisce il "cuore" di un monastero benedettino chiamato "Sacro Speco". Il periodo in Subiaco, un periodo di solitudine con Dio, fu per Benedetto un tempo di maturazione. Qui doveva sopportare e superare le tre tentazioni fondamentali di ogni essere umano: la tentazione dell’autoaffermazione e del desiderio di porre se stesso al centro, la tentazione della sensualità e, infine, la tentazione dell’ira e della vendetta. Era infatti convinzione di Benedetto che, solo dopo aver vinto queste tentazioni, egli avrebbe potuto dire agli altri una parola utile per le loro situazioni di bisogno. E così, riappacificata la sua anima, era in grado di controllare pienamente le pulsioni dell’io, per essere così un creatore di pace intorno a sé. Solo allora decise di fondare i primi suoi monasteri nella valle dell’Anio, vicino a Subiaco.
Nell’anno 529 Benedetto lasciò Subiaco per stabilirsi a Montecassino. Alcuni hanno spiegato questo trasferimento come una fuga davanti agli intrighi di un invidioso ecclesiastico locale. Ma questo tentativo di spiegazione si è rivelato poco convincente, giacché la morte improvvisa di lui non indusse Benedetto a ritornare (II Dial. 8). In realtà, questa decisione gli si impose perché era entrato in una nuova fase della sua maturazione interiore e della sua esperienza monastica. Secondo Gregorio Magno, l’esodo dalla remota valle dell’Anio verso il Monte Cassio – un’altura che, dominando la vasta pianura circostante, è visibile da lontano – riveste un carattere simbolico: la vita monastica nel nascondimento ha una sua ragion d’essere, ma un monastero ha anche una sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società, deve dare visibilità alla fede come forza di vita. Di fatto, quando, il 21 marzo 547, Benedetto concluse la sua vita terrena, lasciò con la sua Regola e con la famiglia benedettina da lui fondata un patrimonio che ha portato nei secoli trascorsi e porta tuttora frutto in tutto il mondo.
Nell’intero secondo libro dei Dialoghi Gregorio ci illustra come la vita di san Benedetto fosse immersa in un’atmosfera di preghiera, fondamento portante della sua esistenza. Senza preghiera non c’è esperienza di Dio. Ma la spiritualità di Benedetto non era un’interiorità fuori dalla realtà. Nell’inquietudine e nella confusione del suo tempo, egli viveva sotto lo sguardo di Dio e proprio così non perse mai di vista i doveri della vita quotidiana e l’uomo con i suoi bisogni concreti. Vedendo Dio capì la realtà dell’uomo e la sua missione. Nella sua Regola egli qualifica la vita monastica "una scuola del servizio del Signore" (Prol. 45) e chiede ai suoi monaci che "all’Opera di Dio [cioè all’Ufficio Divino o alla Liturgia delle Ore] non si anteponga nulla" (43,3). Sottolinea, però, che la preghiera è in primo luogo un atto di ascolto (Prol. 9-11), che deve poi tradursi nell’azione concreta. "Il Signore attende che noi rispondiamo ogni giorno coi fatti ai suoi santi insegnamenti", egli afferma (Prol. 35). Così la vita del monaco diventa una simbiosi feconda tra azione e contemplazione "affinché in tutto venga glorificato Dio" (57,9). In contrasto con una autorealizzazione facile ed egocentrica, oggi spesso esaltata, l’impegno primo ed irrinunciabile del discepolo di san Benedetto è la sincera ricerca di Dio (58,7) sulla via tracciata dal Cristo umile ed obbediente (5,13), all’amore del quale egli non deve anteporre alcunché (4,21; 72,11) e proprio così, nel servizio dell’altro, diventa uomo del servizio e della pace. Nell’esercizio dell’obbedienza posta in atto con una fede animata dall’amore (5,2), il monaco conquista l’umiltà (5,1), alla quale la Regola dedica un intero capitolo (7). In questo modo l’uomo diventa sempre più conforme a Cristo e raggiunge la vera autorealizzazione come creatura ad immagine e somiglianza di Dio.
All’obbedienza del discepolo deve corrispondere la saggezza dell’Abate, che nel monastero tiene "le veci di Cristo" (2,2; 63,13). La sua figura, delineata soprattutto nel secondo capitolo della Regola, con un profilo di spirituale bellezza e di esigente impegno, può essere considerata come un autoritratto di Benedetto, poiché – come scrive Gregorio Magno – "il Santo non poté in alcun modo insegnare diversamente da come visse" (Dial. II, 36). L’Abate deve essere insieme un tenero padre e anche un severo maestro (2,24), un vero educatore. Inflessibile contro i vizi, è però chiamato soprattutto ad imitare la tenerezza del Buon Pastore (27,8), ad "aiutare piuttosto che a dominare" (64,8), ad "accentuare più con i fatti che con le parole tutto ciò che è buono e santo" e ad "illustrare i divini comandamenti col suo esempio" (2,12). Per essere in grado di decidere responsabilmente, anche l’Abate deve essere uno che ascolta "il consiglio dei fratelli" (3,2), perché "spesso Dio rivela al più giovane la soluzione migliore" (3,3). Questa disposizione rende sorprendentemente moderna una Regola scritta quasi quindici secoli fa! Un uomo di responsabilità pubblica, e anche in piccoli ambiti, deve sempre essere anche un uomo che sa ascoltare e sa imparare da quanto ascolta.
Benedetto qualifica la Regola come "minima, tracciata solo per l’inizio" (73,8); in realtà però essa offre indicazioni utili non solo ai monaci, ma anche a tutti coloro che cercano una guida nel loro cammino verso Dio. Per la sua misura, la sua umanità e il suo sobrio discernimento tra l’essenziale e il secondario nella vita spirituale, essa ha potuto mantenere la sua forza illuminante fino ad oggi. Paolo VI, proclamando nel 24 ottobre 1964 san Benedetto Patrono d’Europa, intese riconoscere l’opera meravigliosa svolta dal Santo mediante la Regola per la formazione della civiltà e della cultura europea. Oggi l’Europa – uscita appena da un secolo profondamente ferito da due guerre mondiali e dopo il crollo delle grandi ideologie rivelatesi come tragiche utopie – è alla ricerca della propria identità. Per creare un’unità nuova e duratura, sono certo importanti gli strumenti politici, economici e giuridici, ma occorre anche suscitare un rinnovamento etico e spirituale che attinga alle radici cristiane del Continente, altrimenti non si può ricostruire l’Europa. Senza questa linfa vitale, l’uomo resta esposto al pericolo di soccombere all’antica tentazione di volersi redimere da sé – utopia che, in modi diversi, nell’Europa del Novecento ha causato, come ha rilevato il Papa Giovanni Paolo II, "un regresso senza precedenti nella tormentata storia dell’umanità" (Insegnamenti, XIII/1, 1990, p. 58). Cercando il vero progresso, ascoltiamo anche oggi la Regola di san Benedetto come una luce per il nostro cammino. Il grande monaco rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto le Suore Figlie della Croce e i laici che ne condividono il carisma, qui convenuti nel ricordo di suor Maria Laura Mainetti che, fedele al dono totale di sé, ha sacrificato la sua vita pregando per chi la colpiva. Saluto i fedeli di Trivento, accompagnati dal loro Vescovo Mons. Domenico Scotti e li esorto ad una sempre più generosa adesione a Cristo ad imitazione della Vergine Maria da loro tanto venerata con il titolo di "Incoronata". Saluto i Fratelli delle Scuole Cristiane, gli insegnanti e gli alunni dell’Istituto Pio XII di Roma, voluto da questo mio venerato Predecessore cinquant’anni fa in uno dei quartieri più poveri della città. Saluto gli atleti che partecipano ai campionati Europei di Taekwondo, incoraggiandoli a promuovere anche attraverso questa disciplina sportiva il rispetto per il prossimo e la lealtà. Saluto i rappresentanti dell’Istituto per Ispettori della Polizia di Stato, di Nettuno e gli esponenti dell’Aeronautica Militare, di Pratica di Mare.
Saluto infine i giovani, i malati e gli sposi novelli, esortando ciascuno a vivere intensamente questo tempo pasquale, testimoniando la gioia che Cristo morto e risorto dona a quanti a Lui si affidano.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
OLTRE IL DIBATTITO IDEOLOGICO SULLE «RADICI» - QUEI MODELLI VIVENTI PER LA CASA DA RICOSTRUIRE
FRANCESCO BOTTURI
Avvenire, 10 aprile 2008
«Oggi l’Europa – ha detto il Papa rievocando la figura di san Benedetto – è alla ricerca della propria identità» e con essa di «un’unità nuova e duratura», dopo le profonde ferite di due guerre mondiali e il crollo di imponenti e tragiche ideologie. Per un’impresa così grande – osserva il Papa – non bastano «gli strumenti politici, economici e giuridici, ma occorre anche suscitare un rinnovamento etico e spirituale che attinga alle radici cristiane del Continente, altrimenti non si può ricostruire l’Europa», perché si resta ancora esposti «al pericolo di soccombere all’antica tentazione di volersi redimere da È un giudizio forte che si illumina in relazione alla figura di san Benedetto, padre del monachesimo occidentale e patrono d’Europa. Proprio Benedetto, infatti, getta luce sul significato concreto e vivo delle «radici cristiane», spesso ridotto a oggetto di sterile dibattito ideologico. Con Benedetto si può capire che le «radici cristiane » che servono a «ricostruire l’Europa» non sono anzitutto dei riferimenti storicoculturali e neppure delle verità e dei valori, per quanto fondamentali e venerabili, ma sono modelli viventi di cammino umano, come Benedetto è stato e continua a essere.
Proprio Benedetto è esempio e maestro di radicalità cristiana e umana, dell’andare alla radice dell’umano. «Essere radicali significa andare alla radice», proprio così scrisse Marx, pur avendo ormai smarrito l’itinerario verso la radice interiore dell’uomo. Benedetto da Norcia invece – geniale organizzatore di vita comune e di una forma di autentico e riuscito 'comunismo' – ha trovato un itinerario alle sorgenti dell’umano, diventato «scuola» di nascita e di rigenerazione dell’uomo. sé». Con sapienti cenni Benedetto XVI fa intravedere i passi essenziali di questo cammino al centro dell’uomo, di cui – più di ogni altra cosa – ha bisogno l’uomo di oggi e di cui – più di ogni altra cosa – sembra aver perso la direzione e la consuetudine.
Nella vicenda di Benedetto si delinea un ritmo vitale di discesa- purificazione e di ascesacomunione, in cui si riconosce la vita dello spirito e nello Spirito. Tutto comincia con il desiderio di Dio e con il ritrarsi nella solitudine, dove –osserva il Papa – «doveva sopportare e superare le tre tentazioni fondamentali di ogni essere umano, la tentazione dell’autoaffermazione, della sensualità, dell’ira e della vendetta». Da questa stessa radice di nascondimento e di lotta solitaria sarebbe nata la vocazione alla vita comune e alla pubblica 'visibilità' della «fede come forza di vita» dei monasteri. E nel loro grembo il cammino interiore di Benedetto sarebbe divenuto 'scuola' per generazioni: scuola di preghiera e di lavoro, di silenzio e di vita condivisa, di vita ritirata e di ospitalità aperta al mondo, di esercizio di autorità dell’abate e di accoglienza e ascolto dei giovani.
Scuola, in sintesi, di una «autorealizzazione » non «facile ed egocentrica », ma «vera […] come creatura a immagine e somiglianza di Dio». Cioè come uomo che non pretende di generarsi da sé, ma accoglie con gratitudine di essere generato e per questo riprende ogni volta il cammino della discesa, del nascondimento, della lotta e della ascesa, della manifestazione, della comunione. Che questo sia il ritmo essenziale della Vita, l’uomo europeo l’ha imparato proprio da Benedetto. E ancora da lui – esorta il Papa – ha profondo bisogno di reimpararlo.
Il Cardinale Kasper e la missione verso gli ebrei - Risponde alle critiche sulla nuova preghiera del Venerdì Santo per gli ebrei
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 9 aprile 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'articolo del Cardinale Walter Kasper, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani e della Commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo, in risposta alle reazioni da parte ebraica sulla nuova formulazione della preghiera del Venerdì Santo per gli ebrei per la forma straordinaria del Rito Romano (Messale del 1962).
L'intervento del porporato è apparso su “L'Osservatore Romano” (10 aprile 2008).
* * *
di Walter Kasper*
La preghiera del Venerdì Santo per gli ebrei ha una lunga storia. La nuova formulazione della preghiera per la forma straordinaria del Rito Romano (Messale del 1962) realizzata da Papa Benedetto XVI è stata opportuna perché alcune formulazioni sono state considerate offensive da parte ebraica e urtanti anche da parte di vari cattolici. La nuova formulazione ha portato importanti miglioramenti del testo del 1962. Ha, però, suscitato nuove reazioni irritate, sollevando questioni di principio sia presso gli ebrei che presso alcuni cristiani (1).
Le reazioni avutesi da parte ebraica sono in gran parte motivate non in modo razionale, ma emozionale. Non si deve però liquidarle precipitosamente come causate da ipersensibilità. Pure presso amici ebrei che da decenni sono coinvolti in un intenso dialogo con cristiani, la memoria collettiva di catechesi e conversioni forzate è ancora sempre viva. Il ricordo della Shoah è per l'ebraismo odierno una traumatica caratteristica di identità che crea comunione. Molti ebrei considerano la missione verso gli ebrei una minaccia alla loro esistenza; talvolta si parla addirittura di una Shoah con altri mezzi. Bisogna dunque avere ancora una grande sensibilità nel rapporto ebraico-cristiano.
Nel frattempo le spiegazioni date sulla riformulata preghiera del Venerdì Santo hanno potuto eliminare i malintesi più grossolani. Già il puro fatto che la preghiera del Venerdì Santo del Messale del 1970 — nella forma ordinaria del Rito Romano, quindi, adoperata di gran lunga nel maggior numero dei casi — resti pienamente in vigore, dimostra che la riformulata preghiera del Venerdì Santo, adoperata soltanto da una parte estremamente piccola di comunità, non può significare un passo indietro rispetto alla Dichiarazione Nostra ætate del Concilio Vaticano II. Ciò vale ancora di più per il fatto che la sostanza della Dichiarazione Nostra ætate è compresa anche nella Costituzione, documento di più alto livello formale, sulla Chiesa Lumen gentium (n. 16); perciò, per principio, non può essere messa in questione. Inoltre, a partire dal Concilio c'è stato un gran numero di prese di posizione dei Pontefici, anche del Papa attuale, che si riferiscono alla Nostra ætate e che confermano l'importanza di questa Dichiarazione.
Diversamente dal testo del 1970, la nuova formulazione del testo del 1962 parla di Gesù come il Cristo e la Salvezza di tutti gli uomini, quindi anche degli ebrei. Molti hanno inteso questa affermazione come nuova e non amichevole nei confronti degli ebrei. Ma essa è fondata sull'insieme del Nuovo Testamento (cfr 1 Timoteo, 2, 4) e indica la differenza fondamentale, nota ovunque, che permane sia per i cristiani, sia per gli ebrei. Anche se non se ne parla esplicitamente nella Nostra ætate, né nella preghiera del 1970, non si può estrapolare la Nostra ætate dal contesto di tutti gli altri documenti conciliari e nemmeno la preghiera del Venerdì Santo del Messale del 1970 dall'insieme della liturgia del Venerdì Santo che ha come oggetto appunto quella convinzione della fede cristiana. La nuova formulazione della preghiera del Venerdì Santo del Messale del 1962, quindi, non dice nulla di veramente nuovo, ma esprime soltanto ciò che già finora era presupposto come ovvio, ma evidentemente, in tanti dialoghi, non era stato tematizzato a sufficienza (2).
Nel passato la fede in Cristo, che differenzia i cristiani dagli ebrei, si è trasformata spesso in un «linguaggio del disprezzo» (Jules Isaac) con tutte le gravi conseguenze che ne derivavano. Se oggi ci impegniamo per un rispetto reciproco, esso può fondarsi solo nel fatto che riconosciamo reciprocamente la nostra diversità. Perciò non aspettiamo dagli ebrei che concordino sul contenuto cristologico della preghiera del Venerdì Santo, ma che rispettino che noi preghiamo da cristiani secondo la nostra fede, come naturalmente anche noi facciamo nei confronti del loro modo di pregare. In questa prospettiva ambedue le parti hanno ancora da imparare.
La vera questione controversa è: devono i cristiani pregare per la conversione degli ebrei? Ci può essere una missione verso gli ebrei? Nella preghiera riformulata non si trova la parola conversione. Ma è indirettamente inclusa nell'invocazione di illuminare gli ebrei affinché riconoscano Gesù Cristo. In più, c'è il fatto che il Messale del 1962 contiene titoli per le singole preghiere. Il titolo della preghiera per gli ebrei non è stato modificato; esso suona come prima: Pro conversione Judæorum, «Per la conversione degli ebrei». Molti ebrei hanno letto la nuova formulazione nell'ottica di questo titolo, e ciò ha suscitato la reazione già descritta.
In risposta a ciò, si può far notare che la Chiesa Cattolica, a differenza di alcuni cerchi evangelicali, non conosce una missione verso gli ebrei organizzata e istituzionalizzata. Con tale richiamo, però, il problema della missione verso gli ebrei di fatto non è ancora chiarito teologicamente. Questo è proprio il merito della nuova formulazione della preghiera del Venerdì Santo, che, nella sua seconda parte, presenta una prima indicazione per una sostanziale risposta teologica.
Si parte ancora una volta dal capitolo 11 della Lettera ai Romani, che è fondamentale anche per la Nostra ætate (3). La salvezza degli ebrei è per Paolo un profondo mistero dell'elezione mediante la grazia divina (9, 14-29). I doni di Dio sono senza pentimento, e le promesse di Dio fatte al suo popolo, nonostante la disobbedienza di questo, non sono state revocate da Dio (9, 6; 11, 1.29). L'indurimento d'Israele torna a salvezza dei pagani. I rami selvatici dei pagani sono stati innestati sul ceppo santo d'Israele (11, 16s). Dio ha però la potenza di innestare di nuovo i rami tagliati (11, 23). Quando la pienezza dei pagani sarà entrata nella salvezza, sarà salvato tutto l'Israele (11, 25s). Israele rimane quindi portatore della promessa e della benedizione.
Paolo parla, nel linguaggio dell'apocalittica, di un mistero (11, 25). Con ciò si intende esprimere qualcosa di più del fatto che gli ebrei sono spesso per gli altri popoli un enigma e che la loro esistenza è per altri ancora una testimonianza di Dio. Con il termine «mistero» Paolo intende l'eterna volontà salvifica di Dio, la quale si manifesta nella storia attraverso la predicazione dell'Apostolo. Si riferisce concretamente a Isaia, 59, 20 e Geremia, 31, 33s. Con ciò fa riferimento al raduno escatologico dei popoli in Sion, promesso dai profeti e da Gesù, e alla pace universale (shalom) che poi sorgerà (4). Paolo vede tutta la sua opera missionaria tra i pagani in tale prospettiva escatologica. La sua missione dovrebbe preparare il raduno dei popoli, il quale, poi, quando vi entrerà il numero completo dei pagani, tornerà a salvezza per Israele e farà sorgere la pace escatologica per il mondo.
Si può dunque dire: non a motivo della missione verso gli ebrei, ma a seguito della missione verso i pagani Dio realizzerà alla fine, quando il numero completo dei pagani sarà entrato nella salvezza, la salvezza d'Israele. Solo Colui che ha indurito la maggior parte d'Israele, può anche scioglierne l'indurimento. Lo farà, quando «il liberatore» uscirà da Sion (11, 26). Costui, secondo il linguaggio paolino (cfr 1 Tessalonicesi, 1, 10), non è nessun altro se non il Cristo che ritorna. Ebrei e pagani, infatti, hanno lo stesso Signore (10, 12) (5).
La riformulata preghiera del Venerdì Santo esprime questa speranza in una preghiera di intercessione rivolta a Dio (6). Con questa preghiera la Chiesa ripete, in fondo, l'invocazione del Padre nostro «Venga il tuo regno» (Matteo, 6, 10; Luca, 11, 2) e l'acclamazione liturgica protocristiana «Maranà tha», «Vieni, Signore Gesù, vieni presto» (1 Corinzi, 16, 22; Apocalisse, 22, 20; Didaché, 10, 6). Tali preghiere per la venuta del Regno di Dio e per la realizzazione del mistero della salvezza, secondo la loro natura, non sono un appello rivolto alla Chiesa a compiere un'azione missionaria verso gli ebrei. Anzi, esse rispettano tutta la profondità abissale del Deus absconditus, della Sua elezione per grazia, dell'indurimento, come della Sua misericordia infinita. Con la sua preghiera la Chiesa, dunque, non assume la regia della realizzazione del mistero imperscrutabile. Non lo può affatto. Piuttosto mette del tutto il quando e il come di tale realizzazione nelle mani di Dio. Solo Dio può far sorgere il Suo Regno, nel quale tutto l'Israele sarà salvato e la pace escatologica toccherà il mondo.
Per sostenere quest'interpretazione ci si può riferire a un testo di san Bernardo di Clairvaux, che dice che non siamo noi a doverci occupare degli ebrei, ma che Dio stesso se ne occuperà (7). Quanto sia giusta questa interpretazione risulta ancora dalla dossologia che conclude il capitolo 11 della Lettera ai Romani: «O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!» (11, 33). Questa dossologia manifesta ancora una volta che si tratta della glorificazione adorante di Dio e della sua elezione imperscrutabile mediante la grazia, e non di un appello a qualsiasi azione, neanche alla missione.
L'esclusione di una missione mirata e istituzionalizzata verso gli ebrei non significa che i cristiani debbano stare con le mani in mano. Missione mirata e organizzata da un lato e testimonianza cristiana dall'altro lato vanno distinte. Naturalmente, i cristiani devono, dove è opportuno, dare ai fratelli e alle sorelle maggiori nella fede di Abramo (Giovanni Paolo II) testimonianza della propria fede e della ricchezza e bellezza della loro fede in Cristo. Ciò ha fatto anche Paolo. Durante i suoi viaggi missionari Paolo si è recato ogni volta prima nella Sinagoga, e solo quando lì non vi ha trovato la fede, è andato dai pagani (Atti degli Apostoli, 13, 5.14s.42-52; 14, 1-6 e altri; fondamentale Romani, 1, 16).
Tale testimonianza è richiesta oggi anche a noi. Deve avvenire certo con tatto e rispetto; sarebbe però disonesto se i cristiani nell'incontrare amici ebrei tacessero sulla propria fede o addirittura la negassero. Attendiamo altrettanto dagli ebrei credenti nei nostri confronti. Nei dialoghi che io conosco, quest'atteggiamento è del tutto normale. Un dialogo sincero tra ebrei e cristiani, infatti, è possibile solo, da un lato, sulla base della comunanza nella fede nell'unico Dio, Creatore del cielo e della terra, e nelle promesse fatte ad Abramo e ai Padri, e, dall'altro, nella consapevolezza e nel rispetto della differenza fondamentale che consiste nella fede in Gesù quale Cristo e Redentore di tutti gli uomini.
L'incomprensione diffusa della riformulata preghiera del Venerdì Santo è un segnale di quanto grande sia ancora il compito che ci sta davanti nel dialogo ebraico-cristiano. Le reazioni irritate che sono sorte dovrebbero, quindi, essere un'occasione per chiarire e approfondire ancora le basi e gli obiettivi del dialogo ebraico-cristiano. Se si potesse avviare in questo modo un approfondimento del dialogo, l'agitazione sorta porterebbe alla fine davvero a un risultato positivo. Si deve certo essere sempre consapevoli che il dialogo tra ebrei e cristiani resterà, per sua natura, sempre difficile e fragile e che esige in grande misura sensibilità da entrambi le parti.
*Cardinale presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani e della Commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo
Note
1) Una sintesi delle prime reazioni pro e contra si trova in: Il Regno n. 1029, 2008, 89-91. Oltre a tali prime reazioni nei mass media, è pervenuta alla Commissione per i Rapporti religiosi con l'ebraismo una serie di prese di posizione dettagliate e particolareggiate, provenienti soprattutto dagli Stati Uniti d'America, dalla Germania e dall'Italia, tra gli altri da R. Di Segni, La preghiera per gli ebrei, in «Shalom» 2008, n. 3, 4-7.
2) Ciò non vale per il Dialogo ebraico-cristiano internazionale in cui questa questione è sorta già dopo la Dichiarazione Dominus Iesus (2000). La Commissione per i Rapporti religiosi con l'ebraismo ne ha tenuto conto e ha organizzato a questo scopo colloqui di esperti ad Ariccia (Italia), Lovanio (Belgio) e Francoforte (Germania); il prossimo colloquio è programmato da lungo tempo a Notre Dame (Indiana, Stati Uniti d'America).
3) Quanto all'interpretazione rimando soprattutto all'ampio commentario, ricco anche per la nostra questione, di Tommaso d'Aquino, Super ad Romanos, capitolo 11, lectio 1-5. Commentari più recenti: E. Peterson, Der Brief an die Römer (Ausgewählte Schriften, 6), Würzburg, 1997, 312-330, specialmente 323; E. Käsemann, An die Römer (Handbuch zum Neuen Testament, 8a), Tübingen 1973, 298-308; H. Schlier, Der Römerbrief (Herders Theologischer Kommentar zum Neuen Testament, 6), Freiburg i. Br., 1997, 320-350, spec. 337-341; O. Kuss, Der Römerbrief, 3. Lieferung, Regensburg, 1978, 809-825; U. Wilckens, Der Brief an die Römer (EKK, VI/2), Zürich-Neukirchen, 1980, 234-274, spec. 252-257. Basilare il documento della Pontificia Commissione Biblica Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana (2001). Inoltre F. Mussner, Traktat über die Juden, München, 1979, 52-67; J. Ratzinger, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Torino, 2000; J. M. Lustiger, La promesse, Paris, 2002; W. Kasper, L'antica e la nuova alleanza nel dialogo ebraico-cristiano, in Nessuno è perduto. Comunione, dialogo ecumenico, evangelizzazione, Bologna 2005, 95-119. A ciò si aggiunge una gran quantità di letteratura più recente, la maggior parte di lingua inglese, sulle questioni del dialogo ebraico-cristiano.
4) Importanti sono passi come Isaia, 2, 2-5; 49, 9-13; 60; Michea, 4, 1-3 e altri. In merito: J. Jeremias, Jesu Verheißung für die Völker, Göttingen 1959.
5) Con questo si affronta la questione teologica più fondamentale dell'attuale dialogo ebraico-cristiano: c'è una sola alleanza o ci sono due alleanze parallele per ebrei e cristiani? Tale questione tratta dell'universalità della salvezza, dal punto di vista cristiano irrinunciabile, in Gesù Cristo. Cfr la sintesi della letteratura più antica in J. T. Pawlikowski, Judentum und Christentum, in «Theologische Realenzyklopädie», 18 (1988), 386-403; Pawlikowski, a causa degli interventi miei e di altri, ha sviluppato la sua posizione in modo essenziale e ha riferito ampiamente circa lo stato attuale della discussione in Reflections on Covenant and Mission in: Themes in Jewish-Christian Relations, ed. E. Kessler and M. J. Wreight, Cambridge (Inghilterra), 2005, 273-299.
6) La preghiera ha modificato questo testo nella misura in cui parla dell'entrata dei pagani «nella Chiesa», cosa che non si trova così in Paolo. Da ciò alcuni critici ebrei hanno concluso che si trattasse dell'entrata d'Israele nella Chiesa, cosa che non si dice nella preghiera. Nel senso dell'apostolo Paolo si dovrebbe piuttosto dire che la salvezza della maggior parte degli ebrei viene comunicata attraverso Cristo, ma non attraverso l'entrata nella Chiesa. Alla fine dei giorni, quando il Regno di Dio si realizzerà definitivamente, non ci sarà più una Chiesa visibile. Si tratta quindi del fatto che alla fine dei giorni l'unico Popolo di Dio composto di ebrei e pagani divenuti credenti sarà di nuovo unito e riconciliato.
7) Bernardo di Clairvaux, De consideratione, III, 1, 3. In merito anche: Sermones super Cantica Canticorum, 79, 5.
Magdi Cristiano Allam non interviene a Madrid per questioni di sicurezza
Dichiara l'ambasciata d'Italia nella capitale spagnola
di Jesús Colina
ROMA/MADRID, mercoledì, 9 aprile 2008 (ZENIT.org).- L'ambasciata italiana in Spagna ha confermato che la sospensione dell'incontro pubblico che doveva tenere a Madrid il giornalista Magdi Cristiano Allam, battezzato da Benedetto XVI a Pasqua, è dovuta all'impossibilità di garantire le condizioni di sicurezza necessarie.
Su Allam, vicedirettore ad personam de "Il Corriere della Sera", pesa una condanna a morte dettata da varie fatwa di esponenti islamici radicali.
"Noi avevamo chiesto le misure di sicurezza per Magdi Allam al Governo spagnolo, in particolare al Ministero degli Esteri - ha confermato a ZENIT l'ambasciata italiana in Spagna -. Non erano state concesse le condizioni necessarie. Successivamente c'è stato un ripensamento in base all'eccezionalità del caso, però ormai era troppo tardi".
Per questo motivo, spiegano le fonti dell'ambasciata, è stata prevista la partecipazione di Allam per videoconferenza all'incontro pubblico organizzato dall'Universidad CEU San Pablo in occasione della presentazione del suo primo libro tradotto in spagnolo, "Vencer el Miedo. Mi vida contra el terrorismo islámico y la inconsciencia de Occidente" ("Vincere la paura. La mia vita contro il terrorismo islamico e l'incoscienza dell'Occidente"), pubblicato dalle Ediciones Encuentro.
"Allam si riserva in futuro la possibilità di presentare in pubblico un altro libro in Spagna", annuncia l'ambasciata.
L'intervento di Allam è previsto per le 20.30 di questo mercoledì.
Norlevo: per la scienza è un abortivo
Contraccettivo d’emergenza solo a parole La pillola del giorno dopo non impedisce quasi mai la fecondazione, mentre uccide l’embrione. Come spiega Maria Luisa Di Pietro, che ha studiato la super-pillola
Ilaria Nava
Avvenire, 10 aprile 2008
È singolare che nel dibattito sulla pillola del giorno dopo, in cui è costantemente richiamata una visione laica della questione, si tralasci con grande disinvoltura l’aspetto scientifico. Decisamente scarni e poco chiari, se non contraddittori, gli accenni alle modalità con cui questo prodotto agisce. Noi ne abbiamo parlato con Maria Luisa Di Pietro, medico e presidente di Scienza & Vita.
Che cos’è la pillola del giorno dopo?
«La pillola del giorno dopo fa parte dei cosiddetti contraccettivi d’emergenza, alcuni dei quali, come in questo caso, agiscono mediante l’utilizzo di ormoni. È definita così perché viene assunta dopo un rapporto sessuale che si presume fecondante».
Come agisce?
«Può bloccare o ritardare l’ovulazione se somministrata prima che questa avvenga, anche se non sempre riesce ad impedirla. Se assunta prima della fecondazione, quindi, può agire come contraccettivo, anche se non sempre produce questo effetto. I meccanismi studiati finora hanno evidenziato anche un’azione sulla funzionalità delle tube di Falloppio, dal momento che si è registrata un’aumentata incidenza di gravidanze tubariche. Inoltre, altera a livello sia morfologico sia funzionale l’endometrio uterino. Di conseguenza, se è avvenuta una fecondazione, l’embrione ha difficoltà ad annidarsi in utero. Questi due ultimi effetti sono abortivi. La somministrazione della pillola del giorno dopo avviene alla cieca, poichè né il medico né la donna sanno qual è il momento del ciclo ovarico e mestruale in cui la donna si trova».
Alla luce di queste evidenze scientifiche, è possibile definirla contraccettivo d’emergenza?
«No, perché un prodotto si può definire 'contraccettivo' solo se agisce prima della fecondazione. Inoltre, con il termine 'emergenza' si vuole far passare l’dea che sia un prodotto che debba necessariamente essere prescritto».
Solitamente nel calcolare il tasso di abortività si tiene conto dei dati sull’assunzione della pillola del giorno dopo? In Italia questi dati sono conteggiati insieme a quelli relativi alla contraccezione oppure a parte, tenendo presente che – in ogni caso – non si tratta di un contraccettivo come un altro?
«No, questi dati non rientrano nelle statistiche sul tasso di abortività. Trattandosi di aborti 'nascosti' che si verificano prima dell’annidamento, essi non vengono quantificati. Inoltre, si continua a presentare la pillola del giorno dopo come una forma di prevenzione dell’aborto: è chiaro che non c’è allora nessuna volontà di considerarne l’effetto anche abortivo».
Alcuni negano che possa avere un effetto abortivo affermando che la gravidanza inizia con l’annidamento. Cosa ne pensa?
«Da sempre è considerata 'gravidanza' il periodo che va dalla fecondazione al parto. Addirittura, nel calcolo dell’età gestazionale si comprende l’arco di tempo a partire dall’ultima mestruazione. Ma, anche se si volesse sposare la teoria che fa coincidere l’inizio della gravidanza con l’annidamento, la questione fondamentale è un’altra: dal momento della fecondazione è iniziato un processo di sviluppo dell’essere umano che con la pillola del giorno dopo può essere interrotto. Se non la si vuole chiamare 'interruzione di gravidanza', chi sostiene questa teoria dovrebbe dirci di che cosa si tratta».
La letteratura scientifica come si è espressa sulla pillola del giorno dopo?
«Esistono molti studi, compiuti sia in vivo che in vitro, che hanno evidenziato i meccanismi di azione della pillola del giorno dopo. Sicuramente il farmaco non interferisce in alcun modo con l’attività degli spermatozoi, per cui se la cellula uovo è presente, essa viene fecondata; né provoca alterazioni del muco cervicale, effetti questi tipicamente contraccettivi. Gli altri meccanismi sono quelli sulla tuba e quelli antinidatori: In quest’ultimo caso si impedisce l’annidamento dell’embrione in utero a causa della alterazione morfologica e funzionale dell’endometrio. Di recente, nonostante tutti i tentativi di negare l’effetto abortivo della pillola del giorno dopo, è stato pubblicato uno studio che afferma come sia impossibile spiegarne l’efficacia riconducendo il meccanismo d’azione esclusivamente all’effetto antiovulatorio. C’è ancora molto da apprendere: i dati disponibili sono, però, già più che sufficienti per affermarne l’azione non solo contraccettiva ma anche abortiva».
Gabriella Leonardi
la storia
Non solo mosche bianche: a rifiutarla sono tanti E nel pieno rispetto della legge 194 sull’aborto
Avvenire, 10 aprile 2008
I medici e i farmacisti che rifiutano di prescrivere o vendere la pillola del giorno dopo sono molto più numerosi di quanto nemmeno immagini Miriam Mafai su Repubblica di qualche giorno fa, secondo la quale i medici obiettori di coscienza pisani sarebbero 'mosche bianche'. Solo per fare un esempio, a Giarre, un Comune catanese di 27.000 abitanti, gli obiettori di coscienza, tra medici e farmacisti, sono almeno tre: nessuno ha mai avuto sanzioni disciplinari da parte della Asl o da chicchessia. Una scelta impopolare, l’obiezione di coscienza, visto che il sabato sera numerosi ragazzi vanno al pronto soccorso o alla guardia medica chiedendo la pillola del giorno dopo mentre il lunedì mattina, prima di andare a scuola, ci provano pure al consultorio: altro che contraccezione d’emergenza, i ragazzi ne fanno un uso frequente. Ma quel che è peggio è che i medici non sono in rete tra loro e non possono monitorare l’uso o l’abuso che le ragazze fanno di questo farmaco, con forte carica ormonale che, a lungo andare, può provocare danni alla salute.
Tra i medici che non prescrivono la pillola del giorno dopo anche il dottor Salvo Mauro, ginecologo del Consultorio della Asl di Giarre che spiega: «Accertato che la pillola del giorno dopo agisce con un meccanismo antinidatorio, provocando il mancato impianto dell’embrione concepito, il medico obiettore, anche se pubblico ufficiale, può rifiutarsi di prescriverla perché fermamente convito che la vita di un essere umano cominci al concepimento e che qualunque atto lesivo intenzionale in questo delicato momento possa interrompere il percorso vitale. Non esiste nessuna differenza sostanziale tra aborto chimico 'precoce' e aborto strumentale 'tardivo', in quanto sempre di aborto si tratta. Né si può sostenere che sia preferibile il male minore della pillola del giorno dopo per evitare il male maggiore dell’aborto chirurgico, perché sempre male è. La legge 194/78 sulla interruzione volontaria della gravidanza prevede la non punibilità dell’aborto solo nel rispetto di alcune procedure, come il colloquio con la donna e l’accertamento dello stato di gravidanza e dell’epoca di gestazione».
«Al di fuori di queste procedure – prosegue il medico – l’aborto diventa un atto antigiuridico, al pari di quello clandestino.
L’eventuale prescrizione della pillola giorno da parte del medico non rispetta l’iter procedurale previsto dalla legge 194/78 e di conseguenza il medico può rifiutarsi di prescriverlo non solo per motivi etici ma anche giuridici. Né tantomeno l’obiezione di coscienza può essere configurabile a un’omissione di atto dovuto in quanto è scientificamente dimostrabile l’azione antinidatoria, e quindi abortiva, del preparato».
Insomma, è proprio il rispetto della legge sull’aborto che vieta la prescrizione della pillola del giorno dopo. «Anche il farmacista può rifiutarsi di dispensare questi prodotti, potendosi rendere corresponsabile di un aborto illegale – ribadisce Mauro –.Non solo.
L’obiezione non è appannaggio di medici e farmacisti, ma di tutti gli operatori sanitari che vedono svilita la stessa legge 194/78 e che avvertono la superficialità di questa pratica abortiva e il mancato rispetto di procedure stabilite».
di