venerdì 25 aprile 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) LO “SCANDALO” DEL CORPO DI PADRE PIO…, di Antonio Socci
2) Padre Pio e la risurrezione della carne
3) Padre Pio lavora anche oggi… eccome!
4) "Vi racconto com’è il corpo di Padre Pio", di Andrea Tornielli
5) "Veneriamo Padre Pio,ma senza fanatismo"
6) Omelia del cardinale José Saraiva Martins per san Pio da Pietrelcina - Il vangelo «superiore» della sofferenza
7) Storia di Susy e del suo angelo bambino
8) Ebrei, musulmani, cristiani. Ultime notizie dal cantiere del dialogo
9) 25 aprile, oltre la retorica la verità nel cuore della gente
10) Le due “Resistenze” e il dramma della guerra civile. Il caso di Rolando Rivi
11) Nella scissione fra pensiero e pratica Thomas Jefferson incarnò la forza e la debolezza dell'illuminismo americano - Lo schiavista che proclamò il diritto alla libertà


LO “SCANDALO” DEL CORPO DI PADRE PIO… 24.04.2008
Qua sotto vi dico cosa penso dell’esposizione del corpo di Padre Pio che tante polemiche ha suscitato. Ma prima vi lascio una perla del Padre: “Lo Spirito di Dio è spirito di pace… Egli ci fa sentire un dolore tranquillo, umile e fiducioso dovuto precisamente alla Sua Misericordia… Invece lo spirito del Male esaspera… e ci fa provare una specie di ira contro di noi: mentre proprio nei nostri confronti dovremmo esercitare la carità più grande” C’è un “Claudio Magris” dentro ognuno di noi. Avverto anche io, istintivamente, la repulsione per la riesumazione del corpo di padre Pio e per la sua esposizione alla venerazione dei fedeli (dal 24 aprile) che stanno per arrivare a milioni a S. Giovanni Rotondo. La cosa ha indotto lo scrittore triestino a protestare sul Corriere della sera. Perché noi, come lui, siamo naturalmente “spiritualisti”, mentre il cristianesimo è scandalosamente “materialista”. Anzi, come hanno detto Giorgio la Pira e Romano Guardini, “i cristiani sono gli unici, veri materialisti”.

La nostra mentalità naturale – oggi dominante – è quella degli antichi gnostici: lo schifo della corporeità. Il terrore e la disperazione della morte. Abbiamo allestito una colossale macchina sociale per esorcizzare il corpo e i suoi processi biologici, perché mostrano il suo continuo disfacimento. Abbiamo orrore di tutti i segni della decadenza fisica, ci repellono gli umori e gli odori del corpo, l’imbiancarsi dei capelli, la loro caduta o le rughe perché questo inesorabile decadere della carne prefigura la morte. Il lento putrefarsi del corpo ha bisogno di continui lavori di restauro e manutenzione.

Non a caso il fatturato dell’industria cosmetica è in costante crescita. Un vero boom. L’uso di deodoranti, creme e altre diavolerie serve proprio a costruirci un corpo virtuale come quello che andiamo a modellarci con la “plastica” (facciale o meno) o in palestra o su “Second Life”.

Ciò che chiamiamo bello è in realtà una “immagine” che nasconde, perché è costruita per fermare l’istante ed esorcizzare la natura materiale delle cose che consuma e disfa. L’arte è nata così, anticamente, in Egitto e in Grecia. Oggi basta considerare il “culto della bellezza femminile” a cui si dedica una colossale industria mediatica maschile con cui – come scrive Camille Paglia – “l’uomo si è sforzato di fissare e stabilizzare il pauroso divenire naturale… La bellezza arresta e raggela il flusso turbolento della natura” perché ferma (almeno in apparenza, come immagine) lo sfacelo della materia.

Nella nostra epoca cancelliamo tutto ciò che ci ricorda la decadenza fisica e la malattia. “La vita moderna, con i suoi ospedali e i suoi articoli igienici”, scrive la Paglia “tiene a distanza e sterilizza questi primordiali misteri proprio come ha fatto con la morte, un tempo pietosa incombenza domestica”.

Un tempo, cioè quando si era cristiani. Il cristianesimo infatti è entrato in questa nostra mentalità naturale come un ciclone. La Chiesa ha letteralmente inventato gli ospedali e li ha costruiti al centro delle città, spesso davanti alle cattedrali, non ai margini dell’abitato come si usa fare oggi. Il malato che era schifato e abbandonato nell’antichità greca e romana, è diventato in tempi cristiani venerato “come Gesù crocifisso”, accudito, curato, amato pietosamente fin nelle sue piaghe che naturalmente ci repellono. Citavamo all’inizio La Pira e Guardini: in effetti “sono i cristiani i veri materialisti”. Non potrebbe essere altrimenti, perché sono gli unici a poter abbracciare tutta la realtà, anche la sua dolente carnalità, senza l’angoscia e la malinconia del disfacimento fisico e della morte.

Perché il cristianesimo è la notizia di Dio che “si è fatto carne”, uomo come noi. L’uomo-Dio si è piegato teneramente su tutte le ferite umane e le ha guarite, ha preso su di sé, sulla sua stessa carne, tutta la violenza e la sofferenza del mondo, facendosi macellare e morendo. Infine è risorto nella carne, mostrando, facendo toccare con mano il suo stesso corpo divinizzato come è destinato a diventare il nostro.

Ha rivelato agli esseri umani: “Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati”. E così ha confessato il folle amore che l’Onnipotente ha per ogni sua creatura. La nostra mentalità pagana ha orrore del corpo, invece Dio lo ama, tanto più quando è ferito, sofferente e debole. Se Dio ha contato perfino i nostri capelli è perché ci guarda come un innamorato. Che vuole sottrarci alla morte.

Nessun amante di questo mondo ha mai potuto promettere alla sua amata che niente di lei, neanche un capello, sarebbe mai perito. Così invece ha fatto l’Uomo-Dio. E dunque, attraverso Gesù, tutto ci sarà restituito (per sempre) di noi e delle persone che amiamo. Dante, nella Divina Commedia, ha questa intuizione geniale: che le anime sono felicissime in Paradiso e non mancano di nulla, ma hanno “il disìo d’i corpi morti/ forse non pur per lor, ma per le mamme,/ per li padri e per li altri che fuor cari” (Par XIV, 63-65). E’ l’idea che la felicità sarà perfetta e totale in Paradiso non tanto per la resurrezione dei propri corpi, ma per la resurrezione delle persone che amammo. Ci sarà restituito tutto, perfino il loro sorriso perduto e il loro sguardo.

E trasfigurati in una eterna giovinezza come quella che è evidente in Maria quando appare ai veggenti (da Lourdes a Medjugorje) che, fra l’altro, la descrivono bellissima. La Madonna è infatti la prima dopo Gesù ad essere entrata nella gloria col suo stesso corpo. Il dogma dell’Assunzione ha questo significato: che tutto il nostro corpo è sacro. Ed è destinato all’eternità. Alla divinizzazione. I “gesti” con cui Gesù ci abbraccia, ci sostiene e ci trasfigura sulla terra – cioè i sacramenti – sono tutti legati a segni fisici. Trasformano anche il corpo. Niente come il cristianesimo esalta l’uomo, fin nella sua povera corporeità.

Con l’Eucaristia, fatta per struggersi in un cuore umano, entra nel cristiano la stessa Trinità: “per questo divino e ineffabile contatto”, dice il teologo, “l’anima e anche il corpo del cristiano diventano più sacri della pisside e delle stesse specie sacramentali” (Royo Marin).

Per questo non stupisce che la Chiesa, nella liturgia funebre, incensi il corpo dell’uomo che appartiene al corpo stesso di Cristo. E non stupisce che il corpo dei santi sia particolarmente venerato. Infatti in molti casi Dio si degna di fare miracoli proprio attraverso le reliquie dei santi. Padre Pio oltretutto portò nel suo stesso corpo i segni prodigiosi della crocifissione di Gesù, e per 50 anni, contro ogni legge naturale e biologica. La sua carne e il suo sangue emanavano il profumo di Cristo.

Così il corpo dei santi trasforma tutta la terra in altare e prepara la festa della resurrezione finale. Ricordate Alioscia Karamazov ? Rifiutando il padre biologico, descritto da Dostoevskij come fisicamente e moralmente brutto, il giovane scelse un padre spirituale dentro la vita monastica: lo starec Zosima. Ma fu sconvolgente per lui, alla morte del monaco, percepire, dopo poche ore, i segni della sua decomposizione fisica. Finché comprese, nel pianto, che quella era l’ultima lezione che gli dava lo starec. Capì che il corpo dei cristiani è il seme della prossima resurrezione e, disteso, abbracciò amorosamente la terra. Che “geme per le doglie del parto”. Finché vedremo la bellezza di “cieli nuovi e terra nuova” dove la giustizia ha stabile dimora e non c’è più il pianto.

E’ l’unica giustizia possibile. Il filosofo della Scuola di Francoforte, Theodor Adorno, pur marxista, osservò che una vera giustizia richiederebbe un mondo “in cui non solo la sofferenza presente fosse annullata, ma anche fosse revocato ciò che è irrevo cabilmente passato”. Concluse che dunque ci vorrebbe “la resurrezione della carne”.

E’ precisamente questa giustizia che la Chiesa annuncia, anche con la venerazione del corpo dei santi. Annuncia la risurrezione. Duemila anni fa gli intellettuali di Atene – dopo aver ascoltato con interesse Paolo – si misero di colpo a irriderlo appena annunciò la risurrezione dei morti. Come se fosse un ciarlatano o un matto. Il cristianesimo è questa rivoluzione (la sola!), una “notizia da pazzi”, non una minestrina di regole di buona educazione e di buoni sentimenti. Infatti si parlò di follia ieri sull’Areopago come oggi sulle colonne del Corriere della sera.
Antonio Socci
Da Libero, 23 aprile 2008


Padre Pio e la risurrezione della carne
Autore: Riva, Sr. Maria Gloria Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
giovedì 24 aprile 2008
Io credo nella risurrezione della carne. Tra i tanti articoli del credo, dimenticati da certo cristianesimo adulto e da certa laicità emancipata, c’è senz’altro questo. Lo dimostrano le recentissime polemiche suscitate dall’esposizione del corpo incorrotto di san Pio da Pietrelcina. L’evento ha infastidito: si è parlato di feticismo, di esposizione macabra, di ostentata religiosità e forse d’altro ancora. Non crediamo che queste, come altre polemiche, possano minimamente scoraggiare il numerosissimo gruppo di fedeli affascinati dalla figura di questo grande santo dei tempi moderni, né ci sembra il caso di controbattere punto per punto certe evidenti e rozze e basse insinuazioni. Quello che ci sembra giusto dire è questo: il disprezzo del corpo così evidente in tanta pornografia, nella diffusa mercificazione della persona umana di ogni sesso ed età, così evidente nella cultura di morte che pervade moltissimi ambiti, anche sanitari, trova nell’oblio del dogma della risurrezione della carne una conferma evidentissima.
Siamo nati per morire ma alberga nel nostro cuore il desiderio dell’immortalità. Dio stesso ha messo nel nostro cuore un tale desiderio e Cristo, che più di noi è nato per morire, l’ha portato a compimento aprendoci con la morte il valico dell’eternità. La Chiesa crede profondamente in questa verità e il rispetto del corpo ad ogni tappa della sua esistenza: dalla nascita a dopo la morte, è sempre stato al centro delle sue preoccupazioni educative.
Il segno più evidente che questa verità rimane è proprio nei santi. Dalla Vergine Madre, di cui non si conosce la tomba perché fu assunta in Cielo e gode già della resurrezione del suo corpo, a innumerevoli santi di ieri e di oggi il cui corpo è rimasto incorrotto, una lunga tradizione di segni e di fede attesta la dimensione eterna che ci attende.
Non è una novità assoluta nella plurimillenaria storia della Chiesa trovare il corpo di un santo perfettamente integro senza odore, le città d’Italia ne offrono innumerevoli casi e testimonianza, né è una novità presentare alla pubblica venerazioni tali spoglie incorrotte. Non è una novità e non è segno di attaccamento a pratiche obsolete e medioevali, è piuttosto un potente richiamo alla speranza e all’etica. Alla certezza che vale proprio la pena di vivere e di vivere bene, perché nulla di ciò che accade qua giù è indifferente all’eternità.
La nostra carne è tempio dello Spirito Santo e con più si nutrirà in vita di tale consapevolezza con più godrà della bellezza riservata alla condizione celeste. Da uno scienziato è stato, di recente, affermato che Dio non gioca a dadi con l’universo, ma tutto è preordinato da una misteriosa provvidenza. Dio non gioca a dadi neppure con ciascuno di noi. Il nostro corpo è destinato alla comunione con lui, al pieno e perfetto godimento del proprio stato del quale i godimenti terreni non sono che un pallido segno. Ben vengano allora tali e straordinari conferme da parte dei santi. Come a santa Bernardette e a Gemma Galgani si è aggiunto Padre Pio, si possano veramente aggiungere innumerevoli santi: da Giovanni Paolo II a Madre Teresa di Calcutta. A forse tanti e sconosciuti santi di cui chi scrive ha notizia certa, che anche dopo morte hanno avuto la grazia di testimoniare al mondo che il nostro corpo è prezioso per Dio. Questa mia carne risorgerà, cantava già il beato Giobbe, e i miei occhi vedranno dal vivo il Salvatore.



Padre Pio lavora anche oggi… eccome!
La storia di Irene Gaeta, 71 anni, figlia spirituale di Padre Pio. Si incontrano nel 1946 quando il Padre in bilocazione visita la bambina, che allora ha solo nove anni. Le bilocazioni sono durate undici anni, dal 1946 al 1957. Nel 1960, Irene incontra a San Giovanni Rotondo, per la prima volta, il Padre stigmatizzato. Da quell’incontro inizieranno i suoi successivi frequenti contatti con lui. Verrà così a delinearsi il progetto che S. Pio le affiderà, quello, cioè, di dare vita ad una intensa attività di preghiera e di adorazione eucaristica e di farsi promotrice di opere di carità. Irene racconta queste esperienze con la stessa tranquillità e sicurezza con cui descrive ciò che ha fatto ieri mattina. E chi fosse preso da qualche dubbio sul suo equilibrio mentale sappia che si tratta di una donna normalissima, che ha fondato l’Associazione «Discepoli di Padre Pio» riconosciuta ufficialmente dal Vicariato della diocesi di Roma, che lavora in parrocchia e che non fa un passo senza il consenso dell’autorità ecclesiastica. Presidente dell’Associazione “I Discepoli di Padre Pio” è don Giovanni D’Ercole, capo ufficio della Segreteria di Stato.

1) «Padre Pio ha segnato la mia vita da quando avevo otto anni» di Andrea Tornielli
La sua vita è stata sconvolta da Padre Pio, che le «appare» da quando aveva otto anni. È stato lui a dirle che lavoro fare, lui a sceglierle il marito, lui a farle iniziare un’opera colossale e costosa. Irene Gaeta, 71 anni, vive a Vitinia, frazione di Roma sulla via del mare e almeno una volta al mese viene a San Giovanni Rotondo. Anche ieri era qui, pronta a sfilare davanti all’urna di cristallo che racchiude le spoglie del santo con le stimmate.
«Era il 1946, avevo otto anni, vivevo con i miei a Castelporziano, mio padre era un impiegato del Quirinale - racconta la signora - avevo fatto da poco la prima comunione. Una sera entrando in camera mia la trovai inondata di luce. Vidi un frate che mi benediceva con l’ostensorio. Il suo sguardo tagliente mi ha penetrato l’anima. Gli domandai chi fosse e lui rispose: “Padre Pio da Pietrelcina”. Ripetei altre due volte la domanda e infine, la terza volta, mi disse: “Sono un frate che prega, un giorno mi conoscerai”». Irene racconta queste esperienze con la stessa tranquillità e sicurezza con cui descrive ciò che ha fatto ieri mattina. E chi fosse preso da qualche dubbio sul suo equilibrio mentale sappia che si tratta di una donna normalissima, che ha fondato l’opera «Discepoli di Padre Pio» riconosciuta ufficialmente dal Vicariato della diocesi di Roma, che lavora in parrocchia e che non fa un passo senza il consenso del vescovo del luogo.
«Quel giorno Padre Pio mi disse che mi sarebbe stato sempre vicino, che mi avrebbe protetta - racconta -. Soltanto nel 1957 vidi per la prima volta una foto del frate stimmatizzato di San Giovanni Rotondo, e mi resi conto solo allora che era lo stesso che vedevo io. Padre Pio mi è apparso tantissime volte, per affidarmi delle missioni: dovevo proteggere delle persone, aiutare una mamma in difficoltà i cui figli rischiavano di morire dal freddo, portare conforto. Era lui a indicarmi cosa fare, come, dove e quando. Un giorno mi disse: “Ti condurrò all’apice dell’alta aristocrazia perché tu possa capire come sono miseri e poveri di spirito”. Aprii una sartoria in via Frattina a Roma, “Irene Alta Moda” e venni in contatto con le grandi famiglie romane. Un lavoro che mi ha permesso di aiutare tante famiglie in difficoltà e tante prostitute che volevano cambiare vita».
La misteriosa «regia» esercitata dal santo sulla vita della donna non si limita a questo. «Il 29 marzo 1966, durante un pellegrinaggio, mentre assistevo alla messa celebrata da Padre Pio, avvertii la sua voce che mi diceva: “Alzati vattene a pigliá quello che dorme e portamelo a confessare”. Mi fece vedere un pullman di colore azzurro. Uscita di chiesa, feci tre chilometri a piedi, fino all’inizio del paese. C’erano dei pullman, dentro uno vidi un giovane che dormiva. Gli dissi di andarsi a confessare, e lui: “Io? Sono comunista! Non vado a confessarmi”. Lo seguii, lo incontrai a Roma, lo aiutai a prepararsi alla confessione. Lui si era invaghito di me, ma io volevo farmi suora francescana. Ma Padre Pio mi disse: “Sposati per adempiere alla volontà di Dio, benedico il tuo matrimonio”. E così è stato».
Irene Gaeta è in grado di raccontare centinaia di grazie e presunti miracoli che hanno per protagonista il santo frate. Ancora oggi lei continua a ricevere innumerevoli segnalazioni e richieste, che puntualmente trasferisce nella preghiera a quel burbero frate che ha «visto» fin da bambina e con il quale ha continuato ad avere uno specialissimo legame. «Quattro anni fa mi ha chiesto un santuario in Calabria. Un santuario, vicino a un ospedale pediatrico, con un centro di ricerca e un villaggio per i sofferenti». Un’impresa titanica, per una donna anziana e ormai vedova. Eppure... «Io mi sono rimboccata le maniche, confidando solo nella Provvidenza e nella parola di Padre Pio. In un anno abbiamo raccolto due milioni di euro e abbiamo già comprato il terreno dove iniziare i lavori, nella pianura sopra Tropea, in provincia di Vibo Valentia».
L’incredibile storia di Irene è solo una delle tante che si possono scoprire nella galassia dei devoti del frate cappuccino. Forse lei è la persona giusta alla quale porre la domanda che in tanti si sono fatti in questi giorni: perché così tanta gente accorre a San Giovanni Rotondo? Perché questo incontenibile affetto? Perché già quasi un milione di prenotati per sfilare davanti all’urna che rimarrà esposta - ha detto il vescovo D’Ambrosio - fino al 23 settembre 2009? «Si avverte la sua grande paternità - risponde con un sorriso Irene -. Padre Pio si fa carico delle sofferenze di ogni anima. Lo faceva su questa terra, continua a farlo dal paradiso. Dà ancora speranza, è uno specchio del volto di Gesù, ci porta a donare la vita al Signore, a pregare per la conversione a fare penitenza».
Il Giornale 25 aprile 2008-04-25

2) A Drapia la cittadella di Padre Pio
Nel 1946, Padre Pio da Pietrelcina (1887-1968) appare in bilocazione ad una bimba di 9 anni di nome Irene Gaeta per dirle di essere stato lui a salvarla nel 1945, sottolineando, come accadde anche ad altre persone, che essa gli era stata affidata da Dio e che l’avrebbe più tardi conosciuto. Le bilocazioni sono durate undici anni, dal 1946 al 1957. Nel 1960, Irene incontra a San Giovanni Rotondo, per la prima volta, il Padre stigmatizzato. Da quell’incontro inizieranno i suoi successivi frequenti contatti con lui. Verrà così a delinearsi il progetto che S. Pio le affiderà, quello, cioè, di dare vita ad una intensa attività di preghiera e di adorazione eucaristica e di farsi promotrice di opere di carità, tra cui la costruzione di una casa di accoglienza per l’Uomo solo a Vitinia. La scelta di Vitinia è legata a diversi fattori. La Chiesa parrocchiale venne costruita nel 1953 per iniziativa di Luigi Gedda, allora Presidente dell’Azione Cattolica, e dedicata, su indicazione di Padre Pio allo stesso Gedda, al Sacro Cuore di Gesù Agonizzante nel Getsemani. Nel 1955, il Cardinale Clemente Micara consacrerà la Chiesa. Padre Pio indicò, ad Irene, Vitinia quale futuro centro di irradiazione di fede, perché la Parrocchia è sorta dall’offerta dell’Azione Cattolica, che rimane pur sempre speranza viva della Chiesa. Inoltre, il luogo sacro è dedicato al Sacro Cuore di Gesù Agonizzante, ossia a quell’ideale di vita che, lungo l’intero corso dell’esistenza, Padre Pio volle fare proprio. Visibile segno di questo ideale furono in lui le stimmate, che per ben 50 anni ne contrassegnarono la “missione di frate che prega”, come egli volle qualificarsi di fronte agli estimatori. Nel 1988, nasce il Gruppo di Preghiera di Padre Pio, sotto la direzione spirituale di Mons. Marino Bruno, Parroco della Chiesa Sacro Cuore di Gesù Agonizzante. Il gruppo si riunisce in Parrocchia per l’adorazione eucaristica, la recita del Santo Rosario e la Santa Messa ogni seconda domenica del mese. Le tappe di avvicinamento alla realizzazione dei vari progetti, tra cui la Casa di Accoglienza di Padre Pio per l’Uomo solo, sono andate via via concretizzandosi. Un primo passo fu fatto il 25 giugno 1989 con l’inaugurazione della statua di Padre Pio, opera dello scultore Antonio Berti, sul Sagrato della Chiesa di Vitinia. Questo monumento, sorto su ispirazione dello stesso Padre Pio, volle essere un segno tangibile della presenza spirituale dell’umile cappuccino in questo luogo. Il secondo passo avvenne con la ristrutturazione della cripta della Chiesa, inaugurata il 20 dicembre 1990. La cripta è diventato un luogo particolare di adorazione eucaristica per la comunità parrocchiale e per il Gruppo di Preghiera di Padre Pio. All’adorazione continuata del giovedì, iniziata nel settembre 1996, i membri del Gruppo partecipano attivamente. Nella stessa cripta, è presente un reliquiario con un frammento della Croce di Gesù, reliquiario donato dalla Principessa Luigia Sciarra, in memoria del marito Mario, per un voto fatto a Padre Pio. Il terzo passo si realizza nel 1994 con la costituzione dell’Associazione Casa di Accoglienza di Padre Pio per l’Uomo solo nel Sacro Cuore di Gesù Agonizzante. Ad essa, fece seguito, l’11 maggio 1997, l’inaugurazione in Parrocchia della prima sede di detta Associazione. Scopo dell’opera è quello di offrire all’“Uomo solo”, soprattutto ai giovani particolarmente provati dal disagio e dalla solitudine, un aiuto per ricostruire spiritualmente se stessi, per scoprire la propria vocazione e ritrovare forza per riprendere il cammino della propria vita nella società. All’“Uomo solo” nel senso ora indicato, si intende offrire un’accoglienza fondata sull’amore, un amore vissuto nello stile delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità. Esse costituiscono l’ossatura portante della vita spirituale di Padre Pio che, con questa esortazione, ha detto: “Senza la fede non nasce la speranza, senza la speranza non nasce la carità, virtù grande che allarga il cuore fino a trasformarlo in un tempio dello Spirito Santo”. Per un quinquennio, si tenne in Parrocchia un ciclo di conferenze sulla vita e la spiritualità di Padre Pio. Il passo decisivo avviene nel 1998, quando iniziano le trattative per l’acquisto della “Villa Maria Grazia” a Vitinia, quale luogo di realizzazione della Casa di Accoglienza. Le trattative giungono a buon fine e il 19 febbraio 1999 si stende il rogito d’acquisto, cui fa seguito, appena tre giorni dopo, l’inizio della ristrutturazione stessa. L’Associazione avvia l’opera con scarsità di mezzi ma con una immensa fiducia nella Divina Provvidenza e… nel giugno 2001 la Casa è pronta per accogliere i primi ospiti e l’Associazione vi trasferisce la sua sede. In questa prima casa di accoglienza, sono stati accolte una cinquantina di ragazze madri e sono venuti alla luce trentotto bambini. Diversi nuclei familiari in situazione di grave disagio e donne in difficoltà vi hanno trovato amore, conforto, solidarietà ed accoglienza. Nel corso del tempo, si avverte la necessità di fronteggiare un’altra emergenza: quella dei malati oncologici che sono sottoposti a trattamento di radioterapia in day hospital, nelle strutture romane, ma provengono da altre città. Come affrontare, oltre alla sofferenza per la malattia e la terapia stessa, un soggiorno lontano da casa e dai propri affetti per un periodo che può andare fino a due mesi? Casa Accoglienza di Padre Pio per l’Uomo Solo si propone come luogo dove essi possano trovare riparo, conforto e ospitalità, insieme ad un loro familiare. Nel corso degli anni, si avverte sempre maggiormente la necessità di approfondire e vivere più intensamente la spiritualità di Padre Pio. Accogliendo la proposta di Irene Gaeta, condivisa da un folto gruppo di fedeli, S. Em. il Cardinale Camillo Ruini, Vicario Generale di Sua Santità per la Diocesi di Roma, in data 23 gennaio 2003, approva la costituzione dell’Associazione “I Discepoli di Padre Pio”. L’Associazione intende perseguire finalità di solidarietà alla luce degli insegnamenti della Chiesa in uno spirito francescano. Essa integrerà i propri fini nell’attività pastorale della Parrocchia di riferimento ed adotterà una Regola di Vita fondata sull’amore, sulla povertà e sull’obbedienza incondizionata alla Santa Madre Chiesa, secondo l’esempio e l’insegnamento di San Francesco e di San Pio da Pietrelcina. La Regola è volta ad imprimere il Vangelo di Gesù Cristo nel cuore di coloro che vi aderiranno in uno spirito di comunione ecclesiale. Coloro che desiderano fare parte dell’Associazione, siano essi giovani o adulti, siano persone unite in matrimonio o desiderose di consacrare la propria vita totalmente al Signore con la professione dei voti (pubblici o privati), trovano in essa la possibilità di realizzare nella vita familiare, professionale nonché religiosa gli stessi ideali di vita cristiana che il Santo Stigmatizzato fece propri. Sarà formata una milizia francescana sacerdotale che costituirà la famiglia missionaria dei Discepoli di Padre Pio. I Discepoli hanno già dato vita a varie iniziative di fede tra cui la pratica, ogni mese, delle Quarant’ore di Adorazione Eucaristica continuata. Questo tempo di meditazione e di preghiera si svolge nella Cappella della Casa di Accoglienza dal 22 al 23 di ogni mese, data anniversario dell’ultima messa celebrata da Padre Pio e del suo transito. Iniziano con la Santa Messa alle ore 5 del mattino del 22 (Messa dell’Alba), a ricordare che Padre Pio celebrava la Santa Messa ogni giorno alle ore 5 del mattino, e continuano giorno e notte fino alla Santa Messa concelebrata, alle ore 19.30 del giorno 23. A sostegno dell’Associazione “I Discepoli di Padre Pio”, il Vicariato di Roma ha approvato, in data 7 febbraio 2003, l’omonima Fondazione, per la promozione e diffusione di attività che si ispirano alla figura di San Pio da Pietrelcina ed alla sua spiritualità. La Fondazione si propone di contribuire allo sviluppo di iniziative di solidarietà verso coloro che si trovano in situazioni di abbandono, di solitudine e di sofferenza. Un’altra tappa di fondamentale importanza in questo cammino si è verificata il 15 novembre 2003: S.E. Reverendissima Mons. Rino Fisichella, Rettore della Pontificia Università Lateranense, ha solennemente consacrato l’altare della Cappella della Casa, dedicato, con le reliquie che porta, a San Pio da Pietrelcina. Il Signore ha messo il Suo sigillo! Altre opere dei Discepoli di Padre Pio hanno visto la luce in Italia e all’estero. In Argentina, è stato costituito un centro diurno “La Casa del Niño Padre Pio”, una mensa per bambini bisognosi figli di “cartoneros”. In Eritrea, adozioni a distanza. In Piemonte, a Fraiteve nello Sestrière nella vallata dove si sono svolte le gare di discesa libera delle Olimpiadi 2006 è stata costruita una Cappella rifugio ed eretta una statua di Padre Pio benedicente la vallata. I Discepoli di Padre Pio hanno anche costituito piccole comunità oranti in Sicilia... in Calabria... nel Trevigiano... in Giappone... In Calabria, a Drapia, vicino a Tropea, è stato acquistato un terreno di 15 ettari dove sorgerà un santuario e la Cittadella di Padre Pio con un ospedale pediatrico. A Roma, nel quartiere di Torrino-Mezzocammino ci sono trattative con il Comune, per la concessione di un terreno dove sorgerà una casa di accoglienza per bambini e adolescenti colpiti da gravi malattie e handicap e un centro di ricerca scientifica e di formazione professionale (ECM) per il personale medico e paramedico.
http://www.idiscepolidipadrepio.it/index.htm

2) L’Associazione “I discepoli di Padre Pio”Apparso ad una signora romana, le ha mostrato il posto in cui realizzare il suo progetto. Mi ha detto: “Vai a Drapia e fai costruire un santuario e un’ospedale pediatrico”
di Flavia Mamone
Drapia – “Vai in Calabria, a Drapia, e lì fai costruire una cittadella per i bisognosi”. Così San Pio da Pietralcina si sarebbe rivolto ad Irene Gaeta, anziana signora romana a lui devota, per affidarle il compito di tradurre in opere concrete il suo desiderio di aiutare la gente che soffre, di far sentire ancora, in maniera tangibile, la sua caritatevole presenza. Per oltre un decennio, dal ‘46 al ’57 San Pio è apparso in bilocazione ad Irene Gaeta, oggi facente parte dell’Associazione I Discepoli di Padre Pio, poi, recentemente a lei avrebbe rivelato il suo progetto chiedendole, anzi, quasi ordinandole di prodigarsi per far costruire un ospedale pediatrico, un santuario e un centro di ricerca molecolare in un posto che lo stesso Santo di Pietralcina le avrebbe mostrato durante un’apparizione. «Io non ho mai avuto nulla a che fare con la Calabria – spiega la signora Gaeta - ho sposato un calabrese ma non ho un particolare legame con questa terra. Quando Padre Pio mi ha parlato di questa regione mi sono stranita, ma lui ha insistito, con fermezza e decisione, quasi ordinandomi di fare come mi diceva. Così mi sono informata riguardo ad un monte che il Padre mi aveva mostrato durante un’apparizione, indicandomelo come il luogo in cui realizzare il suo progetto, un luogo che io non conoscevo. Su un monte, di un paesino calabrese, Drapia. Poco dopo ho scoperto che esisteva un monte a Drapia dove Gesù era più volte apparso in passato, ho deciso di andare a visitarlo e l’ ho riconosciuto. Era lo stesso posto che il Padre mi aveva mostrato e che io non avevo mai visto prima.» Il monte a cui si fa riferimento si trova in località “U Baruni”, tra le frazioni di Gasponi e Caria, un luogo che tutti conoscono come “L’Apparizione”, proprio a motivo delle ripetute apparizioni di Gesù che si dice siano avvenute in passato e dove è stato eretto un piccolo monumento, con una lapide, una croce e dei posti a sedere per fermarsi a pregare e meditare sui misteri divini. Lì tra ulivi secolari e la quiete di un pianoro alto e isolato si ritrova la pace del cuore. Irene Gaeta e gli altri Discepoli di Padre Pio hanno annunciato nei giorni scorsi la volontà di attuare il progetto di Padre Pio per la Calabria nella chiesa di S. Giovanni Battista a Cosenza, dove per tre giorni si è pregato davanti alle reliquie del Santo di Pietralcina. Commozione e stupore i sentimenti che a caldo hanno animato la comunità dei fedeli di Drapia nell’apprendere la notizia. Grande e sempre più estesa è infatti la devozione dei drapiesi nei confronti di Padre Pio, e in questo clima l’idea che il Santo di Pietralcina abbia scelto proprio questo angolo d’Italia, povero, sotto certi aspetti, e sconosciuto, sorprende e riempie di gioia i cuori dei tanti credenti.
http://www.tropeaedintorni.it/DrapiaPadrePio.htm
"I Discepoli di Padre Pio" intendono realizzare un grande progetto in Calabria, in provincia di Vibo Valentia, su un terreno sito nel Comune di Drapia, per il quale è gia stato stipulato il contratto di acquisto. II progetto prevede la realizzazione di una Cittadella di Padre Pio, composta da un Santuario, un Centro di Spiritualità e di benessere psicofisico, una Casa di accoglienza per i sofferenti neII'anima e nel corpo e per i bambini portatori di disabilità, un Ospedale Pediatrico, un Centro di Ricerca e di Formazione. Nasce su indicazione del Santo di Pietrelcina alla sua figlia spirituale, Irene Gaeta, alla quale ha dato un mandato specifico, precisando il luogo dove avrebbe dovuto sorgere. Il complesso avrà il suo punto di riferimento privilegiato nel Santuario dedicato a Gesù Re dei Re e nel Centro di Spiritualità dal quale partirà un percorso devozionale in un ambiente naturale di rilevante interesse paesaggistico. Si tratta di un terreno di 16 ettari, sovrastante il mare di Tropea. Ecco il luogo dove sorgerà quest'opera:
La Cittadella di Padre Pio incorporerà un ospedale pediatrico, circondato da aree verdi, specializzato in malattie oncologiche, ematologiche, pneumologiche e in neuropsichiatria infantile. Erogherà prestazioni di diagnosi, di cura e di riabilitazione. Un Centro di Servizi di Assistenza Domiciliare Integrata sarà inserito nelI'ospedale pediatrico e svolgerà attività sia di tipo sanitario che sociosanitario direttamente al domicilio delle persone che, per problemi gravi, non possono accedere autonomamente alle strutture sanitarie e/o sociali. L’ospedale sarà affiancato da una Casa di Accoglienza che ospiterà piccoli pazienti che seguono terapie in Day Hospital ma, vivendo lontano da Drapia, hanno bisogno, insieme ai loro genitori, di una residenza temporanea nelle vicinanze delI'ospedale. Questa casa accoglierà anche bambini e adolescenti affetti da disabilità e da patologie irreversibili. Nel complesso è prevista l'apertura di un Centro di Ricerca Scientifica e una Scuola di Formazione per l'Educazione Continua in Medicina.
http://www.idiscepolidipadrepio.it/progetto_calabria.htm


"Vi racconto com’è il corpo di Padre Pio"
di Andrea Tornielli
Il perito biochimico del Vaticano: "Abbiamo lavorato un mese e mezzo, ma il risultato è davvero soddisfacente". Domani a San Giovanni Rotondo l’ostensione della salma del santo

Roma - I fedeli che sfileranno davanti all’urna contenente le spoglie di Padre Pio potranno vedere parte delle mani del santo. Per coprire il volto è stata predisposta una maschera di silicone color carne, ma la decisione di applicarla sarà presa solo in queste ore. Lo rivela il settimanale Famiglia Cristiana in edicola domani, pubblicando un’intervista al professor Nazzareno Gabrielli, perito biochimico del Vicariato di Roma per la conservazione dei santi, che in queste settimane ha continuamente fatto la spola fra Roma e San Giovanni Rotondo per «preparare» il corpo di Padre Pio in vista dell’esposizione ai fedeli. Un’esposizione che, spiega il vescovo Domenico D’Ambrosio, durerà almeno un anno e dunque non si concluderà il prossimo settembre, quarantesimo anniversario della morte, proprio per soddisfare le innumerevoli richieste dei fedeli provenienti da tutto il mondo.
«Il lavoro che abbiamo dovuto svolgere è stato impegnativo, ma il risultato finale è davvero soddisfacente», ha detto Gabrielli, che ha lavorato per un mese e mezzo insieme con gli altri quattro periti. La difficoltà maggiore, racconta, «è stata causata dal fatto che il corpo era molto bagnato. In più di trent’anni di esperienza non mi era mai accaduto, e dunque abbiamo tutti dovuto dare fondo alle nostre conoscenze tecniche per risolvere in breve tempo il problema». Padre Pio venne seppellito in una fossa che era stata intonacata soltanto il giorno precedente e ciò ha creato un microclima in cui l’umidità condensava e rievaporava costantemente, cadendo a pioggia sul corpo, dato che nel corso degli anni la cassa metallica si è ossidata e rotta, e quella di legno ha assorbito tutta l’acqua. Prosegue Gabrielli: «Ci siamo perciò meravigliati quando abbiamo constatato che il corpo non emanava cattivo odore. Nella ricognizione abbiamo riscontrato che i tegumenti sul volto ci sono tutti. Le fosse orbitarie e le pinne nasali ovviamente non si trovano mai, ma i padiglioni auricolari e le labbra li abbiamo trovati. Anche barba e baffi erano in buone condizioni e abbiamo potuto sistemarli bene. Quando è entrato il padre generale dei Cappuccini è rimasto di stucco: ha detto che sembrava stesse dormendo».
Soltanto tre giorni fa è arrivata a San Giovanni Rotondo la sottile maschera di silicone color carne che riproduce le sembianze di Padre Pio e che oggi si deciderà se applicare. Per estrarre Padre Pio dalla cassa e poterlo trattare, è stata svolta una delicata operazione di bloccaggio del corpo con una sorta di «ingessatura» realizzata con bende imbevute di paraffina: «C’è stato innanzitutto un bagno di alcool e formalina ad alta concentrazione, per sterilizzare completamente il corpo e insolubilizzare le proteine. Quindi il corpo è stato avvolto con bende e ovatta impregnata di una soluzione mummificante a base di creosoto, trementina, acido benzoico e altre sostanze. Una volta che il corpo ha assorbito questa soluzione, abbiamo tolto tutte le garze e lo abbiamo ventilato con aria filtrata».
Nella attuale bara, il corpo poggia su un piano di plexiglass forato e rivestito di tessuto. Al di sotto ci sono due contenitori in pvc pieni di gel di silice per la regolazione dell’umidità. Nella teca è stato immesso azoto per evitare reazioni ossidative.
Domattina l’esposizione sarà inaugurata con una messa celebrata dal cardinale José Saraiva Martins, Prefetto della Congregazione delle cause dei santi.


"Veneriamo Padre Pio,ma senza fanatismo"
di Andrea Tornielli
José Saraiva Martins, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, inaugura l’esposizione del corpo del frate di Pietrelcina
Roma - Il giorno atteso dai devoti di Padre Pio è arrivato, da oggi le spoglie mortali del santo più amato, rimaste sepolte nella cripta della chiesa di Santa Maria delle Grazie a San Giovanni Rotondo, saranno esposte alla venerazione dei fedeli. Molte polemiche hanno accompagnato questa decisione dei frati cappuccini. Il Giornale ne ha parlato con il cardinale José Saraiva Martins, Prefetto della Congregazione delle cause dei santi, alla vigilia della sua partenza per il Gargano: sarà lui che stamattina, alle 11, celebrerà la messa dando inizio all’esposizione del corpo del frate stimmatizzato.
Perché è importante venerare le reliquie di un santo?
«I santi sono stati uomini come noi, che hanno seguito Gesù nella via della perfezione quotidiana. Sono stati, come ognuno di noi è chiamato ad essere, templi dello Spirito santo, docili all’azione della grazia di Dio. Il cristianesimo, fondato sull’avvenimento dell’incarnazione, morte e resurrezione del Figlio di Dio su questa terra, accaduto in un preciso momento della storia dell’umanità ha sempre avuto molta attenzione e rispetto per i corpi. Anche le membra mortali dei santi sono state pervase dalla grazia. Per questo noi veneriamo le reliquie dei santi».
C’è chi giudica piuttosto macabra questa venerazione. Come risponde?
«Rispondo che nessuno è obbligato a venerare le reliquie di un santo. Ma rispondo anche che questa venerazione non è un culto spurio o il frutto di deviazioni: era ben presente fin dall’inizio nella primitiva comunità cristiana, che venerava le reliquie degli apostoli e dei martiri».
Non crede che vi sia un eccesso di attenzione mediatica sull’esposizione del corpo di Padre Pio? Non vede rischi di fanatismo?
«Siamo uomini, i rischi sono sempre presenti. Mi auguro davvero che nessuno scada nel fanatismo. È importante ricordare che Padre Pio è stato un grande santo perché ha donato la sua vita a Dio, ha saputo soffrire per Gesù, ha vissuto pregando e aiutando tantissime anime a ritrovare la fede e a sperimentare la misericordia divina. Chi lo venera, chi si metterà in fila per avvicinarsi all’urna che ne conserva le spoglie, questo lo sa bene. Ciò che conta è la fede in Dio, in suo figlio Gesù Cristo. Ciò che conta è avvicinarsi ai sacramenti, è pregare, è affidare la nostra vita al nostro Creatore. Venerare san Pio da Pietrelcina non serve se non porta a questo».
I fedeli ne sono coscienti?
«Io credo che i fedeli siano più maturi di quanto noi pensiamo, di quanto vengono dipinti certe volte. Il profumo di santità che il frate del Gargano emanava era un frutto della sua fede, non un suo potere magico: venerare i santi, conoscerli, imitarli, deve portarci a Gesù, non alla superstizione. Far vedere il loro corpo mortale, i loro resti, e venerarli, significa comprendere che Dio si serve di noi, della nostra fisicità, delle nostre debolezze per far passare l’annuncio del suo Vangelo».
Ci sono state polemiche a non finire su questa riesumazione ed esposizione. Perché è stata fatta?
«Era un’anomalia che non fosse stata ancora fatta. Prima della beatificazione di un servo di Dio si procede solitamente alla ricognizione canonica delle sue spoglie. Si prelevano le reliquie che verranno offerte al Papa. Con Padre Pio questo non è stato fatto, né per la beatificazione del 1999, né per la canonizzazione del 2002, in quanto vennero utilizzate come reliquie delle escare staccatesi dalle stimmate quando egli era ancora in vita, che i frati avevano conservato. Ora, nel quarantesimo anniversario della morte e nell’ottantesimo della manifestazione delle stimmate, è stata riesumata la salma. Possiamo dire che è stata fatta appena in tempo per conservare il corpo, che si stava deteriorando a causa dell’umidità».
Il corpo di Padre Pio rimarrà sempre visibile? Sarà trasferito nel nuovo grande santuario di San Giovanni Rotondo?
«La decisione in merito alla durata dell’esposizione spetta all’arcivescovo D’Ambrosio, il quale ha annunciato che, a causa delle innumerevoli richieste di fedeli intenzionati a sfilare davanti alle spoglie di Padre Pio, l’esposizione continuerà almeno per un anno. Per quanto riguarda il trasferimento, la Congregazione delle cause dei santi non ha ricevuto alcuna richiesta in questo


Omelia del cardinale José Saraiva Martins per san Pio da Pietrelcina - Il vangelo «superiore» della sofferenza
San Giovanni Rotondo, 24. "Il Signore ha mandato padre Pio a evangelizzare il mondo con il vangelo "superiore" della sofferenza. Il mistero della Redenzione cristiana è questo: mutare la croce - e, con essa, ogni sofferenza umana - da tristezza in gioia, da vergogna in vanto, da morte in vita, da condanna in perdono. Padre Pio e i suoi figli spirituali fanno proprio il "sentire" di Cristo, gli atteggiamenti con cui Egli ha abbracciato la croce per far dono ai fratelli delle Sue consolazioni". Così il cardinale José Saraiva Martins nell'omelia pronunciata in occasione della messa celebrata nel santuario che accoglie le spoglie del frate di Pietrelcina. Alla celebrazione, che si tiene in coincidenza con l'ostensione del corpo del santo e in occasione del quarantesimo anniversario della sua morte, hanno partecipato moltissimi fedeli. Oggi, a San Giovanni Rotondo sono attese quindicimila persone, mentre si calcola che siano circa 750.000 i fedeli che nei prossimi giorni giungeranno nella cittadina per vedere le spoglie di padre Pio. Ha detto ancora nel corso dell'omelia il cardinale Saraiva Martins: "Parlare della santità cristiana richiede il riferimento ai santi, che ne sono la più viva incarnazione. Bisogna tuttavia riconoscere che in quest'epoca di transizione, dalle dimensioni planetarie, caratterizzata da una nuova visione del mondo, dell'uomo e della sua storia - e, nei paesi opulenti, da una diffusa indifferenza religiosa -, il discorso sulla santità, sia pure quella di un santo tanto amato e la cui devozione è così estesa come san Pio da Pietrelcina, è tutt'altro che agevole. Eppure il mistero dei santi ha un tale fascino da imporsi, spesso, agli stessi increduli, e tutte le volte che ci si confronta con un santo autentico, ne rimaniamo conquistati".
Lasciando da parte le discussioni di scuola, ha osservato il cardinale, "molto semplicemente dobbiamo ricordare che la santità, dono di Dio e impegno dell'uomo, altro non è che la "vita trasfigurata in Cristo" (Rom 8, 29)", per questo la santità è anche "mistero", "essa, infatti, si origina come dono della Grazia e si accompagna alla conquista che varca i confïni del quotidiano, attraverso la lotta con se stessi e con le forze del male. Avvicinarci, conoscere meglio padre Pio, diventato ormai il "santo della gente", che ora sarà ancor più accessibile, mediante la nuova sistemazione del suo corpo, richiede da parte nostra l'umiltà di riconoscerne "il mistero". Lui stesso aveva detto di sé scrivendo il 15 agosto 1916 al suo direttore spirituale e confidente, padre Agostino: "Che dirvi di me? Sono un mistero a me stesso"".
Il santo cappuccino, ha detto ancora il porporato, profuse i suoi doni naturali e soprannaturali, mettendoli con generosità e perseveranza a disposizione del popolo di Dio, in modo particolare nella celebrazione dell'Eucaristia, nel ministero della riconciliazione, nella direzione spirituale, nel consiglio e nella vicinanza spirituale e materiale a quanti erano nel bisogno. "E verso questa terra - ha aggiunto - padre Pio richiamò e richiama milioni di persone, assetate di verità e di bontà, in cerca di conforto e di conversione". Gesù non trasmise a padre Pio solo i segni esterni della sua passione, "ma anche e soprattutto la motivazione profonda di essa: il suo stesso appassionato amore per l'umanità... Padre Pio, dunque, rivisse anche fisicamente il mistero del Dio crocifisso, il mistero della croce, e divenne in modo evidente un'immagine della passione di Gesù Cristo, colui che per sempre sarà inchiodato dall'amore.
Ha detto ancora il cardinale, riferendosi all'ostensione del corpo del santo: "La presenza del corpo di padre Pio ci invita anzitutto ad una memoria: guardando le sue spoglie mortali, noi ricordiamo tutto il bene che egli ha compiuto in mezzo a noi. Il suo corpo insieme con l'anima è stato concretamente immagine di Dio, tempio dello Spirito Santo, "luogo" in cui Gesù ha, manifestato la sua gloriosa passione. Padre Pio ebbe sempre una grande attenzione verso il nostro corpo, carico di onore e di dignità, e per favorirne il giusto apprezzamento e l'adeguata cura fondò la Casa Sollievo della Sofferenza, strumento di carità cristiana e di umana solidarietà. Ma le reliquie di coloro che dormono nel Signore ci invitano a guardare anche verso il futuro: ci invitano a rinnovare la fede nella risurrezione della nostra carne, quando il Signore verrà nella gloria. Le reliquie, allora, sono l'annunzio della nuova creatura che sorgerà in comunione con il Risorto... San Pio è stato padre facondo di anime. Come sappiamo, nessun santo inventa qualcosa di nuovo, tutti ripropongono il Vangelo. Tuttavia, qualche "atleta dello spirito" ha vissuto con particolare intensità uno o più aspetti dell'infinita ricchezza di Cristo, divenendo tramite per un percorso "nuovo" nella Chiesa. Anche Padre Pio ha scritto una pagina "originale" raccogliendo attorno a sé una vera folla, come, ad esempio, i membri dei suoi gruppi di preghiera... Nel vangelo Gesù dice: "Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta" (Mt 10, 41). Questa è la speranza imperitura dei devoti di padre Pio e di coloro che sono annoverati tra i membri fedeli della sua numerosa famiglia. Con questo spirito ci accingiamo a venerarlo, certi che il suo esempio e la sua intercessione sapranno guadagnarci luce e forza nel pellegrinaggio verso la Gerusalemme celeste.
(©L'Osservatore Romano - 25 aprile 2008)


Storia di Susy e del suo angelo bambino
Autore: Zappa, Gianluca Curatore: Buggio, Nerella
giovedì 24 aprile 2008
Susy, dunque, ha abortito. Diciamo meglio e con più onestà: l'hanno fatta abortire. A quell'età, con un problema così grosso che ti arriva addosso, la tua volontà conta molto poco.
Ho saputo ieri che Susy, una ragazza di 16-17 anni che ho avuto modo di conoscere, ha abortito. Il suo nome non è ovviamente Susy. La chiamerò così perché questo è un nome che per me vuol dire molto. Quando ero ancora un liceale, dedicai una canzone ad una immaginaria Susy. Molti anni dopo, "La piccola Susy" sarebbe diventata un racconto. Nel quale parlavo proprio di una sedicenne alle prese con l'aborto. Ora per me Susy è diventata una persona reale, in carne ed ossa.

Susy, dunque, ha abortito. Diciamo meglio e con più onestà: l'hanno fatta abortire. A quell'età, con un problema così grosso che ti arriva addosso, la tua volontà conta molto poco. Tutto il mondo ti frana sulla testa. Il problema resta in famiglia, i panni sporchi si lavano in casa; non c'è nessun amico autorevole che ti possa aiutare. O almeno tu, nella tua vergogna e nella tua disperazione, la pensi così. E lo pensano anche i tuoi genitori e i parenti. La soluzione che ti si prospetta è una sola. Altro che libertà.

E così in casa di Susy è entrata la morte. Una morte ben più angosciosa e orribile di quella che entra in casa alla morte di un parente. Questa è una morte diversa, di cui ci si sente responsabili, malgrado tutte le giustificazioni che uno cerca di trovare. In casa di Susy i rapporti, d'ora in poi, non saranno più gli stessi. Il senso di oppressione, di controllo, di mancanza di libertà che soffoca gli adolescenti e li mette contro i genitori è un nulla rispetto al risentimento che nasce dalla complicità in un'azione sporca, terribile. La morte è entrata nel cuore di Susy.

Ma Susy era morta già prima. L'ho conosciuta e lo so. Nei suoi occhi solo raramente ho visto accendersi la gioia e l'entusiasmo. Lei stessa mi confessava che la sua vita è noiosa, spenta, grigia. Triste, insomma. Sigarette, bar e ragazzi. Tutto qui. Come si fa a vivere così? Eppure per la stragrande maggioranza dei giovani sembra questa l'unica vita possibile. Problemi a scuola (poca voglia di studiare), qualche brivido con la "roba", inappetenza (sarà anoressia?)… e poi gli occhi. Lo vedi subito quando una persona è "fuori di sé", letteralmente.

Susy vive, ma "fuori di sé".Non sa chi è, non sa cosa vuole. Si trascina nel mondo.

Peccato, perché Susy sarebbe una ragazza speciale, eccezionale. Io lo so, perché la conosco.

E ne conosco moltissime di Susy. Le vedo tutti i giorni. Sigaretta, atteggiamento sguaiato e aggressivo, calzoni che calano, mutandine che fuoriescono. Ce ne sono altre che vestono più castigate, ma sono ugualmente fuori di sé, col pensiero continuamente occupato dalle cretinate che leggono su Cioè (con le sue istigazioni a perdere il prima possibile la verginità), sulle rivistine coi loro idoli musicali, o che assorbono e deglutiscono dalla televisione. Le ho viste abbrancare il primo ragazzotto che capita a tiro. Con una fretta da prostitute. Con la differenza che queste sanno quello che fanno, mentre loro s'illudono che sia "amore".

Giocano, scherzano col fuoco e non se ne rendono conto.

Io, mesi fa, sono stato vicino a Susy. Ho cercato di farle intravedere un mondo diverso. Per un po' mi ha anche seguito. Ma quale fascino volete che abbia un quarantenne che ti richiama ad un impegno con la vita, con te stesso, con gli altri? Quale fascino duraturo, intendo? La vita di Susy è immersa in un letame disumano. A scuola, in casa, con gli amici è un continuo lavaggio del cervello: sesso, droga, successo. Forse non sono stato in grado di offrirle una compagnia stabile. O ci sarebbe forse voluto un amico della sua stessa età. Ma questi amici, questi ragazzi disposti a mettersi insieme in una specie di salvation army non si trovano. Quelli "bravi" (i giovani ricchi di oggi) sono tutti impegnati a restare bravi. Pensano solo a sé. Non puoi fare affidamento su di loro.

E così Susy ha fatto quel che ha fatto. Qualcuno in questi casi giustifica l'aborto con la tipica domanda: "Che vita farebbe quella ragazzina? Che vita farebbe suo figlio?". Nessuno che chieda mai che vita sarà dopo l'aborto. Nessuno che pensi a Susy mentre si guarda allo specchio, mentre si guarda il ventre, mentre incontra lo sguardo di sua madre e di suo padre, mentre guarda il ragazzo che l'ha messa incinta. Chissà come saranno i suoi occhi. Chissà come saranno i suoi pensieri.

Io l'ho conosciuta e sono convinto che, paradossalmente, il bimbo che le hanno fatto abortire l'avrebbe aiutata a ritrovare se stessa, l'avrebbe liberata, l'avrebbe salvata.

Oggi posso solo pregare per lei.

Ebrei, musulmani, cristiani. Ultime notizie dal cantiere del dialogo
In Francia una moschea chiama a collaborare un ebreo. In Bangladesh cristiani ed islamici si confrontano in università. La lettera dei 138 trova un seguito a Mosca, a Ginevra, a Bruxelles. E intanto Benedetto XVI chiarisce cosa intende per dialogo interreligioso

di Sandro Magister
ROMA, 25 aprile 2008 – La proposta di incontri tra musulmani, cristiani ed ebrei lanciata un mese fa dal re dell'Arabia Saudita, Abdullah, ha avuto un sorprendente seguito pratico in Francia.

L'imam Hassan Chalghoumi, capo della comunità islamica di Drancy, nel dipartimento della Seine-Saint-Denis, poco fuori Parigi, ha scelto come incaricato delle relazioni esterne un ebreo, Bernard Koch, tra i fondatori della "Amitié judéo-musulmane de France". La nomina è avvenuta nella moschea di Drancy alla presenza di altri esponenti dell'ebraismo francese. "L'Osservatore Romano" del 23 aprile ha dato alla notizia un forte rilievo.

Inoltre, il teologo musulmano Aref Ali Nayed – firma di spicco della famosa lettera indirizzata a Benedetto XVI e ad altri leader cristiani da 138 personalità islamiche – ha annunciato in un'intervista al mensile italiano "Jesus" di aprile:

"Stiamo lavorando a un documento indirizzato ai nostri fratelli e sorelle ebree. Vorremmo produrre un testo significativo dal punto di vista sia teologico che spirituale, che possa aiutare a sanare le relazioni tra le nostre due comunità che, in un passato non lontano, prosperarono e soffrirono insieme, come sotto l'inquisizione spagnola".

* * *

Quanto al dialogo con i cristiani, alla lettera dei 138 musulmani sono arrivate altre due risposte autorevoli, dopo quella della Chiesa di Roma.

La prima è venuta il 20 marzo dal Consiglio Ecumenico delle Chiese, l'organismo ecumenico con sede a Ginevra che raduna 349 Chiese e denominazioni cristiane di 110 paesi, ortodosse e protestanti.

Alle lettera dei 138 musulmani dal titolo "Una parola comune tra noi e voi", il CEC ha risposto con un documento intitolato: "Imparare a esplorare l'amore insieme".

Il documento sollecita la creazione di un gruppo misto al fine di "organizzare una serie di consultazioni tra leader, studiosi e fedeli musulmani e cristiani che rifletteranno su punti di comprensione reciproca, lavoreranno su una piattaforma teologica ed etica per future iniziative comuni e stabiliranno nuovi mezzi per esplorare ulteriormente le questioni di fede e di vita in entrambi i contesti".

La seconda risposta è arrivata a metà aprile dal patriarca ortodosso di Mosca e di tutte le Russie, Alessio II.

Il patriarca premette che il dialogo interreligioso deve rispettare l’identità di ciascun interlocutore, evitando che si arrivi a un pericoloso sincretismo. E indica due piani su cui costruire un dialogo fruttuoso: “a livello dottrinale su importanti questioni quali Dio, l’uomo, il mondo”; a livello più pratico su “la difesa del ruolo della religione nella vita sociale, il contrasto a xenofobia e intolleranza, la promozione di iniziative comuni di pace”.

Tra le sfide da affrontare insieme, musulmani e cristiani, Alessio II mette al primo posto “la visione del mondo anti-religiosa, la quale tende a subordinare ogni sfera della vita sociale e ad instaurare una nuova morale, contraria a quella tradizionale delle religioni”.

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Inoltre si è tenuto a Dhaka, nel Bangladesh, il 18 aprile, un incontro tra esponenti delle due religioni dal titolo: "Una comune chiamata: musulmani e cristiani"

L'incontro ha preso in esame la lettera dei 138 e il messaggio di risposta della Chiesa di Roma. Ed è stato promosso dal professor Kazi Nurul islam, docente all'università di Dhaka, con la collaborazione della conferenza episcopale dei vescovi cattolici del Bangladesh.

Il professor islam ha creato e dirige, in università, un dipartimento dedicato alle religioni mondiali, nel quale le principali religioni hanno docenti che professano la stessa fede da essi insegnata. Un sacerdote cattolico laureato in teologia insegna il cristianesimo, e lo stesso vale per l’islam, l’induismo, il buddismo e l’ebraismo: unico esempio del genere, nel mondo musulmano.

Alla vigilia dell'incontro, Kazi Nurul islam ha rilasciato la seguente intervista a "L'Osservatore Romano", in data 17 aprile 2008:

D. – Professor islam, come è nata questa sua iniziativa?

R. – Cristiani e musulmani insieme agli ebrei appartengono alla stirpe di Abramo. Ma per alcune ragioni storiche, sfortunatamente, abbiamo avuto spesso relazioni molto fredde. È questo il tempo che cristiani e islamici comincino a lavorare insieme. Gli appartenenti a queste due grandi religioni costituiscono più del 50 per cento della popolazione mondiale. È una responsabilità storica per noi tutti credenti dare il nostro apporto alla pace nel mondo. Personalmente ritengo che non possiamo certo cancellare il passato o modificare la storia, ma possiamo comunque modellare il futuro e creare una prospettiva migliore, un mondo più fraterno per le future generazioni. Con questi sentimenti ho iniziato a pensare come cristiani e islamici possano lavorare insieme per la pace. È un fatto che, almeno qui nel Bangladesh, non abbiamo grossi problemi nei rapporti tra cristiani e musulmani. Per secoli la convivenza si è svolta in armonia. Ora dobbiamo proteggere e preservare questa relazione e provare ad avere una migliore comprensione tra di noi per rivolgere al mondo un messaggio comune. Questo è il vero motivo per cui stiamo lavorando tutti insieme per la riuscita di questo appuntamento.

D. – Qual è il programma dell'incontro a Dhaka tra cristiani e musulmani?

R. – Due dotti musulmani pronunciano discorsi introduttivi ai partecipanti all'incontro, seguiti da altri due dotti cristiani. Le introduzioni servono a chiarire le rispettive posizioni. La sessione plenaria viene poi suddivisa in dieci gruppi a cui partecipano cristiani e musulmani in numero uguale. Essi discutono le tesi della Chiesa romana e quelle esposte dai 138 saggi musulmani. Poi vi sono le sintesi finali delle discussioni. La sessione plenaria del 18 aprile è stata preceduta da due incontri propedeutici: il 7 marzo i trentacinque esponenti musulmani si sono seduti insieme e hanno discusso su come migliorare le relazioni con i cristiani. Si sono chiesti quali sono i maggiori problemi tra i credenti delle due grandi religioni e perché i musulmani spesso non vengono capiti nelle nazioni del mondo cristiano. Il giorno seguente i nostri fratelli cristiani in pari numero hanno discusso tra di loro su come migliorare i rapporti con i musulmani. Nel progetto di questa iniziativa, dapprima si era pensato a una dichiarazione finale comune. Ora ci rendiamo conto che ci vuole maggior tempo. Si deve costituire un forum in Bangladesh dove cristiani e musulmani possano continuare a incontrarsi e a discutere per poi arrivare a una dichiarazione comune. Spero che questo traguardo sia conseguibile per la fine di quest'anno. Questa dichiarazione comune sarà la base per la pace tra cristiani e musulmani in Bangladesh e nel mondo intero.

D. – Come percepiscono i comuni cittadini del Bangladesh questo incontro tra cristiani e musulmani?

R. – C'è una vasta maggioranza dei cittadini del Bangladesh che non hanno una sufficiente istruzione per capire il grande significato di questo incontro, tuttavia anche la gente comune si rende conto di quel che accade. I media diffondono le notizie grazie soprattutto alle nuove tecnologie di comunicazione, come internet e la telefonia mobile, ormai alla portata di un numero crescente di persone. Così in molti hanno ricevuto la notizia di questo incontro tra cristiani e musulmani. A prescindere da come la notizia viene interpretata, posso comunque dire che sono in tanti a pensare che siamo all'inizio di una nuova epoca di rapporti. Ovviamente molti sperano che questi rapporti siano sempre più amichevoli.

D. – I trentacinque rappresentanti musulmani appartengono tutti al fronte moderato e alle classi più colte della società del Bangladesh?

R. – Quando abbiamo sollecitato esponenti musulmani e cristiani a partecipare all'incontro abbiamo tenuto conto di diverse fasce di età, di diverse professioni e anche di diverse convinzioni, in modo che il dialogo non fosse sbilanciato. Abbiamo quindi scelto anche qualche esponente dei gruppi radicali. Lo abbiamo fatto deliberatamente. È nostra cura conoscere il loro modo di pensare e offrire anche a loro la possibilità di esprimersi in un contesto di confronto e di dialogo.

D. – Perché come primo tema di di confronto avete scelto il documento dei 138 saggi islamici e la risposta della Chiesa di Roma?

R. – Abbiamo un ottimo ricordo di papa Giovanni Paolo II. Lui ha impostato il dialogo interreligioso in un modo molto serio. Con il nuovo papa Benedetto XVI si è invece creato qualche iniziale malinteso. Molti musulmani nel mondo hanno alzato la voce per protesta contro certe affermazioni. Più tardi c'è stato un chiarimento che ha calmato gli animi. Ciò che desideriamo è che non ci siano più ulteriori malintesi tra cristiani e musulmani a causa delle parole. Spero che si capisca che tra cristiani e musulmani ci sono molti più punti in comune che reali differenze.

D. – Le comunità dei cristiani che vivono in paesi a maggioranza musulmana a volte sono oggetto di attacchi che in casi estremi degenerano in episodi di violenza. Cosa prova quando sente questo genere di notizie?

R. – Spesso non c'è tra noi musulmani un grande rispetto per le comunità di cristiani. Personalmente sento una grande tristezza quando ascolto fratelli e sorelle musulmani parlare contro i cristiani. Questo non è giusto da parte nostra. Come pure non è giusto dimenticare il passato. Quando il profeta Maometto era ancora in vita i musulmani cominciarono a essere perseguitati dagli infedeli, che uccisero un grande numero di neoconvertiti. Allora il profeta inviò un grande numero di convertiti in Etiopia, che anche a quell'epoca era un paese cristiano. L'imperatore dell'Etiopia offrì a loro la sua protezione e così i convertiti non furono più massacrati dagli infedeli. I musulmani non dovrebbero mai dimenticare questi avvenimenti. Certo, molti altri aspetti della storia comune non sono stati positivi ma noi dobbiamo ricordare soprattutto quel che c'è stato di positivo per potere continuare ad avere, anche in questi tempi difficili, buone relazioni.

D. – Il fenomeno del terrorismo da parte di gruppi di estremisti islamici non si è certo esaurito. Di fronte a queste violenze, si sente anche personalmente preoccupato?

R. – Sì, mi sento personalmente preoccupato a causa dei terroristi. Non può esserci un terrorismo che possa definirsi musulmano, perché ritengo che l'insegnamento dell'islam non possa incoraggiare alcuna forma di terrorismo. Secondo il Corano l'uccisione di un innocente equivale a uccidere l'intero genere umano. Così come salvare un essere umano equivale alla salvezza dell'intera umanità. Chi segue il vero insegnamento dell'islam non può essere un terrorista. Tuttavia bisogna ammettere che alcuni gruppi terroristici trovano appoggio in ambienti che si definiscono musulmani. Questo non lo dico per compiacere i cristiani. Lo affermo anche durante le lezioni all'università e nel corso di seminari con studenti islamici. Lo scrivo anche nei miei articoli apparsi sui giornali. I terroristi sono solo terroristi e credo che non sono degni di appartenere al genere umano. Non si può giustificare la violenza con la religione.

* * *

Infine, un comitato congiunto cattolico-protestante del Consiglio delle Conferenze Episcopali d'Europa, CCEE, e della Conferenza delle Chiese Europee, KEK, ha tenuto dal 17 al 20 aprile in Ungheria, a Esztergom, un incontro con esponenti musulmani al fine di preparare una conferenza cristiano-musulmana europea, che si terrà a Malines-Bruxelles dal 20 al 23 ottobre 2008, sul tema: "Essere cittadini europei e credenti. Cristiani e musulmani come partner attivi nelle società europee"

La conferenza di Malines-Bruxelles si aprirà con la presentazione della visione cristiana e di quella musulmana sul tema. In seguito i partecipanti lavoreranno in forma seminariale sui seguenti punti:

– il ruolo delle religioni nella società secolare;

– la religione tra istituzione e fede personale;

– come i cristiani e i musulmani si vedono gli uni gli altri; come promuovere il rispetto e la comprensione reciproca attraverso l'educazione;

– costruire ponti; le sfide davanti alle quali si trovano le nostre comunita.

Nell'incontro preparatorio di Esztergom – ospitato dal cardinale Péter Erdö, primate d'Ungheria e presidente del CCEE – si sono anche discussi due documenti in fase di elaborazione: il primo sui fenomeni di violenza nel nome della religione; il secondo sulle conseguenze della presenza musulmana sulla vita delle Chiesa in Europa e sulla formazione del clero e delle guide pastorali. Si prevede che questi documenti saranno resi pubblici all'inizio del 2009.

In più, quattro seminari su "Islam , cristianesimo ed Europa" – anch'essi promossi dal CCEE e dalla KEK, assieme alla Konrad Adenauer Stiftung e ad esponenti musulmani – sono nell'agenda del Parlamento Europeo.

Il primo si è svolto a Bruxelles il 17 aprile. Vi ha preso la parola, tra gli altri, l'imam Tareq Oubrou, rettore della moschea al-Houda di Bordeaux. Egli ha detto che il cristianesimo può insegnare molto su secolarismo e modernità ai musulmani, i quali dovrebbero fare affidamento sull'esperienza dei cristiani al riguardo.

Tra gli interlocutori cristiani è intervenuto padre Ignace Berten, domenicano, fondatore dell'associazione “Espaces” di Bruxelles. Ha rimarcato che il cristianesimo ha il vantaggio d'aver saputo interpretare i suoi testi religiosi nel loro contesto storico, arrivando così a distinguere tra quella che è la fede di fondo e ciò che è collegato alla cultura: distinzione che i musulmani hanno difficoltà a fare.

Il secondo dei quattro seminari si terrà il 29 maggio. Gli altri due entro l'anno.

__________


E intanto Benedetto XVI dialoga così
Durante il suo viaggio negli Stati Uniti, dal 15 al 21 aprile, Benedetto XVI ha visitato una sinagoga a New York e ha incontrato, a Washington, circa 200 rappresentanti di altre religioni, tra cui l'islam.

A questi ultimi, egli ha detto che il dialogo interreligioso "mira a qualcosa di più di un consenso per far progredire la pace". L'obiettivo maggiore del dialogo è quello di scoprire la verità" e tener deste nel cuore di tutti gli uomini le domande più profonde ed essenziali.

Ebbene, ha proseguito Benedetto XVI:

"Messi di fronte a questi interrogativi più profondi riguardanti l'origine e il destino del genere umano, i cristiani propongono Gesù di Nazareth. Egli è – questa è la nostra fede – il Logos eterno, che si è fatto carne per riconciliare l'uomo con Dio e rivelare la ragione che sta alla base di tutte le cose. È Lui che noi portiamo nel forum del dialogo interreligioso. È l'ardente desiderio di seguire le sue orme che spinge i cristiani ad aprire le loro menti e i loro cuori al dialogo".

Ed ha aggiunto:

"Cari amici, nel nostro tentativo di scoprire i punti di comunanza, forse abbiamo evitato la responsabilità di discutere le nostre differenze con calma e chiarezza. [...] Il più importante obiettivo del dialogo interreligioso richiede una chiara esposizione delle nostre rispettive dottrine religiose".

Le sottolineature sono nostre. Il papa non poteva essere più chiaro di così, nel dire come egli concepisce il dialogo interreligioso.


25 aprile, oltre la retorica la verità nel cuore della gente
IlSussidiario.net
Int. a Giovanni Lindo Ferretti25/04/2008
Autore(i): Int. a Giovanni Lindo Ferretti. Pubblicato il 25/04/2008 - Letto 65
In questa testimonianza resa da Giovanni Lindo Ferretti si parla, tra le altre cose, di due personaggi: il comandante Azor e Giorgio Morelli.
Il comandante Azor è Mario Simonazzi, di Albinea (Reggio Emilia), partigiano delle Fiamme Verdi scomparso misteriosamente poco prima della liberazione all’età di 25 anni. Il suo cadavere fu ritrovato per caso alcuni mesi dopo.
Giorgio Morelli, anch’egli di Albinea e amico di Azor, fondò il giornale indipendente “La Nuova Penna”, sulle cui colonne pubblicò inchieste intorno ai delitti politici compiuti nella zona. Firmava i suoi articoli con lo pseudonimo “il Solitario”. Il 29 gennaio 1946 venne gravemente ferito in un agguato; pochi giorni dopo passeggiò per la città portando addosso il cappotto bucato dai proiettili, e sfilò di fronte al capo dell’ANPI da lui indicato come la mente di molti di quei delitti politici. Ma le ferite non guarirono; e Morelli, accudito dalla sorella Maria Teresa, morì l’anno successivo, all’età di 21 anni.

Ancora un’annotazione: quando lo abbiamo contattato, Giovanni Lindo Ferretti non era nelle condizioni di scrivere. Ma era entusiasta di poter parlare di questo argomento. Anzi, ci ha ringraziato di avergliene dato la possibilità. Quella che riportiamo è la trascrizione, un po’ aggiustata, di ciò che ci ha raccontato al telefono.

Ieri sera prima di andare a letto ho acceso la televisione e ho visto il finale di una trasmissione. Quello che ho visto mi ha turbato, mi ha innervosito; c’era qualche cosa che non funzionava. Era un resoconto assolutamente asettico e ideologico, fatto da uno storico della resistenza: raccontava un episodio molto importante accaduto a Reggio Emilia, rimasto nascosto per mezzo secolo; un episodio di cui, per molto tempo, non si era potuto e non si era dovuto parlare. Poi improvvisamente – diceva lo storico –, con la caduta del Muro di Berlino, e quindi con la nuova situazione creatasi in Europa e nel mondo, era infine venuta l’ora di affrontare la resistenza per quello che è stata, e non nella sua dimensione ideologica. Partendo da questo presupposto (politico ed ideologico) raccontava, anche con precisione, la storia del comandante Azor.
Io continuavo a pensare: «che cos’è che mi disturba? che cos’è che non posso accettare in questa ricostruzione?».
Ecco, quello che mi disturba: il tramutare la vita delle persone, il dare alla vita delle persone una dimensione storico-ideologica.
La storia di Azor, per quello che la conosco io, e per come la conosciamo noi tutti a Reggio Emilia, è diversa, nel suo svolgersi dalla sua morte ad oggi.
Perché a Reggio Emilia si parla del comandante Azor, anche se altrove per cinquant’anni non se n’è saputo niente? Il motivo non è dato dallo studio di uno storico; è molto più interessante.
Il motivo è una giovane nipote che non ha mai conosciuto uno zio, e che è stata allevata nel ricordo di questa persona dall’amore di un padre, il fratello del comandante Azor, e di una famiglia, la famiglia dei Simonazzi.
È la famiglia dei Simonazzi, e il fatto che la famiglia dei Simonazzi continui a vivere, che ha fatto sì che non si sia dimenticata la storia del comandante Azor.
Che sia caduto il muro di Berlino, e che gli studiosi della resistenza adesso usino questa storia per farsi propaganda in una nuova veste, è altra cosa, è un elemento disturbante.
Noi non conosceremmo questa storia se non ci fosse stata la nipote, la Daniela, a cui non tornava qualcosa: in casa le raccontavano una storia, e fuori questa storia non c’era.
Il comandante Azor (lo diceva anche quello storico della resistenza) era un personaggio importantissimo; quando si sono fatti i suoi funerali c’erano migliaia e migliaia di persone. Allora come è possibile che un comandante importantissimo, con migliaia e migliaia di persone che vanno al suo funerale, dieci anni dopo non sia nemmeno menzionato nella storia della resistenza? Eppure si pretende che la resistenza sia l’inizio non solo della nostra storia moderna, ma che sia “il tutto”: noi siamo cresciuti nell’idea che la resistenza è all’origine di tutto.
Però in quel tutto il comandante Azor non c’è.
Allora c’è questa bambina, che cresce in un contesto familiare, e a un certo punto decide che lei vuole riscoprire la storia di suo zio, e comincia a girare da una casa all’altra e a ricercare quelle pochissime, pochissime persone, che sanno questa storia e sono disposte a parlarne. Ma si contano sulle dita di una mano, in una intera città.
Poi quella bambina si mise a girare nella zona dove operava il comandante Azor, e si fermava nelle case dei contadini, si presentava e chiedeva se sapevano qualcosa su questo zio che esisteva in maniera così forte nella famiglia, e che invece era scomparso nella società.
Trovava gente che l’abbracciava, che piangeva, e tornava a casa la sera piena di roba: frutta, verdura, dolci, bottiglie di vino. E piano piano ha ricostruito la storia.
Ecco la cosa importante: il fatto che noi oggi parliamo di Azor è perché la famiglia, come istituzione precedente la politica, sovrasta di gran lunga la politica stessa. Se non ci fosse una famiglia, e una nipote e un fratello che hanno mantenuto vivo e saldo il ricordo, chissà quale storia potrebbero raccontarci.
Adesso non possono raccontare una storia molto diversa dalla realtà, perché comunque c’è un testimone, testimone che è vivente, che è sangue e carne. E quindi bisogna farne i conti, anche se si cerca di enuclearlo, di tenerlo lontano.
Esce il libro, costruito con un grande sforzo, non da uno storico, ma da una nipote. Poi, subito dopo, esce un altro libro, quello con i crismi della storicità. In realtà i crismi della storicità significa che è stato copiato tutto quello che si poteva copiare dall’altro racconto. Un racconto che era una necessità che prorompeva dall’anima, dalla carne, dalla storia di una persona, di una famiglia.

Quando ho scoperto questa storia mi sono stupito della mia dabbenaggine; non ci credevo, pensavo «non è possibile che io sia cresciuto nella menzogna».
Questa cosa ha fatto il paio con un altro ricordo della mia infanzia, perché la verità non passa mai tramite le ideologie e non la raccontano gli storici: la verità passa attraverso la vita, e la raccontano le persone.
E mi veniva in mente quando ero ragazzino, che uscivo per andare alle manifestazioni del 25 aprile, e mia nonna con le lacrime agli occhi mi diceva: «Giovanni non è così, non è successo così; io non sono capace di raccontarti come è successo, ma questa non è la verità».
Io la scusavo perché le volevo bene, perché era vecchia, perché era incolta.
Invece aveva ragione lei.
Quello su cui noi abbiamo costruito una struttura politica che è durata cinquant’anni non è esattamente la verità; la verità della resistenza a Reggio Emilia (uno dei luoghi centrali della resistenza in Italia) è qualcosa di molto diverso.
Innanzitutto c’è l’importanza dei sacerdoti delle montagne, delle parrocchie, delle comunità tradizionali, che non viene mai presa in considerazione. La resistenza, quando è cominciata, si è organizzata intorno a pochissime persone, per lo più legate alle parrocchie, legate al cattolicesimo tradizionale. Poi, qualche grande anarchico, e qualche grande personaggio di sinistra. Però nella dimensione di una civiltà tradizionale di montagna, ormai agli sgoccioli.
Questa cosa si è completamente persa nell’ultimo periodo della resistenza, quando sono arrivati in montagna quelli che avevano una concezione politica e ideologica molto forte, quando sono arrivate le truppe e i commissari politici: questo ha creato moltissimi problemi nei paesi di montagna, nelle comunità, tra le comunità, e anche ai sacerdoti che avevano allevato la resistenza.
Quando io ho scoperto questa storia mi sono davvero sentito la persona più sciocca e più stupida sulla faccia della terra; poi però mi sono sentito pacificato, perché potevo finalmente capire quello che mi voleva raccontare mia nonna.
Ma questa storia non l’ho scoperta perché è caduto il muro di Berlino, e gli storici improvvisamente si sono messi a raccontare la verità; l’ho scoperta perché ho incontrato una persona, e poi un’altra persona.
La prima anche per caso; poi bisogna vedere se il caso esiste, o cos’è che lo gestisce.
Fatto sta che un giorno ho incontrato una signora a un convegno, con in mano un libro, che non era per me, ma per un relatore che non si è presentato. Allora lei mi ha visto e ha pensato: quasi quasi do da leggere questo libro a Giovanni (anzi, a Lindo, perché le mi chiama Lindo) così magari può aiutarmi. Si è presentata a me e io non sapevo neanche di cosa lei stesse parlando, e mi ha raccontato la storia del comandante Azor.
Lei era Daniela, sua nipote.
L’ho anche tenuta un po’ distante, dicendo «non mi interesso di queste cose, non ho tempo», tutte quelle cose che si dicono quando qualcuno ti viene a importunare. Poi sono arrivato a casa e ho preso questo libretto, questa sua ricerca sulla storia dello zio, e l’ho letta d’un fiato.
Poi l’ho riletta. Poi ho cominciato a chiedere informazioni alle persone che conoscevo: ognuno sapeva qualcosa, ma tutto in una nebbia oscura. Come diceva monsignor Beniamino Socche, anche se non ricordo con precisione la frase, «quando smise di soffiare la bufera calò la nebbia». Una caligine nasconde tutte queste cose. Ma nella caligine ognuno aveva il suo piccolo particolare, anche se confuso.
Quindi ho pensato che questa storia io l’avevo conosciuta e non potevo fare finta di non conoscerla. Ho cominciato a mettere qualche frase qua e là nei miei spettacoli, a parlare del comandante Azor, e poi di Giorgio Morelli.

Poi due anni fa l’altro incontro. Avevo tenuto una veglia natalizia nella Basilica della Ghiara. Alla fine di questa veglia è arrivata la Daniela con una vecchia signora che aveva due occhi meravigliosi: io l’ho salutata, e sono rimasto molto colpito da questi occhi.
Lei si è presentata: era la sorella di Giorgio Morelli, Maria Teresa. Mi ha fatto un po’ di complimenti, mi ha ringraziato perché per la prima volta aveva risentito nominare suo fratello e il suo grande amico, il comandante Azor, in un contesto pubblico.
Io non so perché ma ho avuto un moto istintivo, l’ho guardata e le ho chiesto: «Maria Teresa, come posso fare per far sorridere i tuoi occhi? Come hai passato i 25 aprile della tua vita?».
Lei mi ha detto: «Io ho passato il 25 aprile come il giorno più bello della mia vita, perché mio fratello è stato il primo ad entrare in città e ad annunciare la liberazione. Era giovanissimo, aveva scritto l’articolo di fondo del giornale delle forze di liberazione, che parlava della libertà che arrivava. Ero la ragazzina più felice di Reggio Emilia. L’anno dopo ero la ragazzina più triste della terra, e poi per tutti gli anni della mia vita il 25 aprile è stato un giorno dolorosissimo». Io le ho detto: «senti, facciamo un 25 aprile in compagnia? Io tutti i 25 aprile della mia vita li ho sbagliati; i tuoi sono stati dolorosi. Facciamo un 25 aprile in pace, in pace con la nostra storia e con noi stessi?».
Da lì è uscita l’idea di fare un 25 aprile in una canonica di montagna, in una canonica molto precisa, quella di don Pasquino Borghi, e di farlo alla nostra maniera: nessun discorso, niente di niente. Solo un rientrare nella nostra storia. Una giornata nella chiesa, davanti alla chiesa e intorno alla chiesa; una bella messa, un pranzo tutti insieme, un piccolo concerto, poi la recita del rosario, poi cantare le litanie, poi ci si abbraccia e ci si bacia e ognuno va a casa.
Abbiamo organizzato questo 25 aprile “solitario”; non avevamo molta voglia di essere in grandi compagnie. Abbiamo impedito a qualsiasi politico di qualsiasi genere di venire a raccontarci le sue storie, e abbiamo fatto tutto il possibile per non farne una questione di dibattito politico o robe di questo genere; era nient’altro che il riappropriarsi della propria storia, il voler essere in pace con la propria storia, il rendere merito e onore ai propri morti e alla vita che continua. Non potevamo che farlo in questo modo. E tutto è andato secondo le nostre migliori aspettative: volevamo le persone giuste e sono arrivate le persone giuste. Siamo riusciti a dare da mangiare a tutti, e alla sera non era rimasto niente. Se ne venivano due in più, non avevamo da dar loro da mangiare. La chiesa era strapiena, di più non ce ne stavano, sia durante la messa che durante la recita del rosario.
Maria Teresa non ha fatto altro che piangere e ridere tutto il giorno. Ha rivisto persone che non vedeva dal funerale di suo fratello.
Tutta qua, la storia di un 25 aprile molto particolare.


Le due “Resistenze” e il dramma della guerra civile. Il caso di Rolando Rivi
IlSussidiario.net
Ugo Finetti25/04/2008
Autore(i): Ugo Finetti. Pubblicato il 25/04/2008 - Letto 24

La Resistenza fu fondata dai militari italiani “legittimisti”, rimasti fedeli al giuramento al re, che presero le armi sin dall’8 settembre contro i tedeschi. Durante la guerra di liberazione combattuta a fianco degli Alleati persero la vita 35.000 soldati e per il rifiuto di aderire alla repubblica di Mussolini furono internati dai tedeschi in 600.000 nei campi di concentramento tedeschi da cui non fecero ritorno in 78.000.
I capi della resistenza furono: sul piano politico il liberale Alfredo Pizzoni (presidente dal settembre ’43 fino all’aprile ‘45 del comitato antifascista poi Cln dell’Alta Italia) e sul piano militare il generale Raffaele Cadorna (comandante del Corpo volontari della libertà ovvero il comando unificato delle Brigate partigiane). Longo e Parri non erano i “capi” della Resistenza, ma i “vice” di Cadorna.
Ad animare immediatamente la rete clandestina a Roma fu il colonnello monarchico Montezemolo, che fu fucilato alle Fosse Ardeatine.
La lotta partigiana fu quindi un movimento popolare caratterizzato da una pluralità di componenti ed anche con molti giovani spoliticizzati. A permettere la sopravvivenza e lo sviluppo delle Brigate partigiane furono essenzialmente due sostegni: da un lato gli alleati con armi e finanziamenti e dall’altro la popolazione contadina cattolica (definita da Gaetano Salvemini “il quarto esercito” in campo) che protesse, nascose ed alimentò i partigiani andando incontro a spietate rappresaglie.
Quella guidata dai comunisti fu non tutta la Resistenza, ma una parte, anzi, per l’esattezza una Resistenza “parallela”. Questo sviluppo “a parte” rispecchiava le direttive di Stalin, che non considerava l’unità antifascista un approdo, ma solo una fase di transizione in vista di una inevitabile successiva resa dei conti tra comunismo e democrazia: Così si esprimeva durante un vertice al Cremlino nel 1945: «La crisi del capitalismo - spiega Stalin a Dimitrov che lo annota nei suoi Diari - si è espressa nella divisione dei capitalisti in due fazioni: una fascista, l’altra democratica. Si è creata un’alleanza tra noi e la corrente democratica dei capitalisti, perché quest’ultima era interessata a non consentire il dominio di Hitler, perché questo dominio brutale avrebbe portato la classe operaia all’estremo e al rovesciamento del capitalismo. Noi adesso stiamo con una frazione contro l’altra, ma nel futuro saremo anche contro questa frazione dei capitalisti».
Questa Resistenza “parallela” del Pci prese corpo in particolare con la costituzione dei Gap (Gruppi di azione patriottica) che dettero vita al terrorismo urbano al di fuori del Cln con azioni come l’attentato di via Rasella (che il Cln di Roma rifiutò di approvare) e l’assassinio di Giovanni Gentile (che il Cln di Firenze condannò). La Resistenza “parallela”, attraverso episodi come la strage a Porzus dei partigiani non comunisti che si rifiutavano di farsi inglobare dall’esercito jugoslavo, ebbe il suo coronamento, alla vigilia della ritirata tedesca, con la costituzione al di fuori del Cln Alta Italia di “triunvirati insurrezionali” comunisti per condurre l’“epurazione antifascista” nelle Regioni del Nord a cominciare dall’Emilia Romagna. È alla luce di questa Resistenza “parallela” che va inquadrato il terrorismo che venne animato dai comunisti nell’immediato dopoguerra.
I comunisti si inserirono nella resistenza italiana – che fu movimento in cui brigate e popolazioni cattoliche svolsero un ruolo determinante – avendo come modello la Guerra di Spagna. È così che, al di fuori del Cln ed in modo solitario e illegittimo, condussero la loro “epurazione” considerando fascisti – e quindi assassinandoli – cattolici, sacerdoti e persino seminaristi adolescenti come Rolando Rivi (di cui è in corso la causa di beatificazione) che fu barbaramente torturato e massacrato, sepolto come un cane in un bosco dopo un “processo” in cui lo si condannava a morte come “spia fascista” solo perché Rolando amava vestire l’abito talare.
La vicenda di Rolando Rivi (che è stata al centro di una sezione della Mostra dell’ultimo Meeting di Rimini dedicata, appunto, alla “Resistenza cancellata”) è atrocemente esemplare di una “Resistenza” che non va confusa con la lotta di liberazione nazionale e che non va celebrata, ma ricostruita, ricordata e condannata come una delle pagine più vergognose dell’ignominia nazionale.


Nella scissione fra pensiero e pratica Thomas Jefferson incarnò la forza e la debolezza dell'illuminismo americano - Lo schiavista che proclamò il diritto alla libertà
di James Francis Stafford
Cardinale arcivescovo emerito di Denver Penitenziere Maggiore
Thomas Jefferson (1743-1826) è stato definito l'americano qualunque. Uno dei suoi primi biografi, James Parton, scrisse nel 1847: "Se Jefferson ha torto, l'America ha torto. Se l'America ha ragione, Jefferson ha ragione". Parton era sulla pista giusta. Una recente visita alla sua villa, Monticello, sopra Charlottesville, in Virginia, ha confermato questo giudizio. Il saggio di Monticello conosceva i conflitti interni che hanno afflitto l'America e definiscono la modernità. Le loro origini culturali discendono dalle contraddizioni fra l'Illuminismo enciclopedico e il principio di analogia di san Tommaso. Alcuni suggeriscono come ponte fra i due la "laicità cristiana”.
Jefferson non era un filosofo sistematico. Si descriveva come un "materialista, non come uno spiritualista". Anche Karl Marx, il suo contemporaneo molto più giovane, era un materialista, un cosiddetto hegeliano di sinistra. A partire dal suo sedicesimo anno Jefferson aderì al razionalismo di Francesco Bacone, John Locke e Isaac Newton. I loro ritratti sono appesi nel salone di Monticello. Jefferson li nominò "la mia trinità, composta dai più grandi uomini che il mondo abbia mai prodotto (...) che hanno gettato le fondamenta delle scienze fisiche e morali". Jefferson applicò il loro metodo scientifico all'indagine religiosa. Da un certo punto di vista è giustificato perché il ragionamento scientifico e quello religioso sono piuttosto simili: entrambi si concentrano sulla realtà. Tuttavia, il rigoroso metodo di indagine sostenuto da Bacone nella sua opera Novum organum e adottato da Jefferson, è inapplicabile persino per la scienza perché, come insisteva John Henry Newman, sia il teologo sia lo scienziato naturalista devono impiegare metodi di ricerca che si occupino della presenza di fenomeni improbabili, ossia di quelle scoperte fattuali senza precedenti in matematica. Nell'applicazione universale di Bacon, Jefferson era più rigido di quanto perfino gli standard scientifici lo autorizzassero a essere.
Jefferson era anche un impegnato utilitarista. Questa etica era condivisa dai liberali laici e da molti marxisti, fra cui Trotsky. Il difetto più grave di Jefferson fu il suo rifiuto di un'etica teologica. Ciò conferma il giudizio che fa di lui "un uomo incostante nelle sue idee e nel suo approccio". L'utilitarismo giudica la giustezza di un'azione dal contributo che essa apporta all'aumento della felicità umana o alla diminuzione della miseria umana. Nulla sovrasta questo assioma morale, né la legge di Dio, né la legge naturale, né il "sentimento morale". L'unica equazione presa in considerazione riguarda le conseguenze remote e immediate di certi tipi di azione. I suoi principi permisero a Jefferson di approvare o disapprovare un'azione basandosi esclusivamente sul suo aumentare o diminuire la felicità dei cittadini dell'"impero della libertà".
Questa visione imperiale oscurò agli occhi degli americani la luminosità del buono e del vero nel loro continente un tempo incorrotto. Lo sventramento delle Montagne Rocciose durante la corsa all'oro nel Colorado nel 1858 e oltre, mi ricordò con durezza l'utilitarismo fallimentare del Destino Manifesto, le cui origini furono duplici: l'acquisto di Jefferson nel 1803 del territorio della Louisiana dalla Francia napoleonica e la missione affidata a Lewis e a Clarke di esplorare l'ovest oltre il fiume Mississippi. Jefferson definì quella vendita un'espansione dell'"impero della libertà", intendendo con ciò un impero di proprietari terrieri anglosassoni stanziatisi nel nuovo territorio. Il suo "impero" permise una vasta espansione sia della schiavitù africana sia dello sterminio culturale dei nativi americani.
Anthony F. C. Wallace, un antropologo, ritiene che le contraddizioni ideologiche e politiche di Jefferson siano osservabili soprattutto nei suoi atteggiamenti verso gli indiani americani. "Riguardo ai nativi americani, Jefferson appare sia come un estimatore dotto del carattere, dell'archeologia e della lingua indiani sia come l'autore del loro genocidio culturale, l'architetto della politica di rimozione, l'ispettore della Pista delle Lacrime". Contrariamente a quanto si è pensato in passato, l'atteggiamento distruttivamente aggressivo del governo degli Stati Uniti verso i primi popoli americani iniziò nell'era di Jefferson e non in quella di Jackson. Nella sua Dichiarazione del 1776 Jefferson delineò il profilo della nuova nazione definendo gli indiani americani "spietati selvaggi". Non sorprende dunque che Wallace affermi che "questo apostolo della libertà americana aveva un temperamento profondamente tendente al controllo".
Quale presidente utilitarista, Jefferson aveva un'idea della giustizia che derivava dall'interno della tradizione liberale. A causa dei suoi timori per la vita della neonata repubblica americana e del suo desiderio di ottenere terre indiane a quasi qualsiasi costo, era sfavorevole al "progetto di civilizzazione" per gli indiani. Wallace conclude così il suo ironico ritratto di Jefferson: "Se Jefferson è stato colpevole di insincerità, doppiezza, ipocrisia nelle questioni relative agli indiani, va detto che la sua disonestà e la sua spietatezza politica hanno costituito un'arma nella sua lotta per garantire la sopravvivenza degli Stati Uniti come repubblica governata da proprietari terrieri anglosassoni".
Jefferson condivideva anche l'ottimismo illuministico nella capacità illimitata della "ragione pura", che egli considerava "al di sopra della storia". La sua adesione alla ragione fu così assoluta che non si rese conto della crisi che si profilava nella filosofia occidentale, l'aspetto temporale dell'essere o il mistero della cosa nel tempo. La crisi fu figlia naturale dell'illuminismo. Ignaro della mediazione della storia nel pensiero e confidando soltanto su un razionalismo miope e arrogante, nel 1804 cominciò nel tempo libero a censurare il Nuovo Testamento, arrivando fino a pubblicare la notoria Bibbia di Jefferson, un testo pieno di omissioni. Chiese che sulla sua lapide venisse ricordata la sua paternità della Dichiarazione di Indipendenza, dello Statuto della Virginia per la libertà religiosa e dell'Università della Virginia. A questi atti effettivamente storici ne andrebbe aggiunto un altro: la sua riconciliazione con John Adams iniziata e conclusa mediante la loro corrispondenza finale dal 1812 al 1826. Esaminerò il primo di questi atti in questo articolo e gli altri tre in seguito.
Jefferson fu autore del documento fondante della Repubblica americana, la Dichiarazione di Indipendenza del 1776. Scrisse: "Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità". Inoltre, nel giustificare l'assunzione per gli Stati Uniti dello status di nazione indipendente, Jefferson fece riferimento alle "leggi della natura e al Dio della natura". Questa visione politica è il pilastro dell'identità americana. Qual è la risposta cattolica a questa dichiarazione?
Per i cristiani il suo appello al "Dio della creazione" è teologicamente sconclusionato. Antitrinitario inflessibile Jefferson non confrontò mai il suo credere nel "Creatore" che chiamò "Dio della natura", con l'alto assioma medievale secondo cui la possibilità di una libera creazione esiste solo nella realtà della Trinità. Un Dio non trinitario non potrebbe essere il Creatore. L'uomo non potrebbe percepire se stesso come dono che viene offerto. San Tommaso D'Aquino e san Bonaventura affermarono che la libertà, divina o umana che sia, non esisterebbe senza il mistero della Trinità. L'amore intratrinitario di Dio è così completo in sé che Dio non ha bisogno di un essere extra-divino da amare. San Tommaso scrive: "Dio, il Padre, attua la creazione mediante il suo Verbo, che è il Figlio, e mediante il suo amore, che è lo Spirito Santo. E così le processioni delle persone sono i modelli (rationes) della produzione di creature in quanto includono gli attributi essenziali, conoscenza e volontà". Altrove scrive: "La processione delle persone è anche, in un certo qual modo, la causa e il modello (ratio) della creazione". La creazione del Padre si può ottenere liberamente soltanto per la gloria del Suo Verbo e per la gloria dello Spirito Santo che è il vincolo di amore nel Dio Uno e Trino.
Su cosa si basa l'idea di libertà di Jefferson? Lo storico Richard Hofstadter ha scritto che il folclore moderno "presume che la democrazia e la libertà siano tutt'altro che identiche e quando gli scrittori democratici si prendono il disturbo di fare delle distinzioni, generalmente presumono che la democrazia sia necessaria alla libertà. Tuttavia, i Padri Fondatori pensavano che la libertà alla quale erano più interessati fosse minacciata dalla democrazia. Nella loro mente la libertà non era legata alla democrazia, ma alla proprietà". Infatti, Hofstadter sostiene che la feroce rivalità fra i grandi partiti politici abbia camuffato una realtà fondamentale: la loro base comune nella "proprietà e nell'impresa".
Quanto è lontana l'analisi di Hofstadter della simbiosi fondamentale fra democrazia e proprietà secolari americane dal seguente scritto dei neo-marxisti Antonio Negri e Michael Hardt? "Marx ed Engels rappresentavano lo stato come il comitato esecutivo che amministra gli interessi dei capitalisti. Con questa espressione intendevano dire che, malgrado l'azione dello stato potesse occasionalmente ostacolare gli interessi più immediati dei singoli capitalisti, nel lungo periodo esso avrebbe sempre preso le parti del capitalista collettivo, ossia del soggetto collettivo del capitale sociale considerato nel suo complesso". Entrambi i punti di vista gettano la luce della verità sui recenti interventi del Federal Reserve Board of the United States nella crisi dei derivati di credito. Secondo Peter S. Ornuf, uno storico, Patrick Henry, George Washington e Benjamin Franklin fecero delle speculazioni sul territorio occidentale. Thomas Jefferson, speculatore più cauto, possedette interessi in trentacinquemila acri di territorio occidentale. Queste speculazioni svolsero un ruolo significativo nelle politiche statunitensi rivolte agli indiani.
Un fatto significativo su Jefferson è che la grande retorica della Dichiarazione e la concretizzazione della stessa furono contraddittorie. Divenire consapevoli di questa contraddizione è doloroso, doloroso in maniera insopportabile. La sua pratica della schiavitù contraddisse senza alcuna speranza la sua visione politica. Non smise mai di conciliare i suoi principi morali con il suo possesso di centinaia di uomini, donne e bambini schiavi. I vasti e incantevoli giardini e parchi di Monticello erano manutenuti da schiavi africani. Sebbene sostenesse eloquentemente i "diritti inalienabili" di ogni uomo alla vita e alla libertà, una forma di distorto ottimismo gli impedì di riconoscere il male mostruoso del suo possesso di schiavi e di pentirsene. La ragione, il suo "arbitro di verità", lo aveva abbandonato. La sua "nuova fede", fondata su un meccanismo universale, scientificamente determinato, lubrificato dall'olio lenitivo del progresso storico, era un sentimento squallido e volgare che lo rese incapace di affrontare la cultura schiavista.
Quando ho visitato la sua piantagione, sono passato davanti alla spartana stanza sotterranea in cui Sally Hemings, una schiava, viveva come capo-cuoca. Era sorellastra di Martha Jefferson, la moglie del presidente. Gli storici concordano in generale sul fatto che, dopo la morte della moglie, divenne padre di uno o più figli di Sally. Al di là della casa padronale a Mulberry Row, ci si imbatte in ciò che resta di piccole baracche composte da un solo locale dal pavimento lercio con ciminiere di legno. Questi ripari ospitarono le famiglie schiave di Jefferson fino al 1827 quando vennero vendute in un'asta pubblica insieme al mobilio della villa per pagare i debiti che lasciò alla sua morte.
Un giorno freddo e ventoso in cima alla montagna della Virginia improvvisamente rese grottesco quel monumento storico nazionale. Qualcosa non andava. I mattoni della villa, le sue cornici toscane intagliate e la sommità ornamentale dell'edificio di traformarono da espressioni di bellezza in accuse. La deturpazione morale del loro proprietario assunse un aspetto fisico. La sua villa di trentacinque stanze, circondata dalle montagne, con le sue armonie palladiane divenne una trappola. Mentre ci si bea della simmetria architettonica, dell'ordine, dell'equilibrio e dello spazio della villa, affiora un ricordo terribile: alla morte di Jefferson più di 100 schiavi, uomini, donne e bambini, alcuni di quali si dichiaravano suoi figli naturali, furono messi in vendita sul mercato degli schiavi. Nel corso della sua vita vendette centoventi "schiavi preziosi" e concesse la libertà solo a sette. Con il testamento non liberò gli altri.
L'utilitarismo di Jefferson gli permise di organizzare il proprio "mondo" in un modo disumano. È irrefutabile: fu un alienato. Come può aver sostenuto questa disaffezione interiore? Esistono vari e ulteriori motivi. La sua identità "epicurea" era una specie di narcotico intellettuale e morale. Modellò la sua lista di diritti umani, "vita e libertà" sulla falsariga di quella di John Locke di vita, libertà e proprietà. Tuttavia, Jefferson sostituì la "ricerca della felicità" con la "proprietà". Si definì "un epicureo" aggiungendo eccentricamente di essere "un autentico (...) e vero discepolo del nostro maestro Epicuro". In seguito, fece anche riferimento al Syntagma di Gassendi, che secondo Charles B. Sanford riscattò "l'idea di Epicuro dalle errate interpretazioni libertine sottolineando che, sebbene la felicità fosse lo scopo della vita, essa si poteva ottenere solo mediante l'auto-disciplina e uno stile di vita nobile, non certo mediante l'autoindulgenza". Il suo esagerato numero di schiavi non si adatta a questo tentativo di revisionismo. Sebbene numerosi edifici siano stati ricostruiti e/o ristrutturati, nessuno dei ricoveri per gli schiavi è stato ricostruito perché un atto del genere da parte della Thomas Jefferson Foundation sarebbe un esempio di educazione alla diseguaglianza.
Nella scissione fra pensiero e pratica disumana Jefferson incarnò le forze e le debolezza dell'illuminismo americano. John Quincy Adams ha colto correttamente il carattere del terzo presidente americano: "il signor Jefferson non possedeva spirito di martirio". Nel 1814 respinse sdegnosamente la richiesta di un più giovane vicino della Virginia di dare il suo sostegno pubblico alla causa antischiavista. Nella sua assoluta devozione alla ricerca della ragione Jefferson perse fatalmente il "si prende nell'essere presi" di sant'Agostino.
Jefferson e altri fondatori americani rifiutarono volontariamente di impegnarsi nella lotta contro la schiavitù. La dominazione oppressiva di una mathesis universale (scienza assoluta) infuse nei responsabili politici della nuova Repubblica una cultura di morte che ha portato molti americani oggi a "vivere in una fucina di morte".
La visita a Monticello mi ha lasciato disorientato per l'inutilità del vasto spazio sotto la fastosa cupola e mi ha indignato per l'ingresso decorato curiosamente con uno sconcertante osso fossile, un orrendo e incombente orologio a muro, terribili corna ramificate, drappi di pelli di animali, una statua di marmo chinata davanti a un caminetto e altre cose del genere. La stanza sembra più una caverna dall'alto soffitto in cui "il vento spazza via tutto in una sola volta" che l'accogliente ingresso di una casa. Questa villa sulla cima della montagna non sembra essere stata concepita come un luogo di "luce", ma come un posto di guardia da cui controllare e sfruttare gli schiavi. Il suo padiglione ricostruito vicino a Mulberry Row, che domina giardini terrazzati, suggerisce questa interpretazione. L'architettura concentrica e il disegno di Monticello sono forme di controllo sociale. Manca l'indifferenza essenziale della bellezza.
Una delle grandi ironie della storia americana è che la ragione assoluta ha incatenato Jefferson. Il movimento abolizionista contro la schiavitù emerse nel 1803 dal Secondo Grande Risveglio del Cristianesimo e non da quanti proclamavano con Jefferson che "la ragione di ognuno deve essere il suo oracolo". I cristiani evangelici dovettero rendere il popolo americano consapevole del male della "libera" autonomia inconsistente di Jefferson.
Nel lungo periodo la "cultura" americana immaginata dalla Dichiarazione di Indipendenza di Jefferson si rivelò individualistica, volontaristica e libertaria. Essa racchiuse la libertà americana nella proprietà e nell'autoaffermazione. Di conseguenza, negli anni Trenta del 1800 emerse l'individualismo politico-culturale della democrazia jacksoniana e negli anni Settanta dello stesso secolo apparve il potente individualismo economico dell'Età dell'Oro. In particolare, nel 1787 la libertà proclamata nella Dichiarazione si rivelò inefficace nel proteggere dalla disumanizzazione i membri più vulnerabili della società americana, gli africani. Nel 1808, la libertà della Dichiarazione dovette confrontarsi con il regolare commercio degli schiavi americani. Quello stesso anno Jefferson con la sua firma trasformò in legge un progetto che proibiva quel traffico. Perché allora non si celebra il bicentenario della firma del presidente? La risposta è ovvia: la legge si rivelò totalmente inefficace e Jefferson sapeva che lo sarebbe stata quando la firmò.
Nel 1820, con il compromesso del Missouri, la libertà della dichiarazione si dimostrò nuovamente inefficace nel difendere l'umanità non solo degli afro-americani, ma anche dei nativi americani. Ciò che Robert Frost celebrò come "Il dono totale" in occasione della cerimonia di insediamento di John F. Kennedy nel 1961, fu un eufemismo poetico per il "destino manifesto" di un "popolo" autoconsacratosi "predestinato" per giustificare la sua occupazione del continente americano, "la patria che verso occidente si andava formando". Frost disse giustamente che "prova del dono furono molte guerre" culminanti nell'espropriazione coatta delle tribù native. Per le società dei nativi americani le politiche di Jefferson condussero alla "pista di lacrime" di Jackson che in generale si è dimostrata disastrosa. Infine, con la scellerata decisione sull'aborto del 1973 la libertà di Jefferson è stata svergognata da un altro poeta che lotta contro l'indicibile: "qualcuno che sarebbe potuto nascere è morto".
(©L'Osservatore Romano - 25 aprile 2008)