venerdì 4 aprile 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Esce in Italia "Juno" il discusso film su un'adolescente che decide di portare a termine una gravidanza non voluta scegliendo anche i genitori adottivi
2) Juno () (2007, USA) Genere: commedia drammatica Durata: 96' Regia di: Jason Reitman con Ellen Page, Michael Cera, Jennifer Gardner, Jason Bateman, Allison Janney, J.K. Simmons Valutazione: Imperdibile
3) Onorificenze alla laicità e uova lanciate a Ferrara, di Davide Rondoni
4) Carità e speranza nelle encicliche di Benedetto XVI Un riassetto teologico dell'intelligenza cristiana
5) La comune esperienza di unione con Cristo di Madre Teresa di Calcutta e Chiara Lubich
6) No al "mercatismo", la posizione di Giulio Tremonti
7) I media non guardano alla "normalità" della famiglia
8) L'America di Benedetto XVI, modello per l'Europa cattolica


Esce in Italia "Juno" il discusso film su un'adolescente che decide di portare a termine una gravidanza non voluta scegliendo anche i genitori adottivi
Ha già le unghie? Lo tengo

di Giulia Galeotti
Ancora prima dell'uscita nei cinema italiani, la storia di Juno ci è già nota: una sedicenne rimasta incinta di un coetaneo decide di portare a termine la gravidanza e di dare il bambino in adozione, scegliendo i futuri genitori. Ma se conoscere la trama è un conto, vedere il film è tutt'altra cosa: durante l'ora e mezzo di proiezione, infatti, con grande maestria, la sceneggiatrice Diablo Cody (Oscar 2008) riesce davvero a far riflettere lo spettatore su tanti aspetti della vita.
Juno - scandito da allegre cartoline che ci informano delle stagioni che attraversano la gravidanza e l'anno scolastico della protagonista - è il film che inizia come Il favoloso mondo di Amelie e finisce come la vita. In mezzo, i nove mesi di questa adolescente colorata e sfrontata che tenta di vivere a suo modo, grazie anche (e, a volte, malgrado) all'umanità variopinta che la circonda, all'evento misterioso che si verifica in lei. Nella prima itinerante scena - che è a metà tra un cartone animato e una commedia dell'assurdo - i colori, i dialoghi e perfino le inquadrature sono tra il fantastico e l'onirico. Juno tiene testa al massiccio commesso che le vende i test di gravidanza (ripetuti tre volte, non sia mai) e scopre di essere incinta. Il risultato non è affatto piacevole, la passeggiata autunnale continua e l'albero del giardino di casa sembra perfetto per provare la corda che potrebbe risolvere il guaio. Ma la suddetta è di liquirizia, e la ragazzina finirà - ovvio quasi, considerando la succulenta materia prima - per addentarla.
È invece estremamente reale una delle ultime scene della pellicola, quella che vede riposare abbracciati in un letto di ospedale - che sembra troppo stretto perfino per loro - due adolescenti stremati dalle emozioni e (soprattutto) dallo sforzo di tentare di dare un senso a ciò che è successo. Qualcosa che è decisamente più grande delle loro "imberbi" spalle.
Ecco, tutti i novantuno minuti del film - trionfatore, come noto, alla Festa del Cinema di Roma 2007 - sono in altalena tra due estremi. È chiaramente una commedia Juno, ma - altrettanto chiaramente - non lo è. Il linguaggio, diretto e onesto, è sprezzante e un po' cinico, ma insieme brillante e profondo. Le questioni sono complesse, eppure gli eventi sembrano quasi facili: sorprendentemente, però, l'equilibrio tra questi due estremi riesce. Sorprendentemente perché le questioni chiamate in causa sono davvero tante, e raramente tante idee condensate in una sola vicenda riescono a essere di proficua assimilazione per chi assiste.
Juno, tenace e incosciente, è soprattutto una sedicenne che tenta di non subire ciò che le accade. Il fatto di aver preso il nome da quella donna umiliata e instancabilmente tradita che è la moglie di Zeus, non può certo condizionarla. Dalla lingua pronta e affilata, sicura di sé in modo sano come solo le adolescenti molto amate nell'infanzia sanno essere - nonostante la madre biologica relegata in un pungente angolo di piante grasse che la donna, lontana e spiantata, spedisce alla figlia per ogni compleanno - Juno riesce a tenere il controllo della situazione, molto più del suo coetaneo, pallido e goffo nella divisa d'atleta oro-granata. Con il suo viso tra l'ingenuo e il deciso, l'attrice Ellen Page interpreta benissimo uno scricciolo panciuto in bilico tra gli sguardi innocenti e inquieti dell'adolescenza, e le responsabilità dell'essere adulti.
Il mondo di "quelli" è incarnato innanzitutto da due coppie di grandi: i suoi genitori (molto belli i personaggi del padre e della matrigna) e i futuri genitori del bimbo che Juno aspetta. Attraverso la lente di questa sedicenne "in espansione", inizialmente i primi (padre e matrigna) paiono distanti, maniacali e, tutto sommato, incapaci di comprendere; i secondi, invece - i genitori adottivi che, sogno di ogni adolescente, vengono scelti e non subiti - risultano bellissimi, perfetti e sorridenti. Finirà però che la ragazzina fuggirà sconvolta dalla dimora immacolata dei ricchi per tornarsene rasserenata nella sua confusa e caotica casa (il resto non lo diciamo...).
È un film sicuramente divertente e ben fatto Juno. Ma è decisamente un bel film per il modo in cui solleva tantissimi temi attuali - le famiglie allargate, i ragazzini che crescono troppo in fretta, i padri in fuga, la scelta degli adottandi, l'interazione tra ricchi e meno ricchi (v'è persino l'analisi "sociologica" della figura femminile: la tripartizione anagrafico-esistenziale tra la matrigna Allison, la madre adottiva Vanessa e Juno scandisce un'interessante genealogia).
E poi v'è anche il grande tema, l'aborto. O forse, proprio quello che è il grande item di tutta la pellicola (tenerlo o non tenerlo), in realtà quasi non c'è. E qui, proprio qui, il film è davvero interessante. Liberarsi dell'intruso è la prima idea di Juno, ma poi l'ufficio-ambulatorio in cui si reca per abortire è troppo brutto e squallido; le donne che vi si incontrano troppo stressate, nervose e tristi. La notizia che il cosino nella sua pancia ha già le unghie è una sorta di rivelazione: è qui, e non controllando il risultato del kit di gravidanza, che Juno decide da sola che il fagiolino nascerà. Così, con quell'atteggiamento di serenità relativa (o di relativa inquietudine) tipicamente adolescenziale per cui si minimizza il grande e si esaspera il marginale, la ricerca per Juno di un centro che pratichi l'interruzione di gravidanza si trasforma nella ricerca dei genitori ideali a cui scodellare il fagotto. Sedute al parco, lei e l'amica del cuore selezionano, scartano e scelgono, ma il giornale-catalogo restituisce un mondo patinato che, per quanto splendente, anche in questo caso non sarà la realtà. Accorgersi di quest'ennesima delusione richiederà a Juno un'ulteriore prova di maturità. È anche interessante il rapporto tra lei e Vanessa Loring, la futura madre adottiva, che inizialmente si presenta malino: Vanessa appare esaltata e isterica, l'instabile upper class, la post-femminista che accumula straordinari e shopping bag per il bimbo in arrivo che desidera più di ogni altra cosa, esattamente come potrebbe anelare all'ultimo modello dell'ultima borsa super trendy. Compra-compra, vorrebbe comprare anche un figlio (Juno e papà trasecolano). Lentamente, però, Vanessa riesce a essere la madre che vorrebbe diventare - e che Juno desidera per il bimbo. Anche questa volta, però, il passaggio nel film è dato da un semplice fatto: "la Vanessa" sempre perfetta, compita e impeccabilmente vestita, viene sorpresa (non vista) da Juno in un centro commerciale mentre gioca rilassata e divertita con la figlia di un'amica. Ed è solo ora, solo dopo che la stessa Juno l'ha riconosciuta come madre, che il feto - prima ostinatamente immobile sotto la mano di Vanessa - si fa finalmente sentire anche da lei. Un processo esattamente contrario lo compie Mark Loring, il mancato padre adottivo: se dapprincipio piace moltissimo a Juno, lentamente si rivelerà invece pavido e immaturo, decisamente il personaggio più negativo della compagnia.
V'è coraggio e speranza, dunque, in questo film - non v'è, invece, un radioso happy end. Ma non sono le leggi di Amelie, è la vita con le sue ambivalenze.
(©L'Osservatore Romano - 4 aprile 2008)


Juno () (2007, USA) Genere: commedia drammatica Durata: 96' Regia di: Jason Reitman con Ellen Page, Michael Cera, Jennifer Gardner, Jason Bateman, Allison Janney, J.K. Simmons Valutazione: Imperdibile
A 16 anni Juno rimane incinta, e dopo una prima esitazione, decide di portare a termine la gravidanza e dare il figlio in adozione.
«È iniziato tutto con una poltrona», dice la voce fuori campo, all'inizio del film, quando Juno (che ha 16 anni) ha deciso che prima o poi avrebbe fatto sesso con il suo compagno di classe Paulie Bleeker, giovane promessa della squadra di atletica leggera della scuola. Due test di gravidanza dopo, vediamo Juno nel negozio del paese alle prese con il terzo test positivo, che scuote nella speranza di cambiarne il risultato. «Guarda che non è una lavagnetta magica – ironizza il commesso – quello è uno scarabocchio che non puoi cancellare». Vincitore della Festa del Cinema di Roma e Oscar per la migliore sceneggiatura, Juno da subito colpisce per i dialoghi, il modo non banale con cui tratta situazioni anche drammatiche, ma soprattutto per la straordinaria interpretazione della giovane Ellen Page nei panni della protagonista. Juno è una ragazzina come tante, e come tante decide per un veloce aborto risolutivo, quando invece (complice lo squallore dell'ambulatorio e l'incontro con una compagna di classe che picchetta "pro-life" fuori della clinica) cambia inaspettatamente idea, risolvendosi di continuare la gravidanza e scegliere una coppia cui dare il figlio in adozione. In una delle migliori scene del film, Juno informa il padre e la matrigna, una classica coppia "working class", delle sue decisioni, e le loro reazioni sono tanto inaspettate quanto commoventi. "Qualsiasi cosa ti succeda," io sono con te, le dice il padre in una delle sequenze più intense. Juno è giovane e per alcuni versi ancora molto naif nei suoi modi di agire; dà per scontate alcune cose che non lo sono, chiede consigli che non seguirà: ma del resto alcune lezioni si possono imparare solo con l'esperienza. Sostenuta dalla famiglia, guardata da lontano dal timido Bleeker che però man mano la gravidanza avanza si avvicinerà fino ad arrivare al letto dell'ospedale nel momento del parto, Juno porterà il suo pancione per l'intero anno scolastico, sapendo di aver fatto la scelta giusta.
Beppe Musicco
Tematiche: adolescenza, gravidanza, aborto, famiglia Target: sopra i 13 anni



Onorificenze alla laicità e uova lanciate a Ferrara
Avvenire, 4 aprile 2008
DAVIDE RONDONI
C’è un filo direttissimo che collega certi discorsi 'accademici' alle uova tirate in piazza, con intolleranza, come accaduto ieri a Bologna. Per esempio in Italia esiste il Premio 'il laico dell’anno'. Con tanto di premiazione nell’austera aula magna dell’Università di Torino. Per chi come me conosce la pittoresca fauna dei premi di poesia, animati dalle più bizzarre congreghe o da ineffabili assessorati e proloco, ormai nessun premio sorprende. Ma questo de 'il laico dell’anno' è veramente sublime. Come si deve sentire il professor Rusconi che a questa tornata ne è stato insignito, rispetto alla schiera degli architetti, dei medici dell’anno, dell’auto dell’anno, dei giardinieri, dei baristi e dei parrucchieri dell’anno? Tutta gente che fa bene una professione utile a tutti, e che attaccheranno l’attestato in negozio, in officina, in studio. A chi gli chiede: buongiorno, Professore, io sono il piastrellista dell’anno, e lei cosa è? lui che fa, risponde: piacere, laico dell’anno? Fuori il petto, il Professore raccoglie le idee, e con la medaglia fresca sul bavero elabora una lectio magistralis, che La Stampa
di Torino rilancia. La quale lectio, stringi stringi, dice un concetto solo ma in bella forma per ritirare la medaglia: il valore più caro al laico in democrazia è la democrazia stessa. Ovvero, la possibilità di discutere le proprie opinioni liberamente. E in nome di questa idea il laico dell’anno da subito se la piglia con la Chiesa poiché si permette di proporre alcuni 'valori non negoziabili'. Per il laico dell’anno questa stessa proposizione, 'valori non negoziabili' è un attentato alla laicità e al suo unico valore, ovvero la democrazia, intesa come libero negoziato. Ergo, mica tanto implicitamente, il laico dell’anno suggerisce che l’esistenza e l’espressione della Chiesa è un attentato alla convivenza democratica.
Complimenti. Mio nonno era un vecchio liberale, romagnolo e anticlericale, non aveva letto i tanti libri del Professore, e non ne aveva scritti. Ma un’idea di laicità così misera (e intollerante) l’avrebbe mandata a quel paese. Perché pensare che la laicità si realizzi in questa specie di vuoto, di assenza di alcune poche cose care, non negoziabili, insomma di valori che, spesso diversi e a volte comuni, rappresentano però qualcosa che si afferma come ciò per cui val la pena vivere, non è un’idea laica, ma è un’idea da delusi della vita. Un’idea da sacerdoti di un idolo, scelto tra quelli meno ingombranti e però pervasisvi, e perciò neo-ideologici. Un’idea da patiti dell’idolo di questa epoca: il formalismo. Che è sempre l’arma usata da chi ha il potere per non essere disturbato.
In questa posizione di (finta) laicità sembra quasi che emerga una strana rabbia: come quella di chi, avendo perso qualcosa di caro, esiga che nessuno ce l’abbia. E se qualcuno si azzarda a dire, ad esempio, che la vita di un uomo vale di più di una conversazione democratica, o che se non ci si prende cura dei giovani e delle nuove vite la democrazia diviene un camposanto governato a maggioranza, il laico dell’anno reagisce accusando di essere nemici della libera convivenza.
Ma cosa è questa laicità procedurale e livorosa, parruccona e tristolina, che pensa che il valore del calcio siano le regole con cui si gioca e non la bellezza del goal, la eleganza dell’azione?
Cos’ha di laico dell’anno qualcuno che usa l’idea di laicità in modo così clericale, formalista e contundente? Le uova, le urla, il ritorno di vecchie formule in bocca ai ragazzi che hanno contestato Giuliano Ferrara sono figli diretti e non figliastri di chi ritiene che la proposta – avanzata in modo democratico – di un valore non negoziabile sia pericoloso. E dunque da cacciare dalla pubblica piazza.
Pensare che la laicità si realizzi in questa specie di vuoto, non è un’idea laica, ma da delusi della vita



Carità e speranza nelle encicliche di Benedetto XVI Un riassetto teologico dell'intelligenza cristiana
di Alain Besançon
Institut de France
È possibile intuire, nell'opera di Benedetto XVI, un piano d'insieme che conferisca un'unità al suo Pontificato? Tre anni sono un lasso di tempo troppo breve per stabilirlo. Circostanze nuove possono imprimere al suo agire un corso inatteso. Tuttavia mi sembra che un disegno profondo esista, e lo definirò così: "Il riassetto teologico dell'intelligenza cristiana nella Chiesa". Continua così l'opera del suo predecessore. Non lo fa solo per il bene della Chiesa, ma per il bene di tutta la comunità umana.
La vita spirituale cristiana impone la permanente ricerca della verità. Una fede che non cercasse l'intelligenza deperirebbe e l'intelligenza degenererebbe in automatismo. La Chiesa cattolica ha affrontato diverse prove negli ultimi secoli: la sfida delle Riforme, la sfida della scienza moderna, la sfida della secolarizzazione. Ha fatto fronte a tutto ciò ma, volendo proteggere il gregge, non l'ha sempre incoraggiato a pensare da solo. Un'istituzione come l'Indice, fondata nell'urgenza delle catastrofi del XVI secolo, è stata, in definitiva, una buona idea? Non è inquietante il fatto che di fronte a personalità della statura di Rousseau, Kant e Hegel, il pensiero cattolico non abbia trovato al suo interno un giovane David munito di una buona fionda intellettuale? Il ripiegamento sulla protezione è talvolta prevalso.
Nei due secoli scorsi, la Chiesa non è stata solo combattuta frontalmente, ma è stata anche "tentata" da imitazioni perverse di se stessa. La più grave è stata la grande ondata del comunismo leninista di cui ci si è chiesti per un istante se non avrebbe sommerso il mondo intero. I Papi hanno resistito. Non hanno ceduto nulla del deposito loro affidato. Tuttavia, dinanzi alla sfida comunista, correnti molto attive nella Chiesa si sono messe in posizione di concorrenza. Poiché il comunismo pretendeva di essere "sociale", occorreva che la Chiesa si mostrasse ancora più "sociale". Nella vaghezza delle nozioni il discernimento non operava più. La religione cristiana rischiava di fondersi con la religione umanitaria. Benedetto XVI non tollera le confusioni intellettuali.
Nella religione umanitaria l'uomo pretende di essere migliore di Dio. Vi sono sciagure, punizioni che Dio consente, cioè non impedisce che accadano. Ebbene, l'uomo migliore di Dio, dotato di un amore più grande, più universale, non le ammette.
La parola amore viene allora svilita, utilizzata in tutte le salse per giustificare tutte le pratiche sessuali, per impedire di riconoscere un nemico in quanto nemico, per partecipare ai progetti che la religione umanitaria crea ogni momento. Questo falso amore dispensa dal pensare. Fa vivere nell'emozione. La virtù della prudenza viene dimenticata.
La prima enciclica di Papa Benedetto XVI ha come fine principale quello di dissipare questa confusione. La Deus caritas est definisce la differenza fra l'amore cristiano, la caritas, l'agàpe, o ancora la philìa, l'amicizia, e, dall'altro alto, l'èros. Non per condannare l'eros, indispensabile alla vita, ma per porre l'uno e l'altro, chiaramente distinti, in compenetrazione e in unione. Traducendo sistematicamente con "amore" la parola "carità" si rischia di svilire quest'ultima e si erotizza la parola amore, conformemente al clima della nostra epoca.
La carità, scrive il Papa, non è per la Chiesa un'attività di assistenza sociale che si può anche lasciare ad altri, ma "è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza". "Non è un mezzo per cambiare il mondo in modo ideologico (...) ma è l'attuazione qui ed ora dell'amore di cui l'uomo ha sempre bisogno". Non si può separare in modo più netto il compito caritativo proprio della Chiesa e l'ideologia umanitaria di provenienza socialista, o questa inclusione obbligatoria nell'uguaglianza indifferenziata caratteristica dell'ambito umanitario democratico contemporaneo.
La nuova enciclica, Spe salvi, affronta temi simili da un'angolazione diversa, a partire da un'altra virtù teologale. Di fronte al nichilismo disperato di oggi o all'utopismo sregolato di ieri, cos'è la speranza e, parlando come Kant, che cosa ci è permesso di sperare?
Questa lettera enciclica è di una grandissima ricchezza. Seguirò solo una delle sue linee principali.
La speranza, ci istruisce il Papa, è contigua alla fede. Nelle scritture, le due nozioni sono intercambiabili. La speranza - o, come il Papa preferisce dire, la "grande speranza" - non si concentra su un progetto particolare. E ancora meno su un progetto rivoluzionario; Cristo non è Spartaco, né Bar Kochba. Essa si fonda sulla certezza che l'uomo non è abbandonato, che una Persona lo osserva con sguardo benevolo. Tuttavia il Vangelo non è solo "informativo" perché ci insegna una "buona novella", questa sicurezza, ma è anche "performativo" poiché ci offre fin da ora un bene obiettivo, un fatto che cambia la vita. La speranza non è solo un'attesa, essa si assapora nel presente. Il cristiano, che appartiene alla società di questo mondo, gode della cittadinanza di un'altra società, di un'altra Città, direbbe sant'Agostino, di cui anticipa fin da ora la realtà.
Il cristiano attende la vita eterna. Tuttavia, ed è un punto importante dell'enciclica, non sa cos'è. Noi sappiamo solo che deve esistere qualcosa verso la quale ci sentiamo sospinti. Sappiamo e ignoriamo allo stesso tempo: docta ignorantia.
I filosofi pensavano di salvarsi da soli. La speranza cristiana, invece, è comunitaria. Concerne l'intero popolo. "Essa presuppone l'esodo dalla prigionia del proprio "io"".
Nei tempi moderni, la fede-speranza cristiana si è trasformata. Bacone, correlando la scienza e la prassi, ritiene che l'uomo potrà ripristinare il dominio sulla natura smarrito con il peccato originale. L'idea del progresso è nata. Fondandosi su una fiducia nuova nella ragione e nella libertà, i Lumi sperano di edificare una nuova comunità perfetta. Così Kant definisce la "fede razionale" che, avendo trasceso la fede della Chiesa, fonda il nuovo "regno di Dio". Eppure, curiosamente, Kant ha l'intuizione di un possibile malfunzionamento di questo regno, analogo a quello che Vico denominava "la barbarie della riflessione". Prima di Newman, prima di Solov'ëv, egli prospetta come possibile la venuta dell'Anticristo. Ecco sopraggiungere il tempo di Marx dove l'avvento di un mondo perfettamente buono proviene non solo dalla scienza, ma anche dalla politica e dalla rivoluzione. Lenin credeva di sapere come sarebbero andate le cose dal momento in cui il potere sarebbe stato preso. L'idea dell'ignorantia non lo sfiorava. La "costruzione" alla cieca del migliore dei mondi dura settant'anni. Lascia solo una "distruzione desolante".
Il progresso esiste, ma resta ambiguo. La cosa peggiore sarebbe ignorarne i limiti. Il benessere del mondo non può essere garantito da strutture migliori, come supponeva una certa teologia della liberazione. Il regno plenario del bene non esisterà mai in questo mondo. La sua ricerca è l'oggetto di ogni generazione, e sarà sempre da ricominciare. Questa enciclica pone i limiti a ciò che "è permesso di sperare".
"Non è la scienza che redime l'uomo. L'uomo viene redento mediante l'amore". Per quanto giustificate siano le numerose e diverse speranze che possono nutrire gli uomini, questi ultimi hanno bisogno di una speranza che "va al di là", e che è Dio stesso. Quando la speranza, per grazia, viene donata loro, scoprono che racchiude anche il prossimo e il suo servizio. Questa è la "Grande Speranza".
La speranza si impara, si acquisisce e si esercita. La sua scuola è la preghiera, la sua pietra di paragone è nel modo di accogliere la sofferenza, la sua autenticità si dimostra nella compassione, ed eventualmente nel martirio. L'esigenza di giustizia fa concepire la possibilità dell'inferno, e anche l'idea di purgatorio e di preghiera per i defunti. È pertanto l'insieme del dogma cattolico che il Papa ricostruisce a partire dalla speranza, poiché nella cattedrale teologica si entra da varie porte. Benedetto XVI conclude con un'altissima preghiera a Maria, stella della speranza.
Ho tracciato solo un profilo di questa enciclica. Benedetto XVI l'ha scritta secondo la sua natura e il suo talento: quello di un grande professore, di un maestro. Essa si presenta come una lezione magistrale, dall'aspetto un po' fuori dal nostro tempo, ma incentrata sugli errori e i pericoli che oggi minacciano la fede. Si potrebbe forse spingere oltre il dibattito su Marx, cattivo osservatore della realtà del suo tempo, teorico confutato, il cui ruolo nello sviluppo e nella diffusione del comunismo è a mio parere sopravvalutato. Il comunismo leninista, che ha distrutto tanta materia e tanta natura, è, piuttosto che un materialismo, una dialettica idealistica che permette di affermare che quanto è non è; e quanto non è, è. Ma che gioia arreca allo spirito questa grande lezione così chiara, così erudita, così sapiente! Gli excursus filologici, la scelta delle citazioni di Ambrogio, Agostino, Ilario, Massimo, compongono un rosario di rare meraviglie. Questo Papa preferisce prendere i punti di riferimento dalla sua cultura natale, da Lutero a Horkheimer: gioisco come francese di questa superba rinascita del grande pensiero tedesco.
Il discernimento, il giudizio separatore del vero e del falso: questo è il compito più importante del Sommo Pontefice. La sua prima enciclica chiariva il rapporto fra le diverse forme dell'amore umano e la virtù teologale della Carità. La seconda sbroglia l'intricata relazione fra le speranze legittime o illusorie che l'uomo moderno nutre e la virtù soprannaturale della speranza, la "grande speranza" che le fonda o permette di rinunciarvi. Nella logica di queste due encicliche, se ne attende una terza, che verterà sulla fede. Il mondo moderno produce il relativismo che il Papa detesta poiché è una rinuncia alla verità. In materia religiosa, il relativismo formula un'equivalenza fra le religioni. Cancella la distinzione fondamentale fra il credo, semplice virtù morale di "religione", e la "fede", virtù soprannaturale la cui "materia" è Dio stesso. Nel loro avvicinamento così difficile al dialogo tra le religioni, i cattolici, ad esempio, esitano ad attribuire all'islam la fede, o solamente la credenza. Attendiamo con fiducia l'enciclica che opererà il discernimento su questo punto. Ma forse Benedetto XVI ha altri progetti.
(©L'Osservatore Romano - 4 aprile 2008)


La comune esperienza di unione con Cristo di Madre Teresa di Calcutta e Chiara Lubich
Sorelle nell'amore a Gesù in croce

di Giovanni Coppa
Cardinale
Hans Urs von Balthasar pubblicava nel 1950 uno studio su santa Teresa di Lisieux e, nel 1953, uno su Elisabetta della Trinità, riuniti in un volume nel 1970 col titolo Schwestern im Geist, tradotto quattro anni dopo in italiano dalla Jaca Book. Il grande teologo svizzero voleva raffrontare le due straordinarie personalità mistiche del Carmelo della fine del secolo XIX: "Ambedue - scriveva - cercano di obbedire perfettamente alla propria missione, ma ciascuna delle due deve lasciarsi completare dal messaggio dell'altra. Esse si additano a vicenda, formano le due emisfere, che, messe insieme, costituiscono il mondo spirituale del Carmelo nella sua globalità" (H.U. von Balthasar, Sorelle nello Spirito, Milano 1975 2, p.10). Quasi coetanee, Teresa era morta nel 1897 a ventiquattro anni, Elisabetta nel 1906, a ventisei
Una profonda affinità spirituale
Un'affinità spirituale profonda unisce, ai tempi nostri, anche le figure di altre due grandi personalità della storia religiosa del secolo scorso, Madre Teresa di Calcutta e Chiara Lubich, anch'esse quasi coetanee: Gonxha Bojaxhiu, in religione Teresa per la devozione che aveva a santa Teresa di Gesù Bambino, nata nel 1910, morta a ottantasette anni nel 1997; Chiara Lubich, nata nel 1920, e, da poco meno di un mese, chiamata all'eternità, a ottantotto anni. Non si vuole certamente anticipare in alcun modo per quest'ultima il giudizio della Chiesa, ma credo che un loro raffronto spirituale possa essere di grande interesse. Anch'esse hanno corrisposto a fondo alla missione loro affidata dalla Volontà di Dio, come iniziatrici di un solco fondamentale di spiritualità e di azione nelle istituzioni, pur tanto diverse, da esse iniziate; e sono anch'esse complementari per il messaggio che trasmettono con tanta efficacia alla Chiesa del Terzo Millennio. Ed è l'amore a Gesù, assetato sulla Croce, abbandonato nella solitudine assoluta del Calvario per ricondurre gli uomini al Padre in un dono d'amore, incomprensibile fuori della logica di Dio. Nella Veglia pasquale scorsa, Papa Benedetto XVI ha dato un'interpretazione di singolare acutezza e profondità del passo di Ebrei, 13, 20: "Il Dio della pace ha fatto tornare dai morti il Pastore grande delle pecore in virtù del sangue di un'alleanza eterna". Spiegando il significato dell'acqua, elemento costitutivo della Liturgia del Battesimo insieme con quello della luce, egli ha detto tra l'altro: "Gesù è per noi disceso nelle acque oscure della morte. Ma in virtù del suo sangue, ci dice la Lettera agli Ebrei, è stato fatto tornare dalla morte: il suo amore si è unito a quello del Padre e così dalla profondità della morte Egli ha potuto salire alla vita. Ora eleva noi dalle acque della morte alla vita vera. Sì, è ciò che avviene nel Battesimo: Egli ci tira su verso di sé, ci attira dentro la vera vita. Ci conduce attraverso il mare spesso così oscuro della storia, nelle cui confusioni e pericoli non di rado siamo minacciati di sprofondare" ("L'Osservatore Romano", 25-26 marzo 2008

Madre Teresa e Chiara Lubich hanno fatto un'esperienza unica di unione con Cristo crocifisso; sono discese anch'esse "nelle acque oscure della morte" di Gesù, hanno in certo modo vissuto questa "profondità della morte" condividendo, in modo diverso ma complementare, la solitudine di Gesù abbandonato sulla croce.
La notte oscura della solitudine
Hanno provato la notte oscura della solitudine interiore e assoluta, che, dopo san Giovanni della Croce, si conosce come l'amara porzione riservata a chi si pone risolutamente sulla via della rinuncia per Cristo, e specialmente a chi arriva allo spogliamento totale della via mistica. È la sorte che tocca a chi si lascia afferrare da Dio senza porre resistenze; a cominciare dalla Vergine Maria, se pensiamo alle "notti oscure" delle sue ansie per la perdita di Gesù ragazzo al tempio, dei distacchi a cui la portava la sua condizione di Madre di Colui che l'aveva lasciata per donarsi a tutti, e del Calvario, dove stette in piedi sotto la Croce del Figlio. Pensiamo alle prove, alle oscurità, alle contraddizioni riservate a tanti santi nella storia della Chiesa, alle solitudini dei martiri, rinchiusi nelle loro celle oscure, o in preda a mani assassine. È la sorte normale dei santi. Per saperlo, basta anche solo un'infarinatura di teologia mistica, tanto che stupisce il rumore suscitato dalla pubblicazione degli "Scritti più intimi della "Santa di Calcutta"", nel bel libro di padre Brian Kolodiejchuk, che hanno fatto conoscere al grande pubblico le prove interiori della Madre Bojaxhiu (Madre Teresa. Sii la mia luce, Rizzoli, 2008; le citazioni seguenti sono prese di qui).
Decisamente, il "gran pubblico" non sa più che cosa sia una teologia mistica. Chiunque entri in una cappella di Suore Missionarie della Carità, fondate da Madre Teresa, vede scritto a caratteri cubitali, presso il tabernacolo dell'Eucaristia, o sotto una grande Croce, le parole di Gesù agonizzante: I thirst, Sitio: ho sete. Saziare la sete di Gesù in croce è stato il grande anelito di Teresa di Calcutta, lasciato come programma, da vivere alla lettera, alle sue Figlie. Infatti, il primo articolo delle Regole, dettate dalla Fondatrice, lo esprime chiaramente: "Il fine ultimo delle Missionarie della Carità è di saziare la sete di amore e di anime di Gesù Cristo sulla Croce attraverso la povertà assoluta, la castità angelica e l'obbedienza gioiosa delle Sorelle". A quarantasei anni, nel novembre 1956, aveva scritto all'arcivescovo Périer: "Ho un solo desiderio: amare Dio come non è mai stato amato, di un amore profondo e personale. Nel mio cuore non sembra esserci nient'altro che Lui, nessun altro amore che il Suo: le strade, Kalighat, i bassifondi e le sorelle sono diventati luoghi in cui Egli vive appieno la sua vita d'amore. Per favore, Eccellenza, preghi per me, perché in me possa davvero esserci "solo Gesù"" (p. 176).
Eppure la notte accompagnava i passi della Madre nei suoi contatti con le miserie estreme, con i moribondi, con i bambini a cui donare un sorriso. Già a ventisette anni poteva scrivere al suo antico confessore, a Skopje: "Non pensi che la mia vita spirituale sia coperta di rose. Questo è il fiore che raramente trovo sul mio cammino. Al contrario più spesso ho per compagna l'oscurità. E quando la notte si fa molto fitta e mi sembra che andrò a finire all'Inferno, allora, semplicemente, offro me stessa a Gesù. Se vuole che ci vada, sono pronta, ma solo a condizione che veramente ciò lo renda felice. Ho bisogno di molta grazia, di molta della forza di Cristo per perseverare nella preghiera, in quell'amore cieco che conduce soltanto a Gesù crocifisso" (pp. 31s).
A trentasette anni, scrive all'arcivescovo di Calcutta, monsignor Périer, che la nuova vita le procurava in gran parte solo sofferenza; a quarantacinque, dice allo stesso: "Non so, ma nel mio cuore vi è una tale profonda solitudine da non poterla esprimere... Fino a quando Nostro Signore mi resterà lontano?" (p. 165).
Al gesuita padre Picachy, futuro arcivescovo di Calcutta e cardinale, scriveva nel 1962: "Spesso mi chiedo cosa possa ottenere Dio da me in questo stato. Niente fede, niente amore, nemmeno nei sentimenti... le tenebre sono così oscure e il dolore così straziante. Ma accetto qualsiasi cosa Lui dà e do qualsiasi cosa lui prende. Le persone dicono di essere attratte a Dio vedendo la mia salda fede. Questo non è ingannare la gente?" (p. 244). E a un altro religioso, nel 1976: " È un bene che la Croce ci conduca al Calvario e non in un salotto. La Croce, il Calvario sono stati molto reali per un certo tempo. Adesso le offese non mi fanno più male... Le chiedo di dire a Gesù... di cambiare il mio cuore, di darmi il Suo Cuore, in modo da poterlo amare come Lui ama me" (pp. 283s).
Sono pagine scritte quando la sua fama aveva ormai conquistato il mondo, ed era invitata a parlare nelle sedi internazionali più prestigiose. Ma la solitudine la teneva immersa nelle tenebre, e solo il desiderio di saziare la sete di Cristo in croce le dava la forza di portare avanti la sua opera gigantesca, fino al declino della salute, fino alle infermità e alla morte.
Analoga fu l'esperienza di Chiara Lubich. Alle origini aveva avuto forti contrarietà anche da parte ecclesiastica, e l'esperienza di Gesù abbandonato divenne l'ansia costante di soffrire per Lui e per la Chiesa. Nel primo dei quattro volumi di Scritti spirituali (Città Nuova 1978), aveva raccolto questo pensiero: "Vorrei testimoniare al mondo che Gesù abbandonato ha riempito ogni vuoto, ha illuminato ogni tenebra, ha accompagnato ogni solitudine, ha annullato ogni dolore, ha cancellato ogni peccato" (Ib., p. 44). A ventitré anni aveva fatto la scoperta folgorante: "Dio è amore", e questo l'aveva addentrata nell'intimità più profonda con Dio: "Perché Amore, Dio è Trinità", come disse a un gruppo di vescovi, nel 1989. Dieci anni prima, ad altri vescovi, aveva confidato: "È la folgore, Dio mi ama immensamente, Dio mi ama immensamente. Da quel momento scorgo Dio presente dappertutto col suo amore: nelle mie giornate, nelle mie notti, nei miei slanci, nei miei propositi, negli avvenimenti gioiosi e confortanti, nelle situazioni tristi, scabrose, difficili" (cfr M. Cerini, Dio amore nell'esperienza e nel pensiero di Chiara Lubich, Città Nuova 1991, passim).
Ma quella illuminazione fu accompagnata da una partecipazione sempre più profonda di Chiara all'abbandono di Gesù sulla croce, nel suo "grido" di morente inascoltato, in un'esperienza sempre più globale, di cui darà testimonianza nel libro appunto intitolato Il grido, Gesù crocifisso e abbandonato nella storia e nella vita del Movimento dei Focolari dalla sua nascita, nel 1943, all'alba del terzo millennio, Città Nuova 2000, ove scrisse: "Come un fiore completamente aperto, completamente spiegato, Gesù, dopo aver dato il proprio sangue, la propria morte naturale, dà anche... la propria morte spirituale, la propria morte divina, e dà Dio. Si svuota anche di Dio. E fa ciò nel momento dell'abbandono, quando grida: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Grido di Gesù che qualcuno, nel tempo, ha interpretato come se Egli ripetesse il Salmo 22 (21). Noi abbiamo sempre pensato che non è Gesù per il Salmo, ma il Salmo per Gesù... E il Santo Padre Giovanni Paolo II lo conferma: "Queste parole sull'abbandono nascono sul piano dell'inseparabile unione del Figlio col Padre, e nascono perché il Padre fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti"" (Ib., p. 19). Il volumetto è un'ampia panoramica sul significato che la realtà di Gesù abbandonato ha preso nel Movimento, ma anche nelle varie spiritualità della Chiesa, nel movimento ecumenico, nella vita degli atei e dei non cristiani. La fondatrice dei Focolari non si sofferma sulle sue prove personali, se non sfiorandole con grande delicatezza, con parole che fanno capire la sua sofferenza: "E venne la notte. Terribile come sa solo chi la prova. Essa mi tolse tutto: Dio amore, come l'avevo conosciuto in quegli anni, la vita fisica e (quella) spirituale. Mi mancò la salute, nel modo più crudo, e mi mancò la pace... Capii in quei giorni come la carità fosse tutto: come la vita fosse amore. Mancandomi l'amore mi mancò la vita. Accettai come Dio sa, fra dolori inenarrabili, quest'oscurità in cui ormai più nulla aveva valore..." (Ib., pp. 59s). Ma in questa notte spaventosa doveva fiorire una delle più belle pagine di Chiara Lubich, scritta il 20 settembre 1949, e diffusa in una magnifica edizione. "Ho un solo Sposo sulla terra: Gesù crocifisso e abbandonato; non ho altro Dio fuori di Lui. In Lui è tutto il Paradiso con la Trinità e tutta la terra con l'Umanità. Perciò il suo è mio e null'altro. E Suo è il Dolore universale e quindi mio. Andrò pel mondo cercandoLo in ogni attimo della mia vita" (Chiara Lubich, Ho un solo sposo sulla terra, Città Nuova 2000; cfr Scritti spirituali/1, cit., p. 45).
L'esperienza sconvolgente di due grandi donne

Sono spunti che traggo da alcune sue opere, come quelli presi dall'epistolario di Madre Teresa, auspicando che qualche teologo possa, come il von Balthasar, sviscerare nel suo senso più profondo e completo l'esperienza sconvolgente che quelle due grandi donne ebbero della solitudine di Gesù morente, assetato e abbandonato. Esse hanno capito, con valenza profetica per il nostro tempo, l'intima verità che Gesù sulla croce unisce alla propria Passione chi ne accolga la realtà sconvolgente ed esigente, perché Egli vuol continuare a salvarci dal peccato, nell'amore che ci riconcilia col Padre. Ed è la realtà che sostiene il mondo e che è patrimonio continuamente approfondito della fede di tutti i secoli. Basti riprendere una frase di sant'Ambrogio, dalla sua Esposizione del Vangelo secondo Luca: "Del resto Matteo scrive: Emise lo spirito, cioè per sua volontà, non per necessità. Perciò aggiunse: a gran voce. In ciò vi è la gloriosa confessione che Egli è giunto al punto estremo della morte per i nostri peccati... Matteo e Marco, i quali con maggiore dovizia hanno approfondito in Lui gli aspetti del comportamento umano, aggiunsero: Dio, Dio mio, guardami! Perché mi hai abbandonato?, affinché noi credessimo che l'aver preso su di sé la condizione umana significava per Cristo arrivare fino al punto di morire in croce" (X, 127.129; SAEMO, IX/II, Milano-Roma 1978, pp. 483, 487).
Madre Teresa e Chiara Lubich hanno capito a fondo questo amore, e si sono lasciate da esso divorare fino all'amarezza incomprensibile dell'oscurità, dell'abbandono, del silenzio, per far amare Cristo dall'uomo moderno, sgomento, dopo Auschwitz, davanti al dolore nel mondo.
(©L'Osservatore Romano - 4 aprile 2008)




No al "mercatismo"
Nel corso della trasmissione "AnnoZero" su Raidue il 6 marzo, Giulio Tremonti ha ribadito il suo esplicito attacco alla globalizzazione finanziaria che ha gettato il mondo in una crisi finanziaria senza precedenti. Ma questa volta, in concomitanza con l’uscita del suo libro "La Paura e la Speranza", Tremonti ha fatto un passo in più: per affrontare il "disastro globale", ha detto, ci vuole "un nuovo accordo tra i grandi Paesi del mondo… Ci vuole una nuova Bretton Woods". L’attacco di Tremonti al "mercatismo" - il termine che usa per definire l’aderenza fanatica al liberismo, e che definisce "l’ideologia totalitaria inventata per governare il mondo nel XXI secolo" - non è nuovo.
Negli ultimi mesi, Tremonti ha ripetutamente sfidato il falso dibattito imposto dall’establishment politico ed economico, denunciando i "folli" che hanno imposto la globalizzazione, la "tecnofinanza" utilizzata per mettere in piedi una bolla speculativa enorme, e paragonando l’attuale crisi a quella del ‘29, se non peggio.
Molti nella popolazione e nella classe politica sono stati colpiti dalle bordate di Tremonti, ma la casta - quella vera, fatta dai grandi giornali e dall’establishment economico - ha imposto la linea del silenzio: non reagire, ignorarlo, e si troverà il modo di metterlo all’angolo.
Pare che l’uscita del suo nuovo libro e le dichiarazioni sulla "Nuova Bretton Woods" abbiano cambiato tutto questo.
Evidentemente Tremonti ha oltrepassato la linea rossa tracciata dalla finanza.
Sicuramente contribuisce il fatto che potrebbe tornare al ministero dell’Economia tra breve, se il Pdl dovesse vincere le elezioni; e questo proprio mentre la crisi richiede soluzioni urgenti, prima che la prossima banca (italiana questa volta?) che "scopre" perdite di decine di miliardi di euro metta in ginocchio l’intero sistema.
Adesso si è creato un dibattito nazionale, con numerosi articoli sui giornali nazionali e dichiarazioni dei politici.
I liberisti "folli" come Francesco Giavazzi e Renato Brunetta hanno fatto del loro meglio per tappare la falla; ma non dovrebbe sorprendere che il loro meglio è ben poca roba davanti alla necessità di salvare l’economia reale.
Fare la voce grossa non sta funzionando questa volta, e questo dibattito intorno alla globalizzazione e le misure protettive necessarie per affrontare la crisi ha la potenzialità di ridefinire la geografia politica in Italia e altrove...
1) E Tremonti denunciò la globalizzazione
2) «Subito Banca del Sud con azioni a un euro». Intervista a Tremonti


1)
Il nuovo libro di Giulio Tremonti "La paura e la speranza"
E TREMONTI DENUNCIÒ LA GLOBALIZZAZIONE
«Il carovita è solo il primo effetto, seguiranno disastri ambientali e geopolitici»
Questo libro non è affatto contro il liberalismo (anzi), è contro il mercatismo, la versione degenerata del liberismo. Giulio Tremonti, professore universitario, già ministro dell'Economia e vicepremier nei governi Berlusconi, continua con La paura e la speranza - Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla, saggio che Mondadori manderà in libreria domani (pagine 112, e 16), una riflessione avviata già nel 1998 con Carlo Jean in Guerre stellari, società ed economia nel cyberspazio (Franco Angeli Editore) e proseguita nel 2005 con Rischi fatali (Mondadori).
Ma qui il discorso si fa più stringente e in alcune pagine accorato. Anche per la violenza sempre maggiore con cui si manifestano le crisi finanziarie e per le conseguenze che esse hanno sulla vita quotidiana, nel primo mondo (Europa occidentale e Stati Uniti) così come nei Paesi più poveri.
Tremonti analizza la crisi della globalizzazione e gli effetti provocati dall'ingresso nel grande gioco del mercato di soggetti potenti come la Cina, ma non trascura, soprattutto nella seconda parte del libro, dedicata alla speranza, di parlare di valori e di ideologie. Con una proposta, che è soprattutto di ordine politico e morale, per fronteggiare con successo la crisi.
Pubblichiamo parte del primo capitolo, intitolato "I costi della globalizzazione".
di Giulio Tremonti
È finita in Europa l'«età dell'oro». È finita la fiaba del progresso continuo e gratuito. La fiaba della globalizzazione, la «cornucopia» del XXI secolo. Una fiaba che pure ci era stata così ben raccontata. Il tempo che sta arrivando è un tempo di ferro.
I prezzi — il prezzo delle merci e del petrolio, il prezzo del denaro e degli alimentari — invece di scendere, salgono.
Low cost può ancora essere un viaggio di piacere, ma non la spesa di tutti i giorni. Un viaggio a Londra può ancora costare meno di 20 euro, ma una spesa media al supermercato può costare ben più di 40 euro. Come in un mondo rovesciato, il superfluo viene dunque a costare assurdamente meno del necessario.
Cosa è successo? È successo che in un soffio di tempo, in poco più di dieci anni, sono cambiate la struttura e la velocità del mondo. Meccanismi che normalmente avrebbero occupato una storia di lunga durata, fatta da decenni e decenni, sono stati prima concentrati e poi fatti esplodere di colpo. Come si è già visto in tante altre rivoluzioni, quella della globalizzazione è stata preparata da illuminati, messa in atto da fanatici, da predicatori partiti con fede teologica alla ricerca del paradiso terrestre.
Il corso della storia non poteva certo essere fermato, ma qualcuno e qualcosa — vedremo chi e che cosa — ne ha follemente voluto e causato l'accelerazione aprendo come nel mito il «vaso di Pandora», liberando e scatenando forze che ora sono difficili da controllare.
È così che una massa di circa un miliardo di uomini, concentrata prevalentemente in Asia, è passata di colpo dall'autoconsumo al consumo, dal circuito chiuso dell'economia agricola al circuito aperto dell'economia di «mercato». È una massa che prima faceva vita a sé: coltivava i suoi campi e allevava i suoi animali per nutrirsi; raccoglieva la sua legna per scaldarsi; non aveva industrie. Ora è una massa che non è più isolata, che comincia a vivere, a lavorare, a consumare più o meno come noi e insieme a noi, attingendo a quella che una volta era la nostra esclusiva riserva alimentare, mineraria, energetica.
È una massa che non ha ancora il denaro necessario per comprare un'automobile, ma ha già il denaro sufficiente per comprare una moto, un litro di benzina o di latte, un chilo di carne. I cinesi, per esempio, nel 1985 consumavano mediamente 20 chilogrammi di carne all'anno, oggi ne consumano 50.
Se il numero dei bovini da latte o da carne che ci sono nel mondo resta fisso, ma sale la domanda di latte o di carne, allora i prezzi non restano uguali, ma salgono anche loro. E lo stesso vale per i mangimi vegetali con cui si allevano gli animali e, via via salendo nella scala della rilevanza economica, per quasi tutti i prodotti di base tipici del consumo durevole e poi per tutte le materie prime necessarie per la nascente e crescente produzione industriale: l'acciaio, il carbone, il petrolio, il gas, il cotone, le fibre, la plastica per far funzionare le industrie.
La squadratura che si sta così determinando, tra offerta che resta fissa e domanda che cresce, ha avuto e avrà nel mondo un effetto strutturale sostanziale: la salita globale dei prezzi. E dunque del costo della vita.
Non solo per quelli che nel mondo sono relativamente più ricchi, negli Usa o in Europa, ma anche per quelli che sono relativamente più poveri, in Africa.
Può essere che recessioni economiche o nuove scoperte minerarie o invenzioni rallentino questa salita, ma sarà solo nel breve periodo, solo per un po' di tempo. Poi, se il funzionamento del meccanismo non sarà rallentato, la forza crescente della domanda tornerà a prevalere sulla quantità limitata dell'offerta.
Procedendo per inevitabili linee di rottura, la globalizzazione ci ha dunque già presentato il suo primo conto con lo shock sui prezzi e con il carovita. Ma questo è solo l'inizio. Perché la globalizzazione sta cominciando a presentare anche altri conti: il conto della crisi finanziaria; il conto del disastro ambientale; il conto delle tensioni geopolitiche che, pronte a scatenarsi, si stanno accumulando nel mondo.
È infatti già cominciata la lotta per la conservazione o per il dominio delle risorse naturali e delle aree di influenza. Nuove tensioni si sviluppano lungo linee di forza che vanno oltre i vecchi luoghi della storia, oltre i vecchi passaggi strategici. Dalla superficie terrestre fino all'atmosfera, dal fondo del mare fino alle calotte polari, le «nuove» esplorazioni strategiche, fatte sul fondo marino o ai poli, le conseguenti pretese di riserva di proprietà «nazionale», non sono già segni sufficienti per capirlo?
Quando la storia compie una delle sue grandi svolte, quasi sempre ci troviamo davanti l'imprevedibile, l'irrazionale, l'oscuro, il violento e non sempre il bene. Già altre volte il mondo è stato governato anche dai demoni.
In Europa, per la massa della popolazione — non per i pochi che stanno al vertice, ma per i tanti che stanno alla base della piramide — il paradiso terrestre, l'incremento di benessere portato dalla globalizzazione è comunque durato poco, soltanto un pugno di anni.
Quello che doveva essere un paradiso salariale, sociale, ambientale si sta infatti trasformando nel suo opposto. Va a stare ancora peggio chi stava già peggio. Sta meglio solo chi stava già meglio.
E non è solo questione di soldi. Perché la garantita sicurezza nel benessere che sarebbe stato portato dalla globalizzazione si sta trasformando in insicurezza personale, sociale, generale, ambientale.
Corriere della Sera 04/03/2008
2)
Intervista di Giulio Temonti al Corriere del Mezzogiorno
«Subito Banca del Sud con azioni a un euro»
L'ex ministro dell'economia Giulio Tremonti rilancia la sua proposta. «Serve la Banca del Sud. Ogni azione al prezzo di un euro». «La sinistra ha trasformato la Campania in una specie di Chernobyl»
di Gimmo Cuomo
NAPOLI — Rilancia con forza il progetto della Banca del Sud, suo storico cavallo di battaglia, replica con ironia a Massimo D'Alema che ha detto di voler essere l'«avvocato del Sud», accusa lo stesso D'Alema e il candidato premier del Pd Walter Veltroni di «doppia amnesia». Non si tira indietro l'ex ministro dell'Economia e vicepresidente di Forza Italia Giulio Tremonti. Che in viaggio da Oristano a Cagliari, riflette al telefono sulla situazione della Campania dove farà tappa la prossima settimana.
Ieri D'Alema, nel corso di un'intervista al «Corriere del Mezzogiorno», ha sostenuto che la cosa più difficile da far capire ai napoletani è che il 13 e il 14 aprile si voterà per le politiche e non per altro. È d'accordo?
«Trovo davvero singolare che Veltroni e D'Alema soffrano allo stesso tempo di una doppia amnesia e invochino una doppia amnistia. I campani dovrebbero dimenticare Bassolino perché si vota per il governo nazionale e, contemporaneamente, gli italiani dovrebbero dimenticare Prodi perché, nel frattempo, col Pd sono arrivati i campioni del nuovo. Ma via, siamo seri. D'Alema ha iniziato a fare politica nel '58 quando tenne un discorso come giovane pioniere del Pci davanti all'allora segretario nazionale Palmiro Togliatti che ben aveva conosciuto gli orrori del comunismo. Ebbene, Togliatti quando gli presentarono D'Alema esclamò: non è un bambino, è un nano. Quanto a Veltroni, ha iniziato a fare politica negli anni Settanta. Ed è stato eletto deputato del Pci nel 1987. Se sono loro il nuovo...».
Lasciamo il passato alle spalle. Ora D'Alema si propone come l'avvocato del Sud.
«Mi sembra una definizione fortemente freudiana. È Bassolino che ha bisogno di un avvocato, non il Mezzogiorno che, per quanto mi risulta, non ha un processo pendente e non ha bisogno di assistenza legale».
Il ministro degli Esteri ha rivendicato la paternità dell'introduzione del credito d'imposta. Gli concede almeno questo merito?
«Gli faccio notare che il credito d'imposta come premio di assunzione del lavoratore fisso e non precario, con un differenziale di favore per il Sud, l'ho fatto introdurre io. Eravamo nel '94, nei primi cento giorni del primo governo Berlusconi. È stato quello il prototipo di tutti i crediti d'imposta successivi. Si tratta, peraltro, di un diritto e non di una concessione».
Parliamo del sistema finanziario e bancario. È ancora convinto della necessità della Banca del Sud?
«Non averla realizzata è stata una colpa gravissima. Con Prodi il Mezzogiorno è diventato sempre di più un'area debancarizzata. La linea delle decisioni sui finanziamenti allo sviluppo si è spostata sempre di più a Milano e ora è in movimento verso Monaco di Baviera. Noi creeremo la Banca del Sud, che sarà privata e non pubblica, popolare, con azioni di un euro. Avrà un azionariato diffuso e popolare. E sarà la banca dei galantuomini. Finora l'hanno bloccata i signori che servono solo gli interessi finanziari del Nord».
Il Pd vi accusa di strumentalizzare la questione dei rifiuti. E punta il dito contro le reti Mediaset che manderebbero tuttora in onda immagini di repertorio che si riferiscono al periodo più critico dell'emergenza. Lei cosa replica?
«Che si tratta di accuse deliranti. Il governo del territorio è di competenza degli enti territoriali. Il governo nazionale deve solo metterci i soldi. Ebbene, da quindici anni la Campania è governata a tutti i livelli dalla sinistra. Che porta la responsabilità di aver trasformato pezzi del territorio in una specie di Chernobyl».
E dello stop alle importazioni di mozzarella da parte di alcuni paesi asiatici cosa pensa?
«Che in Cina fermano la mozzarella e la ricotta, mentre Prodi, Veltroni, D'Alema, gli eurocinesi, spalancano le porte dell'Italia ai radiatori all'amianto, rubinetti al piombo, ai pomodori cinesi da schifo. Riflettano i campani quando sentono che chi dice queste cose non è filoitaliano, ma filoprotezionista. Un conto è il protezionismo nazionale che è vietato e che nessuno chiede, un conto è chiedere che nel rispetto dei trattati, l'Europa faccia come fa l'America che protegge la propria industria. Dentro il Pd invece ci sono le quinte colonne della Cina»
Quando verrà in Campania?
«La settimana prossima. Sono curioso di vedere chi mi inviterà a cena. Bassolino, forse?».
Corriere del Mezzogiorno 2 aprile 2008
www.giuliotremonti.it


I media non guardano alla "normalità" della famiglia
Intervista al professor Norberto González Gaitano

di Miriam Díez i Bosch
ROMA, giovedì, 3 aprile 2008 (ZENIT.org).- Nei mezzi di comunicazione può essere più importante ciò che non si dice che quello che si vede e si dice, soprattutto quando il tema è la famiglia, rivela un nuovo studio.
Il libro "Famiglia e media. Il detto e il non detto" (Edusc 2008) rappresenta uno studio multidisciplinare e internazionale coordinato dal professor Norberto González Gaitano, editore del testo e docente presso la Pontificia Università della Santa Croce.
Varie università del mondo hanno partecipato al progetto, in cui si analizza il modo in cui i mezzi di comunicazione presentano la famiglia.
Uno studio sulla famiglia nei mezzi di comunicazione corre il rischio di essere molto negativo. O si tratta di un pregiudizio?
González Gaitano: E' vero che la maggior parte degli studi sulla famiglia e i media è allarmista, di denuncia e tende a lasciarci una sensazione di impotenza di fronte a ciò che va male.
Senza cadere nell'estremo opposto, un irreale e acritico "buonismo", mi sembra che il problema di alcuni di questi studi sia il metodo.
La novità concettuale di questo progetto che proponiamo ha una finalità "operativa", cioè trovare risorse per l'azione attraverso il discorso pubblico delle associazioni di radio-telespettatori e familiari.
Qual è l'ipotesi che guida questa ricerca?
González Gaitano: Quello che non si dice è, a volte, più importante di ciò che si dice.
I media prestano più attenzione alle patologie sociali e della famiglia che alla normalità. Questo non può sorprenderci.
In questa situazione, abbiamo bisogno di interpretare quanto si dice a partire da ciò che si suppone. Ad esempio, che l'unità familiare è un bene a rischio, non assicurato fin dall'inizio e che non si vive meccanicamente. E' quindi un obiettivo di dura conquista, un presupposto antropologico che rende possibili le storie.
Ad esempio, se il parricidio fosse normale, i media non ne parlerebbero. Dall'altro lato, i media devono raccontare l'anormalità senza falsi neutralismi e senza stimolare il fascino per il male.
Perché i media dovrebbero promuovere un'immagine "positiva" della famiglia? Non è giusto che offrano la pluralità di possibilità che oggi minacciano il nucleo familiare?
González Gaitano: L'informazione, e soprattutto la critica, hanno la funzione di segnalare il male sociale per correggerlo.
Se la comunicazione sociale dimentica i suoi obiettivi, rimane un esercizio ludico di denuncia, senza senso.
Anche i medici, se mi si permette il paragone, si occupano di malattie, ma non dimenticano mai che il malato non è un cadavere.
Nel progetto di studio su famiglia e mezzi di comunicazione avete pensato di includere università non cattoliche?
González Gaitano: L'interesse per l'uomo è ciò che sta al centro del progetto, che quindi sarà aperto a ogni tipo di università che condivida questo interesse.
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]



L'America di Benedetto XVI, modello per l'Europa cattolica

L'agenda del viaggio papale negli Stati Uniti. E una grande indagine del Pew Forum. Sulla nazione in cui le religioni sono le più mutevoli al mondo, perdendo o guadagnando ogni giorno i loro fedeli
di Sandro Magister

ROMA, 4 aprile 2008 – Quando a metà aprile Benedetto XVI atterrerà all'aeroporto militare della Andrews Air Force Base di Washington, gli Stati Uniti passeranno in testa alla classifica dei paesi più visitati dai papi. A pari merito con la Polonia per numero di visite, nove. E assieme alla Turchia per numero di papi visitatori, tre, prima di lui i suoi predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo II.

Quest'ultimo, viaggiatore sfrenato, girò in lungo e in largo gli Stati Uniti. Nella sua prima visita, nel 1979, in sette giorni toccò sette città e pronunciò 63 discorsi. Il più pacato Joseph Ratzinger, anche lui in sette giorni, farà invece due sole tappe, a Washington – dove il 16 aprile incontrerà George W. Bush alla Casa Bianca – e a New York, e pronuncerà appena 11 discorsi. Ma di questi, pur solo annunciati, almeno due già fanno trepidare, dopo che a Ratisbona l'attuale papa ha mostrato al mondo di quali spericolati affondi è capace. Saranno il discorso del 17 aprile, a Washington, ai rappresentanti dell'ebraismo, dell'islam e di altre religioni, e quello del 18 aprile, a New York, all'assemblea generale delle Nazioni Unite.

A Ratisbona, Benedetto XVI denunciò come errori capitali del mondo d'oggi il distacco della fede dalla ragione, di cui accusò l'islamismo, e la perdita della fede nella ragione, che invece imputò alla cultura dominante in Europa e in America. Dalla tribuna dell'ONU, si può scommettere che egli farà un passo in più, offrirà al mondo una grammatica di pace fondata sulla legge naturale, sui diritti inviolabili scolpiti nella coscienza di ogni uomo ma anche scritti in quella "Dichiarazione universale" di cui si celebra proprio nel 2008 il sessantesimo compleanno.

Previsione facile, se solo si bada a cosa disse il papa, lo scorso 29 febbraio, ricevendo la nuova ambasciatrice degli Stati Uniti presso la Santa Sede, Mary Ann Glendon. Per Benedetto XVI, gli Stati Uniti sono un modello da imitare per tutti. Sono il paese che è nato ed è fondato "sulla verità evidente che il Creatore ha dotato ogni essere umano di diritti inalienabili", il primo dei quali è la libertà.

* * *

Con questo papa, gli Stati Uniti hanno cessato di essere tenuti in castigo dalle autorità vaticane. Fino a pochi decenni fa erano tacciati d’essere il tempio del capitalismo calvinista, del consumismo, del darwinismo sociale, della sedia elettrica, del grilletto facile in ogni angolo del mondo.

Oggi questi paradigmi appaiono in buona misura accantonati. La Chiesa di Roma ha contestato con forza l’attacco militare all’Iraq di Saddam Hussein. Anche Benedetto XVI l’ha fatto. Ma ora non preme per il ritiro dei soldati. Vuole che restino là “in missione di pace”, anche a difesa delle minoranze cristiane.

In ogni caso il giudizio generale sugli Stati Uniti è cambiato in positivo, di pari passo con i giudizi sempre più pessimistici sull’Europa. All’ambasciatrice Glendon, Benedetto XVI ha detto di ammirare “lo storico apprezzamento del popolo americano per il ruolo della religione nel forgiare il dibattito pubblico”, ruolo che invece altrove, leggi in Europa, “è contestato in nome di una comprensione limitata della vita politica”. Con le conseguenze che ne derivano sui punti che alla Chiesa stanno più a cuore, come “la tutela legale del dono divino della vita dal concepimento alla morte maturale”, il matrimonio, la famiglia.

Con i presidenti repubblicani, da Reagan ai due Bush, la Chiesa di Roma si è trovata in più frequente sintonia che con il democratico Clinton, proprio per il maggiore dedicarsi dei primi a tutelare la vita e a promuovere la libertà religiosa nel mondo. Al Cairo nel 1994 e a Pechino nel 1995, nelle due conferenze internazionali convocate dall’ONU sulla questione demografica e sulla donna, entrambe con Clinton presidente, la delegazione della Santa Sede combatté tenacemente contro Stati Uniti ed Europa che volevano incentivare l’aborto per ridurre le nascite nei paesi poveri.

E a Pechino chi era alla testa della squadra vaticana? Mary Ann Glendon, femminista convertita, docente legge alla Harvard University, poi promossa da Giovanni Paolo II presidente della pontificia accademia delle scienze sociali e oggi ambasciatrice degli Stati Uniti. Il suo discorso calò come una lama tagliente: “La conferenza vuole contrastare le violenze patite dalle donne? Giusto. E allora prendiamone nota. Tra le violenze ci sono i programmi obbligatori di controllo delle nascite, le sterilizzazioni forzate, le pressioni ad abortire, la preselezione dei sessi e la conseguente distruzione dei feti femminili”.

In una raccolta di suoi saggi che escono in questi giorni in Italia editi da Rubbettino, Mary Ann Glendon ritorna polemicamente su ciò che accadde a Pechino e negli anni successivi. Accusa i paesi ricchi di aver stretto la borsa degli aiuti preferendo la scorciatoia abortista di una frenata demografica a costo zero. Accusa soprattutto le élite laiche occidentali di aver sostituito al “linguaggio ampio, ricco, equilibrato” della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il “gergo mediocre” dei desideri individuali senza più doveri e responsabilità. La sua requisitoria è stata ripubblicata da “L’Osservatore Romano”.

Per questi stessi motivi più volte, negli ultimi anni, le autorità vaticane hanno criticato l’ONU e l’Unione Europea. Ciò non toglie che la Santa Sede continui a dare credito e sostegno alle Nazioni Unite come strumento pacifico di soluzione delle controversie internazionali.

All’ONU la Santa Sede è presente come “stato osservatore permanente”. Non vota ma ha diritto di parola e di replica. Una campagna per la sua estromissione, orchestrata alcuni anni fa da organizzazioni non governative impegnate nel controllo delle nascite e indispettite per l’opposizione vaticana, ha ottenuto l’effetto contrario. Nel luglio del 2004 l'assemblea generale dell'ONU ha approvato all'unanimità una risoluzione che non solo ha confermato, ma ha rafforzato la presenza della Santa Sede nell'organizzazione.

Dalla tribuna dell’ONU Benedetto XVI parlerà al mondo intero, nel quale i cattolici sono meno di un sesto della popolazione. Neppure negli Stati Uniti i cattolici sono maggioranza. Sono circa 70 milioni su 300 milioni, il 23,9 per cento, secondo una recentissima indagine del Pew Forum on Religion & Public Life condotta su un campione di 35 mila americani. Ma sono pur sempre un blocco cospicuo, parecchi più che in Italia, e lo sono all’interno di un paese a forte dominante cristiana, con indici di partecipazione religiosa molto più alti che in Europa.

Nelle presidenziali del 2004 i cattolici hanno contribuito non poco alla rielezione di George W. Bush. Ma le gerarchie non diedero indicazioni di voto, né le daranno per le prossime elezioni. I cattolici pro vita inclinano per il repubblicano John McCain, quelli pro pace e giustizia per i democratici Hillary Clinton o Barack Obama. Le autorità della Chiesa comunque apprezzano che tutti i candidati abbiano dato un posto preminente al fattore religioso.

Perché gli Stati Uniti sono fatti così. Sono l’avanguardia della modernità e nello stesso tempo la nazione più religiosa del mondo. Sono un modello di separazione tra Chiesa e stato e nello stesso tempo un paese con forte rilevanza pubblica delle religioni. L’indagine del Pew Forum ha accertato che gli atei e gli agnostici sono in quantità ridottissima, rispettivamente l’1,6 e il 2,4 per cento, nonostante sui media sembrino molto più numerosi e vocianti.

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Ma il dato più rilevante dell’indagine è un altro. È il numero altissimo di cittadini americani che passano da una confessione religiosa a un’altra o che “rinascono” a nuova vita spirituale pur restando nella stessa religione.

Non c’è nazione al mondo in cui il mercato religioso sia altrettanto vibrante e la competizione così serrata. Il 44 per cento degli americani sopra i 18 anni ha cambiato affiliazione religiosa anche più di una volta, oppure è passato dall’incredulità a una fede, o viceversa.

Tra le confessioni protestanti, cui appartengono circa la metà degli americani, sono in netto calo quelle di orientamento “liberal” in tema di diritti individuali. Mentre crescono quelle “evangelical”, puritane, alcune di tradizione fieramente antipapista ma oggi avvicinatesi alla Chiesa di Roma in nome della comune battaglia per la difesa della vita.

Tra i cittadini americani cresciuti nella Chiesa cattolica se ne è andato via uno su tre. Ma questa perdita è stata compensata dall’acquisto di nuovi convertiti e dall’arrivo di molti immigrati cattolici da vari paesi, soprattutto dall’America latina.

Questo innesto migratorio è di tali proporzioni che sta letteralmente cambiando faccia al cattolicesimo degli Stati Uniti. E a Roma lo sanno bene, tant’è vero che all’ultimo concistoro, il 24 novembre 2007, Benedetto XVI ha fatto cardinale Daniel DiNardo, arcivescovo di Galveston e Houston nel Texas, una diocesi mai in precedenza onorata con la porpora ma dove il numero dei cattolici è in vertiginoso aumento, così come in altre diocesi meta di immigrazione, ad esempio Dallas, dove i cattolici erano vent’anni fa 200 mila e oggi sono oltre un milione, per lo più arrivati dal Messico.

Se si aggiunge che il Messico è il paese latinoamericano nel quale la Chiesa cattolica è più vitale anche tra i giovani, con un’impressionante fiorire di vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa, si comprende un’altra novità del cattolicesimo degli Stati Uniti: l’abbassamento della sua età media.

Tra i cattolici con più di 60 anni la stragrande maggioranza sono bianchi, ma tra quelli d’età tra i 18 e i 40 quasi la metà sono “latinos”, cioè arrivati dal Messico e da altri paesi latinoamericani. Freschi acquisti che compensano l’abbandono della Chiesa cattolica da parte di giovani bianchi sotto i 30 anni, la fascia d’età più erosa dalla secolarizzazione.

In tutto il 2007 il “New York Times” ha messo in prima pagina Benedetto XVI solo due volte, contro le 25 di Giovanni Paolo II nel terzo anno del suo pontificato. Ma col suo prossimo viaggio papa Ratzinger ricupererà terreno. Gli Stati Uniti appaiono a lui terra di semina molto promettente. La diocesi di Denver, l’anno dopo la Giornata della Gioventù del 1993, registrò 2 mila nuovi convertiti e un aumento dell’8 per cento nella frequenza alla messa. La stanca Europa cattolica impari.