Nella rassegna stampa di oggi:
1) La croce al centro dell'altare Di Rassegna Stampa - 04/02/2011 – Religione, http://www.libertaepersona.org
2) La libertà religiosa a rischio anche in Europa di Massimo Introvigne, 04-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3) Newsletter n.333 | 2011-02-04 - Laicità e religione. Riflessioni di un vescovo. Conversazione con Mons. Giampaolo Crepaldi arcivescovo di Trieste sulla collaborazione tra laici e cattolici. di Stefano Fontana - http://www.vanthuanobservatory.org/
4) Radio Vaticana, notizia del 04/02/2011 - Consegnato il Decreto di riconoscimento pontificio alla Comunità Nuovi Orizzonti: intervista con Chiara Amirante
5) Cathopedia, ecco l'altra enciclopedia di Antonio Giuliano, 05-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
6) Le festività del popolo d'Israele e la Buona Novella di Ruggero Sangalli, 05-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
7) CARDINAL CIPRIANI: UN POLITICO ABORTISTA NON È AFFIDABILE
8) Il discorso del Papa alla plenaria del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica - Le esigenze della giustizia (©L'Osservatore Romano - 5 febbraio 2011)
9) Il tribunale della Chiesa di Massimo Introvigne, 04-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
10) Un libro nello zaino. Con la dedica del papa - È il catechismo per i giovanissimi. Sarà lanciato al raduno mondiale di Madrid. Benedetto XVI vi scommette molto e lo raccomanda. "Perché ci parla del nostro stesso destino", più avvincente di un romanzo giallo di Sandro Magister
11) 05/02/2011 – VATICANO - Papa: nuovi vescovi, è l’ora della missione, perché anche oggi il mondo cerca Dio
12) Avvenire.it, 5 febbraio 2011, INTERVISTA, Borgna, la solitudine che vince il rumore di Marina Corradi
La croce al centro dell'altare Di Rassegna Stampa - 04/02/2011 – Religione, http://www.libertaepersona.org
Sin da tempi remoti, la Chiesa ha stabilito segni sensibili, che aiutassero i fedeli ad elevare l’anima a Dio. Il Concilio di Trento, riferendosi in particolare alla S. Messa, ha motivato questa consuetudine ricordando che «la natura umana è tale che non può facilmente elevarsi alla meditazione delle cose divine senza aiuti esterni: per questa ragione la Chiesa come pia madre ha stabilito alcuni riti [...] per rendere più evidente la maestà di un Sacrificio così grande e introdurre le menti dei fedeli, con questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle sublimi realtà nascoste in questo Sacrificio» (DS 1746). [...]
Il Crocifisso al centro dell’altare nella Messa «verso il popolo»
Dai precedenti cenni storici, si deduce che la liturgia non viene veramente compresa, se la si immagina principalmente come un dialogo tra il sacerdote e l’assemblea. Non possiamo qui entrare nei dettagli: ci limitiamo a dire che la celebrazione della S. Messa «verso il popolo» è un concetto entrato a far parte della mentalità cristiana solo in epoca moderna, come dimostrato da studi seri e ribadito da Benedetto XVI: «L’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nell’epoca moderna ed è completamente estranea alla cristianità antica. Infatti, sacerdote e popolo non rivolgono l’uno all’altro la loro preghiera, ma insieme la rivolgono all’unico Signore» (Teologia della Liturgia, Città del Vaticano 2010, pp. 7-8).
Nonostante il Vaticano II non avesse mai toccato questo aspetto, nel 1964 l’Istruzione Inter Oecumenici, emanata dal Consilium incaricato di attuare la riforma liturgica voluta dal Concilio, al n. 91 prescrisse: «È bene che l’altare maggiore sia staccato dalla parete per potervi facilmente girare intorno e celebrare versus populum».
Da quel momento, la posizione del sacerdote «verso il popolo», pur non essendo obbligatoria, è divenuta il modo più comune di celebrare Messa. Stando così le cose, Joseph Ratzinger propose, anche in questi casi, di non perdere il significato antico di preghiera «orientata» e suggerì di ovviare alle difficoltà ponendo al centro dell’altare il segno di Cristo crocifisso (cf. Teologia della Liturgia, p. 88).
Sposando questa proposta, aggiunsi a mia volta il suggerimento che le dimensioni del segno devono essere tali da renderlo ben visibile, pena la sua scarsa efficacia (cf. M. Gagliardi, Introduzione al Mistero eucaristico, Roma 2007, p. 371). La visibilità della croce d’altare è presupposta dall’Ordinamento Generale del Messale Romano: «Vi sia sopra l’altare, o accanto ad esso, una croce, con l’immagine di Cristo crocifisso, ben visibile allo sguardo del popolo radunato» (n. 308).
Non si precisa, però, se la croce debba stare necessariamente al centro. Qui intervengono pertanto motivazioni di ordine teologico e pastorale, che nel ristretto spazio a nostra disposizione non possiamo esporre. Ci limitiamo a concludere citando di nuovo Ratzinger: «Nella preghiera non è necessario, anzi, non è neppure conveniente guardarsi a vicenda; tanto meno nel ricevere la comunione. [...] In un’applicazione esagerata e fraintesa della “celebrazione verso il popolo”, infatti, sono state tolte come norma generale – persino nella basilica di San Pietro a Roma – le Croci dal centro degli altari, per non ostacolare la vista tra il celebrante e il popolo.
Ma la Croce sull’altare non è impedimento alla visuale, bensì comune punto di riferimento. È un’“iconostasi” che rimane aperta, che non impedisce il reciproco mettersi in comunione, ma ne fa da mediatrice e tuttavia significa per tutti quell’immagine che concentra ed unifica i nostri sguardi. Oserei addirittura proporre la tesi che la Croce sull’altare non è ostacolo, ma condizione preliminare per la celebrazione versus populum. Con ciò diventerebbe anche nuovamente chiara la distinzione tra la liturgia della Parola e la preghiera eucaristica. Mentre nella prima si tratta di annuncio e quindi di un immediato rapporto reciproco, nella seconda si tratta di adorazione comunitaria in cui noi tutti continuiamo a stare sotto l’invito: Conversi ad Dominum – rivolgiamoci verso il Signore; convertiamoci al Signore!» (Teologia della Liturgia, p. 536).
di Don Mauro Gagliardi, Ordinario della Facoltà di Teologia dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice e della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. da messainlatino.it
La libertà religiosa a rischio anche in Europa di Massimo Introvigne, 04-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
L'incontro di Benedetto XVI ieri con il nuovo ambasciatore dell'Austria presso la Santa Sede è stato occasione di un nuovo discorso molto significativo del Papa sulla libertà religiosa, il tema cui ha voluto dedicare specialmente questo anno 2011.
L'Austria, tra l'altro, è il Paese dove ha sede l'Osce, l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, di cui il sottoscritto è Rappresentante per la lotta alla discriminazione e all'intolleranza contro i cristiani. Nelle riunioni dell'Osce si suole talora parlare di problemi a Est di Vienna e a Ovest di Vienna. A Est di Vienna non c'è dubbio che la libertà religiosa, specialmente dei cristiani, sia in pericolo.
Mentre l'Osce ha appunto un Rappresentante il cui mandato menziona specificamente - anche se non esclusivamente - la lotta all'intolleranza e alla discriminazione contro i cristiani, recentemente l'Unione Europea si è mostrata reticente di fronte alla prospettiva anche soltanto di menzionare i cristiani in un documento sulle violenze religiose in Africa e in Asia.
Il Papa loda la posizione del governo austriaco, che in sede europea ha appoggiato le proposte formulate per primo dal governo italiano per una condanna esplicita della persecuzione dei cristiani e perché «anche il nuovo servizio europeo per l’Azione esterna osservi la situazione della libertà di religione nel mondo, stili regolarmente un rapporto e lo presenti ai ministri degli Esteri dell’Unione europea».
Ma il Papa insiste spesso sul fatto che la libertà religiosa dei cristiani è sotto attacco anche in Occidente, a Ovest di Vienna. Ringrazia dunque l'ambasciatore austriaco anche perché il suo Paese ha preso posizione a favore della presenza del crocifisso nelle scuole, schierandosi pure in questo caso con il governo italiano nel contenzioso che lo oppone alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.
Questo episodio ha dato occasione al Papa di ribadire in termini più generali che i cristiani hanno un problema di libertà religiosa anche in Europa e non solo in Asia o in Africa. «In molti Paesi europei - ha notato Benedetto XVI - il rapporto fra Stato e religione sta affrontando una particolare tensione. Da una parte, le autorità politiche sono molto attente a non concedere spazi pubblici a religioni intese come idee di fede meramente individuali dei cittadini. Dall’altra, si cerca di applicare i criteri di una opinione pubblica secolare alle comunità religiose. Sembra che si voglia adattare il Vangelo alla cultura e, tuttavia, si cerca di impedire, in modo quasi imbarazzante, che la cultura venga plasmata dalla dimensione religiosa».
Libertà religiosa significa dare spazio alle istituzioni educative e caritative cattoliche e rispettarne le specificità, senza considerare la Chiesa solo «uno dei tanti erogatori di prestazioni sociali». Significa anche evitare di censurare la Chiesa quando parla a tutti in nome del diritto naturale e della ragione in tema di vita e di famiglia, e di questi valori chiede «la tutela particolare dello Stato».
Il Papa ricorda, sembra perfino con una certa nostalgia, i valori della vecchia Austria. Afferma che «la cultura, la storia e la vita quotidiana dell’Austria, la "terra delle cattedrali" (Inno nazionale) sono profondamente plasmate dalla fede cattolica», in armoniosa coesistenza fra culture diverse e anche con le minoranze religiose. «"Nell’armonia risiede la forza" - ricorda il Papa - come recitava già il vecchio inno popolare del tempo della monarchia. Questo vale in particolare per la dimensione religiosa che è radicata nel profondo della coscienza dell’uomo e perciò appartiene alla vita di ogni singolo individuo e alla convivenza della comunità. La patria spirituale, di cui hanno bisogno come appiglio personale molte persone che vivono una situazione lavorativa di sempre maggiore mobilità e costante mutamento, dovrebbe poter esistere pubblicamente».
Anche in Austria, perfino all'interno della Chiesa, questi principi sono talora negati: ma sono molto radicati nel popolo austriaco, come mostra una fioritura di santi fra i quali il Papa ha voluto ricordare, con altri, il beato Carlo d'Asburgo (1887-1922).
Forse più riconosciute che altrove in Austria, le radici cristiane sono invece spesso oggetto di rifiuto da parte di istituzioni europee. Eppure, ha detto il Papa, «l'edificazione della casa comune europea può sortire un buon esito soltanto se questo continente è consapevole delle proprie fondamenta cristiane e se i valori del Vangelo nonché della immagine cristiana dell’uomo saranno, anche in futuro, il fermento della civiltà europea».
Newsletter n.333 | 2011-02-04 - Laicità e religione. Riflessioni di un vescovo. Conversazione con Mons. Giampaolo Crepaldi arcivescovo di Trieste sulla collaborazione tra laici e cattolici. di Stefano Fontana - http://www.vanthuanobservatory.org/
Eccellenza, prima di tutto, cosa vuol dire, secondo lei, “laico”?
«Mi sembra che la parola abbia oggi quattro significati. Prima di tutto laico vuol dire “non prete” e “non religioso”. Chi non è sacerdote né appartiene ad una congregazione religiosa di monaci o frati o suore si dice laico. Mia madre e mio padre erano laici. Secondariamente, può dirsi laico chi ritiene che la dimensione politica abbia una propria autonomia dalla religione, ma che nello stesso tempo possa avvalersi delle risorse spirituali e morali della religione, anzi che ne abbia bisogno, altrimenti sarebbe la politica stessa a trasformarsi in un assoluto religioso. In un terzo significato laico significa oggi chi vive e ragiona senza tenere conto della religione; in altre parole significa indifferenza alla religione. Infine, oggi laico vuol dire anche anti-religioso, ossia chi combatte la religione, non la lascia esprimere, non le permette di dire la sua nel campo pubblico».
Potrebbe stabilire una gerarchia tra questi significati? Secondo lei la vera laicità quale sarebbe?
«La prima definizione non fa problema per nessuno. Tra le altre tre vorrei dire che la più corretta è la prima (vale a dire la seconda nell’elenco suddetto), mentre la seconda e la terza sono scorrette, prima di tutto dal punto di vista della laicità. Ossia sono forme di laicità poco laiche».
Capisco che lei sostenga che chi combatte la religione sia poco laico, ma perché chi non ne tiene conto, è indifferente, non sarebbe un autentico laico?
«Perché è già un escludere Dio dall’ambito pubblico. Anche se non lo combatto apertamente, se affermo che l’organizzazione della società non deve tenere conto minimamente della dimensione religiosa ma deve essere indifferenze e, per esempio, che bisogna togliere i simboli religiosi, impostare una istruzione scolastica che prescinda totalmente dalla religione, che il Vescovo non può far sentire pubblicamente la sua voce e i cattolici non possono realizzare una forma di presenza esplicita nella società o cose di questo genere … dico di essere indifferente, mentre invece ho fatto una scelta di esclusione».
Non è quindi possibile non prendere posizione sul problema di Dio?
«Non è possibile. E la laicità che lo ritenesse possibile sarebbe un inganno. La laicità è esercizio della ragione e non uso dell’inganno. Si può costruire un mondo impostato su Dio o uno impostato senza Dio. Non è possibile una terza via. Impostare un mondo su Dio, però, non vuol dire essere integralisti, vuol dire riconoscere alle cose umane la loro autonomia, ma vederle anche nei loro limiti e, quindi, nel loro bisogno strutturale di un supplemento di risorse per poter essere se stesse. Per lo stesso motivo impostare un mondo senza Dio non significare impostare un mondo neutrale».
Eppure oggi si dice che la questione di Dio viene dopo, per chi se la pone. Lei invece dice che viene prima, in quanto nessuno la può eludere.
«La questione di Dio viene prima di tutte le altre e non c’è nessuno che non se la ponga. Questo accade perché quando noi conosciamo la realtà la conosciamo subito come bisognosa di fondamento, ossia incapace di spiegarsi fino in fondo da sola. Lì, in quella percezione, c’à già l’idea – anche se generalissima – di Dio, che poi ci accompagna per sempre. L’idea di Dio non si aggiunge quindi dopo che abbiamo elaborato tutte le altre. Il laico è colui che adopera la ragione per organizzare la propria vita, ma per non assolutizzare la ragione e farsene una prigione, tiene aperta la domanda, rimane disponibile ad un supplemento di senso che la ragione da sola non può darsi, ma a cui essa stessa rimanda dato che in essa si nota un bisogno di completezza che non sa darsi da sola».
In questo senso allora solo chi rimane aperto a Dio è laico.
«Credo proprio che sia così e le farò due esempi. Il presidente francese Sarcozy, in un suo famoso intervento a san Giovanni in Laterano di qualche anno fa, ha coniato l’espressione “laicità positiva”. Egli voleva con ciò indicare una laicità che esprime un atteggiamento di positiva apertura nei confronti della religione. Il Papa Benedetto XVI ha dimostrato di apprezzare l’espressione e l’ha adoperata nel suo viaggio in Francia di due anni fa. Il secondo esempio è il seguente: Joseph Ratzinger, in un suo famoso discorso fatto da cardinale, aveva invitato i laici a “vivere come se Dio fosse”. Ecco ancora il tema della religione positiva. Sarebbe veramente poco laico sospendere il dubbio: e se Dio esistesse? Il credente, la cui fede non va mai completamente esente dal misurarsi con l’incredulità, chiede al laico questa pari onestà intellettuale: viva anche lui senza mai cessare di misurarsi con il dubbio laico: siamo proprio certi che Dio non esista?».
E se un laico non lo fa?
«Io credo che non sia allora più laico. Diventerebbe un dogmatico e sarebbe guidato da un intollerante fastidio per la religione che lo renderebbe incapace di vederne con obiettività il significato, la scambierebbe per superstizione cialtronesca. Di fatto la combatterebbe, naturalmente in nome della laicità, che però sarebbe una nuova religione dell’antireligione. Ce ne sono molti oggi, di laici intolleranti».
In una Lettera di Bambini della sua diocesi per la festa di San Nicolò, lei aveva tra l’altro affermato che i bambini che vivono in una famiglia di genitori sposati sono fortunati. Per questo è stato criticato di discriminare sia i bambini che le famiglie. Lo considera esempio di laicità intollerante?
«La laicità tollerante è quella che permette alla Chiesa di esprimersi secondo la propria logica e non di dire cose che corrispondono ad altre logiche. La fede cristiana dice che il matrimonio non è solo un contratto esplicito o implicito, ma la costruzione sacramentale di una realtà nuova, che vivrà nella misura in cui accetterà di essere vivificata dal Signore. Ciò non è contraddetto dal fatto che, purtroppo, anche tanti matrimoni celebrati in Chiesa umanamente falliscono; né obbliga ad equiparare tutte le forme di “famiglia”. Non credo sia tollerante criticare il Vescovo perché dice che il vero modello di famiglia è quello cristiano, proposto da Dio stesso nella Santa Famiglia di Nazareth, vissuto e insegnato dal Signore Gesù. Né gli si può impedire di affermare che nascere in una siffatta famiglia, in cui l’amore di coniugi è improntato all’amore di Dio per noi e di noi per Dio, sia una grande fortuna. Aggiungo qui qualcosa di più: questo dovrebbe essere considerato un diritto di ogni bambino. Chi lo ha sperimentato sa bene che è una grande fortuna. Dire poi che in questo modo il Vescovo farebbe delle discriminazioni è pressoché ridicolo: l’amore della Chiesa è aperto a tutti, ma non esime di dire come stanno le cose».
Trieste è orgogliosa della sua tradizione laica. Fa bene?
«Fa bene perché laicità vuol dire apertura alla convivenza, accettazione reciproca, dialogo amichevole e non preconcetto, assenza di forme di fondamentalismo. Ma sbaglia quando qualcuno a questa laicità dà un altro significato: che la Verità non esista, che la Chiesa non debba annunciare Gesù Cristo ritenendolo Verità e Vita, che la Chiesa non debba evangelizzare e pregare perché le conversioni aumentino, quando critica l’annuncio chiamandolo proselitismo. Oppure sbaglia quando qualcuno vorrebbe mettere la museruola al vescovo, oppure – il che è peggio – far dire al vescovo quello che il mondo vorrebbe sentirsi dire, e cioè che tutto quello che fa va bene. Non tutto va bene: ci sono forme oggi di impostare la famiglia che non rappresentano il vero bene dei bambini e che li fa soffrire, sbattendoli a destra e a sinistra e scaricando sulle loro povere spalle le irresponsabilità degli adulti. Non è laicità vera quella che impedisse al vescovo di dire queste cose».
La Chiesa chiede obbedienza ai propri fedeli, non a tutti gli uomini. Agli altri la Chiesa chiede rispetto, ritenendo di svolgere un servizio all’uomo e di esprimere risorse spirituali e morali per il bene della società. Chiedere rispetto non è chiedere privilegi. Perché niente e nessuno può togliere alla Chiesa una sua “pretesa”.
Quale pretesa?
«La pretesa di portare con sé una Risposta ai veri bisogni dell’uomo. La laicità deve rispettare soprattutto questo: che la Chiesa abbia la possibilità di esprimere pienamente il suo messaggio di salvezza, che riguarda l’intera vita umana, pensando che, così facendo, essa svolge un servizio alla persona umana. Chi mi critica perché sostengo che vivere in una famiglia cristiana, vivificata da Cristo stesso e dal suo Spirito, è una grande fortuna, di fatto non accetta che la Chiesa con il suo messaggio possa pretendere di rendere più umana la vita. Ma questa intolleranza nei suoi confronti la Chiesa non potrà mai accettarla».
Radio Vaticana, notizia del 04/02/2011 - Consegnato il Decreto di riconoscimento pontificio alla Comunità Nuovi Orizzonti: intervista con Chiara Amirante
Oggi, presso la sede del Pontificio Consiglio per i Laici, il cardinale Stanislaw Ryłko, presidente del dicastero, ha consegnato alla Comunità Nuovi Orizzonti il Decreto di riconoscimento pontificio come associazione internazionale di fedeli. Si tratta di una comunità nata circa 20 anni fa per iniziativa di Chiara Amirante. Matteo Roselli l’ha intervistata:
R. - L’associazione Nuovi Orizzonti è nata da un semplice desiderio: condividere quella che è stata la grande scoperta della mia vita, la gioia della risurrezione grazie all’incontro con Cristo Risorto, proprio con quei giovani che vedevo più nella disperazione. Nel ’91 ho cominciato ad andare in strada, di notte, a cercare questi nostri fratelli e devo dire che il grido di questo popolo ha trafitto il mio cuore e sono diventati un po’ la mia nuova famiglia. Nel ’93 è nata la prima comunità di accoglienza a Trigoria e, poi, in questi anni sono stati gli stessi giovani accolti che, provando a vivere il Vangelo in Comunità, hanno sperimentato questa gioia della risurrezione e sono diventati testimoni per tanti altri. In pochi anni si sono moltiplicati i centri e le iniziative. Sono più di 150 mila i Cavalieri della Luce che hanno preso questo impegno di vivere il Vangelo e portare la gioia della risurrezione e la rivoluzione del Vangelo nel mondo.
D. - Oggi la vostra Comunità ha ottenuto il riconoscimento pontificio: una grande gioia per lei?
R. - Una gioia immensa! Il nostro cuore è più che mai ricolmo di commozione, di trepidazione, di gratitudine. Sentiamo che è un importante nuovo sigillo della Chiesa. Se è grande il senso di gratitudine, ancora più grande è questo senso di responsabilità nel cercare di essere fedeli alla vocazione ricevuta, docili allo Spirito Santo, perché questo carisma possa portare abbondanti frutti; quei frutti per cui è stato mandato nella nostra vita personale, nella vita di tanti.
D. - Domenica si svolgeranno grandi festeggiamenti a Roma …
R. - Al Teatro Orione ci sarà questa festa con una celebrazione eucaristica presieduta dal cardinale Ryłko e poi un momento di festa con due Cavalieri della Luce, che sono Andrea Bocelli e Nek. Sarà un momento per dire il nostro grazie al Signore per questa nuova meravigliosa avventura. (bf)
Cathopedia, ecco l'altra enciclopedia di Antonio Giuliano, 05-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Tra le ultime voci inserite c’è Enrico Morse, gesuita martire nell’Inghilterra del XVII secolo, il filosofo Maurice Blondel, una scheda su un film intramontabile: “Ben Hur”. E poi una curiosa ricognizione dei Foglianti che non sono i redattori de Il Foglio, ma un ordine monastico soppresso dalla Rivoluzione Francese.
Sono tutte voci consultabili sul sito “Cathopedia”. Il nome parla da sé. Ecco l’enciclopedia cattolica online alternativa alla blasonata Wikipedia che proprio nei giorni scorsi ha festeggiato il suo decennale.
Cathopedia di anni ne ha la metà e li compie proprio questo mese. Era il febbraio del 2006 quando due sacerdoti genovesi, fratelli di sangue e di fede, don Paolo e don Giovanni Benvenuto, hanno dato vita al progetto enciclopedico o se volete “cathopedico”.
Da Wikipedia hanno mutuato struttura e sfida idealistica: anche qui un’associazione senza scopo di lucro, l’Associazione Qumran, presiede al lavoro di una comunità di volontari che scrivono semplicemente per il gusto nobile di rendere accessibile il sapere umano al maggior numero di persone in tempo breve (wiki nella lingua hawaiana significa proprio “molto veloce”). «Abbiamo messo insieme – spiega don Paolo – la mia passione per Wikipedia e la competenza di mio fratello Giovanni, che, insieme con molti altri collaboratori, gestiva da tempo la banca dati di materiale per la pastorale “Qumran2.net”».
E tuttavia non sarebbe mai nato nulla se i due fratelli non avessero ravvisato la frammentarietà e la mancanza di obiettività di diverse voci presenti in Wikipedia: «Mi son reso conto – continua don Paolo – che la sbandierata “neutralità” spesso non era tale. A parte il profilo dedicato a Pio XII e la storia del suo silenzio sugli ebrei… Personalmente ho trovato impossibile lavorare alla voce “aborto” di Wikipedia. Nella pagina di discussione avevo fatto notare che la terminologia era abortista. Per esempio, quando parla di “rimozione del prodotto del concepimento”: suppone che il feto non sia una persona. Ho invitato almeno a dar conto della posizione di tante organizzazioni pro-life. Ma non c’è stato verso. Da qui è nata l’urgenza di una Wikipedia parallela e “diversa”...».
L’impresa si preannuncia oggi di dimensioni bibliche. Wikipedia ha più di 17 milioni di articoli in oltre 270 lingue e circa 400 milioni di visitatori. «Ma noi – ribatte don Paolo – abbiamo installato e adattato lo stesso loro software, MediaWiki, che ci permette di inserire facilmente tante voci di Wikipedia per integrarle o modificarle. E quindi aggiungere tutte quelle che hanno a che fare con il cattolicesimo: dalla Bibbia alle questioni morali, dalla liturgia alla vita della Chiesa con i suoi santi e la sua storia. Su Wikipedia per esempio non c’era la spiegazione del Primato di Pietro alla luce delle Scritture… Di questo passo abbiamo già superato le 7 mila voci».
Ma la vera differenza con Wikipedia è un’altra: «Da noi coloro che scrivono non sono tutti sullo stesso piano. Nel senso che c’è una gerarchia di contributori: quelli maggiormente titolati nelle discipline bibliche, ecclesiastiche, storiche, hanno un peso e un’autorità maggiore. Stiamo anche formando un comitato scientifico che garantisca l’assoluta autorevolezza e la fedeltà al Magistero. Essendo un’enciclopedia gli argomenti vanno trattati rigorosamente, con fonti scrupolose. Non facciamo catechesi e rifuggiamo dallo stile agiografico: puntiamo sui dati oggettivi. Poi deve essere uno strumento pratico e adatto a tutti i lettori, anche a chi è digiuno di teologia».
Per ora i risultati sono lusinghieri: «Abbiamo – spiega - circa un migliaio di visitatori diversi al giorno. La voce più letta in assoluto è “Liturgia delle Ore”(15 mila visite); seguono Sant’Agostino (12 mila), Mosè e il “Libro dei Salmi” (sulle 10 mila entrambe)». Molto dipenderà anche dalla bontà di collaboratori e sostenitori: «Al momento abbiamo 25-30 contributori attivi, cioè quelli che hanno effettuato qualche modifica negli ultimi trenta giorni. Ma tutti potenzialmente possono collaborare dopo l’accettazione di una semplice richiesta di registrazione. Per ora l’Associazione Qumran ha fatto fronte alle spese. Poi speriamo in donatori provvidenti…».
E progetti analoghi sono stati già testati al di là dei confini nazionali: «Esiste già “kathpedia.com”, in tedesco, frutto della sollecitudine della Conferenza episcopale austriaca. E la Chiesa Ortodossa ha fatto nascere da tempo “orthodoxwiki.org,” presente in 10 lingue. Noi speriamo che il Signore doni a Cathopedia persone francesi, inglesi, spagnole, ecc., che abbiano la vocazione di far nascere fr.cathopedia.org, en.cathopedia.org, es.cathopedia.org....». Don Paolo è sicuro che possa essere uno strumento utile anche per i non credenti: «Un’enciclopedia del cattolicesimo online è un’occasione per tutti coloro che vogliano capire cosa pensa, insegna, e vive realmente la Chiesa Cattolica».
Le festività del popolo d'Israele e la Buona Novella di Ruggero Sangalli, 05-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
La successione delle festività rituali del popolo di Gesù ci rende grati di una tradizione millenaria, sopravvissuta ad ogni angheria e rovescio della storia. Dobbiamo essere grati alla cultura ebraica per questa eredità di fede e di osservanza, specialmente del terzo comandamento e riconoscenti anche per la possibilità di comprendere in profondità la continuità tra Antico e Nuovo Testamento: un solo Dio ed un’unica storia di salvezza.
Siamo grati della straordinaria occasione di intuire meglio ciò che viene descritto nei Vangeli, che alla luce dei riflessi di queste ricorrenze risultano cronologicamente scanditi e storicamente più che mai attendibili, intessuti di una cultura pienamente condivisa da Gesù stesso e non ancora travolta dalla catastrofe del 70 d.C.
La memoria che si fa memoriale è una energica sferzata di vita di fede, di presenza di un Dio attento alle vicende umane e di un’umanità rivolta a Dio, in un dialogo che rivela le rispettive prerogative, dispiegato nelle fragilità e nelle miserie umane. È un abbraccio tra popoli attraversati dal compiersi del progetto di Dio sulla storia; è un appuntamento che ogni singolo attende con il proprio popolo ed ogni popolo dentro la storia.
Con questa consapevolezza guardiamo dunque alle grandi festività del popolo ebraico, per conoscerle e dentro questo sapere rileggiamo il vangelo per riconoscerlo ancor più vero e quindi per introdurci sempre di più nella verità di Gesù.
La festa di Shavuot (delle sette settimane) è detta anche Pentecoste perché cade 50 giorni dopo la Pasqua: è detta anche festa della mietitura o delle primizie. Dipendendo dalla pasqua può cadere da maggio ad inizio giugno, secondo l’oscillazione del 6 sivan: non essendo mai di martedì, giovedì o sabato può essere trasposta al 7 sivan. È il giorno legato alla consegna della Torah sul Sinai e per i cristiani quello della discesa dello Spirito santo sugli apostoli, riuniti in preghiera con Maria. Nei Vangeli può essere associato all’inizio della predicazione del Battista (inizio giugno del 29 d.C.) e forse al Battesimo di Gesù (fine maggio del 30) con la voce dal cielo a certificare quello “strano penitente” al Giordano.
La festa di Succot (delle capanne) è nella settimana successiva allo Yom kippur, giorno dell’espiazione, il 10 tishri. È il settimo mese, quello del capodanno. Lo Yom kippur è giorno legato a Lc 1,8 ed alla confessione di Pietro a Cesarea (Mc 8, 27-30 e paralleli).
Il mese di tishri corrisponde ai nostri settembre/ottobre e questa festa, detta anche dei tabernacoli, dura otto giorni, a partire dal 15 tishri. Ricorda la vita di Israele durante il viaggio verso la terra promessa. Anche la lettura della Torah finisce qui, per ricominciare da “bereshit” (Genesi) il primo shabbat appresso. È una festa di altissimo sapore messianico, una festa di “ricominciamento”. Il 16 tishri, sei giorni dopo lo yom kippur, avviene la Trasfigurazione (Mc 9,2 e paralleli). I primi due giorni di Succot sono festa piena, poi ci sono i giorni di “mezza festa”, ricordati da Gv 7,14: il settimo giorno, ultimo di mezza festa, è di importanza speciale prima di concludere in gran preghiera l’ottavo. Nei Vangeli corrisponde al prodigioso concepimento di Giovanni in Elisabetta, con il mutismo di Zaccaria, nel settembre del 3 a.C. È l’epoca in cui probabilmente Giuseppe e Maria si fidanzarono.
La festa di Hanukkah (o encenie) si lega alle vicende di Giuda Maccabeo con la dedicazione del tempio (dicembre del 164 a.C.) dopo la profanazione ad opera di Antioco Epifane. È una festa gioiosa e luminosa, che inizia il 25 kislev, durando otto giorni, fino al 2 o 3 tevet. Siamo tra novembre e dicembre, a seconda dell’anno. Questa festa si collega al Natale e a Gv 10,22 in cui si specifica che quell’anno la festa era “alta” e perciò d’inverno (siamo nel 32), nel periodo in cui nascono gli agnelli che saranno poi sacrificati a Pasqua. È in tanta luce che Giovanni dice che viene la luce del mondo dopo che Giuseppe e Maria sono arrivati a Betlemme. È anche il periodo dell’anno in cui avvenne l’Immacolata concezione di Maria, preparando la casa al Dio incarnato.
La festività del Purim (delle sorti) cade il 14 del mese ebraico di adar. Nelle città cinte da mura la festa dura due giorni e si conclude la sera del giorno 15. Ricorda la vicenda di Ester, Mardocheo, il re Serse (Assuero) ed il cattivo Aman che troviamo raccontata nel libro di Ester. È una festa che celebra il ribaltarsi di una sorte che pareva segnata, in cui una donna, Ester, si erge ad assoluta protagonista. È una prefigurazione di Maria: nella preghiera di Ester (Est 4,17) ci sono chiare allusioni a Lc 1,38 e anche del Magnificat. Nel nostro calendario si tratta dei mesi di febbraio/marzo. Cade a circa 5 mesi dalla festa di Succot, nel dodicesimo mese del calendario lunare. E’ una festa che possiamo legare al tempo dell’Annunciazione dell’angelo Gabriele a Maria, nel sesto mese di Elisabetta. Ed è anche una festa che cade un mese prima di Pesach (Pasqua), che ben si presta cronologicamente per l’episodio di Cana, descritto in Gv 2, 1-10 poco prima di una Pasqua, quando Maria chiede di fare ciò che dice Gesù.
La festa di Pesach (Pasqua) ricorda l’Esodo, con la liberazione dalla schiavitù di Egitto e celebra la passione, morte e resurrezione di Gesù, nel 33. La festa detta anche degli azzimi dura una settimana, nel primo mese del calendario ebraico, nisan (nostro marzo/aprile), dal giorno 15 (il giorno ebraico inizia al tramonto del sole del giorno precedente, quindi sul far della sera del 14 nisan). Anticamente la Pasqua del Signore era proprio il giorno 14 nisan (Num. 28,16), il giorno del sacrificio dell’agnello. Ed è quello in cui Gesù, Agnello di Dio, celebra l’ultima cena, poi viene arrestato e infine crocifisso. È il giorno in cui Dio libera “passando oltre” ed è questo il significato di passaggio attribuito alla Pasqua, dalla vita che muore alla vita che non muore. È la festa che vide Maria e Giuseppe ritrovare Gesù dodicenne al tempio.
Leggendo il Vangelo in relazione a queste feste è possibile contemplare ogni episodio in piena sintonia, nella concretezza del tempo che scorre sempre uguale e sempre diverso, al ritmo delle stagioni e delle ricorrenze, legato alla storia e proiettato nel futuro. È la lettura tra l’altro proposta da Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret, specie al capitolo 9, magistrale nell’intessere le feste con la vicenda di Gesù, fino a scrivere, citando H. Gese: «Gesù è la stessa Torah», come deve aver iniziato a pensare chi fu presente sul monte della trasfigurazione, avendo udito la voce del Padre affermare un imperativo ed impegnativo: «ascoltateLo!». Di questa consapevolezza siamo debitori.
CARDINAL CIPRIANI: UN POLITICO ABORTISTA NON È AFFIDABILE
LIMA, venerdì, 4 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Il Cardinale Juan Luis Cipriani, Arcivescovo di Lima (Perù), ha affermato che “quanti vogliono uccidere i bambini non sono preparati a governare”, in risposta alle posizioni favorevoli all'aborto di uno dei candidati alla Presidenza della Repubblica del Perù nelle elezioni convocate per il 10 aprile.
Il porporato ha risposto in questo modo alle polemiche proposte di legalizzazione dell'aborto e della droga presentate dal candidato di Perù Possibile, Alejandro Toledo, che ha poi cercato di sfumare o rettificare la sua posizione.
“Quando parliamo di aborto si tratta di eliminare una vita, e la Chiesa ci dice – quinto comandamento – di non uccidere”.
“La posizione della Chiesa non è oggetto di una religione solamente, perché l'aborto va contro la legge naturale, che ti dice di rispettare la vita dal primo istante del concepimento”, ha commentato nel suo programma radiofonico “Dialogo di Fede”.
L'Arcivescovo di Lima ha anche ricordato che la Costituzione Politica del Perù difende la vita fin dal primo istante del concepimento, riconoscendo il concepito come soggetto di diritto.
“Per fortuna la gente semplice ha ancora questa sensibilità, vuole i propri figli, li alleva e li ama. Nell'istante stesso del concepimento c'è un essere umano”.
“Mettiti tu in prima linea come volontario per la morte, ma non decidiamo in una campagna politica chi nascerà e chi non nascerà”, ha aggiunto.
Quanto alle posizioni che sostengono che la madre “ha la libertà di abortire”, il porporato ha ricordato che in questo tema delicato sono in gioco due libertà: quella della madre e quella del concepito, soggetto di diritto.
“Siamo noi a dover difendere la libertà della creatura”, ha commentato. “La creatura non ha voce, e la medicina dice che c'è una vita separata dalla donna. Non possiamo neanche lontanamente stabilire alcun tipo di regola per eliminare una vita; questo si chiama aborto”.
“Posso assicurare che il dramma di un aborto accompagna per tutta la vita”, ha proseguito. “L'esperienza sacerdotale me lo dice, moltissime donne vivono tutta la vita in processi psicologici per riprendersi da un aborto”.
Allo stesso modo, il Cardinale ha lamentato la proposta di legalizzare il consumo di droghe, ricordando che gli stupefacenti sono “un vizio che distrugge le famiglie”.
Il discorso del Papa alla plenaria del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica - Le esigenze della giustizia (©L'Osservatore Romano - 5 febbraio 2011)
Per realizzare la sua identità di comunità di amore il popolo di Dio deve avere riguardo per le esigenze della giustizia. Lo ha detto il Papa ai partecipanti alla plenaria del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, ricevuti in udienza, nella mattina di venerdì 4 febbraio, nella Sala del Concistoro.
Signori Cardinali,Venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,Cari Fratelli e Sorelle,
desidero anzitutto porgere il mio cordiale saluto al Prefetto della Segnatura Apostolica, il Signor Cardinale Raymond Leo Burke, che ringrazio per l'indirizzo con il quale ha introdotto questo incontro. Saluto i Signori Cardinali e i Vescovi Membri del Supremo Tribunale, il Segretario, gli Officiali e tutti i collaboratori che svolgono il loro ministero quotidiano nel Dicastero. Rivolgo anche un cordiale saluto ai Referendari e agli Avvocati.
Questa è la prima opportunità di incontrare il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica dopo la promulgazione della Lex propria, che ho sottoscritto il 21 giugno 2008. Proprio nel corso della preparazione di tale legge emerse il desiderio dei Membri della Segnatura di poter dedicare - nella forma comune ad ogni Dicastero della Curia Romana (cfr. Cost. ap. Pastor bonus, 28 giugno 1988, art. 11; Regolamento Generale della Curia Romana, 30 aprile 1999, artt. 112-117) - una Congregatio plenaria periodica alla promozione della retta amministrazione della giustizia nella Chiesa (cfr. Lex propria, art. 112). La funzione di codesto Tribunale, infatti, non si esaurisce nell'esercizio supremo della funzione giudiziale, ma conosce anche come suo ufficio, nell'ambito esecutivo, la vigilanza sulla retta amministrazione della giustizia nel Corpus Ecclesiae (cfr. Cost. ap. Pastor bonus, art. 121; Lex propria, art. 32). Ciò comporta tra l'altro, come la Lex propria indica, l'aggiornata raccolta di informazioni sullo stato e l'attività dei tribunali locali attraverso l'annuale relazione che ogni tribunale è tenuto ad inviare alla Segnatura Apostolica; la sistemazione ed elaborazione dei dati che da essi pervengono; l'individuazione di strategie per la valorizzazione delle risorse umane e istituzionali nei tribunali locali, nonché l'esercizio costante della funzione di indirizzo rivolta ai Moderatori dei tribunali diocesani e interdiocesani, ai quali compete istituzionalmente la responsabilità diretta per l'amministrazione della giustizia. Si tratta di un'opera coordinata e paziente, volta soprattutto a fornire ai fedeli un'amministrazione della giustizia retta, pronta ed efficiente, come chiedevo, in relazione alle cause di nullità matrimoniale, nell'esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis: "Là dove sorgono legittimamente dei dubbi sulla validità del Matrimonio sacramentale contratto, si deve intraprendere quanto è necessario per verificarne la fondatezza. Bisogna poi assicurare, nel pieno rispetto del diritto canonico, la presenza sul territorio dei tribunali ecclesiastici, il loro carattere pastorale, la loro corretta e pronta attività. Occorre che in ogni Diocesi ci sia un numero sufficiente di persone preparate per il sollecito funzionamento dei tribunali ecclesiastici. Ricordo che "è un obbligo grave quello di rendere l'operato istituzionale della Chiesa nei tribunali sempre più vicino ai fedeli"" (n. 29). In quell'occasione non mancavo di riferirmi all'istruzione Dignitas connubii, che fornisce ai Moderatori e ai ministri dei tribunali, sotto la forma di vademecum, le norme necessarie perché le cause di nullità matrimoniali siano trattate e definite nel modo più celere e sicuro. Ad assicurare che i tribunali ecclesiastici siano presenti nel territorio e che il loro ministero sia adeguato alle giuste esigenze di celerità e di semplicità cui i fedeli hanno diritto nella trattazione delle loro cause, è volta l'attività di codesta Segnatura Apostolica quando, secondo la sua competenza, promuove l'erezione di tribunali interdiocesani; provvede con prudenza alla dispensa dai titoli accademici dei ministri dei tribunali, pur nella puntuale verifica della loro reale perizia nel diritto sostantivo e processuale; concede le necessarie dispense da leggi processuali quando l'esercizio della giustizia richiede in un caso particolare la relaxatio legis per raggiungere il fine inteso dalla legge. È anche questa un'opera importante di discernimento e di applicazione della legge processuale.
La vigilanza sulla retta amministrazione della giustizia sarebbe però carente se non comprendesse anche la funzione di tutela della retta giurisprudenza (cfr. Lex propria, art. 111, §1). Gli strumenti di conoscenza e di intervento, di cui la Lex propria e la posizione istituzionale provvedono codesta Segnatura Apostolica, permettono un'azione che, in sinergia con il Tribunale della Rota Romana (cfr. Cost. ap. Pastor bonus, art. 126), si rivela provvidenziale per la Chiesa. Le esortazioni e le prescrizioni con le quali codesta Segnatura Apostolica accompagna le risposte alle Relazioni annuali dei tribunali locali non infrequentemente raccomandano ai rispettivi Moderatori la conoscenza e l'adesione sia alle direttive proposte nelle annuali allocuzioni pontificie alla Rota Romana, sia alla comune giurisprudenza rotale su specifici aspetti che si rivelano urgenti per i singoli tribunali. Incoraggio, pertanto, anche la riflessione, che vi impegnerà in questi giorni, sulla retta giurisprudenza da proporre ai tribunali locali in materia di error iuris quale motivo di nullità matrimoniale.
Codesto Supremo Tribunale è altresì impegnato in un altro ambito delicato dell'amministrazione della giustizia, che gli fu affidato dal Servo di Dio Paolo VI; la Segnatura conosce, infatti, le controversie sorte per un atto della potestà amministrativa ecclesiastica e ad essa deferite tramite ricorso legittimamente proposto avverso atti amministrativi singolari emanati o approvati da Dicasteri della Curia Romana (cfr. Cost. ap. Regimini Ecclesiae universae, 15 agosto 1967, n. 106; CIC, can. 1445, § 2; Cost. ap. Pastor bonus, art. 123; Lex propria, art. 34). È questo un servizio di primaria importanza: la predisposizione di strumenti di giustizia - dalla pacifica composizione delle controversie sino alla trattazione e definizione giudiziale delle medesime - costituisce l'offerta di un luogo di dialogo e di ripristino della comunione nella Chiesa. Se è vero, infatti che l'ingiustizia va affrontata anzitutto con le armi spirituali della preghiera, della carità, del perdono e della penitenza, tuttavia non si può escludere, in alcuni casi, l'opportunità e la necessità che essa sia fronteggiata con gli strumenti processuali. Questi costituiscono, anzitutto, luoghi di dialogo, che talvolta conducono alla concordia e alla riconciliazione. Non a caso l'ordinamento processuale prevede che in limine litis, anzi, in ogni stadio del processo, si dia spazio e occasione perché "ogniqualvolta qualcuno si ritenga onerato da un decreto, non vi sia contesa tra lui e l'autore del decreto, ma tra di loro si provveda di comune accordo a ricercare un'equa soluzione, ricorrendo anche a persone autorevoli per la mediazione e lo studio, così che per via idonea si eviti o si componga la controversia" (CIC, can. 1733, § 1). Sono anche incoraggiate a tal fine iniziative e normative volte all'istituzione di uffici o consigli che abbiano come compito, secondo norme da stabilire, di ricercare e suggerire eque soluzioni (cfr. ibid., § 2).
Negli altri casi, quando cioè non sia possibile comporre la controversia pacificamente, lo svolgimento del processo contenzioso amministrativo comporterà la definizione giudiziale della controversia: anche in questo caso l'attività del Supremo Tribunale mira alla ricostituzione della comunione ecclesiale, ossia al ristabilimento di un ordine oggettivo conforme al bene della Chiesa. Solo questa comunione ristabilita e giustificata attraverso la motivazione della decisione giudiziale può condurre nella compagine ecclesiale ad una autentica pace e concordia. È quanto significa il noto principio: Opus iustitiae pax. Il faticoso ristabilimento della giustizia è destinato a ricostruire giuste e ordinate relazioni tra i fedeli e tra loro e l'Autorità ecclesiastica. Infatti la pace interiore e la volonterosa collaborazione dei fedeli nella missione della Chiesa scaturiscono dalla ristabilita coscienza di svolgere pienamente la propria vocazione. La giustizia, che la Chiesa persegue attraverso il processo contenzioso amministrativo, può essere considerata quale inizio, esigenza minima e insieme aspettativa di carità, indispensabile ed insufficiente nello stesso tempo, se rapportata alla carità di cui la Chiesa vive. Nondimeno il Popolo di Dio pellegrinante sulla terra non potrà realizzare la sua identità di comunità di amore se in esso non si avrà riguardo alle esigenze della giustizia.
A Maria Santissima, Speculum iustitiae e Regina pacis, affido il prezioso e delicato ministero che la Segnatura Apostolica svolge a servizio della comunione nella Chiesa, mentre esprimo a ciascuno di voi l'assicurazione della mia stima e del mio apprezzamento. Su di voi e sul vostro quotidiano impegno invoco la luce dello Spirito Santo e imparto a tutti la mia Benedizione Apostolica.
Il tribunale della Chiesa di Massimo Introvigne, 04-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Per la prima volta dopo la promulgazione della Lex propria per il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, da lui stesso sottoscritta il 21 giugno 2008, Benedetto XVI ha incontrato il 4 febbraio i membri di questo tribunale, una sorta di Cassazione della Chiesa. Retta dal cardinale statunitense Raymond Leo Burke, la Segnatura Apostolica svolge la sua funzione in due campi: le cause di nullità matrimoniale e le controversie che sorgono all'interno della Chiesa.
Il Papa ha trattato entrambi questi importanti aspetti. Per quanto riguarda le nullità matrimoniali, Benedetto XVI ha richiamato non solo il recente discorso del 22 gennaio ai giudici e avvocati della Rota Romana, che La Bussola Quotidiana ha presentato e commentato, ma ha insistito sul fatto che «le annuali allocuzioni pontificie alla Rota Romana» costituiscono un corpus che va costantemente studiato e tenuto presente per capire che cosa la Chiesa si aspetta dai suoi giudici.
Oltre alle considerazioni generali già svolte alla Rota Romana, il Papa ha aggiunto che dalla Segnatura si attende «l’aggiornata raccolta di informazioni sullo stato e l’attività dei tribunali locali attraverso l’annuale relazione che ogni tribunale è tenuto ad inviare alla Segnatura Apostolica; la sistemazione ed elaborazione dei dati che da essi pervengono; l’individuazione di strategie per la valorizzazione delle risorse umane e istituzionali nei tribunali locali, nonché l’esercizio costante della funzione di indirizzo rivolta ai Moderatori dei tribunali diocesani e interdiocesani, ai quali compete istituzionalmente la responsabilità diretta per l’amministrazione della giustizia. Si tratta di un’opera coordinata e paziente, volta soprattutto a fornire ai fedeli un’amministrazione della giustizia retta, pronta ed efficiente, come chiedevo, in relazione alle cause di nullità matrimoniale, nell’esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis: "Là dove sorgono legittimamente dei dubbi sulla validità del Matrimonio sacramentale contratto, si deve intraprendere quanto è necessario per verificarne la fondatezza. Bisogna poi assicurare, nel pieno rispetto del diritto canonico, la presenza sul territorio dei tribunali ecclesiastici, il loro carattere pastorale, la loro corretta e pronta attività. Occorre che in ogni Diocesi ci sia un numero sufficiente di persone preparate per il sollecito funzionamento dei tribunali ecclesiastici. Ricordo che è un obbligo grave quello di rendere l’operato istituzionale della Chiesa nei tribunali sempre più vicino ai fedeli" (n. 29)».
I tribunali degli Stati oggi sono spesso mostruosamente lenti e poco efficienti, ma questa non è una ragione perché la Chiesa li imiti. Nella delicatissima materia matrimoniale i tribunali canonici devono anche dare un esempio di rapidità e di efficienza, afferma il Papa, «perché le cause di nullità matrimoniali siano trattate nel modo più celere e sicuro».
La vigilanza della Segnatura Apostolica sulla retta amministrazione della giustizia, ha aggiunto il Papa, «sarebbe però carente se non comprendesse anche la funzione di tutela della retta giurisprudenza (Cfr Lex propria, art. 111, §1). Gli strumenti di conoscenza e di intervento, di cui la Lex propria e la posizione istituzionale provvedono codesta Segnatura Apostolica, permettono un’azione che, in sinergia con il Tribunale della Rota Romana (Cfr Cost. ap. Pastor bonus, art. 126), si rivela provvidenziale per la Chiesa. Le esortazioni e le prescrizioni con le quali codesta Segnatura Apostolica accompagna le risposte alle Relazioni annuali dei tribunali locali non infrequentemente raccomandano ai rispettivi Moderatori la conoscenza e l’adesione sia alle direttive proposte nelle annuali allocuzioni pontificie alla Rota Romana, sia alla comune giurisprudenza rotale su specifici aspetti che si rivelano urgenti per i singoli tribunali. Incoraggio, pertanto, anche la riflessione, che vi impegnerà in questi giorni, sulla retta giurisprudenza da proporre ai tribunali locali in materia di error iuris quale motivo di nullità matrimoniale». I fedeli, grazie alla Segnatura, devono potere contare in materia di matrimonio su una giurisprudenza uniforme, che scoraggi la ricerca di fori locali ritenuti a ragione o a torto più accomodanti di altri.
Quanto alla composizione delle controversie che sorgono all'interno della Chiesa fra sacerdoti, vescovi e ordini religiosi, e che coinvolgono talora anche i laici, il Papa afferma che si tratta di «un servizio di primaria importanza: la predisposizione di strumenti di giustizia - dalla pacifica composizione delle controversie sino alla trattazione e definizione giudiziale delle medesime - costituisce l’offerta di un luogo di dialogo e di ripristino della comunione nella Chiesa. Se è vero, infatti che l’ingiustizia va affrontata anzitutto con le armi spirituali della preghiera, della carità, del perdono e della penitenza, tuttavia non si può escludere, in alcuni casi, l’opportunità e la necessità che essa sia fronteggiata con gli strumenti processuali. Questi costituiscono, anzitutto, luoghi di dialogo, che talvolta conducono alla concordia e alla riconciliazione».
La mediazione prima e durante i processi, oggi di moda negli ordinamenti giuridici degli Stati, è da sempre praticata dalla Chiesa. Infatti, ha concluso il Papa, «la giustizia, che la Chiesa persegue attraverso il processo contenzioso amministrativo, può essere considerata quale inizio, esigenza minima e insieme aspettativa di carità, indispensabile ed insufficiente nello stesso tempo, se rapportata alla carità di cui la Chiesa vive». I tribunali non sono sufficienti senza la carità ma nello stesso tempo i tribunali nella Chiesa sono indispensabili: infatti «il Popolo di Dio pellegrinante sulla terra non potrà realizzare la sua identità di comunità di amore se in esso non si avrà riguardo alle esigenze della giustizia».
Un libro nello zaino. Con la dedica del papa - È il catechismo per i giovanissimi. Sarà lanciato al raduno mondiale di Madrid. Benedetto XVI vi scommette molto e lo raccomanda. "Perché ci parla del nostro stesso destino", più avvincente di un romanzo giallo di Sandro Magister
ROMA, 5 febbraio 2011 – La scrittura e la pubblicazione di un "Catechismo della Chiesa cattolica" è stata una delle più grandi imprese del pontificato di Giovanni Paolo II. Ma anche una delle meno capite e apprezzate.
A quell'impresa l'allora cardinale Joseph Ratzinger diede un contributo decisivo.
E da papa, uno dei suoi primissimi atti è stato, il 28 giugno 2005, proprio la pubblicazione di un Catechismo bis: il "Compendio", una versione più breve dell'opera maggiore, concentrata in 598 domande e risposte.
Ora Benedetto XVI ci riprova. Si appresta a pubblicare una terza versione del Catechismo, diretta ai giovani tra i 14 e i 20 anni, in un linguaggio previsto più adatto a loro.
Il volume ha per titolo "YouCat", acronino di "Youth Catechism", catechismo dei giovani. Il suo progetto è nato in Austria, con la supervisione del cardinale di Vienna, Christoph Schönborn. La lingua originale del volume è quindi la tedesca. Sono in corso traduzioni in altre dodici lingue, che usciranno man mano nei vari paesi a partire dal prossimo mese di marzo. L'edizione italiana è stata curata dal patriarca di Venezia, Angelo Scola, ed è stampata da Città Nuova, l'editrice dei Focolarini. Il lancio in grande stile di "YouCat" avverrà con la Giornata Mondiale della Gioventù in programma a Madrid dal 16 al 21 agosto. In quell'occasione, ciascun giovane troverà una copia del volume nella sua "sacca del pellegrino".
Lo schema di "YouCat" è lo stesso del Catechismo maggiore. Prima gli articoli del "Credo", poi i sette sacramenti, poi i dieci comandamenti, infine il "Padre nostro".
Il volume sarà introdotto da una prefazione di Benedetto XVI, in forma di lettera. Il mensile "Il Messaggero di Sant'Antonio" l'ha anticipata, e "L'Osservatore Romano" l'ha anch'esso pubblicata in anticipo, il 2 febbraio, festa di chiusura del tempo natalizio.
È una prefazione di notevole interesse, come spesso avviene per i testi scritti da papa Ratzinger di suo pugno, con linguaggio diretto, senza reticenze.
Il papa vi ripercorre la nascita del grande Catechismo, sottolineando l'audacia dell'impresa ("Mi sembra un miracolo che questo progetto alla fine sia riuscito") . E spiega perché abbia voluto questa nuova versione, diretta ai giovani.
Il successo di "YouCat" è un'incognita. Ma anche il grande Catechismo è sinora penetrato nel corpo della Chiesa solo in minima parte. E così il Compendio.
Negli scorsi decenni, le varie Chiese nazionali hanno profuso molte energie nella produzione di loro testi di catechesi, ma quasi sempre con criteri lontani se non opposti a quelli del Catechismo voluto da Wojtyla e Ratzinger. L'esito è stato quasi ovunque fallimentare.
La conseguenza è che oggi la trasmissione della dottrina cristiana alle nuove generazioni è uno dei buchi neri più drammatici della pastorale della Chiesa.
È un buco nero che fa da sfondo alla prefazione scritta da Benedetto XVI per "You Cat". Ad esempio là dove esorta i giovani a "essere ben più profondamente radicati nella fede della generazione dei vostri genitori".
È una prefazione che è tutta da leggere. Eccola.
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"VI CONSIGLIO LA LETTURA DI UN LIBRO STRAORDINARIO"
di Benedetto XVI
Cari giovani amici! Oggi vi consiglio la lettura di un libro straordinario. Esso è straordinario per il suo contenuto ma anche per il modo in cui si è formato, che io desidero spiegarvi brevemente, perché si possa comprenderne la particolarità.
"YouCat" ha tratto la sua origine, per così dire, da un’altra opera che risale agli anni ’80. Era un periodo difficile per la Chiesa così come per la società mondiale, durante il quale si prospettò la necessità di nuovi orientamenti per trovare una strada verso il futuro. Dopo il Concilio Vaticano II (1962-1965) e nella mutata temperie culturale, molte persone non sapevano più correttamente che cosa i cristiani dovessero propriamente credere, che cosa insegnasse la Chiesa, se essa potesse insegnare qualcosa "tout court", e come tutto questo potesse adattarsi al nuovo clima culturale.
Il cristianesimo in quanto tale non è superato? Si può ancora oggi ragionevolmente essere credenti? Queste sono le domande che ancora oggi molti cristiani si pongono. Papa Giovanni Paolo II si risolse allora per una decisione audace: decise che i vescovi di tutto il mondo scrivessero un libro con cui rispondere a queste domande.
Egli mi affidò il compito di coordinare il lavoro dei vescovi e di vegliare affinché dai contributi dei vescovi nascesse un libro: intendo un vero libro, e non una semplice giustapposizione di una molteplicità di testi. Questo libro doveva portare il titolo tradizionale di "Catechismo della Chiesa cattolica", e tuttavia essere qualcosa di assolutamente stimolante e nuovo; doveva mostrare che cosa crede oggi la Chiesa cattolica e in che modo si può credere in maniera ragionevole.
Rimasi spaventato da questo compito, e devo confessare che dubitai che qualcosa di simile potesse riuscire. Come poteva avvenire che autori che sono sparsi in tutto il mondo potessero produrre un libro leggibile? Come potevano uomini che vivono in continenti diversi, e non solo dal punto di vista geografico, ma anche intellettuale e culturale, produrre un testo dotato di un’unità interna e comprensibile in tutti i continenti?
A questo si aggiungeva il fatto che i vescovi dovevano scrivere non semplicemente a titolo di autori individuali, ma in rappresentanza dei loro confratelli e delle loro Chiese locali.
Devo confessare che anche oggi mi sembra un miracolo il fatto che questo progetto alla fine sia riuscito. Ci incontrammo tre o quattro volte all’anno per una settimana e discutemmo appassionatamente sulle singole porzioni di testo che nel frattempo si erano sviluppate.
Come prima cosa si dovette definire la struttura del libro: doveva essere semplice, perché i singoli gruppi di autori potessero ricevere un compito chiaro e non dovessero forzare in un sistema complicato le loro affermazioni.
È la stessa struttura di questo libro. Essa è tratta semplicemente da un’esperienza catechetica lunga di secoli: che cosa crediamo; in che modo celebriamo i misteri cristiani; in che modo abbiamo la vita in Cristo; in che modo dobbiamo pregare.
Non voglio adesso spiegare come ci siamo scontrati nella grande quantità di domande, fino a che non ne risultò un vero libro. In un’opera di questo genere molti sono i punti discutibili: tutto ciò che gli uomini fanno è insufficiente e può essere migliorato, e ciononostante si tratta di un grande libro, un segno di unità nella diversità. A partire da molte voci si è potuto formare un coro poiché avevamo il comune spartito della fede, che la Chiesa ci ha tramandato dagli apostoli attraverso i secoli fino ad oggi.
Perché tutto questo?
Già allora, al tempo della stesura del "Catechismo della Chiesa cattolica", dovemmo constatare non solo che i continenti e le culture dei loro popoli sono differenti, ma anche che all’interno delle singole società esistono diversi "continenti": l’operaio ha una mentalità diversa da quella del contadino, e un fisico diversa da quella di un filologo; un imprenditore diversa da quella di un giornalista, un giovane diversa da quella di un anziano. Per questo motivo, nel linguaggio e nel pensiero, dovemmo porci al di sopra di tutte queste differenze, e per così dire cercare uno spazio comune tra i differenti universi mentali. Con ciò divenimmo sempre più consapevoli di come il testo richiedesse delle "traduzioni" nei differenti mondi, per poter raggiungere le persone con le loro differenti mentalità e differenti problematiche.
Da allora, nelle giornate mondiali della gioventù (Roma, Toronto, Colonia, Sydney) si sono incontrati da tutto il mondo giovani che vogliono credere, che sono alla ricerca di Dio, che amano Cristo e desiderano strade comuni. In questo contesto ci chiedemmo se non dovessimo cercare di tradurre il "Catechismo della Chiesa cattolica" nella lingua dei giovani e far penetrare le sue parole nel loro mondo. Naturalmente anche fra giovani di oggi ci sono molte differenze; così, sotto la provata guida dell’arcivescovo di Vienna, Christoph Schönborn, si è formato uno "YouCat" per i giovani. Spero che molti giovani si lascino affascinare da questo libro.
Alcune persone mi dicono che il catechismo non interessa la gioventù odierna; ma io non credo a questa affermazione e sono sicuro di avere ragione. Essa non è così superficiale come la si accusa di essere; i giovani vogliono sapere in cosa consiste davvero la vita. Un romanzo criminale è avvincente perché ci coinvolge nella sorte di altre persone, ma che potrebbe essere anche la nostra; questo libro è avvincente perché ci parla del nostro stesso destino e perciò riguarda da vicino ognuno di noi.
Per questo vi invito: studiate il catechismo! Questo è il mio augurio di cuore.
Questo sussidio al catechismo non vi adula; non offre facili soluzioni; esige una nuova vita da parte vostra; vi presenta il messaggio del Vangelo come la "perla preziosa" (Matteo 13, 45) per la quale bisogno dare ogni cosa. Per questo vi chiedo: studiate il catechismo con passione e perseveranza! Sacrificate il vostro tempo per esso! Studiatelo nel silenzio della vostra camera, leggetelo in due, se siete amici, formate gruppi e reti di studio, scambiatevi idee su Internet. Rimanete ad ogni modo in dialogo sulla vostra fede!
Dovete conoscere quello che credete; dovete conoscere la vostra fede con la stessa precisione con cui uno specialista di informatica conosce il sistema operativo di un computer; dovete conoscerla come un musicista conosce il suo pezzo. Sì, dovete essere ben più profondamente radicati nella fede della generazione dei vostri genitori, per poter resistere con forza e decisione alle sfide e alle tentazioni di questo tempo.
Avete bisogno dell’aiuto divino, se la vostra fede non vuole inaridirsi come una goccia di rugiada al sole, se non volete soccombere alle tentazioni del consumismo, se non volete che il vostro amore anneghi nella pornografia, se non volete tradire i deboli e le vittime di soprusi e violenza.
Se vi dedicate con passione allo studio del catechismo, vorrei ancora darvi un ultimo consiglio: sapete tutti in che modo la comunità dei credenti è stata negli ultimi tempi ferita dagli attacchi del male, dalla penetrazione del peccato all’interno, anzi nel cuore della Chiesa. Non prendete questo a pretesto per fuggire il cospetto di Dio; voi stessi siete il corpo di Cristo, la Chiesa! Portate il fuoco intatto del vostro amore in questa Chiesa ogni volta che gli uomini ne hanno oscurato il volto. "Non siate pigri nello zelo, lasciatevi infiammare dallo Spirito e servite il Signore" (Romani 12, 11).
Quando Israele era nel punto più buio della sua storia, Dio chiamò in soccorso non i grandi e le persone stimate, ma un giovane di nome Geremia; Geremia si sentì investito di una missione troppo grande: "Ah, mio Signore e mio Dio, non riesco neppure a parlare, sono ancora così giovane!" (Geremia 1, 6). Ma Dio non si lasciò fuorviare: "Non dire: 'Sono ancora così giovane'. Dove ti mando, là tu devi andare, e quello che io ti comando, quello devi annunciare" (Geremia 1, 7).
Vi benedico e prego ogni giorno per tutti voi.
05/02/2011 – VATICANO - Papa: nuovi vescovi, è l’ora della missione, perché anche oggi il mondo cerca Dio
Benedetto XVI ordina cinque nuovi vescovi Tra loro anche mons. Savio Hon Tai-Fai, segretario della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. I pastori debbono essere “perseveranti”, non “piegati” allo spirito del tempo e dare testimonianza con la loro vita. I qu attro elementi fondanti dell’esistenza cristiana.
Città del Vaticano (AsiaNews) – “È l’ora della missione”, è il mandato che Benedetto XVI ha affidato oggi a cinque nuovi vescovi, ordinati nella basilica di san Pietro, una missione che è “portare agli uomini la luce della verità, liberarli dalla povertà di verità, che è la vera tristezza e la vera povertà dell’uomo. Portare loro il lieto annuncio che non è soltanto parola, ma evento: Dio, Lui stesso, è venuto, da noi”.
A ricevere dal Papa il Vangelo, l’anello, la mitra e il pastorale, segni della missione episcopale, mons. Savio Hon Tai-Fai, segretario della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, mons. Marcello Bartolucci, segretario della Congregazione delle cause dei santi, mons. Celso Morga Iruzubieta, segretario della Congregazione per il clero, mons. Antonio Guido Filipazzi, nunzio apostolico e mons. Edgar Peña Parra, anch’egli nunzio apostolico.
La missione è quella di “gettare la rete del Vangelo nel mare agitato di questo tempo per ottenere l’adesione degli uomini a Cristo” perché “se può sembrare che grandi parti del mondo moderno, degli uomini di oggi, volgano le spalle a Dio e ritengano la fede una cosa del passato – esiste tuttavia l’anelito che finalmente vengano stabiliti la giustizia, l’amore, la pace, che povertà e sofferenza vengano superate, che gli uomini trovino la gioia. Tutto questo anelito è presente nel mondo di oggi, l’anelito verso ciò che è grande, verso ciò che è buono. È la nostalgia del Redentore, di Dio stesso, anche lì dove Egli viene negato”.
E’ un “grande compito” che, nella pratica ha bisogno dei quattro elementi che già sono stati il tema della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, il ricordo di come i primi cristiani "Erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere" (At 2,42). Sono “gli elementi fondamentali dell’esistenza cristiana nella comunione della Chiesa di Gesù Cristo”, che Benedetto XVI ha tratteggiato a partire da quell’“erano perseveranti”. “La perseveranza, l’assiduità, appartiene all’essenza dell’essere cristiani ed è fondamentale per il compito dei Pastori, degli operai nella messe del Signore. Il Pastore non deve essere una canna di palude che si piega secondo il soffio del vento, un servo dello spirito del tempo. L’essere intrepido, il coraggio di opporsi alle correnti del momento appartiene in modo essenziale al compito del Pastore. Non deve essere una canna di palude, bensì – secondo l’immagine del Salmo primo – deve essere come un albero che ha radici profonde nelle quali sta saldo e ben fondato. Ciò non ha niente a che fare con la rigidità o l’inflessibilità. Solo dove c’è stabilità c’è anche crescita. Il cardinale Newman, il cui cammino fu marcato da tre conversioni, dice che vivere è trasformarsi. Ma le sue tre conversioni e le trasformazioni in esse avvenute sono tuttavia un unico cammino coerente: il cammino dell’obbedienza verso la verità, verso Dio; il cammino della vera continuità che proprio così fa progredire”.
"Perseverare nell’insegnamento degli Apostoli", poi, significa ricordare che “la fede ha un contenuto concreto. Non è una spiritualità indeterminata, una sensazione indefinibile per la trascendenza. Dio ha agito e proprio Lui ha parlato. Ha realmente fatto qualcosa e ha realmente detto qualcosa. Certamente, la fede è, in primo luogo, un affidarsi a Dio, un rapporto vivo con Lui. Ma il Dio al quale ci affidiamo ha un volto e ci ha donato la sua Parola. Possiamo contare sulla stabilità della sua Parola”.
Il “secondo pilastro dell’esistenza ecclesiale” è la comunione. “Comunione con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo (cfr 1Gv 1,1-4). Dio si è reso per noi visibile e toccabile e così ha creato una reale comunione con Lui stesso. Entriamo in tale comunione attraverso il credere e il vivere insieme con coloro che Lo hanno toccato. Con loro e tramite loro, noi stessi in certo qual modo Lo vediamo, e tocchiamo il Dio fattosi vicino. Così la dimensione orizzontale e quella verticale sono qui inscindibilmente intrecciate l’una con l’altra. Con lo stare in comunione con gli Apostoli, con lo stare nella loro fede, noi stessi stiamo in contatto con il Dio vivente. Cari amici, a tale scopo serve il ministero dei Vescovi: che questa catena della comunione non si interrompa. È questa l’essenza della Successione apostolica: conservare la comunione con coloro che hanno incontrato il Signore in modo visibile e tangibile e così tenere aperto il Cielo, la presenza di Dio in mezzo a noi. Solo mediante la comunione con i Successori degli Apostoli siamo anche in contatto con il Dio incarnato. Ma vale anche l’inverso: solo grazie alla comunione con Dio, solo grazie alla comunione con Gesù Cristo questa catena dei testimoni rimane unita. Vescovi non si è mai da soli, ci dice il Vaticano II, ma sempre soltanto nel collegio dei Vescovi. Questo, poi, non può rinchiudersi nel tempo della propria generazione. Alla collegialità appartiene l’intreccio di tutte le generazioni, la Chiesa vivente di tutti i tempi. Voi, cari Confratelli - ha proseguito, rivolgendosi agli ordinandi - avete la missione di conservare questa comunione cattolica. Sapete che il Signore ha incaricato san Pietro e i suoi successori di essere il centro di tale comunione, i garanti dello stare nella totalità della comunione apostolica e della sua fede. Offrite il vostro aiuto perché rimanga viva la gioia per la grande unità della Chiesa, per la comunione di tutti i luoghi e i tempi, per la comunione della fede che abbraccia il cielo e la terra”.
Terzo “elemento fondamentale dell’esistenza ecclesiale” è lo spezzare il pane. “La santa Eucaristia è il centro della Chiesa e deve essere il centro del nostro essere cristiani e della nostra vita sacerdotale”. “Spezzare il pane – con ciò è espresso insieme anche il condividere, il trasmettere il nostro amore agli altri. La dimensione sociale, il condividere non è un’appendice morale che s’aggiunge all’Eucaristia, ma è parte di essa. Ciò risulta chiaramente proprio dal versetto che negli Atti degli Apostoli segue a quello citato poc’anzi: "Tutti i credenti … avevano ogni cosa in comune", dice Luca (2,44). Stiamo attenti che la fede si esprima sempre nell’amore e nella giustizia degli uni verso gli altri e che la nostra prassi sociale sia ispirata dalla fede; che la fede sia vissuta nell’amore”.
“Ultimo pilastro” dell’esistenza ecclesiale, è la preghiera. “La preghiera, da una parte, deve essere molto personale, un unirmi nel più profondo a Dio. Deve essere la mia lotta con Lui, la mia ricerca di Lui, il mio ringraziamento per Lui e la mia gioia in Lui. Tuttavia, non è mai soltanto una cosa privata del mio "io" individuale, che non riguarda gli altri. Pregare è essenzialmente anche sempre un pregare nel "noi" dei figli di Dio. Solo in questo "noi" siamo figli del nostro Padre, che il Signore ci ha insegnato a pregare. Solo questo "noi" ci apre l’accesso al Padre. Da una parte, la nostra preghiera deve diventare sempre più personale, toccare e penetrare sempre più profondamente il nucleo del nostro "io". Dall’altra, deve sempre nutrirsi della comunione degli oranti, dell’unità del Corpo di Cristo, per plasmarmi veramente a partire dall’amore di Dio. Così il pregare, in ultima analisi, non è un’attività tra le altre, un certo angolo del mio tempo. Pregare è la risposta all’imperativo che sta all’inizio del Canone nella Celebrazione eucaristica: Sursum corda – in alto i cuori! È l’ascendere della mia esistenza verso l’altezza di Dio”.
“ In san Gregorio Magno si trova una bella parola al riguardo. Egli ricorda che Gesù chiama Giovanni Battista una "lampada che arde e risplende" (Gv 5,35) e continua: "ardente per il desiderio celeste, risplendente per la parola. Quindi, affinché sia conservata la veridicità dell’annuncio, deve essere conservata l’altezza della vita" (Hom. in Ez. 1,11,7 CCL 142, 134). L’altezza, la misura alta della vita, che proprio oggi è così essenziale per la testimonianza in favore di Gesù Cristo, la possiamo trovare solo se nella preghiera ci lasciamo continuamente tirare da Lui verso la sua altezza”.
Avvenire.it, 5 febbraio 2011, INTERVISTA, Borgna, la solitudine che vince il rumore di Marina Corradi
«Solitudine» è parola usata quasi sempre in un’accezione negativa. Normalmente è sinonimo di emarginazione e esclusione. Ma l’ultimo saggio dello psichiatra Eugenio Borgna (La solitudine dell’anima, Feltrinelli) osa parlare anche di un’altra solitudine. Della ricercata solitudine di chi sceglie di sfuggire al rumore cui quotidianamente siamo consegnati. Della "bella" solitudine dei mistici; della creativa solitudine dei poeti. Su questa parola dunque Borgna indaga e ne trae un’altra, oggi oscurata, dimensione. «Occorre distinguere – dice Borgna – la solitudine dall’isolamento, che ne è la faccia negativa: la condizione cioè imposta da dolore, malattia, povertà, o dalla nostalgia feroce di un lutto. Anche l’isolamento però può essere scelto: è il rifiuto intenzionale dell’altro, o il vassallaggio delle proprie pulsioni egoistiche, che rompe ogni comunione con il prossimo».
Ma l’altro volto, luminoso, della solitudine è appunto la solitudine scelta: «Per cercare – dice Borgna – il proprio cammino di vita interiore: In interiore homine habitat veritas, noli foras ire…, ammonisce Agostino». E tuttavia i due aspetti, l’isolamento afflitto e la ricerca di sé, non sono regni divisi da invalicabili confini: «Esistono sconfinamenti, e correnti carsiche, che fluiscono dall’una all’altra condizione. Perché ogni forma di isolamento può essere riscattata».
La nostalgia c’entra dunque con la solitudine, come eco di qualcosa che conoscevamo e abbiamo perduto?
«Certo. La "bella" solitudine di Teresa d’Avila è domanda di attingere a qualcosa di non più tangibile, come in una memoria perduta. In Teresa, la solitudine è apertamente chiamata "grazia"; e "disfatta", è quando questa solitudine scompare. In una sfolgorante intuizione: solitudine è lo spazio vuoto che può essere colmato da Dio. Come suggerisce anche un verso di Emily Dickinson: "Forse sarei più sola/ senza la mia solitudine"».
Ma un’altra Teresa, Teresa di Calcutta, che lei cita, in diari straziati dice di una notte di solitudine interiore, del suo "sorridere sempre", mentre dentro si avverte completamente vuota. Che razza di solitudine è, questa? Non potrebbe essere quasi come una talpa che scava un vuoto più grande, per fare spazio a un altro che preme?
«Ogni solitudine è ritorno in se stessi, e ascolto dei motivi di dolore in noi. Se viviamo esposti al rumore, senza mai staccarci da questa terribile elisione di ogni relazione vera, ecco che la solitudine, pur aprendoci orizzonti senza fine, ci ferisce, perché ci fa conoscere esperienze che nella vita immersa nel rumore non possiamo nemmeno immaginare».
D’altronde il "rumore" è lo stato in cui la maggioranza di noi vive.
«Sì, viviamo nel terrore del silenzio, e nella angoscia del confronto con noi stessi, e con il senso. Teresa di Calcutta, nella sua solitudine di ghiaccio, aveva una nostalgia straziata di Dio e dell’infinito».
Chi si affaccia sul silenzio di una clausura ne resta spesso affascinato e insieme spaventato. Che cosa nella solitudine monastica ci sbalordisce, e però ci fa paura?
«Da una parte il fatto che in clausura ci si sottrae al mondo, e agli affetti. Scompare quasi completamente la parola, nel silenzio che sigilla. Chi non ha una fede altissima e un’acuta nostalgia dell’infinito percepisce in tutto questo un’eco di morte – morte delle cose contingenti. Ma quando assisti, come a me è capitato nel monastero di San Giulio a Orta, ai voti di giovani donne che con voce ferma e dolce rispondono al vescovo: sì, abbandono il mondo, allora intuisci che la clausura è il luogo di un incontro assolutamente concreto. Queste donne sono la testimonianza di una nostalgia di infinito che vive in noi. E tutto questo è grazia, come diceva Bernanos».
Nel libro lei cita Etty Hillesum, la giovane ebrea morta a Auschwitz che scriveva: "Innalzo intorno a me le mura delle preghiera come le mura di convento".
«Nel mezzo dello sfacelo delle persecuzioni naziste la preghiera per la Hillesum è scudo, è invisibile cortina che la salva dal nulla. Ma da dentro quelle mura vedeva tutto, concependo un senso anche alla morte e allo strazio».
E tra solitudine e poesia, che rapporto c’è?
«Siamo sempre dentro alla nostalgia dell’indicibile. La solitudine affranca, ringiovanisce, è premessa, come la malinconia, della genesi della esperienza poetica. Solitudine, anche qui, è un rientrare in sé, e ascoltare gli abissi».
Allora poesia e preghiera si assomigliano?
«La grande poesia difficilmente si distingue dalla preghiera. Penso a Petrarca, a Dante. Il luogo di comunanza è che entrambe attingono alla più profonda domanda, e che entrambe nascono più abbaglianti dalla disperazione. Certo l’ultimo orizzonte della santità è Dio, che incendia e trasfigura tutta la vita; mentre la poesia è maieutica per gli altri. In un certo senso, i poeti sono dei messaggeri. E però quali affinità tra l’ostinato bussare di Leopardi contro una porta che apparentemente non si apre, e lo strazio oscuro di madre Teresa».
Anche la psichiatria, lei scrive, è incontro fra due solitudini.
«Da un anno mi confronto con due pazienti ad alto rischio di suicidio. È come parlare con qualcuno che minacci di buttarsi da un cornicione; è la disperata tensione a stabilire una relazione con il malato, a non sbagliare una parola. È allora che uno psichiatra avverte la sua impotenza, e si comprende egli stesso solo: in una solitudine che è emblema di uno scacco senza fine».