mercoledì 2 febbraio 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Radio Vaticana, notizia del 02/02/2011 - Il Papa all'udienza generale: amare concretamente Dio e i fratelli in una società carente di valori spirituali
2)    DON CARRÓN: GIOVANNI PAOLO II HA INSEGNATO COSA SIGNIFICA ESSERE CRISTIANI OGGI
3)    Avvenire.it, 1 febbraio 2011 - UE EVASIVA SULLE VIOLENZE AI CRISTIANI - L'indicibile tragedia di Andrea Lavazza
4)    Se il lavavetri usa il cellulare di Andrea Tornielli, 01-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it/
5)    Dostoevskij: se Dio non esiste tutto è permesso di Francesco Agnoli - 01/02/2011 - Religione - http://www.libertaepersona.org
6)    I magistrati non diventino ultrà di Mario Palmaro, 02-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
7)    Prepariamoci a dire ancora «niente oro alla patria» di Massimo Introvigne, 02-02-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it
8)    I governi Ue abbandonano i cristiani a loro stessi di Riccardo Cascioli, 01-02-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it/
9)    Vocazioni, «il primato della vita dello spirito» di Massimo Introvigne, 01-02-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it
10)                      EDITORIALE - Islamismo all'iraniana? Di Luca Doninelli, mercoledì 2 febbraio 2011, ilsussidiario.net
11)                      EGITTO/ Perchè i media parlano della rivoluzione egiziana ma dimenticano Israele? Di Lorenzo Albacete, mercoledì 2 febbraio 2011, il sussidiario.net
12)                      PRISMA/ Come mai l’Europa ha abbandonato i cristiani in Medio Oriente? Di Robi Ronza, mercoledì 2 febbraio 2011, ilsussdiario.net
13)                      DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA - Libertà religiosa e libertà di coscienza di Rafael Navarro-Valls*
14)                      Un barlume di luce nell'Egitto in rivolta - È un appello lanciato da 23 personalità musulmane per un islam più autentico e rispettoso dei diritti di tutti. Sulla via della rivoluzione illuminista proposta da Benedetto XVI. L'analisi del gesuita egiziano Samir di Sandro Magister
15)                      Avvenire.it, 2 febbraio 2011, VERSO LA GMG, La fede nella lingua dei giovani, 2 febbraio 2011
16)                      Avvenire.it, 2 febbraio 2011, Rifugio ai prigionieri del Sinai - Fate qualcosa di umano di Paolo Lambruschi
17)                      Perché alla politica serve un’anima di Paul Valadier, Avvenire, 2 febbraio 2011
18)                      La presentazione di Gesù al tempio di Don Renzo Lavatori, da http://www.pontifex.roma.it

Radio Vaticana, notizia del 02/02/2011 - Il Papa all'udienza generale: amare concretamente Dio e i fratelli in una società carente di valori spirituali

Il Papa oggi all’udienza generale ha iniziato una nuova serie di incontri per completare la presentazione dei Dottori della Chiesa, parlando di “una Santa che rappresenta uno dei vertici della spiritualità cristiana di tutti i tempi: santa Teresa di Gesù. Nasce ad Avila, in Spagna, nel 1515, con il nome di Teresa de Ahumada. Nella sua autobiografia ella stessa menziona alcuni particolari della sua infanzia: la nascita da “genitori virtuosi e timorati di Dio”, all'interno di una famiglia numerosa, con nove fratelli e tre sorelle. Ancora bambina, a meno di 9 anni, ha modo di leggere le vite di alcuni martiri che le ispirano il desiderio del martirio, tanto che improvvisa una breve fuga da casa per morire martire e salire al Cielo (cfr Vita 1, 4); “voglio vedere Dio” dice la piccola ai genitori. Alcuni anni dopo, Teresa parlerà delle sue letture dell'infanzia e affermerà di avervi scoperto la verità, che riassume in due principi fondamentali: da un lato “il fatto che tutto quello che appartiene al mondo di qua, passa”, dall'altro che solo Dio è “per sempre, sempre, sempre”, tema che ritorna nella famosissima poesia “Nulla ti turbi / nulla ti spaventi; / tutto passa. Dio non cambia; / la pazienza ottiene tutto; / chi possiede Dio / non manca di nulla / Solo Dio basta!”. Rimasta orfana di madre a 12 anni, chiede alla Vergine Santissima che le faccia da madre (cfr Vita 1, 7)”.

“Se nell’adolescenza la lettura di libri profani – ha proseguito il Papa - l'aveva portata alle distrazioni di una vita mondana, l'esperienza come alunna delle monache agostiniane di Santa Maria delle Grazie di Avila e la frequentazione di libri spirituali, soprattutto classici di spiritualità francescana, le insegnano il raccoglimento e la preghiera. All’età di 20 anni, entra nel monastero carmelitano dell'Incarnazione, sempre ad Avila. Tre anni dopo, si ammala gravemente, tanto da restare per quattro giorni in coma, apparentemente morta (cfr Vita 5, 9). Anche nella lotta contro le proprie malattie la Santa vede il combattimento contro le debolezze e le resistenze alla chiamata di Dio: “Desideravo vivere - scrive - perché capivo bene che non stavo vivendo, ma stavo lottando con un'ombra di morte, e non avevo nessuno che mi desse vita, e neppure io me la potevo prendere, e Colui che poteva darmela aveva ragione di non soccorrermi, dato che tante volte mi aveva volto verso di Lui, e io l'avevo abbandonato” (Vita 8, 2) . Nel 1543 perde la vicinanza dei famigliari: il padre muore e tutti i suoi fratelli emigrano uno dopo l'altro in America. Nella Quaresima del 1554, a 39 anni, Teresa giunge al culmine della lotta contro le proprie debolezze. La scoperta fortuita della statua di “un Cristo molto piagato” segna profondamente la sua vita (cfr Vita 9). La Santa, che in quel periodo trova profonda consonanza con il sant'Agostino delle Confessioni, così descrive la giornata decisiva della sua esperienza mistica: “Accadde... che d'improvviso mi venne un senso della presenza di Dio, che in nessun modo potevo dubitare che era dentro di me o che io ero tutta assorbita in Lui” (Vita 10, 1).

“Parallelamente alla maturazione della propria interiorità – ha affermato - la Santa inizia a sviluppare concretamente l'ideale di riforma dell'Ordine carmelitano: nel 1562 fonda ad Avila, con il sostegno del Vescovo della città, don Alvaro de Mendoza, il primo Carmelo riformato, e poco dopo riceve anche l'approvazione del Superiore Generale dell'Ordine, Giovanni Battista Rossi. Negli anni successivi prosegue le fondazioni di nuovi Carmeli, in totale diciassette. Fondamentale è l'incontro con san Giovanni della Croce, col quale, nel 1568, costituisce a Duruelo, vicino ad Avila, il primo convento di Carmelitani Scalzi. Nel 1580 ottiene da Roma l'erezione in Provincia autonoma per i suoi Carmeli riformati, punto di partenza dell'Ordine Religioso dei Carmelitani Scalzi. Teresa termina la sua vita terrena proprio mentre è impegnata nell'attività di fondazione. Nel 1582, infatti, dopo aver costituto il Carmelo di Burgos e mentre sta compiendo il viaggio di ritorno verso Avila, muore la notte del 15 ottobre ad Alba de Tormes, ripetendo umilmente due espressioni: “Alla fine, muoio da figlia della Chiesa” e “E' ormai ora, mio Sposo, che ci vediamo”. Un’esistenza consumata all'interno della Spagna, ma spesa per la Chiesa intera. Beatificata dal Papa Paolo V nel 1614 e canonizzata nel 1622 da Gregorio XV, è proclamata “Dottore della Chiesa” dal Servo di Dio Paolo VI nel 1970”.

“Teresa di Gesù – ha rilevato - non aveva una formazione accademica, ma ha sempre fatto tesoro degli insegnamenti di teologi, letterati e maestri spirituali. Come scrittrice, si è sempre attenuta a ciò che personalmente aveva vissuto o aveva visto nell’esperienza di altri (cfr Prologo al Cammino di Perfezione), cioè a partire dall'esperienza. Teresa ha modo di intessere rapporti di amicizia spirituale con molti Santi, in particolare con san Giovanni della Croce. Nello stesso tempo, si alimenta con la lettura dei Padri della Chiesa, san Girolamo, san Gregorio Magno, sant'Agostino. Tra le sue opere maggiori va ricordata anzitutto l’autobiografia, intitolata Libro della vita, che ella chiama Libro delle Misericordie del Signore. Composta nel Carmelo di Avila nel 1565, riferisce il percorso biografico e spirituale, scritto, come afferma Teresa stessa, per sottoporre la sua anima al discernimento del “Maestro degli spirituali”, san Giovanni d'Avila. Lo scopo è di evidenziare la presenza e l'azione di Dio misericordioso nella sua vita: per questo, l'opera riporta spesso il dialogo di preghiera con il Signore. E’ una lettura che affascina, perché la Santa non solo racconta, ma mostra di rivivere l’esperienza profonda del suo rapporto con Dio. Nel 1566, Teresa scrive il Cammino di Perfezione, da lei chiamato Ammonimenti e consigli che dà Teresa di Gesù alle sue monache. Destinatarie sono le dodici novizie del Carmelo di san Giuseppe ad Avila. Α loro Teresa propone un intenso programma di vita contemplativa al servizio della Chiesa, alla cui base vi sono le virtù evangeliche e la preghiera. Tra i passaggi più preziosi il commento al Padre nostro, modello di preghiera. L'opera mistica più famosa di santa Teresa è il Castello interiore, scritto nel 1577, in piena maturità. Si tratta di una rilettura del proprio cammino di vita spirituale e, allo stesso tempo, di una codificazione del possibile svolgimento della vita cristiana verso la sua pienezza, la santità, sotto l'azione dello Spirito Santo. Teresa si richiama alla struttura di un castello con sette stanze, come immagine dell'interiorità dell'uomo, introducendo, al tempo stesso, il simbolo del baco da seta che rinasce in farfalla, per esprimere il passaggio dal naturale al soprannaturale. La Santa si ispira alla Sacra Scrittura, in particolare al Cantico dei Cantici, per il simbolo finale dei “due Sposi”, che le permette di descrivere, nella settima stanza, il culmine della vita cristiana nei suoi quattro aspetti: trinitario, cristologico, antropologico ed ecclesiale. Alla sua attività di fondatrice dei Carmeli riformati, Teresa dedica il Libro delle fondazioni, scritto tra il 1573 e il 1582, nel quale parla della vita del gruppo religioso nascente. Come nell'autobiografia, il racconto è teso a evidenziare soprattutto l'azione di Dio nell'opera di fondazione dei nuovi monasteri”.

“Non è facile – ha osservato - riassumere in poche parole la profonda e articolata spiritualità teresiana”. Il Papa menziona alcuni punti essenziali. “In primo luogo, santa Teresa propone le virtù evangeliche come base di tutta la vita cristiana e umana: in particolare, il distacco dai beni o povertà evangelica” e poi ancora “l'amore gli uni per gli altri come elemento essenziale della vita comunitaria e sociale; l'umiltà come amore alla verità; la determinazione come frutto dell'audacia cristiana; la speranza teologale, che descrive come sete di acqua viva. Senza dimenticare le virtù umane: af¬fabilità, veracità, modestia, cortesia, allegria, cultura. In secondo luogo, santa Teresa propone una profonda sintonia con i grandi personaggi biblici e l'ascolto vivo della Parola di Dio. Ella si sente in consonanza soprattutto con la sposa del Cantico dei Cantici e con l'apostolo Paolo, oltre che con il Cristo della Passione e con il Gesù Eucaristico”.

“La Santa sottolinea poi quanto è essenziale la preghiera; pregare “significa frequentare con amicizia, poiché frequentiamo a tu per tu Colui che sappiamo che ci ama” (Vita 8, 5) . L'idea di santa Teresa coincide con la definizione che san Tommaso d'Aquino dà della carità teologale, come “amicitia quaedam hominis ad Deum”, un tipo di amicizia dell’uomo con Dio, che, per primo ha offerto la sua amicizia all’uomo (Summa Theologiae II-ΙI, 23, 1)”.

“La preghiera – ha proseguito Benedetto XVI - è vita e si sviluppa gradualmente di pari passo con la crescita della vita cristiana: comincia con la preghiera vocale, passa per l'interiorizzazione attraverso la meditazione e il raccoglimento, fino a giungere all'unione d'amore con Cristo e con la Santissima Trinità. Ovviamente non si tratta di uno sviluppo in cui salire ai gradini più alti vuol dire lasciare il precedente tipo di preghiera, ma è piuttosto un approfondirsi graduale del rapporto con Dio che avvolge tutta la vita. Più che una pedagogia della preghiera, quella di Teresa è una vera "mistagogia": al lettore delle sue opere insegna a pregare pregando ella stessa con lui; frequentemente, infatti, interrompe il racconto o l'esposizione per prorompere in una preghiera”.

“Un altro tema caro alla Santa è la centralità dell'umanità di Cristo. Per Teresa, infatti, la vita cristiana è relazione personale con Gesù, che culmina nell'unione con Lui per grazia, per amore e per imitazione. Da ciò l'importanza che ella attribuisce alla meditazione della Passione e all'Eucaristia, come presenza di Cristo, nella Chiesa, per la vita di ogni credente e come cuore della liturgia. Santa Teresa vive un amore incondizionato alla Chiesa: ella manifesta un vivo “sensus Ecclesiae” di fronte agli episodi di divisione e conflitto nella Chiesa del suo tempo. Riforma l'Ordine carmelitano con l'intenzione di meglio servire e meglio difendere la “Santa Chiesa Cattolica Romana”, ed è disposta a dare la vita per essa (cfr Vita 33, 5)”.

“Un ultimo aspetto essenziale della dottrina teresiana, che vorrei sottolineare, è la perfezione, come aspirazione di tutta la vita cristiana e meta finale della stessa. La Santa ha un'idea molto chiara della “pienezza” di Cristo, rivissuta dal cristiano. Alla fine del percorso del Castello interiore, nell'ultima “stanza” Teresa descrive tale pienezza, realizzata nell'inabitazione della Trinità, nell'unione a Cristo attraverso il mistero della sua umanità”.

“Cari fratelli e sorelle – ha concluso il Papa - santa Teresa di Gesù è vera maestra di vita cristiana per i fedeli di ogni tempo. Nella nostra società, spesso carente di valori spirituali, santa Teresa ci insegna ad essere testimoni instancabili di Dio, della sua presenza e della sua azione” e “ci insegna a sentire realmente questa sete di Dio che esiste nella profondità del nostro cuore, questo desiderio di vedere Dio, di cercare Dio, di essere in colloquio, di essere amici di Dio: questa è l’amicizia che è necessaria per noi tutti e che dobbiamo cercare ogni giorno di nuovo”. “L’esempio di questa Santa, profondamente contemplativa ed efficacemente operosa, spinga anche noi a dedicare ogni giorno il giusto tempo alla preghiera”: “il tempo della preghiera non è tempo perso, ma è un tempo nel quale si apre la strada verso la vera vita”, verso l’amore per Dio, per la Chiesa e verso “una carità concreta per i nostri fratelli”.


DON CARRÓN: GIOVANNI PAOLO II HA INSEGNATO COSA SIGNIFICA ESSERE CRISTIANI OGGI

“Chi di noi non ha ricevuto tanto dalla sua vita?”, chiede il presidente di CL

ROMA, martedì, 1° febbraio 2011 (ZENIT.org).- La Fraternità di Comunione e Liberazione (CL) è particolarmente felice per la prossima beatificazione di Papa Giovanni Paolo II, che ha insegnato “che cosa significhi essere cristiano oggi”.

Don Julián Carrón, presidente della Fraternità, sottolinea in una Lettera datata 31 gennaio “la commozione e l’entusiasmo” con cui è stato accolto l'annuncio della beatificazione di Papa Wojtyła.

“Ci uniamo alla gioia di tutta la Chiesa nel ringraziare Dio per il bene che è stata la sua persona, con la sua testimonianza e la sua passione missionaria”, afferma. “Chi di noi non ha ricevuto tanto dalla sua vita?”.

“Quanti hanno ritrovato la gioia di essere cristiani, vedendo la sua passione per Cristo, il tipo d’umanità che scaturiva dalla sua fede, il suo entusiasmo contagioso! In lui abbiamo subito riconosciuto un uomo − con un temperamento e un accento investiti dalla fede − nei cui discorsi e gesti si documentava il metodo scelto da Dio per comunicarsi: un incontro umano che rende affascinante e persuasiva la fede”.

Tutti, ha sottolineato don Carrón, sono “ben consapevoli dell’importanza del suo pontificato per la vita della Chiesa e dell’umanità”.

“In un momento particolarmente difficile ha riproposto davanti a tutti, con un’audacia che può avere solo Dio come origine, che cosa significhi essere cristiano oggi, offrendo a tutti le ragioni della fede e promuovendo instancabilmente i germi di rinnovamento della compagine ecclesiale posti in essere dal Concilio Vaticano II, senza cedere a nessuna delle interpretazioni parziali che volevano ridurne la portata in un senso o in un altro”.

“Il suo contributo alla pace nel mondo e alla convivenza fra gli uomini mostra quanto sia decisiva per il bene comune una fede integralmente vissuta in tutte le sue dimensioni”, ha aggiunto.

Giovanni Paolo II e CL

Don Carrón ha poi sottolineato lo stretto legame che ha unito Giovanni Paolo II a don Luigi Giussani, fondatore di CL, “fondato su una consonanza dello sguardo di fede a tutta la realtà, nella passione per Cristo centro del cosmo e della storia”.

Il Papa polacco, ha osservato, “ha offerto un insegnamento prezioso per comprendere e approfondire il nostro carisma nelle diverse e molteplici occasioni in cui ha parlato a tutti i movimenti, da lui indicati quali 'primavera dello Spirito' in quanto nella Chiesa la dimensione carismatica è 'coessenziale' a quella istituzionale”.

“Con una paternità sorprendente e unica”, “ha abbracciato la nostra giovane storia riconoscendo canonicamente la Fraternità di Comunione e Liberazione, i Memores Domini, la Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo, le Suore di Carità dell’Assunzione, come frutti diversi sgorgati dal carisma di don Giussani per il bene di tutta la Chiesa”.

“Perciò, se qualcuno ha un enorme debito di riconoscenza nei confronti di Giovanni Paolo II, questi siamo proprio noi”, ha riconosciuto.

Per questo motivo, CL sarà presente alla beatificazione, in programma per il 1° maggio. Per partecipare alla cerimonia, gli Esercizi spirituali della Fraternità, che erano stati programmati dal 29 aprile al 1° maggio, termineranno la sera di sabato 30 aprile, per permettere poi a tutti di recarsi a Roma “per unirci al Papa e alla Chiesa nel ringraziamento a Dio che ci ha dato un testimone così autentico di Cristo”.

“Vogliamo stringerci attorno a Benedetto XVI, che nella sua lungimiranza ha deciso di indicare a tutto il mondo il beato Giovanni Paolo II come esempio di che cosa può fare Cristo di un uomo che si lascia afferrare da Lui”, ha concluso don Carrón.


Avvenire.it, 1 febbraio 2011 - UE EVASIVA SULLE VIOLENZE AI CRISTIANI - L'indicibile tragedia di Andrea Lavazza

I diplomatici, si sa, nel luogo comune sono co­loro che sanno dire le cose peggiori nel modo più cortese; che sanno indicare la destinazione più scomoda in maniera così suadente da tenta­re l’interlocutore al viaggio. Oppure, brutalmen­te, che, di fronte al cane che ringhia, dicono «bel­la bestia» fino a che hanno trovato un sasso ab­bastanza grosso. Insomma, devono andare al punto salvando le forme. Chiamati a pronun­ciarsi sulle persecuzioni delle minoranze cristia­ne, i ministri degli Esteri della Ue la forma l’ave­vano sicuramente salvata. Il punto, però, si era perso.

Il Consiglio dei capi delle diplomazie dei Venti­sette, malgrado gli auspici dell’Europarlamento, non è riuscito a varare un documento in cui si prendano di petto le violenze contro i cristiani fi­niti nel mirino nelle ultime settimane da Ales­sandria d’Egitto all’Iraq fino al Pakistan. Il testo, limato parola per parola su indicazione dei sin­goli Paesi, era ispirato a un approccio «di diritti umani universali», in cui si manifestava un lode­vole «impegno dell’Unione alla promozione e al­la protezione della libertà di religione e di credo», ma nel quale non si andava oltre la «profonda preoccupazione e la condanna per i recenti atti di terrorismo contro luoghi di culto e pellegrini». La contrarietà di Italia e Francia a un pronuncia­mento così annacquato ha consigliato un rinvio, quantunque imbarazzato, se non umiliante per tutti. A episodi specifici non si faceva minimo cenno; il riferimento sarebbe stato implicito, fa­cevano sapere le delegazioni che volevano im­pedire di menzionare specificamente gli attac­chi ai copti o gli omicidi mirati compiuti a Bagh­dad. Soltanto l’Italia ha insistito perché la paro­la 'cristiani' fosse citata esplicitamente, scon­trandosi con il muro eretto dalla gran parte degli altri ministri. Perché quel tabù, viene da chie­dersi per l’ennesima volta? Non si tratta di inse­rire la verità delle radici cristiane nella 'laica' Co­stituzione del Continente, e nessuno può soste­nere che si sta reclamando un qualche privile­gio. La realtà è terribile e inequivocabile: siamo davanti a gruppi minacciati nella loro stessa so­pravvivenza, costretti nelle catacombe, forzati a lasciare la propria terra, impossibilitati a eserci­tare quel diritto che appunto si vuole "universa­le"'.

E l’impegno contro l’intolleranza, oltre che ge­nerico, nel documento rimaneva vago, legato com’era alle iniziative di monitoraggio dell’Alto rappresentante per la politica estera della Ue, Lady Ashton, che finora non si è distinta per in­cisività né per determinazione in questo ambito cruciale della sua missione. In sintesi, il Consiglio si apprestava a proferire un timido invito che non avrebbe conquistato nemmeno poche righe in cronaca se non, come in questa sede, per racco­gliere la delusione di chi sperava che l’Europa po­tesse infine battere un colpo forte e chiaro.

Non c’è soltanto un motivo ideale che spinge­rebbe a schierarsi dalla parte dei cristiani perse­guitati, spesso unici portatori di una visione au­tenticamente liberale e democratica nei propri Paesi – quella che la Ue ha come ispirazione fon­damentale. La difesa della libertà di religione, magari con lo strumento ventilato della modu­lazione degli aiuti economici, affermerebbe an­che una capacità politica dell’Unione, la cui in­significanza sullo scacchiere internazionale sem­bra acuirsi quando le crisi si fanno roventi, come sta accadendo in queste settimane con le rivolte sulla sponda africana del Mediterraneo.

Chi è nel mirino dei fondamentalisti forse non s’attendeva da Bruxelles niente di più. Noi che dell’Europa vorremmo essere orgogliosi cittadi­ni, sì, ci eravamo illusi che si cominciasse a pren­dere sul serio una tragedia che dovrebbe allerta­re tutte le coscienze e mobilitare l’opinione pub­blica dei Paesi democratici. Grazie all’impegno di Roma e Parigi, aspettiamo ora, con esile fiducia, i tempi supplementari.


Se il lavavetri usa il cellulare di Andrea Tornielli, 01-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it/

L’altro giorno ero fermo, in auto, a un incrocio affollato di Milano e ho visto questa scena: uno dei lavavetri, quelli pronti a scattare per pulirti il parabrezza che tu lo voglia o no, si era concesso una pausa e stava appoggiato al semaforo parlando tranquillamente al cellulare. Dapprima non ci ho fatto caso.

Cosa c’è di più normale della gente che parla al telefono per strada? Per non dire degli auricolari bluetooth, che hanno riempito le nostre città di persone che sembrano parlare da sole e magari gesticolano platealmente come matti… Poi, riflettendoci un istante, c’era in quella scena qualcosa di stridente. Il lavavetri all’angolo della strada appartiene – o dovrebbe appartenere – alla categoria dei “poveri”, di chi non ha un lavoro dignitoso, di chi non sa se porterà la pagnotta a casa la sera.

Ecco che cosa c’era di stridente: non mi aspettavo che il lavavetri potesse permettersi il telefono cellulare. D’accordo, oggi esistono telefoni che costano nulla, e piani tariffari economici. Ciò non toglie che se puoi permetterti il cellulare, significa che non stai lavorando per sopravvivere. La scena mi ha fatto tornare in mente quanto sia importante, nel rispondere al comandamento evangelico della carità e della condivisione con chi è nel bisogno, conoscere coloro che si intende aiutare. Quanto sia importante sostenere persone o associazioni (ricordiamoci sempre la straordinaria presenza sul territorio costituita dalle parrocchie) che aiutano i poveri e intervengono con cognizione di causa nelle purtroppo crescenti situazioni di disagio.

Non posso dimenticare la frase pronunciata da Giovanni Paolo I – il quale da bambino, al tempo della Grande Guerra, aveva conosciuto povertà e fame – nel corso dell’udienza generale del 27 settembre 1978. «Tutti ricordiamo – disse Luciani – le grandi parole del papa Paolo VI: “I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La Chiesa trasale davanti a questo grido di angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello” (Populorum progressio, 3). A questo punto alla carità si aggiunge la giustizia, perché – dice ancora Paolo VI – “la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario”. Di conseguenza “ogni estenuante corsa agli armamenti diviene uno scandalo intollerabile”. Alla luce di queste forti espressioni si vede quanto – individui e popoli – siamo ancora distanti dall’amare gli altri “come noi stessi”, che è comando di Gesù».

Oggi, molto più che trent’anni fa, quei “popoli della fame” sono tra di noi. E ci interpellano. La grande virtù cristiana del realismo ci impone di cercare di aiutare chi ha davvero bisogno e non il racket di chi sfrutta i poveri. Con ciò, ovviamente, non intendo dire che dobbiamo sempre prima conoscere chi aiutiamo e certamente non possiamo pretendere la dichiarazione dei redditi di chi ci sta tendendo la mano. Ma il problema esiste.


Dostoevskij: se Dio non esiste tutto è permesso di Francesco Agnoli - 01/02/2011 - Religione - http://www.libertaepersona.org

Pensiamoci bene. Che senso ha la vita morale degli individui, se non esiste un criterio superiore di giustizia? Chi è autore della legge? Esiste una legge vera, giusta, che valga per tutti perché superiore, precedente all’uomo, oppure ogni uomo ha il diritto di credere ciò che vuole, di farsi la sua verità morale, la sua etica? L’uomo è un animale in-cosciente, le cui azioni sono sempre “buone”, come quelle degli animali, perché volute dalla natura, regolate dall’istinto, oppure è un essere cosciente (quale differenza!) capace di scegliere, padrone della sua vita, che può essere libero dall’imperiosità brutale dell’istinto e dei sensi?

A ben vedere proprio l’esistenza di una vita morale ha convinto grandi uomini della storia che la natura dell’uomo è non solo animale ma anche spirituale, e li ha portati a porsi la domanda su Dio.

Ne citerò solo due: il grande romanziere Fedor Dostoevskij e uno scienziato moderno, uno dei più importanti genetisti di questo secolo, Francis Collins.

Dostoevskij è il massimo rappresentante del realismo russo, nell’epoca in cui altri letterati, come l’ “ateo-diversamente credente” Emile Zola, ritengono che l’uomo possa col tempo diventare “onnipotente” grazie alle sue conoscenze scientifiche, e possa essere studiato esattamente come un “ciottolo della strada” (il riduzionismo di cui si è detto), non essendo, in fondo, nulla di più.

Dostoevskij “esplora le strade della città, i vicoli più solitari e ignorati, descrivendo le bettole più sordide, gli antri più sinistri, le stamberghe più malsane… il ventre infetto e brulicante di Pietroburgo, sede del vizio e della degradazione umana”, alcolizzati e prostitute, contadini trasformati in operai, costretti ad una vita infame, e poi in rivoluzionari violenti e nichilisti: ma c'è, nell'autore russo, una distanza enorme dal positivismo e dal determinismo di Emile Zola (che dà importanza assoluta all'ambiente, alle condizioni materiali e sociali); c'è una indagine continua sulla spiritualità del singolo uomo, dotato di libero arbitrio, chiamato a scegliere (e qui c'è il dramma esistenziale) tra il bene e il male, la Fede e l'ateismo…

Dio, il male, la colpa (cioè la morale) sono proprio la tematica fondamentale del nostro autore, ignorata dai naturalisti francesi, che fa di lui un romanziere profondamente dotato di senso religioso e, insieme, un "romanziere psicologico", precursore degli esistenzialisti: "i personaggi di Dostoevskij sono anime, spiriti. Anche nei suoi peccatori più immondi e sensuali (i mostri), il loro io carnale consiste non tanto nel corpo e nei loro nervi, quanto nell'essenza spirituale del loro corpo" (D. Mirskij).

Siamo dunque agli antipodi della cultura positivista dell'epoca, come pure di quella odierna: mentre Dostoevskij racconta e approfondisce gli abissi umani, medici positivisti come Emilio Littre affermano che "il delitto è pazzia"; criminologi come Cesare Lombroso analizzano e catalogano i "crani deficienti", ritenendo così di poter chiudere la personalità, la libertà, l'originalità di ogni singolo uomo nelle sue caratteristiche fisionomiche; credendo - anche qui la parola non è a caso - che l’uomo sia definito ed esaurito da ciò che si vede e si tocca, dall’ampiezza del cranio, dalla lunghezza degli arti, dalle malformazioni, dalla volumetria e dai bernoccoli della testa.

Esattamente come faranno i primi teorici del razzismo; o Charles Darwin, quando riterrà che il cranio della donna, di dimensioni più ridotte rispetto a quello del maschio, sia un segno della sua inferiorità ; o i nazionalsocialisti, quando gireranno il mondo, sino in Tibet, per fare calchi di gesso sul volto degli indigeni, per risalire, tramite misurazioni e fisionomia, all’originaria razza superiore.

Un po’ come oggi, allorché sempre più spesso si cerca di far passare una tendenza sessuale, una devianza, o una virtù, come una pura questione genetica.

Al punto che la rivista "Science" suggeriva tempo fa che vi siano dei geni, non ancora scoperti, associati all'altruismo, alla generosità: geni che sarebbero serviti, semplicemente, a mantenere in vita un determinato gruppo di uomini, rendendolo più forte nella "lotta per l'esistenza" .

Per comprendere la visione del mondo di Dostoevskij occorre ripercorrerne, brevemente, la vita: Fedor frequenta ambienti sovversivi, atei, propugnatori di una rivoluzione in Russia, per abbattere lo zar e creare una nuova società. Nel 1849, però, molti di loro, tra cui il nostro, vengono arrestati dalla polizia zarista. Dostoevskij viene condannato a morte, poi lo zar commuta la pena in quattro anni di deportazione in Siberia.

L'unica lettura, in questo lunghissimo periodo, sarà quella di un Vangelo, regalatogli da una donna mentre viene portato a scontare la pena. In seguito a questa esperienza il nostro muterà fortemente prospettiva, divenendo critico verso le proprie idee del passato e mostrando un profondo rispetto per la chiesa ortodossa e l'autorità costituita e un certo disprezzo per gli intellettuali russi che leggono gli illuministi europei disprezzando profondamente la propria terra e la propria patria. Intanto il suo matrimonio fallisce, viaggia per l'Europa, ricadendo di continuo nella passione per il gioco e per le donne, scrivendo articoli di giornale e romanzi a ritmo continuo, anche per far fronte alle spese ed ai creditori (spesso scrive i romanzi di notte, imbottito di caffè e di tabacco per rimanere sveglio).

 La sua vita disordinata si conclude nel 1881. Tra i grandi romanzi spiccano "Delitto e castigo" (1866), "I demoni" (1871) e "I fratelli Karamazov" (1880).

Nel primo di questi compare la tematica, che poi affascinerà Nietzsche, della ricerca della libertà come affermazione dell'io al di là di ogni morale, di ogni coscienza, "al di là del bene e del male". Il protagonista, un ex studente squattrinato, Raskòl'nikov, uccidendo a colpi di accetta una vecchia usuraia, vuole, oltre che ottenere dei soldi, chiarire a sé stesso se è un "Napoleone" o un "pidocchio", se appartiene alla categoria della massa, degli "uomini comuni", per i quali la legge morale è sacra, o agli "uomini non comuni", destinati a grandi imprese, per i quali non valgono le leggi ordinarie.

Per questo può dire: "Non ho ucciso una persona, io; ho ucciso un principio!"

Questo principio è l'affermazione di una superiorità delle leggi morali, di una superiorità di Dio che quelle leggi oggettive impone: ai personaggi di Dostoevskij che vogliono affermare la loro illimitata libertà è chiaro il concetto che per fare ciò debbono sbarazzarsi di Dio, affermare la propria divinità, per divenire "uomo-dio" (se si scarta Dio è l'uomo ad essere assolutizzato).

Ma Raskòl'nikov fallisce: compiuto il delitto non riesce neppure a rubare, i nervi gli cedono, è preso dal delirio e dal panico, non ha neppure la lucidità di occultare subito eventuali indizi. Diviene conscio di non essere un secondo Napoleone, e in lui rimane il vuoto, un forte senso di indegnità. Se infatti tutta la nostra possibilità di affermarci passa per questo mondo, chi non ottiene prestigio, potere, onore, come Napoleone, per che cosa è vissuto? Che scopo ha raggiunto?

Ma Raskòl'nikov viene cambiato dall'incontro con Sonja, una ragazza buona, dolce, intensamente cristiana, che si prostituisce per salvare i genitori dalla mendicità. Lei ascolta le sue miserie e gli dice: "Alzati!…dì a tutti, ad alta voce: "io ho ucciso", allora Dio ti manderà nuovamente la vita", allora la sofferenza, portata con fede, trasformerà l'esistenza: "E' necessario accettare il dolore e riscattarsi con esso….Ora io porterò la croce di Lizaveta (che era stata uccisa da Raskòl'nikov insieme alla vecchia usuraia, ndr.) e questa qui la do a te….".

Alla fine Raskòl'nikov si reca dal giudice, a confessargli il delitto: viene condannato ai lavori forzati, in Siberia, per otto anni. Sonja lo segue. Ma Raskòl'nikov non è ancora pentito: "Oh come sarebbe stato felice se avesse potuto sentirsi colpevole! Avrebbe allora sopportato tutto, anche la vergogna, anche il disonore. Ma sottoposta a un esame severissimo la propria coscienza, non aveva scoperto nel suo passato nessuna colpa specialmente orrenda, all'infuori del suo fiasco, cosa che poteva accadere a chiunque…".

Si convince che gli uomini che "non si sono fermati" di fronte al cosiddetto delitto "avevano ragione": "io invece non ho saputo proseguire, e perciò non avevo il diritto di fare il passo che ho fatto".

Col tempo però le cose cambieranno: "una futura redenzione", "una nuova concezione della vita" si affacceranno nell'animo di Raskòl'nikov. Ma Dostoevskij accenna soltanto alla sua rinascita, al suo cambiamento: è un'altra storia, che non racconta.

Gli interessa solo un fatto: la coscienza esiste, si fa sentire, batte i suoi colpi; il Bene e la Verità non sono relativi al capriccio dell’uomo, ma oggettivi. Ciò che è giusto, è giusto, perché Dio esiste: ciò che è sbagliato, malvagio, cattivo, nessun uomo potrà renderlo giusto e buono, perché non è Dio !

Per concludere, in "Delitto e castigo" è presente la dialettica cristiana peccato-sofferenza che redime - misericordia. Il peccato rende impossibile la vita a Raskòl'nikov, lo isola, lo estranea dal resto dell'umanità; la sofferenza, la croce portata con rassegnazione e consapevolezza, è il mezzo per la sua redenzione, come gli dice Sonia nella frase sopra citata; la misericordia è l'amore gratuito di Sonia verso di lui che lo stupisce e lo spinge a cambiare.



Nel romanzo "I demoni", invece, Dostoevskij parte dall'"affare Necaev", un intellettuale anarchico che piacerà molto a Lenin, autore del “Catechismo del rivoluzionario”, processato ai suoi tempi per aver fatto uccidere un membro del suo gruppo e che alla fine si suicida.

Dostoevskij sceglie dunque una vicenda reale per esprimere le sue nuove idee politiche. Nel romanzo, che descrive appunto i terroristi, definiti anche "nichilisti" o "demoni", Necaev diviene Verchovenskij e l’anarchico Bakunin diviene Stavrogin.

Entrambi, essendo atei, vivono nella dimensione del "tutto è permesso": Verchovenskij ha un progetto politico, di "distruzione universale", che non si arresta di fronte a nulla: come Marat all’epoca della rivoluzione francese, invita a "tagliare teste", a "lapidare" pur di costruire una società secondo il proprio disegno. Alla fine Stavrogin, impazzito, si impicca; così anche un altro protagonista, Kirillov: il suo è un suicidio metafisico, una dimostrazione di disprezzo verso la nozione di Dio.

Infatti Kirillov afferma: "Se non c'è Dio, io sono Dio…Possibile che non ci sia nessuno, su tutto il pianeta, che dopo averla fatta finita con Dio ed aver posto fede nel proprio libero arbitrio, non osi proclamare il libero arbitrio nel senso più assoluto?" E Verchovenskij: "Io, sapete, al vostro posto, per dimostrare il mio libero arbitrio, avrei ammazzato qualcun altro, non me stesso. Potreste essere utile. Vi indicherò chi dovreste ammazzare…".

Ma Kirillov, di rimando:" …io voglio l'affermazione più alta e ucciderò me stesso. Sento di dover proclamare l'assenza della fede. Per me non c'è idea più alta di quella che Dio non c'è…Capire che non c'è Dio, e non capire nello stesso momento che sei diventato tu stesso Dio, è una assurdità".

Anche in questo romanzo l’autore ci dà un messaggio esistenziale chiaro: escluso Dio, l’uomo non può che mettersi al suo posto. Chiamato a decidere, a scegliere, non ha altro metro, altro riferimento, che se stesso, la propria idea, la propria soggettività, il proprio egoismo. L’io che non riconosce una origine, una dipendenza, un limite, si fa inevitabilmente Dio, mentre si proclama ateo.



Ma il più grande romanzo di Dostoevskij è forse "I fratelli Karamazov": quest'opera ha, come altre del nostro, il fascino di un grande racconto poliziesco, ricco di suspanse, nato dalla riflessione su un vero parricidio, di cui Dostoevskij, in Siberia, aveva conosciuto l'autore. "La principale questione che sarà agitata in tutte le parti del libro - scrive Dostoevskij - è la stessa della quale ho sofferto coscientemente o incoscientemente per tutta la vita: l'esistenza di Dio".

Giganteggiano due figure, quella di Alioscia Karamazov, con la sua visione cristiana del mondo (il modello di ciò che l’autore russo vorrebbe essere?) e quella, opposta, di suo fratello Ivan, con la sua tormentata ricerca della libertà attraverso la rivoluzione nichilista, con il suo essere malato di occidentalismo, cioè, per Dostoevskij, di ateismo; con la sua incapacità di accettare certe realtà della religione, come la sofferenza, l'umiliazione e la croce. Ivan, con i suoi discorsi e le sue filosofie, è il vero ispiratore dell'uccisione del padre, sebbene non ne sia l’esecutore materiale.

Anche qui un'uccisione "filosofica", perché con i suoi discorsi ha convinto il futuro assassino, il fratellastro Smerdiakov, che tutto è legittimo, perché Dio non esiste. Lo ribadisce il diavolo ad Ivan: "La coscienza! Che cosa è la coscienza? Sono io stesso che me la invento. Perché mai mi tortura? Per un’abitudine. Per un'universale abitudine del genere umano, vecchia di settemila anni. Liberiamocene, e saremo degli dei!".

Si ripete, così, lo stesso concetto di Raskòl'nikov e di Kirìllov: "Se non esiste Dio, tutto è permesso".

Alla fine Ivan, sentendosi colpevole per la morte del padre e per l’ingiusta condanna dell’altro fratello, il violento e passionale Dimitrij, impazzisce; Smerdiakòv, l’omicida materiale, si uccide, e Dimitrij, che tanto aveva odiato il padre sino a volerlo eliminare in cuor suo, verrà condannato, pur essendo innocente. Con la figura di Dimitrij ricompare la dialettica sopra illustrata: "Fratello - dice ad Alioscia - ho sentito nascere in me , dopo il mio arresto, un essere nuovo; un uomo nuovo è risorto. Esisteva in me, ma non si sarebbe mai rivelato senza quel colpo di folgore. Che cosa mi può importare di scavare vent'anni nelle miniere? Non ho paura. Ma un'altra cosa io temo: che quest'uomo risorto se ne vada da me…Anche laggiù, nelle miniere, si può amare, vivere, soffrire. Si può rianimare il cuore intorpidito di un forzato, si può ricondurre dall'ombra alla luce un'anima grande, rigenerata dalla sofferenza, risuscitare un eroe…Non ho ucciso mio padre, ma accetto l'espiazione. Sì, noi forzati saremo uomini sotterranei, privati della libertà, tenuti a catena, ma nel nostro dolore risusciteremo alla gioia, senza la quale l'uomo non può vivere, né Dio esistere, poiché è lui che dona la gioia…Un forzato non può vivere senza Dio, ancor meno di un uomo libero. E allora noi, uomini di sotto terra, dalle viscere della terra faremo salire un tragico inno al Dio della gioia. Viva Dio e la sua divina gioia”. E ancora: "Io voglio soffrire, e la sofferenza mi purificherà…sono innocente della morte di mio padre! Accetto il castigo, non perché io abbia ucciso quel vecchio, ma perché avevo desiderato di ucciderlo".

Delitto, coscienza, libertà, accettazione del castigo, riconoscimento che esiste una legge morale oggettiva, divina: questa, in sintesi, l’antropologia di Dostoevskij. Pochi anni più tardi la Russia sarebbe stata sconvolta dalla rivoluzione comunista e dall’ondata di morte e di persecuzione di Lenin e Stalin. Il primo, inventore dei gulag, avrebbe affermato: “ Per noi non esiste e non può esistere il vecchio sistema di moralità e di umanità…La nostra moralità è nuova…A noi tutto è permesso…Sangue? E sangue sia…” .

Stalin, invece, prefigurato profeticamente, insieme ai suoi seguaci, nei “demoni” senza Dio di Dostoevskij, avrebbe detto: “Ivan il Terribile era estremamente crudele. Ma bisogna far vedere perché doveva essere crudele. Uno degli errori di Ivan il Terribile sta nel fatto che non ha sterminato fino alla fine cinque grandi famiglie feudali…lui ammazzava qualcuno e poi pregava e si pentiva a lungo. Dio era per lui un impaccio in questa opera. Bisognava essere ancor più risoluti” .

Dio, cioè una legge morale superiore e precedente all’uomo, non fu dunque per l’ “uomo d’acciaio”, per l’autore dello sterminio dei kulaki, per il carceriere dei gulag, per l’inventore della “grandi purghe”, un “impaccio” e un freno! Fu, Stalin, un uomo emancipato da Dio, un Raskòl'nikov, un Ivan, un Necaev coerente sino alla fine e senza pentimenti. Non temette la Giustizia di Dio, né ritenne di dover invocare la sua Misericordia, perché aveva deciso di non riconoscere alcuno al di sopra di sé.

da "Perchè non possiamo essere atei", Piemme, 2010


I magistrati non diventino ultrà di Mario Palmaro, 02-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

La giustizia italiana arranca. Lo sa bene chiunque sia entrato in contatto con la complessa macchina delle liti civili, o delle indagini e dei processi penali. Gli antichi rappresentavano la giustizia come una signora elegante che tiene nelle mani una bilancia e una spada. Oggi il simbolo più azzeccato potrebbe essere quello di una lumaca o, a scelta, di una tartaruga.

Se ne ha una conferma aritmetica ogni anno a gennaio, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Ricorrenza che è stata celebrata l’altro giorno, e che ha riassunto le proporzioni della crisi del sistema-giustizia sotto forma di numeri: oltre 5,5 milioni di cause civili pendenti (anche se in diminuzione), 3 milioni le 200.000 cause penali. I tempi di svolgimento dei procedimenti sono estenuanti: nel civile, 845 giorni per la conclusione del primo grado.

Una menzione speciale merita il tema del sovraffollamento delle carceri, con 3 metri quadrati per detenuto contro lo standard minimo che sarebbe di 7 metri. Dunque, un quadro a tinte fosche, nel quale gli stessi magistrati mettono l’accento sulla mancanza di mezzi per svolgere il loro lavoro in tempi ragionevoli. Nessuno nega che la giustizia abbia bisogno di risorse nuove, di modelli organizzativi diversi, e in generale di una ventata di ammodernamento che agevoli il compito di tutti.

Detto questo, però, non possiamo nascondere che, se in Italia la giustizia attraversa una crisi di straordinaria gravità, ciò non dipende solo dalla mancanza di mezzi, dalle strutture arretrate, o dalla povertà endemica delle risorse e delle tecnologie. C’è dell’altro, che attiene - più che alla quantità - alla qualità dell’azione giudiziaria. E parliamo, qui, in modo particolare, dei procedimenti penali. Il problema principale è, manco a dirlo, la figura del giudice. Dato che i magistrati sono esseri umani, nessuno pretende che essi siano immuni dalle debolezze e dai limiti della categoria. Quindi, come fra medici, notai e idraulici, è inutile generalizzare: ci sono professionisti esemplari e ci sono scansafatiche in ogni settore.

Al bando, dunque, ogni facile generalizzazione, che boccia in blocco l’intera categoria, o che alla rovescia, la beatifica con rito – questo sì – immediato. Il punto è un altro. Da un giudice la gente si aspetta un requisito fondamentale: l’imparzialità. E questa qualità – un po’ come le virtù di cui ci parlano il catechismo e la morale naturale – si acquisisce con l’abitudine, cioè esercitando l’habitus di essere super partes. Fatte salve le debolezze umane di cui sopra, la magistratura è stata in passato proprio questo: l’esercizio di una funzione delicatissima, che richiede uno stile di vita lontano anni luce da qualunque forma di schieramento.

Immaginatevi un arbitro di calcio che se ne vada in giro per gli stadi d’Italia con la sciarpa e la bandiera di una squadra, e che poi bazzica il Processo del lunedì per litigare ad alta voce con i tifosi avversari: uno così, chi vorrebbe averlo in campo con la giacchetta nera? Nessuno. A parte quelli della sua squadra del cuore. Se il ragionamento vale per un arbitro, che al massimo nega un rigore o sbaglia l’ammonizione, figurarsi se non deve valere per un uomo che ha il compito di chiedere l’arresto, o il rinvio a giudizio, o la condanna al carcere di un essere umano. Ovviamente, qui nessuno si illude circa la possibilità che l’uomo-magistrato – proprio come l’uomo-arbitro – sia immune da preferenze, da convinzioni profonde, da una fede, da gusti specifici. Solo le macchine si sottraggono a questo fascio di elementi che costruiscono la nostra personalità.

Tuttavia, un conto è avere le proprie convinzioni, e un conto è andare in giro per sale conferenze e studi televisivi, per redazioni di giornali e per parrocchie, a manifestare pubblicamente l’appartenenza a una fazione. O a proclamare chi è il nemico numero uno da abbattere. Ecco: questo a noi sembra il problema più drammatico e più urgente della giustizia in Italia.

Un problema che danneggia il Paese tre volte. Primo, perché toglie credibilità a tutta la categoria dei magistrati, trascinando nella polvere quella parte che invece sta lontano dai riflettori e cerca di agire secondo giustizia. Secondo, perché trasforma la funzione giudiziaria in un superpotere da fumetti americani, assegnando alle toghe il ruolo di Batman o dell’Uomo Ragno che spazzano la città infestata dai peggiori criminali. Terzo, perché trasforma il rapporto fra magistratura e cittadini in tifo da stadio, fondato sul pregiudizio, favorevole o contrario.

E questo è un vero disastro, perché alla fine la gente decide – come direbbe Totò - a prescindere: la curva della magistratura facendo la ola a ogni avviso di garanzia, e la curva degli indagati facendo la ola a ogni assoluzione o a ogni prescrizione del reato. Tutto si trasforma, in definitiva, in un rapporto di forza fra poteri e fazioni. E quando tutto dipende dalla forza, la giustizia, quella con la bilancia e la spada, se ne fugge atterrita dalla finestra.


Prepariamoci a dire ancora «niente oro alla patria» di Massimo Introvigne, 02-02-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it

Silvio Berlusconi è sceso in campo nella politica italiana nel 1994. È giusto trarre un bilancio delle luci e delle ombre del berlusconismo e riflettere sul dopo Berlusconi, e su La Bussola Quotidiana abbiamo cominciato a farlo. Ma nessuno può illudersi - a meno di adottare un vecchio modello alla Benedetto Croce (1886-1952) secondo cui la storia procede per parentesi che si aprono e si richiudono - di tornare semplicemente al 1993. Né questo sarebbe auspicabile.

Un ritorno al passato sembra delinearsi nelle proposte d'imposta patrimoniale che sono venute dall'ex primo ministro Giuliano Amato e dal banchiere cattolico-democratico Pellegrino Capaldo, e sono state adottate dal PD, con il discorso al Lingotto di Torino di Walter Veltroni, da alcuni grandi quotidiani e da esponenti significativi di area centrista. Le proposte oscillano fra i 30mila euro che il terzo di contribuenti italiani più  icchi dovrebbe pagare per «salvare la nave Italia che affonda» a un'imposta sugli immobili o sul loro aumento di valore che non dovrebbe fare eccezioni per nessuno e generare la mostruosa cifra di novecento miliardi di euro: un'imposta che la maggioranza dei proprietari d'immobili non potrebbe materialmente pagare e che dunque sarebbe convertita in una gigantesca ipoteca a favore del fisco sulle case degli italiani, che crescerebbe nel tempo a causa degli interessi composti e del tasso d'inflazione.

Tutto questo, naturalmente, lo abbiamo già visto. A me richiama battaglie che ho combattuto nelle fila di Alleanza Cattolica, la quale negli anni 1980 a fronte d'ipotesi analoghe scese in campo con una serie di manifesti e di slogan in gran parte coniati da Giovanni Cantoni: no alla «persecuzione fiscale», «niente oro alla patria», «meno miliardi e meno potere alla classe politica dell'aborto "legale"». Quegli slogan e quelle campagne, certo non da soli, contribuirono a liberare tanti cattolici dai complessi d'inferiorità nei confronti delle sinistre stataliste, che presentavano le loro proposte di patrimoniale come intese a favorire i «poveri», preparando la strada a una serie di sconfitte elettorali delle sinistre e dei cattolico-democratico favorevoli a queste proposte. Vinse così, ripetutamente, il cavalier Berlusconi, che sulle promesse di non mettere le mani nelle tasche degli italiani e sul rifiuto delle patrimoniali ha costruito le sue fortune politiche.

Con la crisi del berlusconismo, torna la prospettiva della persecuzione fiscale. A meno che, come sembra pensare Giuliano Ferrara, la crisi del berlusconismo nelle sue più spettacolari dimensioni giudiziarie e giornalistiche recenti sia stata in qualche modo organizzata o favorita proprio dal partito della persecuzione fiscale, un «partito della patrimoniale» che intravede la possibilità di un enorme assalto al risparmio delle famiglie italiane per alimentare un rinnovato statalismo e nuovi carrozzoni della spesa pubblica.
A molti di noi sembrerà di tornare agli anni della giovinezza, ma occorre prepararsi a riprendere il tema della persecuzione fiscale e a smontare gli inganni secondo cui i buoni cattolici dovrebbero essere favorevoli alla patrimoniale in nome della solidarietà.
Su quali leggi fiscali siano «giuste» il patrimonio di documenti pontifici noto come dottrina sociale della Chiesa non è avaro d'indicazioni, anzi è molto preciso. Fa riferimento a tre princìpi: solidarietà, moralità e sussidiarietà. Il principio di solidarietà è quello secondo cui tutti devono contribuire al bene comune, specie a vantaggio dei più deboli e dei più poveri, e non è lecito tirarsi indietro per ragioni egoistiche. Qui si situa la tradizionale critica cattolica dell'evasione fiscale, dove tra l'altro la parola «evasione» assume anche un significato analogo a quello che ha in espressioni come «letteratura di evasione» e simili. La Chiesa condanna una mentalità in cui non solo e non tanto si evadono le tasse, ma - nei casi di leggi ingiuste - si finge di poter evadere dalle tasse, rifugiandosi in una immaginaria dimensione «apolitica» dove l'evasione fiscale, come mentalità e come costume, è alternativa rispetto a una più consapevole ed efficace «protesta fiscale».

Più che «evadere» individualmente, di fronte a forme di persecuzione fiscale il cittadino consapevole dovrebbe protestare collettivamente e operare per far cessare la persecuzione attraverso l'impegno politico a favore di chi a tale persecuzione è contrario.
La critica dell'evasione - nei due sensi del termine - si accompagna però alla condanna delle «leggi ingiuste». Qui entrano in gioco gli altri due principi. Per il principio di moralità chi chiede tasse elevate deve dimostrare di spendere il denaro pubblico secondo criteri di oculatezza e altrettanto elevati principi di morale sociale, che non si riducono alla moralità individuale di singoli uomini politici, così che per esempio è ancor meno titolato di altri a chiedere miliardi chi pensa poi di spenderli in parte per finanziare l'aborto o le pillole abortive di Stato. Diversamente, il suo diritto alla solidarietà dei cittadini viene meno e, come insegnava il venerabile Giovanni Paolo II (1920-2005), «il crollo della moralità porta con sé il crollo della società».
Per il principio di sussidiarietà, cui i governi sono - sempre secondo Papa Wojtyla - «gravemente obbligati ad attenersi», lo Stato e gli enti territoriali non devono assorbire attività e risorse che non competono loro e che una corretta valutazione del bene comune indurrebbe a lasciare ai privati. Se lo Stato non rispetta questo principio, nasce lo statalismo che - secondo la classica e ancora valida formula del venerabile Pio XII (1876-1958) - è «l'estensione smisurata dell'attività dello Stato, dettata da ideologie false e malsane, che fa della politica finanziaria, particolarmente della politica fiscale, uno strumento al servizio di preoccupazioni di un ordine diverso».
L'Instrumentum Laboris della seconda Assemblea Speciale per l'Africa del Sinodo dei Vescovi, documento così importante che Benedetto XVI si è recato in Africa nel 2009 con l'esplicito scopo di presentarlo, afferma al numero 25 che c'è un limite oltre il quale le «tasse eccessivamente alte» diventano «illecite». Le ipotesi di patrimoniale che costringono chi possiede una casa a rovinarsi o a ipotecarla, o vanno a prelevare trentamila euro dalle tasche di chi già paga più tasse - che spesso non fa parte dei più ricchi, ma solo dei più onesti -, sembrano proprio configurare queste ipotesi. Soprattutto, ci si chiede di portare acqua non ai pompieri ma agli incendiari. La classe politica che chiede la patrimoniale governa o ha governato proprio quelle regioni e quei comuni, specie al Sud,  dove si sono creati i buchi più spaventosi. L'oro che ci si chiede di dare alla patria finirebbe nella stessa voragine o peggio inciterebbe quella classe politica a nuovi sprechi, così che dopo pochi anni o pochi mesi saremmo da capo nonostante l'immane prelievo. Ancora una volta, dunque, prepariamoci a dire no alla persecuzione fiscale.


I governi Ue abbandonano i cristiani a loro stessi di Riccardo Cascioli, 01-02-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it/

«E’ la dimostrazione della drammaticità della situazione dell’Europa, incapace di affrontare i problemi reali che da fronte e incapace di confrontarsi con la propria identità». E’ questa la reazione di Luca Volontà, relatore della Raccomandazione del Consiglio d’Europa su “La violenza contro i cristiani in Medio Oriente”, al rinvio di una decisione su questo punto presa dal Consiglio dei ministri degli Esteri dell’Unione Europea, nel vertice del 31 gennaio.

Come si ricorderà, era stato proprio il nostro governo, con il ministro Franco Frattini, a chiedere l’inserimento nell’ordine del giorno discusso ieri il punto riguardante la persecuzione dei cristiani in Medio Oriente. L’obiettivo era quello di imporre anche il rispetto della libertà religiosa tra le condizioni per la cooperazione economica e politica. Una richiesta che nasceva dalla risoluzione approvata già a dicembre dal Parlamento Europeo e rafforzata poi dalla Raccomandazione del Consiglio d’Europa approvata il 27 gennaio, che fa una richiesta esplicita alle istituzioni dell’Unione Europea. Ma già domenica era circolata una versione del testo che sarebbe stato adottato dai ministri degli Esteri della Ue che appariva surreale: si parlava genericamente di libertà religiosa ma senza nominare alcuna regione del mondo in particolare e men che meno i cristiani. Insomma, una mozione a difesa dei cristiani, ma senza nominarli e senza riferirsi a situazioni concrete. Un’assurdità che ha spinto il ministro Frattini – insieme a Francia, Polonia e Ungheria – a chiedere il rinvio della discussione piuttosto che uscire con un documento ridicolo.


Ciò non toglie, on. Volontè, che l’atteggiamento dei governi europei sia sconcertante.

E’ un fatto molto grave. Tutti sapevamo che per Frattini sarebbe stato difficile fare assumere una posizione chiara e netta ai ministri degli Esteri della Ue, ma nessuno si aspettava un aggiornamento della discussione. Probabilmente il nostro governo avrà ritenuto più saggio rinviare la discussione piuttosto che approvare un documento assolutamente insignificante. Certo è che la situazione dell’Unione Europea si dimostra ancora una volta drammatica, incapace come è di affrontare i problemi che ha di fronte.


Da cosa nascono le difficoltà della Ue?

Credo ci siano tre elementi. Anzitutto, un problema culturale: vediamo ora quali siano le conseguenze di non aver voluto nella Costituzione il riferimento alle radici cristiane dell’Europa, la mancanza di consapevolezza della propria identità rende incapaci di confrontarsi con i problemi veri. In secondo luogo c’è l’opposizione attiva di alcuni paesi guidati da governi laicisti, Spagna in testa ma anche il Portogallo, che per un pregiudizio ideologico non vogliono prendere la parte dei cristiani. Infine, buona parte la dobbiamo alla inaccettabile avidità di Lady Ashton, il responsabile Ue per la politica estera.


Lei fa riferimento alla questione delle radici cristiane. Ma non c’è bisogno di scriverlo nella Costituzione per intervenire su un fatto così evidente e così grave come la persecuzione dei cristiani in Medio Oriente. In fondo si è presa una posizione anche per Sakineh o per il Dalai Lama che, con tutto il rispetto, sono problemi più circoscritti.

E’ questo il paradosso: per l’Unione Europea è più facile intervenire per Sakineh e il Dalai Lama che non per i cristiani del Medio Oriente. Sono battaglie più comode, perché in fondo sono più lontane e non interrogano l’Europa su quello che è.


Lei ha citato la Spagna e il Portogallo. Ma davvero questi due paesi hanno la forza di bloccare l’intervento della Ue a difesa della libertà religiosa?

Teniamo conto che il meccanismo della Ue prevede che queste decisioni siano prese all’unanimità, per cui basta un paese che faccia seria opposizione per fermare tutto. A questo si deve peraltro aggiungere che i ministri degli Esteri di Spagna e Portogallo facendo così sono andati contro la volontà dei propri parlamenti nazionali che hanno invece chiesto all’unanimità – e sottolineo: all’unanimità – ai propri governi di intervenire contro la cristianofobia. Certo, se poi ci si aggiunge lo scarso interesse di altri paesi e le pressioni al ribasso della Ashton, si capisce come sia possibile arrivare a questo risultato.

La risoluzione dell’Europarlamento e la raccomandazione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa sono stati sicuramente dei successi importanti, ma le vere armi per intervenire a favore dei cristiani – cioè gli accordi economici – sono in mano ai singoli governi. Il fallimento al Consiglio dei ministri degli Esteri fa ritenere che non se ne farà niente.

Questo non è detto, perché la raccomandazione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa impegna effettivamente i governi dei 47 paesi europei a intervenire in questo senso, non è soltanto un’esortazione morale. Ci sono punti precisi di impegno che i governi saranno chiamati a realizzare. E’ vero che per ora, l’invito esplicito alla Ue è stato disatteso, ma questo vuol dire che si dovrà ancora lavorare molto in questo senso.


Che cosa si dovrà fare in concreto?

Bisogna usare tutti gli strumenti a disposizione, anzitutto le iniziative parlamentari. I parlamenti di ogni paese devono proporre e approvare mozioni e risoluzioni che chiedano il rispetto e l’applicazione di quanto previsto dal Consiglio d’Europa, sia in materia di accordi economici sia per quel che riguarda le politiche di asilo. 


Vocazioni, «il primato della vita dello spirito» di Massimo Introvigne, 01-02-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it

Una forte risposta a chi pensa che le vocazioni al sacerdozio nella Chiesa non ci siano più e che occorra ripensare la vita sacerdotale, magari rinunciando al celibato, è venuta da Benedetto XVI con la pubblicazione odierna di un Messaggio alla II Conferenza Continentale Latino-Americana delle Vocazioni, in corso a Cartago, in Costa Rica, formalmente datato 21 gennaio.

Il Papa ricorda che la dimensione vocazionale è costitutiva della Chiesa e occupa un posto privilegiato nel cuore del Pontefice. Si rallegra pure del fatto che in molte zone dell'America Latina i dati sulle vocazioni sacerdotali sono molto migliori che altrove.

Il cuore del Messaggio è il legame che Benedetto XVI stabilisce fra vocazioni e vita spirituale. «Tra i molti aspetti - spiega il Papa - che si potrebbero considerare per promuovere le vocazioni, vorrei segnalare l'importanza della cura della vita spirituale». Contrariamente a quanto molti pensano, «la vocazione non è frutto di alcun progetto umano o abile strategia organizzativa». Certamente i progetti e le strategie non sono inutili, ma «nella sua realtà più profonda la vocazione è un dono di Dio, un'iniziativa misteriosa e ineffabile del Signore che entra nella vita di una persona catturandola con la bellezza del suo amore e suscitando di conseguenza una consegna di se stesso totale e definitiva a questo amore divino».

Ben venga dunque la cosiddetta «programmazione pastorale», ma purché si tenga sempre presente «il primato della vita dello spirito». L'esperienza insegna che dove nelle famiglie si coltiva ancora la vita spirituale, lì non esiste crisi delle vocazioni. Nelle famiglie «è necessario offrire alle giovani generazioni la possibilità di aprire i cuori a una realtà più grande: a Cristo, l'unico che può dare significato e pienezza alle loro vite».

L'ostacolo alle vocazioni, afferma Benedetto XVI, è il diffuso senso di «autosufficienza» che può essere vinto solo attraverso la vita spirituale ordinata, che insegna fin dalla più giovane età a «identificarsi sempre di più con la volontà di Dio».

Come spesso avviene, il Papa vola più alto rispetto a tante spiegazioni meramente sociologiche, e tuttavia tiene conto della sociologia. Questa mostra in effetti che le vocazioni dipendono dalla complessiva tenuta del tessuto sociale e dal «tono» spirituale delle diocesi e degli ordini religiosi. Sono questi, alla fine, gli elementi più importanti per rispondere alla crisi delle vocazioni. Il dato statistico dimostra che il celibato non c'entra. Dove il tessuto sociale è sfasciato e la vita spirituale langue si trovano con grande difficoltà anche i pastori anglicani o luterani, che pure possono sposarsi.


EDITORIALE - Islamismo all'iraniana? Di Luca Doninelli, mercoledì 2 febbraio 2011, ilsussidiario.net

Gli eventi drammatici e per molti aspetti nuovi di cui è protagonista l’Egitto in questi giorni toccano profondamente chi, come me, ama quei luoghi, e quando sente nominare le vie e le piazze dell’odierna battaglia (soprattutto Piazza Tahrir) non può non ricordare volti e immagini che lo legano ad esse.

 Ho vissuto al Cairo per diversi mesi nel 1985. A quel tempo c’era ancora l’Urss pre-gorbaceviana, ma già da quattro anni alla presidenza della repubblica sedeva Hosni Mubarak.

Come tutte le persone mosse da un minimo di buona volontà ma non sufficientemente informate, subii un forte contraccolpo all’impatto con quel paese, un senso di scandalo - per la povertà vera, quella che non avevo mai visto da vicino - che in breve si trasformò in amore. Parlo di amore per quel mondo, che noi abbiamo imparato a guardare con diffidenza (che è reciproca), il mondo islamico.

Questo amore non è mai venuto meno, nemmeno dopo l’11 settembre, nemmeno dopo gli attentati di Madrid e di Londra. Non che non abbia conosciuto i limiti di quel mondo, ma per fortuna c’era chi mi era  compagno e m’insegnava a guardare l’uomo con simpatia e affetto. A questa compagnia devo tutto.

Ho sempre saputo che le stragi non appartenevano alla natura del mondo islamico, anche se - e questo è vero - l’islam non aveva la forza per allontanare da sé quegli orrori, dichiarandoli cosa estranea.

Per molti anni non sono più tornato in Egitto. Quando ho rivisto il Cairo per la prima volta eravamo già nel nuovo millennio: vent’anni mi separavano da quel primo soggiorno. Al comando del paese c’era sempre Mubarak, ma la situazione generale - constatabile fin dall’aspetto esteriore della grande città - era completamente cambiata.

Innanzitutto gli abitanti del Cairo erano raddoppiati. E poi si respirava un’aria di povertà diffusa, che la crisi successiva non avrebbe fatto che accrescere, secondo il ben noto effetto-domino per cui alla fine il peso della crisi ricade sulle spalle delle classi più a rischio. E di classi a rischio in Egitto ce n’erano già tante.

Non sono un sociologo e non m’intendo di indicatori, però sono curioso, tengo gli occhi aperti e annoto quello che mi colpisce. Il metodo non è infallibile ma qualche risultato lo dà. Riassumo perciò le differenze che mi toccarono in questo secondo viaggio, e che in seguito furono confermate.

La prima cosa che notai fu che, nonostante il regime fosse lo stesso di vent’anni prima, le donne andavano in giro velate, mentre nell’85 era abbastanza difficile incontrarne una velata: nessuna, poi, portava il burqha, mentre stavolta se ne vedevano molte. Crescita, dunque, dell’influenza islamica estremista.

La seconda cosa che mi colpì fu, sembra un paradosso, la quantità di bancomat, internet café (o point), telefonini, negozi di catene occidentali, e soprattutto informatica, informatica, informatica: tutti i giovani in giro col loro pc portatile. Crescita, dunque, non solo dell’influenza islamica ma anche di quella occidentale. E non solo di queste, ma anche di internet e della sua libertà sempre pronta ad impazzire.

La terza cosa, come detto, era il tangibile impoverimento della città. Il senso di trasandatezza, di incuria, che già al tempo mi aveva impressionato, adesso dominava su tutto. Per strada si vedevano - a parte i soliti macchinoni lussuosi ultimo modello - gli stessi catorci che erano già tali nel 1985; il numero di mendicanti era salito (come anche da noi); gli edifici del centro sembravano in stato di abbandono, come se nessuno si occupasse della loro manutenzione; strade centrali in cui si aprivano voragini che non venivano riparate, rampe autostradali sterrate come viottoli di campagna...

Intanto leggevo che la popolazione scolastica era ingente, che la percentuale di laureati era alta, e che molti di questi laureati, specie se socialmente inferiori (come i cristiani copti, per esempio: uguali a tutti nei diritti, molto meno uguali nella tutela degli stessi) si trasformavano rapidamente in disoccupati.

Tutto questo produceva in me una sensazione di grande tensione. Percepivo fisicamente, camminando per la città, questa guerra tra poteri - quello americano consumista e quello islamico fondamentalista - tra i quali stava la gente, sopraffatta e abbandonata, come se a nessuno dei potenti interessasse veramente di loro.

Mi domandai quanto sarebbe durata questa situazione. Ed ecco, oggi, la risposta. Una ribellione che è la somma di mille ribellioni, un gigantesco “non ne posso più” che è la somma di milioni di “non ne posso più”.

Leggo che incombe il pericolo dell’islamismo duro, all’iraniana. Sarebbe davvero una beffa, se teniamo conto delle dinamiche che hanno condotto a questa svolta. Prendiamo ad esempio la condizione femminile in un paese in cui la donna studia, guida l’automobile e soprattutto lavora: chi dirà alle donne egiziane  che d’ora in poi dovranno starsene in casa e non lavorare più? Mentre la crisi - che altrove sta finendo - riduce alla fame decine di migliaia di famiglie che non l’avevano mai sofferta prima?

La voce dei poteri forti, quelli che mandano avanti il mondo, mi sembra completamente inadeguata al problema che sta scuotendo in questo momento l’Africa settentrionale, ma che potrebbe scuotere presto anche l’Europa. Da un lato si invoca una religione intesa unicamente come pura normativa (e quindi esercizio di potere), dall’altro si parla e riparla, come ha fatto la Clinton in questi giorni, di democrazia senza la capacità di dare un contenuto a questa parola alla luce dei fatti.

C’è bisogno di persone capaci di ascoltare la voce di questa gente troppo a lungo abbandonata a sé stessa, di questi poveri che per troppo tempo hanno subito un potere disinteressato al loro destino. Solo chi è in grado di leggere nel cuore di questa gente, nel loro urlo disordinato ma vero, saprà anche aiutarli a rendere umanamente utile e vantaggioso l’esercizio della democrazia e veramente amabile quello della fede. Fuori da questo, le derive sono già lì, sulla soglia.
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EGITTO/ Perchè i media parlano della rivoluzione egiziana ma dimenticano Israele? Di Lorenzo Albacete, mercoledì 2 febbraio 2011, il sussidiario.net

Caro direttore,

volevo parlare in questo articolo del discorso sullo Stato dell’Unione del presidente Obama, ma (come mi aspettavo) non è già più al centro dell’attenzione dei media e della maggioranza degli americani (ammesso che lo sia mai stato). La grande notizia di questi giorni è la crisi in Egitto. È difficile stabilire quanto questa crisi sia materia di preoccupazione per il grande pubblico, ma lo è di certo per i media e, si può immaginare, per il governo.

Ciò che mi ha colpito di più durante i primi giorni di questa crisi è stato il quasi completo silenzio dei media sulle sue implicazioni per Israele. Quanto sta avvenendo in Egitto, si è detto, è importante per gli Stati Uniti dato il pericolo che dall’attuale confusione nasca una repubblica islamica di tipo iraniano che possa minacciare la sicurezza nazionale americana, o, altrettanto pericoloso, un governo con simpatie verso le organizzazioni terroristiche. Ma non si è detto niente sui pericoli che la situazione comporta per Israele e per l’impegno americano alla sopravvivenza di questo Paese.
Ora la situazione sta cambiando e le relazioni Usa-Israele vengono considerate come un fattore importante nel determinare la risposta americana alla crisi egiziana.

A quanto pare, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ordinato al governo di non commentare quanto sta avvenendo in Egitto. Sotto la presidenza di Hosni Mubarak, l’Egitto ha concorso a porre pressione su Hamas dai suoi confini con la Striscia di Gaza, ha incoraggiato i colloqui con i palestinesi, ha cercato di contrastare l’Iran e rifornito Israele per il 40 per cento del suo gas naturale.

Secondo il Time, “la posizione di Mubarak nei confronti di Israele è servita a frenare gli altri Stati arabi, per non parlare degli 80 milioni di egiziani le cui opinioni su Israele sono, secondo i sondaggi, tra le più negative nel mondo”.

Elu Shaked, già ambasciatore di Israele in Egitto, afferma che “qualunque sia il governo che può emergere da queste storiche manifestazioni, populista, islamico o di unità nazionale, non vi è dubbio che il nuovo regime cercherà di assestare un aperto colpo alla pace con Israele. Gli unici che in Egitto sono impegnati nella pace con Israele sono nella cerchia attorno a Mubarak”.

Israele ha accolto bene la nomina da parte di Mubarak del capo dell’intelligence, Omar Suleiman, come suo vicepresidente, il primo da quando è al potere, dato che il capo dei servizi segreti, ed ex generale, visita regolarmente Israele per consultarsi con funzionari del ministero della difesa e dei servizi segreti sui molti temi in comune tra i due Paesi. “Egitto e Israele hanno comuni interessi strategici. Sarebbe troppo dire che sono alleati, ma non sono in guerra” dice Shlomo Avineri, docente di Scienze politiche alla Hebrew University di Gerusalemme. “E' il principale Stato arabo e nessun altro Paese andrebbe in guerra senza l’Egitto”.
Gli israeliani temono particolarmente l’ascesa dei Fratelli Musulmani, l’opposizione politica più organizzata in Egitto, che negli ultimi decenni ha assunto posizioni più conservatrici e religiose, come molte altre associazioni arabe.
Secondo il Time, “La stampa israeliana descrive un fine settimana contrassegnato da frenetici incontri ai livelli alti del governo. L’esercito israeliano, che ha concentrato la sua attenzione sui confini con il Libano e Gaza, si dice stia preparando un ridispiegamento delle forze al sud, dove Israele ha già combattuto quattro guerre contro l’Egitto. Nei documenti della diplomazia americana pubblicati lo scorso anno da Wikileaks vi erano lamentele dei diplomatici per il fatto che ambienti militari egiziani continuavano a considerare Israele il principale nemico e si preparavano a una guerra nel Deserto del Sinai, che è tra i due Paesi”.
Nessuno può pretendere di conoscere le implicazioni di questa situazione.

Dopo la firma di un trattato di pace da parte dell’Egitto, la stessa cosa è stata fatta dalla Giordania e poi dall'Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Nel tempo, la Lega Araba è passata dalla chiamata alle armi contro Israele alla formulazione, nel 2002, di un piano basato sull’esistenza di due Stati per chiudere il conflitto israelo-palestinese.

“Sì, siamo estremamente preoccupati per la situazione” dice in privato un generale israeliano. La situazione quindi rimane molto fluida e così pure la reazione dell’Amministrazione Obama.

In questi giorni non ho potuto fare a meno di pensare che l’avvenimento più importante quest’anno al Cairo non aveva avuto nulla a che fare con le rivolte popolari. Ho in mente il “mini (Rimini) Meeting” che vi ha avuto luogo, dove chi veniva da Rimini ha visto in ciò che succedeva al Cairo una chiara dimostrazione della presenza di Cristo e dell’attrattiva di questa Presenza per tutti, qualunque siano la loro cultura e la loro ricerca religiosa. Io non so quando e dove, ma sono sicuro che questa Presenza e la sua attrattiva daranno forma al futuro dell’Egitto più di qualsiasi cosa stia avvenendo in questi giorni.

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PRISMA/ Come mai l’Europa ha abbandonato i cristiani in Medio Oriente? Di Robi Ronza, mercoledì 2 febbraio 2011, ilsussdiario.net

Riuscirà l’Europa a sopravvivere alle pulsioni suicide che ora  la scuotono?  Ecco la prima domanda che dobbiamo farci alla notizia di episodi come quello dell’altro ieri a Bruxelles, dove l’Alto rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera, l’inglese lady Catherine Ashton, sollecitata a elaborare una bozza di dichiarazione comune di condanna delle persecuzioni delle minoranze cristiane nel Medio Oriente ma non solo,  ha presentato ai ministri degli Esteri dell’Ue  una bozza di testo nel quale si perorava genericamente la causa della libertà di religione e di fede nel mondo, ma senza parlare né di cristiani, né di Medio Oriente.

Il ministro italiano Frattini, per iniziativa del quale la questione era stata posta all’ordine del giorno, è allora intervenuto chiedendo che il testo venisse modificato avendo in ciò il sostegno dei colleghi francese e polacco. Altri ministri si sono però opposti alla modifica. A questo punto, dal momento che in tale sede le decisioni si possono prendere solo  all’unanimità, lady Ashton ha ritirato il suo testo promettendo di presentarne un altro in una prossima occasione.

Che l’episodio sia squalificante per l’Unione Europea è di un’evidenza palmare. Per chi poi, come è il mio caso, le comunità cristiane in Medio Oriente non sono numeri ma anche volti, famiglie, chiese e luoghi, al pensiero di persone e di situazioni  personalmente conosciute il disagio è ancora più grande.

È vero che di recente sia il Parlamento Europeo che l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa si erano finalmente espressi al riguardo in modo molto chiaro, ma questa ricaduta all’indietro dell’Ue, che è  comunque un ambito di governo, ha in larga misura oscurato le iniziative dei due organismi parlamentari. Ad extra il disagio è grave, ma ciononostante, come si diceva, è innanzitutto ad intra che come europei dobbiamo preoccuparci. Siccome a prescindere dall’eredità cristiana l’Europa non c’è, pretendere di censurarla equivale a spingere la nostra civiltà verso il suicidio.

La questione dunque non riguarda solo chi fa fede a quanto Cristo disse di sé, ovvero di essere non un profeta e nemmeno un maestro di vita morale bensì il figlio di Dio venuto sulla terra a salvare gli uomini. Riguarda pertanto tutti gli europei, tutti coloro che amano vivere con  la cultura, con i diritti e con le libertà con cui si vive qui da noi, anche quando credono che tutto ciò nasca  dai Lumi e dalla Rivoluzione francese, e non da un cammino molto più lungo e complesso che inizia in Giudea al tempo di Erode.

Materialmente, tecnicamente, militarmente l’Occidente è fin troppo forte. È sul piano etico-culturale che l’Europa in particolare è oggi pericolosamente fragile. Il nichilismo, il relativismo, l’ateismo volgare di massa sono una catastrofica perdita di tempo e di energie che ci si può permettere soltanto quando non si ha nulla da temere da nessuno.

Se mai ci fu un tempo in cui l’Occidente, l’Europa furono in tale condizione oggi è certo che non lo sono più. Da un punto di vista obiettivo il pericolo è peraltro relativamente modesto: il divario di potenza tra noi e  tutto il terrorismo islamista attuale o immaginabile continua a essere enorme: come al loro tempo le Brigate Rosse anche oggi questo terrorismo è come il leone scappato dal circo: è un pericolo mortale per il passante disarmato in cui s’imbatte, ma alla fine matematicamente il leone non si mangia la città; è la città che elimina il leone. 

In Europa oggi il vero problema non è dunque la debolezza materiale bensì la grande ombra scura della debolezza morale e della fragilità culturale di massa che paradossalmente i Lumi al tramonto stanno lasciando dietro di sé.
Con buona pace di Lenin la storia sta dimostrando che il vero oppio dei popoli non  è la religione, ma l’ateismo. E episodi come quello accaduto l’altro ieri a Bruxelles lo confermano.

Che fare? Diremo allora parafrasando Lenin suo malgrado. Ferma restando nell’immediato la necessità della legittima difesa, a lungo termine, come suggerisce MacIntyre, non c’è altro da fare se non rimettersi sulle orme di san Benedetto.

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DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA - Libertà religiosa e libertà di coscienza di Rafael Navarro-Valls*

MADRID, mercoledì, 2 febbraio 2011 (ZENIT.org).- La libertà religiosa è la prima delle libertà, ma la libertà di coscienza è la stella polare che orienta le democrazie. Due facce della stessa medaglia. Basti un esempio. Non molto tempo fa si sono riuniti a Roma il primo leader politico del mondo (Barack H. Obama) e la prima autorità morale della terra (Benedetto XVI). L’incontro è durato circa venti minuti. Di questi, otto sono stati dedicati all’obiezione di coscienza, nel quadro della libertà religiosa.

È sintomatico che, nella scelta di un tema che preoccupi oggi i due nuclei più intensi di potere dell’Umanità, ci sia proprio quello del contrasto tra coscienza e legge, che rende sempre più manifesti gli oscuri drammi che si generano in alcune minoranze a causa di leggi che hanno, direttamente o indirettamente, un profilo etico. Un modo per dire che l’obiezione di coscienza non è una specie di “delirio religioso”, un sottoprodotto giuridico da relegare alle catacombe sociali. Al contrario, è una chiara specificazione del diritto fondamentale alla libertà religiosa e di coscienza.

È proprio questo che si è appena concluso in zone molto diverse dei due continenti. Da un lato, nel quadro dell’obiezione di coscienza all’aborto, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (risoluzione n. 1763, 2010), ha proclamato con forza “l’obbligo di garantire il rispetto del diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, dei fornitori dell’assistenza sanitaria”. Dall'altro, il Perù ha promulgato la sua prima legge sulla libertà religiosa (dicembre 2010), in cui l’articolo 4 è dedicato alla tutela dell’obiezione di coscienza, per chi non ritiene di poter compiere un obbligo giuridico “a causa di un imperativo morale o religioso grave o ineludibile”.

Il motivo di questa sorta di contrattacco dei diritti umani, trae la sua origine da due ordini di motivi. Il primo è la tendenza in alcuni Paesi orientali a contrastare la libertà religiosa. Il secondo è una concezione del potere – soprattutto in Europa – che sta convertendo la legge in un semplice procedimento di governo, per trasmettere consegne ideologiche, scivolando talvolta nella volgarità.

Quando si chiede, a nome del Papa, alla comunità internazionale, che intervenga “in modo forte e chiaro” a tutela della libertà religiosa, si sta mettendo in gioco la prima faccia della medaglia, “attoniti davanti all’intolleranza e alla violenza”. E quando si denuncia l’incontinenza normativa del potere, che cerca di imporre per via legislativa una filosofia belligerante con le coscienze, la stessa moneta è vista dall’altro lato, quella che legittimamente moltiplica le obiezioni di coscienza come reazione.

Tempo fa, in America, si è aperta la caccia alle streghe. Uno degli obiettivi erano gli attori di Hollywood. Questa è stata la loro reazione: “In molti modi è possibile perdere la propria libertà. Ci può essere strappata con un atto tirannico, ma può anche sfuggirci di mano giorno dopo giorno, inavvertitamente, mentre siamo troppo occupati per prestargli attenzione, o troppo perplessi, o troppo spaventati”. Avevano ragione.


Un barlume di luce nell'Egitto in rivolta - È un appello lanciato da 23 personalità musulmane per un islam più autentico e rispettoso dei diritti di tutti. Sulla via della rivoluzione illuminista proposta da Benedetto XVI. L'analisi del gesuita egiziano Samir di Sandro Magister

ROMA, 31 gennaio 2011 – L'Egitto di Mubarak era un caposaldo per la politica occidentale in Medio Oriente. Era un caposaldo anche per il dialogo tra la Chiesa di Roma e l'islam sunnita, con epicentro la moschea e l'università di al-Azhar. L'Egitto era considerato un argine contro l'islamismo radicale e una protezione per i cristiani del luogo, sia pure al prezzo di una loro pesante sottomissione, in un regime di perpetua "dhimmitudine".

Oggi tutto questo rischia di essere travolto da un rivolgimento i cui prevedibili beneficiari saranno i Fratelli Musulmani e le correnti islamiche radicali. La strage di Capodanno alla chiesa copta di Alessandria è il tragico corollario di una "fitna", di una frattura che è interna al mondo musulmano in Egitto e in altri paesi, contro regimi e leader ritenuti apostati, contro una presenza cristiana ritenuta inquinante, da spazzar via.

Anche le accuse di "ingerenza" inopinatamente scagliate all'inizio di quest'anno contro Benedetto XVI dal grande imam di al-Azhar, Ahmed al-Tayyeb, e il successivo suo abbandono del dialogo con la Chiesa di Roma sono parte di questa frattura, esplosa nelle rivolte di questi giorni. L'imam di al-Azhar è legato a filo doppio al regime illiberale di Mubarak, con il quale condivideva la stessa qualifica di "moderato" sul quadrante degli equilibri internazionali. Per tenere a freno la rivolta delle masse musulmane, entrambe le autorità egiziane, quella politica e quella religiosa, hanno sempre represso da un lato le libertà dei cristiani copti e dall'altro, ancor più, il campo d'azione delle correnti islamiche radicali.

Da ultimo, l'aumentato timore di un crollo del regime ha indotto sia Mubarak che al-Azhar a irrigidirsi ancor più. Già prima, infatti, della strage di Alessandria l'imam al-Tayyeb – che pure è uno dei firmatari della famosa "lettera dei 138 saggi musulmani" al papa – aveva aperto le ostilità contro la Chiesa di Roma. Aveva preteso e ottenuto che da un colloquio in programma al Cairo, oggi definitivamente annullato, il Vaticano escludesse un suo delegato chiave, padre Khaled Akasheh, giordano, esperto di islam, membro del pontificio consiglio per il dialogo interreligioso.

Fino all'ultimo, inoltre, sia Mubarak che al-Azhar hanno sistematicamente ridotto al silenzio anche tutte le voci riformiste che in campo musulmano si sono discostate dalle correnti tradizionali. La lista degli "eretici" uccisi, feriti, processati, incarcerati, imbavagliati, esiliati è impressionante. Tra essi c'è anche un Nobel per la letteratura, il grande Naguib Mahfuz.

Non sorprende, quindi, che in questi giorni di rivolta generale alcune di queste voci riformiste siano venute allo scoperto.

Tra gli altri attori collettivi presenti in Egitto, i copti si sono trattenuti dal scendere in piazza (una loro fiammata di protesta era scoppiata solo dopo la strage di Alessandria). Temono che un crollo del regime di Mubarak renda la loro vita ancor più difficile di quanto già sia.

Si sono tenuti a margine anche i Fratelli Musulmani, ma per ragioni opposte. Calcolano che un collasso del regime tornerà comunque a loro vantaggio.

Per i musulmani riformisti, invece, si è aperto un varco. E hanno fatto sentire la loro voce.

*

Il 24 gennaio, sul sito on line della rivista egiziana "Yawm al-Sâbi" (Il Settimo Giorno), è apparso un testo intitolato "Documento per il rinnovamento del discorso religioso". Prima di sera il testo era già presente su più di 12 mila altri siti arabi.

A segnalarlo al di fuori del mondo arabo e ad evidenziarne l'importanza è stato un gesuita e islamologo, Samir Khalil Samir, egiziano di nascita, molto stimato da Benedetto XVI. Egli ha tradotto e commentato le parti essenziali del documento in due servizi pubblicati sull'agenzia on line "Asia News" del Pontificio Istituto per le Missioni Estere.

Il testo originale, in arabo, del documento è in questa pagina web di "Yawm al-Sâbi":

> "Documento per il rinnovamento del discorso religioso"

Lì si spiega che il documento è stato scritto seguendo le indicazioni di 23 pensatori musulmani egiziani, indicati nome per nome.

Per padre Samir sono tutti studiosi e credenti rinomati. Tra essi ci sono Nasr Farid Wasel, ex gran mufti dell’Egitto; Gamal al-Banna, fratello del fondatore dei Fratelli Musulman; l’imam Safwat Hegazi; i professori Malakah Zirâr e Âminah Noseir; il celebre scrittore islamista Fahmi Huweidi; i predicatori della missione islamica Khalid al-Gindi, Muhammad Hedâyah, Mustafa Husni. Tre di questi sono ritratti in testa al documento, nella foto riprodotta in questa pagina.

Il documento è in 22 punti telegrafici, che delineano un programma di riforma dell'islam: da una sua pratica superficiale ed esteriore a una più autentica ed essenziale.

Eccolo, sulla base di una traduzione "a caldo" dall'arabo fatta da padre Samir:

*

DOCUMENTO PER IL RINNOVAMENTO DEL DISCORSO RELIGIOSO

Il Cairo, 24 gennaio 2011


1. Riesaminare le raccolte delle Hadith [le frasi attribuite dalla tradizione a Maometto] e i commentari del Corano, per purificarli.

2. Sottoporre a verifica il vocabolario politico-religioso islamico, come ad esempio la gizah [l’imposta speciale richiesta ai dhimmi, le minoranze non musulmane sottoposte a limitazioni].

3. Trovare una nuova pratica del concetto di mescolanza fra i sessi.

4. Mettere a punto la visione islamica riguardo alla donna e trovare forme convenienti per il diritto matrimoniale.

5. L’islam è una religione della creatività.

6. Spiegare il concetto islamico di jihâd [la guerra santa interiore ed esteriore], e precisare norme ed obblighi che la regolano.

7. Bloccare le invasioni di religiosità esteriore e le pratiche estranee che ci giungono dagli stati vicini.

8. Separare la religione dallo stato.

9. Purificare il patrimonio dei primi secoli dell’islam (salafismo), eliminando i miti e le aggressioni contro la religione.

10. Dare una preparazione adeguata ai predicatori missionari e in questo campo aprire le porte a coloro che non hanno studiato all’università di Al Azhar, secondo criteri ben chiari.

11. Formulare le virtù comuni alle tre religioni rivelate.

12. Dare orientamenti riguardo agli usi occidentali ed eliminare i comportamenti sbagliati.

13. Precisare la relazione che deve esistere fra membri delle religioni attraverso la scuola, la moschea e la chiesa.

14. Redigere in maniera adatta all’occidente la presentazione della biografia del Profeta.

15. Non allontanare le persone dai sistemi economici con l’interdizione di trattare con le banche.

16. Riconoscere il diritto delle donne di accedere alla presidenza della repubblica.

17. Combattere le pretese settarie, [sottolineando] che la bandiera dell’islam [deve essere] unica.

18. Invitare la gente ad andare a Dio mediante la gratitudine e la saggezza, e non con le minacce.

19. Far evolvere l’insegnamento di al-Azhar.

20. Riconoscere il diritto dei cristiani di accedere a cariche importanti e [anche] alla presidenza della repubblica.

21. Separare il discorso religioso dal potere e ristabilire il suo legame con i bisogni della società.

22. Migliorare il legame fra la da’wah [l’appello alla conversione all’islam] e la tecnologia moderna, le catene satellitari e il mercato delle cassette islamiche.

*

A questi 22 punti fanno seguito altrettanti paragrafi di commento. Che a giudizio di padre Samir fanno intravedere una vera e propria rivoluzione rispetto ai modi tradizionalisti e puritani di vivere l'islam immessi ultimamente in Egitto soprattutto dall'Arabia Saudita.

Nella sua analisi su "Asia News", padre Samir trova importante il punto 8, con la proposta di separare la religione dalla politica. Nel commento allegato – egli fa notare – compare la parola "almaniyyah", laicità. Una parola che nei paesi arabi viene comunemente intesa come ateismo e quindi pregiudizialmente condannata. Tant'è vero che al sinodo sul Medio Oriente tenuto a Roma lo scorso ottobre i vescovi evitarono di usarla.

Qui, invece, gli autori del documento scrivono che la laicità non va considerata come nemica della religione, ma piuttosto come una salvaguardia contro l'uso politico o commerciale della religione. "In questo contesto – scrivono – la laicità è in armonia con l'islam e perciò è giuridicamente accettabile". Non però se si tramuta in un controllo delle attività islamiche da parte dello stato.

Commenta padre Samir:

"Questo punto, sebbene molto controverso, mostra il fatto che in Egitto sta nascendo il concetto di società civile, non immediatamente coincidente con la comunità islamica".

Notevole è anche il punto 6 circa la guerra santa. Gli autori del documento la ammettono solo se difensiva e solo in terra musulmana. Mai uccidendo gente disarmata, donne, vecchi, bambini, preti, monaci. Mai colpendo luoghi di preghiera. Sottolineano che questa è dottrina dell'islam da 1400 anni e chi la viola lo tradisce gravemente.

*

Il segnale dato da questo documento è piccolo. Ma non va trascurato. Quando questi temi sono stati trattati in colloqui tra esponenti della Chiesa cattolica e dell'islam – come fin qui è avvenuto più volte – mai è accaduto che essi trovassero un rilancio e una diffusione nell'opinione pubblica musulmana.

La stessa "lettera dei 138" è tuttora un oggetto sconosciuto per la quasi totalità dei musulmani nel mondo.

Invece, questo documento del Cairo è nato in ambiente musulmano e ha avuto una diffusione immediata in un circuito d'opinione più largo. Sui vari siti sta raccogliendo numerosissimi commenti, nella gran parte contrari ed ostili, ma pur sempre prova di un interesse a discuterne.

Se si guarda a ciò che Benedetto XVI disse – lo stesso anno della lezione di Ratisbona e del viaggio in Turchia – a proposito del futuro dell'islam, questo documento del Cairo segna un piccolo passo proprio nella direzione auspicata dal papa.

Disse Benedetto XVI alla curia romana, il 22 dicembre 2006:

"Il mondo musulmano si trova oggi con grande urgenza davanti a un compito molto simile a quello che ai cristiani fu imposto a partire dai tempi dell'illuminismo e che il Concilio Vaticano II, come frutto di una lunga ricerca faticosa, ha portato a soluzioni concrete per la Chiesa cattolica. [...]

"Da una parte, ci si deve contrapporre a una dittatura della ragione positivista che esclude Dio dalla vita della comunità e dagli ordinamenti pubblici, privando così l'uomo di suoi specifici criteri di misura.

"D'altra parte, è necessario accogliere le vere conquiste dell'illuminismo, i diritti dell'uomo e specialmente la libertà della fede e del suo esercizio, riconoscendo in essi elementi essenziali anche per l'autenticità della religione. Come nella comunità cristiana c'è stata una lunga ricerca circa la giusta posizione della fede di fronte a quelle convinzioni – una ricerca che certamente non sarà mai conclusa definitivamente – così anche il mondo islamico con la propria tradizione sta davanti al grande compito di trovare a questo riguardo le soluzioni adatte".


Avvenire.it, 2 febbraio 2011, VERSO LA GMG, La fede nella lingua dei giovani, 2 febbraio 2011

Trecento pagine, strutturate in quattro sezioni. Con una premessa scritta da Benedetto XVI. S’intitola Youcat il sussidio al Catechismo della Chiesa cattolica per i giovani, nato in seno alla Conferenza episcopale austriaca in vista della Giornata mondiale della gioventù di Madrid 2011. Frutto del lavoro di un’équipe di teologi, esperti di catechesi e di un nutrito gruppo di giovani, Youcat si è avvalso della supervisione internazionale dell’arcivescovo di Vienna, il cardinale Christoph Schönborn. Verrà pubblicato almeno in sette lingue diverse. L’edizione italiana, che uscirà per i tipi di Città Nuova, ha la supervisione del patriarca di Venezia, il cardinale Angelo Scola. I titoli delle quattro sezioni: «Che cosa crediamo»; «La celebrazione del mistero cristiano»; «La vita in Cristo»; «La preghiera nella vita cristiana». Il testo, strutturato in domande e risposte, è impreziosito da immagini e corredato da elementi complementari – come le citazioni della Scrittura, o di santi e dottori della fede. Il testo integrale della prefazione del Papa viene pubblicato in anteprima esclusiva sul numero di febbraio del Messaggero di Sant’Antonio.

Pubblichiamo, per gentile concessione del «Messaggero di Sant’Antonio», ampi stralci della prefazione del Papa a «Youcat», sussidio al «Catechismo della Chiesa cattolica» (Cec) per i giovani preparato in vista della Gmg 2011 di Madrid. Il testo integrale appare sul «Messaggero» di febbraio.

Cari giovani amici! Oggi vi consiglio la lettura di un libro straordinario. Esso è straordinario per il suo contenuto ma anche per il modo in cui si è formato (...) Youcat ha tratto la sua origine, per così dire, da un’altra opera che risale agli anni ’80. Era un periodo difficile per la Chiesa così come per la società mondiale, durante il quale si prospettò la necessità di nuovi orientamenti per trovare una strada verso il futuro. Dopo il Concilio Vaticano II (1962-1965) e nella mutata temperie culturale, molte persone non sapevano più correttamente che cosa i cristiani dovessero propriamente credere, che cosa insegnasse la Chiesa, se essa potesse insegnare qualcosa tout court, e come tutto questo potesse adattarsi al nuovo clima culturale.

Il cristianesimo in quanto tale non è superato? Si può ancora oggi ragionevolmente essere credenti? Queste sono le domande che ancora oggi molti cristiani si pongono. Papa Giovanni Paolo II si risolse allora per una decisione audace: decise che i vescovi di tutto il mondo scrivessero un libro con cui rispondere a queste domande. Egli mi affidò il compito di coordinare il lavoro dei vescovi e di vegliare affinché dai contributi dei vescovi nascesse un libro (...) Questo libro doveva portare il titolo tradizionale di Catechismo della Chiesa cattolica, e tuttavia essere qualcosa di assolutamente stimolante e nuovo; doveva mostrare che cosa crede oggi la Chiesa cattolica e in che modo si può credere in maniera ragionevole. Rimasi spaventato da questo compito, e devo confessare che dubitai che qualcosa di simile potesse riuscire.

Come poteva avvenire che autori che sono sparsi in tutto il mondo potessero produrre un libro leggibile? Come potevano uomini che vivono in continenti diversi, e non solo dal punto di vista geografico, ma anche intellettuale e culturale, produrre un testo dotato di un’unità interna e comprensibile in tutti i continenti? (...) Devo confessare che anche oggi mi sembra un miracolo il fatto che questo progetto alla fine sia riuscito. (...)

Come prima cosa si dovette definire la struttura del libro: doveva essere semplice (...). È la stessa struttura di questo libro; essa è tratta semplicemente da un’esperienza catechetica lunga di secoli: che cosa crediamo/in che modo celebriamo i misteri cristiani/ in che modo abbiamo la vita in Cristo/ in che modo dobbiamo pregare. (...) In un’opera di questo genere molti sono i punti discutibili: tutto ciò che gli uomini fanno è insufficiente e può essere migliorato, e ciononostante si tratta di un grande libro, un segno di unità nella diversità. A partire da molte voci si è potuto formare un coro poiché avevamo il comune spartito della fede, che la Chiesa ci ha tramandato dagli apostoli attraverso i secoli fino ad oggi.

Perché tutto questo? Già allora, al tempo della stesura del Ccc, dovemmo constatare non solo che i continenti e le culture dei loro popoli sono differenti, ma anche che all’interno delle singole società esistono diversi «continenti» (...). Per questo motivo, nel linguaggio e nel pensiero, dovemmo porci al di sopra di tutte queste differenze, e per così dire cercare uno spazio comune tra i differenti universi mentali; con ciò divenimmo sempre più consapevoli di come il testo richiedesse delle «traduzioni » nei differenti mondi, per poter raggiungere le persone con le loro differenti mentalità e differenti problematiche.

Da allora, nelle Giornate mondiali della gioventù (Roma, Toronto, Colonia, Sydney) si sono incontrati da tutto il mondo giovani che vogliono credere, che sono alla ricerca di Dio, che amano Cristo e desiderano strade comuni. In questo contesto ci chiedemmo se non dovessimo cercare di tradurre il Catechismo della Chiesa cattolica nella lingua dei giovani e far penetrare le sue parole nel loro mondo. Naturalmente anche fra i giovani di oggi ci sono molte differenze; così, sotto la provata guida dell’arcivescovo di Vienna, Christoph Schönborn, si è formato un Youcat per i giovani. Spero che molti giovani si lascino affascinare da questo libro. Alcune persone mi dicono che il catechismo non interessa la gioventù odierna; ma io non credo a questa affermazione e sono sicuro di avere ragione. Essa non è così superficiale come la si accusa di essere; i giovani vogliono sapere in cosa consiste davvero la vita. Un romanzo criminale è avvincente perché ci coinvolge nella sorte di altre persone, ma che potrebbe essere anche la nostra; questo libro è avvincente perché ci parla del nostro stesso destino e perciò riguarda da vicino ognuno di noi.

Per questo vi invito: studiate il catechismo! Questo è il mio augurio di cuore. Questo sussidio al catechismo non vi adula; non offre facili soluzioni; esige una nuova vita da parte vostra; vi presenta il messaggio del Vangelo come la «perla preziosa» (Mt 13,45) per la quale bisogna dare ogni cosa. Per questo vi chiedo: studiate il catechismo con passione e perseveranza! Sacrificate il vostro tempo per esso! Studiatelo nel silenzio della vostra camera, leggetelo in due, se siete amici, formate gruppi e reti di studio, scambiatevi idee su Internet. Rimanete ad ogni modo in dialogo sulla vostra fede!

Dovete conoscere quello che credete; dovete conoscere la vostra fede con la stessa precisione con cui uno specialista di informatica conosce il sistema operativo di un computer; dovete conoscerla come un musicista conosce il suo pezzo; sì, dovete essere ben più profondamente radicati nella fede della generazione dei vostri genitori, per poter resistere con forza e decisione alle sfide e alle tentazioni di questo tempo. Avete bisogno dell’aiuto divino, se la vostra fede non vuole inaridirsi come una goccia di rugiada al sole, se non volete soccombere alle tentazioni del consumismo, se non volete che il vostro amore anneghi nella pornografia, se non volete tradire i deboli e le vittime di soprusi e violenza. (...)
Benedetto XVII


Avvenire.it, 2 febbraio 2011, Rifugio ai prigionieri del Sinai - Fate qualcosa di umano di Paolo Lambruschi

Da ormai 70 giorni si è squarciato il velo che copriva, nel Sinai, un traffico di esseri umani del valore qualche milione di dollari che finisce (e non è un caso) anche per portare risorse all’estremismo e al terrorismo islamico. Merito – come spesso accade quando si tratta di denunce simili – di un prete, il sacerdote eritreo Mosè Zerai, e di alcune associazioni umanitarie. La fiaccolata silenziosa tenutasi ieri a Roma sulle scale del Campidoglio e organizzata dalla società civile ci ricorda l’odissea infinita di migliaia di profughi originari del Corno d’Africa, in fuga da persecuzioni e guerre, rapiti da clan di beduini Rashaida e ancora ostaggi nel deserto.

Non è cambiato nulla per loro, anzi. Le manifestazioni in corso al Cairo hanno contribuito a spingere ancor più nell’ombra questo dramma. Noi abbiamo seguito da vicino le vicende di un gruppo di 80 eritrei provenienti dalla Libia, Paese dove erano rimasti intrappolati dopo essere stati respinti in mare dall’Italia. Avevano pagato 2.000 dollari ai trafficanti per attraversare l’Egitto, raggiungere Israele – l’unico Oriente che nell’area fa rima con Occidente (che significa democrazia, e dovrebbe sempre significare anche diritti umani e tutela dei più deboli) – e da lì, poi, arrivare in Europa.

Sono stati invece ingannati e inghiottiti dalle sabbie del deserto in una nuova e crudele rotta degli schiavi. Per essere liberati sono stati pretesi da ognuno di loro altri 8 mila dollari, sono stati sottoposti a umiliazioni e torture per "sollecitare" il pagamento del riscatto. E il peggio è toccato a donne e bambini. Chi non aveva i mezzi ha dovuto vendere un rene per comperarsi la libertà oppure rischia in queste ore di essere venduto o ammazzato come una bestia perché è diventato ingombrante. Diversi prigionieri hanno perso la vita in questi mesi in un’autentica mattanza, per aver osato ribellarsi alle catene o perché serviva dare un feroce esempio.

Questa storia fin dall’inizio ha messo in imbarazzo le cancellerie europee, i governi egiziano e israeliano e la stessa Autorità palestinese per diversi motivi. Primo, perché dimostra che la chiusura indiscriminata dei confini europei anche a chi ha diritto di chiedere asilo fa a pugni con il diritto internazionale e con la nostra tradizione giuridica e umanitaria. Poi rivela che Israele è gelida e ostile con i rifugiati anche se reduci da torture e arriva a respingerli in Egitto. Paese, questo, che oltre a non avere piena sovranità su una parte del proprio territorio, il Sinai, non rispetta la convenzione sui diritti umani perché imprigiona e spara sui profughi o li respinge, a sua volta in Paesi che perseguitano i dissidenti. E, infine, perché mette in luce la debolezza dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, che si è fatto sentire – e ci mancherebbe – ma non ha certo alzato la voce e chiesto conto a Mubarak di inerzie colpevoli e drammi impuniti...

Il Parlamento europeo a metà dicembre aveva solennemente chiesto al governo del Cairo di intervenire. La risposta è stata dapprima il rifiuto di ammettere anche solo l’esistenza del gravissimo problema. Quindi, tra dicembre e gennaio l’impegno a cambiare atteggiamento. Ma le forze dell’ordine egiziane, un po’ perché male equipaggiate e molto per connivenza, si sono limitate a non aprire più il fuoco sulle colonne di profughi appena liberati e diretti verso il confine.

Resiste così questa rete maligna. E si nutre di complicità internazionali, che consentono a spietati mercanti di uomini di catturare gli ostaggi già in Sudan e in Libia. Eppure si conoscono anche i luoghi di detenzione e i nomi dei capi dei clan di rapitori. Sembra, insomma, che non ci sia niente da fare: i drammi degli ultimi della Terra che rischiano di morire nella ricerca di scampo, non interessano a nessuno, né all’Europa né ai governi dei Paesi di origine. E ora bisogna aspettare la fine della tempesta che sconvolge l’Egitto per capire che cosa accadrà, per vedere se qualcun oserà prendere a cuore la sorte di questi disperati.

Ma la Ue che ha chiuso le porte ai profughi eritrei può dire e fare già ora qualcosa di giusto e di umano: accetti, Italia in testa, di offrire rifugio almeno a chi è scampato ai lager del Sinai.


Perché alla politica serve un’anima di Paul Valadier, Avvenire, 2 febbraio 2011

Pascal ci ha insegnato a distin­guere gli «ordini», cioè a non mescolarli per non incorrere nelle peggiori confusioni e nel mancato rispetto della complessità della realtà. Accingendoci a intra­prendere una riflessione sullo spiri­tuale in politica, non siamo forse in contraddizione rispetto a quel mo­nito? E al di là di Pascal, non corria­mo il rischio agendo così di forzare delle distinzioni così ben giustifica­te dalla storia da far sembrare inco­sciente ogni tentativo di ignorarle?

Attraverso un’esperienza diffusa e dolorosa, abbiamo compreso ab­bastanza bene che, quando la mi­stica sconfina nella politica, per ci­tare Péguy, tanto snaturiamo la mi­stica quanto falsifichiamo la politi­ca. Infatti, se la mistica (per ora di­ciamo «lo spirituale») si compro­mette con la politica, non se ne ot­tiene nulla di buono: degradata e distolta dai propri fini, ne risulta pervertita dall’inter­no.

D’al­tronde ac­cade lo stesso an­che per la politica: ap­pena que­st’ultima a­vanza pre­tese di di­gnità misti­ca, assume l’aspetto ripugnante delle tirannie o dei totalitarismi. Così, sacraliz­zandosi, essa diventa una caricatu­ra di sé stessa, pervenendo a ciò che è stata chiamata «religione se­colare » (Eric Voegelin).

Questi insegnamenti e queste am­monizioni sono incontestabilmen­te giustificati. D’altronde, la laicità alla francese ha creato in noi dei ri­flessi che ci inducono a respingere quasi istintivamente simili mesco­lanze impure. Tutto questo è bello e buono. Tuttavia tali avvertimenti non dovrebbero impedirci di chie­dere a noi stessi se vi sia un rove­scio della medaglia. Ora, questi lati nascosti, le distinzioni rigide e le distanze fissate in maniera netta sono numerose e noi facciamo giorno dopo giorno esperienza de­gli inconvenienti che il politically correct ci vieta di vedere chiara­mente. Una politica senz’anima, relegata nell’immediatezza o nella difesa degli interessi a breve termi­ne, non vale più di uno spirituale impersonale, senza carne e senza presa sulla vita sociale e politica.

Un’opposizione troppo rigida an­nienta sia il politico sia lo spiritua­le.

La filosofa americana di origine te­desca Hannah Arendt ha posto alla base dei propri lavori una preziosa (e tradizionale) distinzione tra ciò che chiama la vita contemplativa e la vita activa. La Arendt ha sempre deplorato la svalutazione tipica­mente moderna della vita contem­plativa, connessa all’estrema valo­rizzazione della vita activa.

D’altronde la filosofa mostra che questo disequilibrio non serve nep­pure a restituire alla vita activa tut­ta la sua vitalità e la sua pertinenza.

Perché, in definitiva, si potrebbe credere che, liberata dal controllo o dal peso della vita contemplativa,

essa abbia finalmente trovato la propria autonomia – come amano ripetere certi pappagalli della mo­dernità –, che si sia emancipata e abbia trovato la propria consisten­za. Al contrario, sostiene la Arendt, una tale rottura del rapporto con­duce alla decomposizione della vi­ta activa e alla sua perdita di senso. Una delle sue opere maggiori, Vita activa. La condizione umana, di­mostra con un rigore implacabile che la vita activa, senza riferimenti alla vita contemplativa, si autodi­strugge, ottenendo così il risultato che l’azione, in particolare l’azione politica, viene misconosciuta nella sua fragilità, e pertanto confusa con la fabbricazione di oggetti, e che l’uomo stesso, bloccato dalla necessità biologica di vivere e di la­vorare, s’identifica con un animal laborans, dunque con una bestia li­mitata alla produzione di beni di prima necessità e alla riproduzione di sé. Una tale lettura della «condi­zione moderna», come recita il tito­lo della traduzione francese del li­bro, ha qualche cosa di unilaterale, che la Arendt eredita probabilmen­te dal proprio maestro Heidegger, ma non si può in alcun modo trala­sciare la sua diagnosi inquietante.

Senza apertura sulla vita contem­plativa, la vita activa si indebolisce ineluttabilmente ed è ben lontana dal trovare un suo regime proprio e «autonomo».

La nostra società si affanna alla ri­cerca di beni di vario genere o dei molteplici saperi sempre più spe­cializzati; essa rischia però di per­dervi la propria anima, cioè di non sapere più esattamen­te la ragio­ne per cui sopravvive, quale senso attribuire alla vita in comune e all’esisten­za persona­le. A meno che non ci si vanti di godere senza freni e di pensare sen­za un orizzonte metafisico ... dun­que, probabilmente, di non pensa­re affatto! Ne sono testimoni un buon numero di romanzieri o di re­gisti cinematografici e teatrali che si fanno una reputazione di rime­stare nel sordido e nel sulfureo, in mancanza di una reale potenza creatrice che presupporrebbe una qualche ispirazione o un certo di­namismo intellettuale e spirituale.

Gli applausi e le lusinghe di cui li si circonda autorizzano a non insiste­re troppo sul sintomo così visibile della malattia che affligge coloro che chiamiamo «opinionisti» e qualche altro benpensante.

Una politica senz’anima non vale più di uno spirituale disincarnato, anche se molti pensano di liberare la politica riconducendola ai fatti concreti e all’ordinaria ammini­­strazione, e altrettanti si credono tanto più spirituali quanto meno tengono i piedi per terra. Ma l’illu­minismo, oggi così invadente nelle Chiese, non è certamente un segno di santità e di autenticità spirituale, non più di una politica terra terra che non offre ai cittadini le oppor­tunità di uno Stato vivo e creativo.

Citiamo ancora Péguy: «La politica si beffa della mistica, ma è ancora la mistica a innervare la politica».


La presentazione di Gesù al tempio di Don Renzo Lavatori, da http://www.pontifex.roma.it

In questo evento in cui Maria e Giuseppe presentano il piccolo Gesù al tempio per offrirlo al Padre secondo la legge mosaica, si rivela lo stretto rapporto che lega Maria al proprio Figlio. Un legame tra Madre e Figlio che li accompagna costantemente fino alla morte in croce di Cristo, quando Ella attuerà pienamente la sua offerta materna nell’oblazione del Figlio al Padre per la salvezza degli uomini. Da qui possiamo capire che Maria in riferimento a Gesù è madre amorevolissima. Il titolo mariano che descrive il rapporto di Maria con Cristo è  THEOTOKOS, DEI GENETRIX, ossia MADRE DI DIO. Questo forma il titolo più eccelso, il più nobile ed ineffabile riferito a Maria, perché rivela il mistero profondo di questa donna: la sua maternità divina, dove risiedono la sua grandezza, la sua potenza e la sua unicità. Più particolarmente si può precisare che Maria è legata a suo Figlio da due ragioni: una a livello carnale e l’altra a livello spirituale. A livello ...

... carnale, la carne umana di Gesù è perfettamente simile a quella di Maria, come ogni figlio porta in sé l’immagine della madre. L’aspetto fisico di Gesù era del tutto conforme a quello di Maria, anche perché Gesù non aveva un padre fisico. Si può dire così che Gesù è icona di Maria, nel senso che dal volto di Gesù possiamo conoscere il volto di Maria, come nel vangelo quella donna in mezzo alla folla grida: “Beato il ventre che ti ha portato e beato il petto che hai succhiato”.

D’altra parte è vero che Maria è totalmente simile a Gesù, perché la sua carne corrisponde alla carne di Gesù, in forza della sua maternità che ha dato al Verbo la carne umana. Perciò Maria, in quanto Madre, diventa perfettamente configurata a Cristo suo figlio più di ogni altra creatura umana. Vedendo Maria si può contemplare in Lei Gesù stesso. A livello spirituale, Maria è unita a Gesù da un profondo rapporto di grande fede: Ella è colei che ha creduto alla Parola di Dio accogliendola non solo nel suo corpo, ma prima ancora nel suo cuore.

Per questa ragione la maternità spirituale di Maria acquista un valore preminente, come proclama Gesù quando dice: “Chi è mia madre? Chi sono i miei fratelli? Coloro che ascoltano la Parola di Dio, questi sono per me madre, fratello e sorella”. Gesù vuole significare che Maria è legata a Lui soprattutto perché ha accettato nella fede il Verbo di Dio più di ogni altro credente. Ella cioè ha creduto alla Parola di Dio senza mettere alcun dubbio o incertezza, come Ella stessa dichiara: “Avvenga di me secondo la sua Parola”.

In questo senso Maria è chiamata Madre nella fede o della fede, secondo l’enciclica Redemptoris Mater  di Giovanni Paolo II. Questo sguardo di fede su Gesù accompagna Maria in tutta la sua vita, dal concepimento e dalla nascita del Bambino a Betlemme alla sua presentazione al tempio e in ultimo fino sotto la croce, quando muore il Figlio suo. Maria è vissuta in un continuo atto di fede e di amore verso Cristo, affinché fosse attuato il disegno redentore del Padre con la potenza dello Spirito Santo.

In tal modo Maria non ha posto nessun ostacolo alla salvezza, anzi si è resa strumento docile e si è fatta collaboratrice dell’opera salvifica di suo Figlio. Per questa ragione Maria è accanto a Cristo come colei che lo sostiene e lo accoglie nella fede, ne condivide lo Spirito e lo segue fino al dono di sé al Padre sotto la croce e poi nella gloria celeste con l’Assunzione al cielo in anima e corpo. L’uno, il Figlio, e l’altra, la Madre, sono uniti totalmente e per sempre sulla terra e nella vita eterna. La festa odierna costituisce una meravigliosa rivelazione di questa unione tra Maria e Gesù.