Nella rassegna stampa di oggi:
1) LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 27.02.2011 - Alle ore 12 di oggi il Santo Padre Benedetto XVI si affaccia alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare l’Angelus con i fedeli ed i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro. Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana
2) A sorpresa Obama apre al "matrimonio" gay di Marco Respinti, 24-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
3) LA POLITICA NON PUÒ ACCETTARE IL RELATIVISMO RELIGIOSO di mons. Giampaolo Crepaldi*
4) INDIA / Scuola cristiana in fiamme nello Srinagar, si sospetta dei fondamentalisti islamici – Redazione - giovedì 24 febbraio 2011 – il sussidiario.net
5) IL GIORNALE/ Allam: Libia, l’Italia rischia di essere invasa dagli integralisti – Redazione - giovedì 24 febbraio 2011 – il sussidiario.net
6) LIBIA/ Mario Mauro: ecco cosa deve fare l'Europa per sopravvivere a Gheddafi di Mario Mauro, venerdì 25 febbraio 2011, il sussidiario.net
7) IL CASO/ Il bimbo down e quegli studenti che "bocciano" i prof del politically correct di Monica Mondo, venerdì 25 febbraio 2011, il sussidiario.net
8) 25/02/2011 - CINA - Dissidente cinese arrestata: lottava contro la legge sul “figlio unico” - Mao Hengfeng è stata riportata in un campo di lavoro, tre giorni dopo essere stata liberata per ragioni mediche. Si batteva contro la legge cinese che impone un solo figlio a coppia. Si ignora dove sia stata condotta.
9) Uno studio di Harvard sulla lotta all'Aids - Il Papa ha ragione di EMANUELE RIZZARDI (©L'Osservatore Romano - 26 febbraio 2011)
10) Radio Vaticana - Scienza ed Etica, notizia del 25/02/2011 - Mons. Carrasco De Paula: mondo sempre più aggressivo contro la vita umana
11) Un Afghanistan nel Mediterraneo - Due scenari della rivolta nei paesi arabi. Quello dell'Egitto, con un'inedita alleanza tra cristiani e musulmani. E quello della Libia, dove il collasso dello stato spiana la strada all'islamismo radicale. L'analisi di Khaled Fouad Allam di Sandro Magister
12) 25 febbraio 2011 - Avvenire.it, DIFESA DELLA VITA, Pillola del giorno dopo: dal Cnb sì a obiezione di coscienza dei farmacisti
13) Islam, una "terza via" né laicista né fondamentalista di Massimo Introvigne, 26-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
14) Quella mano leggera che sfiorò Edith Stein di Andrea Monda, 26-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
15) IL NICHILISMO, L'“OSPITE INQUIETANTE” CHE SI AGGIRA PER L'EUROPA - Per il Card. Bagnasco, alla radice della crisi educativa vi è la “sfiducia nella vita”
16) PER GIOVANNI PAOLO II IL PRIMO COMPITO DI UN PAPA È PREGARE - Parla il postulatore della causa di beatificazione di Karol Woityla di Chiara Santomiero
17) Avvenire.it, 26 febbraio 2011 - ALLA PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA - Il Papa: l'aborto è sempre un'esperienza distruttiva
18) Avvenire.it, 26 febbraio 2011, LA DIFESA DELLA VITA - Farmacisti: obiezione possibile alla pillola del giorno dopo
19) Avvenire.it, 26 febbraio 2011, L'OSPITE - Una retta interpretazione del Ddl sulla fine della vita - Con le Dat non si impone nulla - Ma certe scelte non sono delegabili
20) IL DRAMMA DELL’ABORTO NELLE PAROLE DEL PAPA - Nella coscienza morale il vero cuore dell’umano di ROBERTO COLOMBO, Avvenire, 27 febbraio 2011
21) Domenica 27 febbraio 2011 - Il Papa ha capito che nelle "banche della vita" c'è un bel po' di egoismo. Dubbi anche dalla comunità scientifica di Carlo Bellieni © Copyright L'Occidentale, 27 febbraio 2011
LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 27.02.2011 - Alle ore 12 di oggi il Santo Padre Benedetto XVI si affaccia alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare l’Angelus con i fedeli ed i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro. Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:
PRIMA DELL’ANGELUS
Cari fratelli e sorelle!
Nella Liturgia odierna riecheggia una delle parole più toccanti della Sacra Scrittura. Lo Spirito Santo ce l’ha donata mediante la penna del cosiddetto "secondo Isaia", il quale, per consolare Gerusalemme abbattuta dalle sventure, così si esprime: "Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai" (Is 49,15).
Questo invito alla fiducia nell’indefettibile amore di Dio viene accostato alla pagina, altrettanto suggestiva, del Vangelo di Matteo, in cui Gesù esorta i suoi discepoli a confidare nella provvidenza del Padre celeste, il quale nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo, e conosce ogni nostra necessità (cfr 6,24-34). Così si esprime il Maestro: "Non preoccupatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno".
Di fronte alla situazione di tante persone, vicine e lontane, che vivono in miseria, questo discorso di Gesù potrebbe apparire poco realistico, se non evasivo. In realtà, il Signore vuole far capire con chiarezza che non si può servire a due padroni: Dio e la ricchezza. Chi crede in Dio, Padre pieno d’amore per i suoi figli, mette al primo posto la ricerca del suo Regno, della sua volontà. E ciò è proprio il contrario del fatalismo o di un ingenuo irenismo. La fede nella Provvidenza, infatti, non dispensa dalla faticosa lotta per una vita dignitosa, ma libera dall’affanno per le cose e dalla paura del domani.
E’ chiaro che questo insegnamento di Gesù, pur rimanendo sempre vero e valido per tutti, viene praticato in modi diversi a seconda delle diverse vocazioni: un frate francescano potrà seguirlo in maniera più radicale, mentre un padre di famiglia dovrà tener conto dei propri doveri verso la moglie e i figli. In ogni caso, però, il cristiano si distingue per l’assoluta fiducia nel Padre celeste, come è stato per Gesù. E’ proprio la relazione con Dio Padre che dà senso a tutta la vita di Cristo, alle sue parole, ai suoi gesti di salvezza, fino alla sua passione, morte e risurrezione. Gesù ci ha dimostrato che cosa significa vivere con i piedi ben piantati per terra, attenti alle concrete situazioni del prossimo, e al tempo stesso tenendo sempre il cuore in Cielo, immerso nella misericordia di Dio.
Cari amici, alla luce della Parola di Dio di questa domenica, vi invito ad invocare la Vergine Maria con il titolo di Madre della divina Provvidenza. A lei affidiamo la nostra vita, il cammino della Chiesa, le vicende della storia. In particolare, invochiamo la sua intercessione perché tutti impariamo a vivere secondo uno stile più semplice e sobrio, nella quotidiana operosità e nel rispetto del creato, che Dio ha affidato alla nostra custodia.
DOPO L’ANGELUS
Alors que la solitude est une épreuve pour de nombreuses personnes, la liturgie nous rappelle aujourd’hui, chers pèlerins francophones, que Dieu ne nous oublie pas et que nous avons du prix à ses yeux. Puissions-nous acquérir un regard capable de discerner sa présence au cœur de notre vie ! Car rechercher le Royaume de Dieu nous libère de la peur du lendemain et nous ouvre à la confiance et à l’espérance qui ne déçoit point. Je vous invite à être pour ceux qui vous entourent les témoins de l’amour de Dieu, plus tendre que celui d’une mère pour son enfant, et à prier pour que la justice et le dialogue l’emportent sur le profit et la violence. A tous, je souhaite un bon dimanche !
I welcome all the English-speaking pilgrims and visitors gathered for this Angelus prayer. In today’s Gospel Jesus invites us to trust in the provident care of our heavenly Father and to seek first his Kingdom and its righteousness. May his words inspire us to see all things in their true perspective and to live our lives in joyful faith and sure hope in God’s promises. Upon you and your families I invoke the Lord’s abundant blessings!
Gerne grüße ich die Pilger und Gäste aus den Ländern deutscher Sprache. Zur Grundhaltung des christlichen Lebens gehört das Vertrauen in Gottes Güte und Vorsehung. Bei aller notwendigen Sorge um die Dinge des täglichen Lebens darf das Eigentliche, das Wesentliche nicht aus dem Blick geraten, nämlich Gott selbst. „Euch muß es zuerst um das Reich Gottes und seine Gerechtigkeit gehen, dann wird euch alles andere dazugegeben" (vgl. Mt 6,33), mahnt uns der Herr im heutigen Evangelium. So wollen wir uns auch im Alltag ganz der Gegenwart Gottes öffnen. Er hilft uns, unsere Aufgaben zu meistern, und macht uns bereit, den Mitmenschen in Not beizustehen. Euch allen wünsche ich einen gesegneten Sonntag und eine gute Woche.
Saludo con afecto a los peregrinos de lengua española presentes en esta oración mariana, en particular al grupo de peregrinos de las parroquias de Santa Eulalia y de Santa Cruz, de la diócesis de Ibiza, acompañados de su Obispo, así como a los fieles provenientes de la parroquia de San Miguel Arcángel de Villanueva, de Córdoba. La liturgia de este día nos exhorta a confiar en la providencia divina; recordándonos que somos amados por Dios y asistidos por su auxilio. Os invito a corresponder a dicho amor, a imitación de la Virgen María, cuya existencia terrena se mostró siempre bajo el signo de la gratuidad y de la alabanza, para que así experimentéis la paz verdadera y la alegría auténtica. Feliz domingo.
Serdeczne pozdrowienie kieruję do Polaków. Liturgia dzisiejszej niedzieli wzywa nas, abyśmy ufali Bożej Opatrzności i zawierzyli Jej wszystkie nasze troski, kłopoty i niepokoje o przyszłość. „Starajcie się naprzód o królestwo Boga i o Jego sprawiedliwość, a wszystko będzie wam dodane" – mówi Chrystus (Mt 6, 33). Niech nie gaśnie w nas ta ufność i niech budzi gotowość do pomocy tym, którzy ją tracą na skutek trudnych doświadczeń życiowych. Niech Bóg wam błogosławi.
[Rivolgo un cordiale saluto ai polacchi. La liturgia della domenica odierna ci invita ad avere fiducia nella Divina Provvidenza e ad affidarLe tutte le nostre angosce, difficoltà e preoccupazioni per il futuro: "Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta". Non si spenga in noi questa fiducia e susciti in noi la prontezza ad aiutare coloro che la perdono a causa delle difficili esperienze di vita. Dio vi benedica!]
Srdečne pozdravujem slovenských pútnikov, osobitne z Cirkevného gymnázia Štefana Mišíka zo Spišskej Novej Vsi. Bratia a sestry, milí mladí, prajem vám, aby púť do Ríma posilnila vaše puto s Kristom a s jeho Cirkvou. Všetkých vás žehnám. Pochválený buď Ježiš Kristus!
[Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini slovacchi, particolarmente a quelli del Ginnasio Cattolico Štefan Mišík di Spišská Nová Ves. Fratelli e sorelle, cari giovani, vi auguro che il pellegrinaggio a Roma approfondisca il vostro legame con Cristo e con la sua Chiesa. A tutti la mia benedizione. Sia lodato Gesù Cristo!]
Infine, saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare la rappresentanza venuta in occasione della "Giornata per le malattie rare", con una preghiera speciale e un augurio per la ricerca in questo campo. Saluto i fedeli provenienti da Moncalvo e Ivrea, da Giussano, Cologno al Serio, Modena, Rimini e Cervia, Incisa Valdarno, Foligno e Spello, dalla diocesi di Concordia-Pordenone e dalla parrocchia romana di Santa Francesca Cabrini; i Salesiani Cooperatori di Latina, l’associazione culturale "L’Ottimista", il gruppo "Arcobaleno" di Modena, i ragazzi di Lodi e gli alunni della scuola "Don Carlo Costamagna" di Busto Arsizio. A tutti auguro una buona domenica.
© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana
A sorpresa Obama apre al "matrimonio" gay di Marco Respinti, 24-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha cambiato idea. O forse no. La sua Amministrazione - dice - non sosterrà più nei tribunali federali il “Defense of Marriage Act” (“Doma”), cioè la legge federale che riconosce unicamente i matrimoni monogamici eterosessuali approvata il 21 settembre 1996 durante la presidenza di Bill Clinton dal 104° Congresso federale a maggioranza Repubblicana (quello “famoso” dove la Camera era presieduta da Newt Gingrich, allora protestante battista, poi convertito cattolico). Lo ha annunciato ieri il ministro statunitense della Giustizia Eric H. Holder jr., riferendo che Obama definisce ora «incostituzionale» il “Doma”.
Tutto però, a rigor di termini, resta una opinione “personale” espressa dalla Casa Bianca in considerazione del fatto, ha aggiunto Holder, che i tempi sono cambiati. Però contemporaneamente il presidente ha affermato che continuerà a opporsi al cosiddetto “matrimonio” omosessuale. E comunque il portavoce del presidente, James “Jay” Carney, ha glossato riportando che Obama sta ancora «lottando con la questione».
Confusione. O ennesima presa di posizione altalenante, nel tentativo di non scontentare apertamente nessuno, concedendo un poco qui e un poco là. La potente lobby omosessuale all’opera nel Paese però gioisce e la sua punta di diamante, la National Gay and Lesbian Task Force - attiva a Washington dal 1973 -, considera la decisione una vittoria netta, ancorché ai punti e non per ko. Del resto, nessuno si aspettava una uscita della Casa Bianca tanto netta e repentina.
Oltre che inattesa, peraltro, la decisione di Obama - che certo prelude a una seria disputa giuridica e a un conseguente scontro duro politico - rischia di essere altamente impopolare. Va infatti ricordato che sul punto i cittadini statunitensi si sono direttamente e ripetutamente espressi con una chiarezza inequivocabile.
Il 2 novembre 2004, in concomitanza con le elezioni presidenziali, Arkansas, Georgia, Kentucky, Michigan, Mississippi, Montana, North Dakota, Oklahoma, Ohio, Utah e Oregon hanno celebrato referendum con cui i cittadini hanno chiesto l’inserimento nelle proprie Costituzioni di emendamenti che proibiscano i “matrimoni” fra persone omosessuali sempre con numeri enormi e talora con risultati “bulgari”: Georgia e Kentucky con maggioranze di 3 a 1, e Mississippi di 6 a 1. Lo stesso avevano fatto, precedentemente, il Missouri il 4 agosto e la Louisiana il 18 settembre con una maggioranza di circa il 78%.
Il 7 novembre 2006, in concomitanza delle elezioni di “medio termine”, Colorado, Idaho, South Carolina, Tennessee, South Dakota, Virginia e Wisconsin fecero lo stesso (il South Carolina con il 78% dei suffragi e il Tennessee con l’81%); e in Arizona, dove i “sì” persero, i “no” vinsero con appena il 51% dei consensi in quello che è comunque stato solo un appuntamento rimandato.
Infatti, il 4 novembre 2008, in concomitanza delle elezioni presidenziali, l’Arizona è tornata al voto referendario sul medesimo tema e così hanno fatto anche Florida e California. In tutti e tre i casi ha vinto il “sì”: persino in California, dove la lobby omosessuale è davvero potentissima, e dove già poter immaginare di riuscire a indire una consultazione a tutela del matrimonio naturale monogamico eterosessuale venne alla vigilia considerata una vittoria enorme.
In tutti i casi citati, poi, i “sì” sono stati trasversali ai partiti e hanno sempre premiato la morale naturale anche in luoghi dove contemporaneamente venivano invece premiati candidati politici al Congresso o alla presidenza federali assai possibilisti in temi di “princìpi non negoziabili”.
Il saldo finale è insomma questo: le unioni omosessuali sono vietate da emendamenti alla Costituzione di 30 Stati su 50 e in 42 il matrimonio è giuridicamente definito l’unione fra un uomo e una donna. Il cambio di opinione di Obama dovrà fare i conti questi fatti.
LA POLITICA NON PUÒ ACCETTARE IL RELATIVISMO RELIGIOSO di mons. Giampaolo Crepaldi*
ROMA, giovedì, 24 febbraio 2011 (ZENIT.org).- La politica, non può accettare il relativismo religioso, che consiste nel dare udienza pubblica a tutte le religioni e a tutte le prescrizioni di tutte le religioni. Prescrizioni religiose che comportassero amputazioni corporee, sacrifici umani, prostituzione sacra, segregazione obbligata di persone, diminuzioni della libertà personale, integralismo religioso fanatico, identità integralista tra legge religiosa e legge civile, violazione della dignità della donna, atti terroristici, poligamia o altre cose simili non dovrebbero essere accettate dalla politica.
Quando la politica accetta il relativismo religioso, ossia pensa che tutte le religioni siano uguali e quindi, in fondo, siano come un’unica religione, è perché essa ha già accettato il relativismo filosofico, ossia è dell’idea che non sia possibile conoscere nessuna verità, ed anche il relativismo morale, ossia che non si può conoscere il bene e il male. Se per esempio ammetto la prescrizione di una religione secondo cui un uomo può avere molte mogli e non viceversa, vuol dire che non penso di poter conoscere con la mia ragione l’uguaglianza tra l’uomo e la donna. Per questo motivo il relativismo religioso è negativo per l’intera società, infatti è alimentato dal relativismo filosofico ed etico e a sua volta li alimenta, in un circolo distruttivo di ogni certezza.
È per questo che talvolta le migrazioni producono relativismo nelle società accoglienti, in quanto inducono a ritenere che ogni religione sia uguale e con essa ogni sistema di principi e valori morali. Questo avviene, però, se la ragione politica ha perso la fiducia nella sua capacità di vedere, in termini razionali, il vero e il bene. A sua volta, però, il relativismo religioso indebolisce ulteriormente questa fiducia della ragione in se stessa ed aumenterà la tolleranza di atteggiamenti religiosi contrari alla legge morale naturale.
Sempre più spesso nelle società occidentali la politica è chiamata a misurarsi con problemi di questo genere. I testimoni di Geova non vogliono le trasfusioni di sangue e piuttosto si lascerebbero morire; i musulmani vogliono poter sposare più di una donna; certe culture africane vogliono attuare mutilazioni genitali sulle donne; alcune comunità vogliono che il volto delle donne sia completamente coperto, secondo molte usanze e leggi le donne non possono testimoniare in tribunale e così via. La politica è sempre più chiamata a decidere in questi ed altri casi simili. Come si comporterà? Tollererà ogni tipo di comportamento giustificato da motivazioni religiose? Adeguerà le legislazioni vigenti alle nuove esigenze? Creerà sistemi legislativi paralleli? Ci sono molti segni di cedimento della politica davanti a questi problemi, che provocano a loro volta controreazioni di intolleranza. La politica, e quindi anche il cattolico in politica, non potrà ammettere pratiche e atteggiamenti lesivi della dignità della persona, dell’integrità del corpo, della pari dignità tra uomo e donna. In questi casi non si tratta di rispetto della libertà di religione, si tratta di difesa della dignità umana e della giustizia. Il diritto alla libertà di religione ha valore nel contesto del dovere di cercare la verità, e quando esso contrasta con la verità dell’uomo non può essere assunto a diritto riconosciuto pubblicamente. Non è da escludersi che la politica possa anche governare i lussi migratori in base alla religione, per favorire, a parità di condizioni di necessità, migranti di una religione piuttosto che di un’altra (ma su questo tornerò nel capitolo sulle migrazioni).
In questo contesto di problemi, il politico cattolico deve tenere presente dentro di sé un altro importante aspetto. Cosa dà la sua religione, il cattolicesimo appunto, alla ragione politica? Contribuisce più o meno di altre religioni a svilupparla nella sua autonomia? Questo è importante, altrimenti nel cuore stesso del politico cattolico si affievolisce l’idea dell’importanza della sua fede religiosa, per sé e per gli altri, e così egli sarà facilmente disponibile a rinunciarvi sia sul piano personale che pubblico. Egli dovrebbe continuamente formarsi ed essere formato alla grandezza della sua religione proprio per illuminare la ragione politica, sicché potrà dire che la stessa ragione politica ha bisogno del cristianesimo. Si vedrà così come il cristianesimo sia in grado di illuminare meglio la ragione politica e di conferirle la sua legittima autonomia. Esso è in grado di illuminare meglio il concetto di persona, che in Occidente è nato grazie al cristianesimo; è in grado di spiegare meglio la relazionalità umana a partire dal dogma della Trinità; è in grado di fondare meglio la fratellanza umana e così via.
La ragione politica è spesso debole davanti al relativismo religioso perché ha perso fiducia in se stessa. Ma ci si può anche chiedere: quale religione riesce meglio a fortificarla, ad aiutarla a superare questa sfiducia in se stessa? Si sa che la ragione non è in grado di sostenere pienamente se stessa e spesso va incontro a crisi di sfiducia nelle proprie capacità. Quale religione se non il cristianesimo è capace di sorreggerla e di guidarla? È importante che il politico cattolico riletta su questi aspetti, perché altrimenti cederà al relativismo religioso e politico. Facendolo, egli scoprirà l’importanza del cristianesimo per la ragione politica e quindi per la vita pubblica e senza discriminare nessuno e rispettando la laicità della politica, che è a servizio di tutti, aprirà spazi alla religione cristiana, dialogherà proficuamente con essa, considerandola suo interlocutore privilegiato proprio per poter meglio vedere il bene comune e servire l’uomo. Egli sa che quando anche la ragione politica deflette, può arrivare l’aiuto della religione.
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*Mons. Giampaolo Crepaldi è Arcivescovo di Trieste, Presidente della Commissione “Caritas in veritate” del Consiglio delle Conferenze Episcopali d'Europa (CCEE) e Presidente dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuan” sulla Dottrina Sociale della Chiesa.
INDIA / Scuola cristiana in fiamme nello Srinagar, si sospetta dei fondamentalisti islamici – Redazione - giovedì 24 febbraio 2011 – il sussidiario.net
INDIA – Una scuola cristiana è stata bruciata nello Srinagar, nel Kashmir indiano, lo scorso 19 febbraio in un atto doloso di cui sono sospettati i fondamentalisti islamici. Lo rende noto Asia News, che riporta l’episodio descrivendolo nei dettagli.
L’attentato incendiario è stato commesso intorno alle 22 e 30 ora locale. Per fortuna in quei giorni l’istituto era chiuso per le vacanze e non ci sono vittime. In compenso l’ammontare dei danni si aggira sul milione di euro.
In fiamme sono andate 8 stanze della scuola, tra cui la biblioteca e la cosiddetta aula computer. La direttrice dell’istituto Grace Paljor sta ancora stilando la lista completa dei danneggiamenti, anche se la riapertura è già stata fissata per il primo marzo.
“L’amministrazione scolastica è solita ricevere telefonate minacciose dagli estremisti islamici – racconta la Paljor -. Avevano minacciato di bruciare la scuola e lo hanno fatto. Ci siamo rivolti alla polizia per questo”. Il riesplodere dell’odio verso la comunità Cristiana sarebbe da imputare a una presunta conversion avvenuta nella zona e non accettata dagli islamici.
Il vescovo dello Jammu Srinagar Peter Celestine Elampassery commenta così l’accaduto: “Noi viviamo tempi duri in uno stato con una maggioranza di musulmani. Speriamo che i sentimenti ostili alla nostra comunità non crescano ulteriormente. Il disagio politico ha acuito le questione irrisolte tra la gente e noi Cristiani siamo le vittime di queste tensioni”.
Anche il presidente del Congresso generale degli indiani cristiani (GCIC), Sajan K. George condanna l’episodio. “Anche le voci più infondate possono causare atti criminali compiuti dai fondamentalisti. La scuola è stata bruciata per un presunto tentativo di conversione. Nel settembre scorso le scuole Tyndale Biscoe e Mallinson hanno subito la stessa sorte per l’identico motivo. Nel novembre del 2006 il nostro coordinatore nel Kashmir, Bashir Tantray, fu ucciso dai militanti islamici. Noi chiediamo che le autorità di Jammu e del Kashmir ci proteggano dalla violenza dilagante”.
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IL GIORNALE/ Allam: Libia, l’Italia rischia di essere invasa dagli integralisti – Redazione - giovedì 24 febbraio 2011 – il sussidiario.net
L’INTERVISTA DE IL GIORNALE A MAGDI ALLAM - Magdi Cristiano Allam parla della situazione in Libia, delle colpe italiane e dei rischi che ora corriamo.
E’ un genocidio. Magi Cristiano Allam, non ha dubbi, e intervistato dal Giornale commenta la repressione in Libia. E’ certo, Allam, della ferocia del Colonnello, che non si è fato scrupoli a reprimere le proteste con una violenza inaudita. Un contesto di repressione ribellione ben differente da Tunisia ed Egitto, da dove proviene Allam. Qui l’esercito ha dato orine di non sparare sulla folla e si è fatto garante della transizione. Sono comunque gli ultimi atti della presenza di Gheddafi in Libia, atti della commedia di una folle che, paradossalmente ha scelto la sua casa bombardata un tempo dagli americani per le sue ultime farneticazioni.
Certo, l’Italia non è esente da colpe. «Con Gheddafi abbiamo fallito. E adesso il primo passo da compiere è una severa autocritica per quello che abbiamo fatto. Perché sono stati i servizi segreti italiani a portarlo al potere nel 1969 su sollecitazione dei potentati petroliferi, compresa l’Eni, a cui Gheddafi aveva promesso una serie di privilegi. Solo che già un anno dopo avremmo dovuto accorgerci della sua inaffidabilità, quando, per tutto ringraziamento cacciò dalla Libia 70 mila italiani».
Una politica di compiacenza e sudditanza, quella italiana, che ha radici lontane, iniziata con «Moro e proseguita con Fanfani, Craxi, D`Alema e Prodi, che lo invitò alla Ue quando era commissario. E` un dato di fatto che è stata la sinistra a sdoganare Gheddafi quando, dopo gli attentati di Lockerbie e alla discoteca tedesca, era considerato un paria».
E adesso? Ora, spiega Allam, corriamo grossi rischi: un’invasione di immigrati clandestini, provenienti dalle fila di quella frangia di popolazione libica povera o poverissima, frammischiata a detenuti fuggiti dalle carceri tunisine e a terroristi. Una volta in Italia potrebbero essere arruolati dal terrorismo mentre le nostre forze dell’ordine non potrebbero fare alcunché – data la mancanza di mezzi e il «buonismo» di «certi magistrati» per presidiare le coste.
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LIBIA/ Mario Mauro: ecco cosa deve fare l'Europa per sopravvivere a Gheddafi di Mario Mauro, venerdì 25 febbraio 2011, il sussidiario.net
Con la strage del popolo libico prosegue il sommovimento che sta capovolgendo gli equilibri dell’area del Mediterraneo. In quarantuno anni di potere, il governo di Gheddafi ha represso ogni forma di opposizione politica e, attraverso il controllo dei media e del sistema di istruzione, ha di fatto sopito l’opinione pubblica.
La grande differenza rispetto ai paesi confinanti sta nelle ingenti quantità di petrolio che fanno della Libia una delle nazioni più ricche del continente africano. Inoltre, la disoccupazione giovanile è visibilmente inferiore rispetto al resto dell’area. Tutto questo poteva far supporre che l’onda di cambiamento partita da Tunisi non sarebbe arrivata a lambire le coste libiche. E invece, come d’incanto, vediamo il colonnello asserragliato nella capitale pronto a tutto pur di non veder svanire un sistema di potere assoluto che sembrava impenetrabile.
A giudicare dagli ultimi giorni, sembra che il futuro del Paese non sia in mano ai cittadini, ma piuttosto agli schieramenti dell’esercito. Ogni giorno aumenta il numero delle defezioni da parte di comandanti delle forze armate. È un vero e proprio fuoco incrociato quello a cui è esposto Gheddafi. Oltre alle ribellioni del suo popolo, una seria minaccia al suo potere viene dall’interno, dalla cosiddetta fitna (intesa come dissenso). Se il Raìs riuscirà a limitare le diserzioni nell’esercito, le violenze in Libia potrebbero continuare ancora a lungo.
La storia di Gheddafi ci insegna che difficilmente abbandonerà la nave che affonda. Sono già migliaia i morti e decine di migliaia i feriti in quella che davvero potrebbe presto trasformarsi in una guerra civile. Oltre alla follia omicida nei confronti dei manifestanti che spontaneamente sono scesi in piazza, non possiamo sottovalutare il ruolo che occupano le numerose tribù presenti sul territorio libico.
La più grande, gli Orfella, è apertamente dalla parte dei rivoltosi. Non sono da escludere, inoltre, scontri tra le tribù della Tripolitania e quelle della Cirenaica (già ribattezzata nei giorni scorsi “Cirenaica liberata”), popolazioni estremamente diverse tra loro, riunitesi sotto un’unica bandiera dopo la guerra italo-turca dell’inizio del secolo scorso. Non sarà cosa semplice per la comunità internazionale riuscire a mediare tra queste due realtà per evitare un divorzio che potrebbe amplificare la catastrofe già in atto.
A Bengasi, capitale della Cirenaica, sono nate le fazioni islamiche più ostili al regime. Gheddafi ha sempre fatto piazza pulita dei suoi oppositori, come è successo ai Fratelli musulmani e a diversi gruppi salafiti. Una missione militare coordinata dalle Nazioni Unite, magari sotto la guida dell’Unione europea, potrebbe essere la soluzione più efficace per l’immediato. Potrebbero essere utilizzati i “battle groups”, unità militari nate dopo il trattato di Nizza del 2000. In 10 anni sono stati usati nel corso di missioni in Congo, Bosnia e Macedonia.
Da giorni si parla di fosse comuni, di massacri, di mercenari senza scrupoli pagati dal regime, di lotte tribali: l’assoluta urgenza è quella di fermare l’ecatombe. Ad aggravare la crisi umanitaria è il flusso di profughi pronto ad arrivare sulle coste italiane. Senza azzardare cifre al momento non ipotizzabili, dobbiamo prepararci alla più grande ondata migratoria della nostra storia.
Ieri, a Bruxelles ha avuto luogo la riunione dei ministri degli interni dei paesi Ue, a seguito del sollecito mio e del ministro Maroni. Il Ministro ha chiesto per il nostro Paese un fondo speciale di solidarietà. Ma i soldi non bastano. Come giustamente ha affermato Vittorio Emanuele Parsi, l’Europa deve capire che si gioca una fetta importante della propria credibilità, ma anche della sua stessa ragion d’essere.
L’Unione europea è nata proprio per condividere responsabilità del genere. Allo stesso modo in cui tutti e 27 i paesi Ue si sono presi a cuore le condizioni disperate in cui versavano pochi mesi fa le casse dello Stato greco, oggi dobbiamo dare sostanza al nostro progetto politico scalando insieme questa montagna. Non è un problema italiano, è un problema europeo che va analizzato in quanto tale. Occorre una solidarietà totale da dimostrare nel tempo.
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IL CASO/ Il bimbo down e quegli studenti che "bocciano" i prof del politically correct di Monica Mondo, venerdì 25 febbraio 2011, il sussidiario.net
A Catanzaro la preside di una scuola media statale vieta a un alunno affetto da sindrome di Down di partecipare alle gite scolastiche. Tanto non capirebbe nulla, ha dichiarato di fronte ai docenti. I genitori ricorrono all’autorità per far rispettare il diritto allo studio. Ma la lezione più importante è che i compagni di classe si rifiutano di andare in gita, senza il loro compagno.
Non conosco le motivazioni inconsce, le turbe mentali, le paure di quel dirigente scolastico (non c’era un’insegnante di sostegno, pare, e si sa, senza i ruoli prefissati non sappiamo più “sostenere” un ragazzino in gita). Annoto, però, che quando le scuole erano un po’ meno aziende e un po’ più luoghi di educazione, e i “dirigenti” erano soprattutto insegnanti, sarebbe stata la preside a voler andare in gita per prima, magari ingegnandosi perché la giornata fosse ancor più bella e memorabile, per tutti. Aiutando i suoi allievi uno a uno: chi perché troppo distratto o chiacchierone, chi perché stanco, chi con un po’ di febbre, chi perché triste e un po’ solo, chi con qualche difficoltà “congenita”.
A me dà fastidio il buonismo imperante che confonde la realtà e pretende il politically correct anche nella lingua: non “disabili”, ma “diversamente abili”. Chiedete a un ragazzino in sedia a rotelle se non preferirebbe “l’abilità” a correre e saltare coi propri amici. Il punto è un altro e i burocrati dell’egualitarismo l’hanno dimenticato: una persona è una persona, come una rosa è una rosa.
Non ci sono quindi alunni maschi, alunne femmine, immigrati, disabili, per categorie sociali da preservare, da additare all’attenzione ossessiva, quindi da ghettizzare. Ci sono dei ragazzi. Punto. Unici e irripetibili, come ciascuno di noi. E la loro vita vale tantissimo, è preziosa agli occhi di Dio, per chi ci crede, e ai nostri occhi, perché la condividiamo. E una vita non vale se è degna di essere vissuta: vale di per sé. Chi poi s’infiamma oggi per il caso del ragazzino calabrese - chiamiamolo Alessandro - è prontissimo a spegnere la vita delle Eluane, che non sono utili a nessuno, soffrono troppo, sembrano non capire.
Come il giovane alunno di Catanzaro, diverso, speciale, che invece sarebbe stato utilissimo in gita: i compagni più attenti, perché attenti anche a lui; più capaci di sorridere, per i suoi sorrisi. Avrebbe sofferto un po’, se l’avessero escluso dal gioco, dalle canzoni sull’autobus. Ma non l’avrebbero fatto dei compagni così decisi e coraggiosi, che immaginiamo non abbiano seguito corsi di psicologia e pedagogia, che la burocrazia istituzionale offre come panacee di tutti i mali, ma che sanno far parlare il cuore e commuoversi, cioè muoversi per qualcosa che vale la pena.
Alessandro avrebbe capito? Chiedetelo a lui. So che può guardare il mare e le opere d’arte con i nostri stessi occhi. Che può riconoscere il buono e il bello della compagnia di quella classe. E che tornando a casa, dopo quella gita, avrebbe raccontato a suo modo, con le guance arrossate, la sua giornata diversa. Speciale.
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25/02/2011 - CINA - Dissidente cinese arrestata: lottava contro la legge sul “figlio unico” - Mao Hengfeng è stata riportata in un campo di lavoro, tre giorni dopo essere stata liberata per ragioni mediche. Si batteva contro la legge cinese che impone un solo figlio a coppia. Si ignora dove sia stata condotta.
Pechino (AsiaNews/Agenzie) – Mao Hengfeng, una donna cinese che si è battuta contro la politica governativa del figlio unico è stata riportata in un campo di lavoro ieri. Solo tre giorni prima era stata rimessa in libertà per questioni di salute, ha dichiarato suo marito. Mao Hengfeng vive a Shanghai. Suo marito, Wu Xuewuei, ha fatto sapere che è stata portata via da una squadra di decine di agenti – da 30 a 50, secondo il marito.
Wu ha raccontato che i funzionari di polizia gli hanno consegnato una notifica, fotocopiata, in cui era scritto che Mao aveva condotto “attività illegali”. Il marito ha detto che le accuse sono infondate.
“Per 24 ore ogni giorno, da quando mia moglie è tornata, la polizia ci ha controllato, fuori dalla porta. Non ha potuto nemmeno andare dal suo medico. Che possibilità aveva di infrangere la legge?” ha detto il marito della dissidente. E ha aggiunto: “Siamo molto preoccupati…Non sappiamo dove sia”.
L’arresto di Mao è giunto dopo che una raffica di incidenti del genere hanno messo in luce il disagio del governo rispetto alle proteste legate alla “Rivoluzione dei gelsomini”. Mao, che ha tre figlie, è stata licenziata nel 1988 dal suo lavoro in una fabbrica di sapone, dopo che era rimasta incinta per la seconda volta, contravvenendo così alla legge sul figlio. Nel marzo 2010 è stata condannata a un anno e mezzo di “rieducazione tramite il lavoro”, con l’accusa di “disturbare l’ordine pubblico”.
Uno studio di Harvard sulla lotta all'Aids - Il Papa ha ragione di EMANUELE RIZZARDI (©L'Osservatore Romano - 26 febbraio 2011)
Un comportamento sessuale responsabile e la fedeltà al proprio coniuge sono stati i fattori che hanno determinato il fortissimo calo dell'incidenza dell'Aids nello Zimbabwe. È ciò che sostiene nella sua ultima ricerca Daniel Halperin, ricercatore del dipartimento per la Salute globale e la Popolazione dell'università di Harvard, dal 1998 impegnato a studiare le dinamiche sociali che stanno alla base della diffusione delle malattie sessualmente trasmissibili nei Paesi in via di sviluppo, quelli cioè maggiormente colpiti dal flagello dell'Aids.
Halperin si è servito di dati statistici e di analisi sul campo, come interviste e focus group, che gli hanno permesso di raccogliere testimonianze fin dentro le sacche più disagiate del Paese africano. Il trend degli ultimi dieci anni è evidente: dal 1997 al 2007 il tasso di infezione tra la popolazione adulta è calato dal 29 al 16 per cento. Nella sua indagine Halperin non ha dubbi: la repentina e netta diminuzione dell'incidenza dell'Aids è andata di pari passo con la "riduzione di comportamenti a rischio, come relazioni extraconiugali, con prostitute e occasionali".
Lo studio - pubblicato questo mese su PLoSMedicine.org - è stato finanziato dall'agenzia statunitense per lo Sviluppo internazionale, di cui Halperin è stato consigliere, e dal fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione e lo Sviluppo. Con esso Halperin alimenta una seria e onesta riflessione sulle politiche finora adottate dalle principali agenzie di lotta contro l'Aids nei Paesi in via di sviluppo. Risulta evidente - sostiene lo studioso - che la drastica inversione dei comportamenti sessuali della popolazione dello Zimbabwe "è stata aiutata da programmi di prevenzione sui mass media e da progetti formativi promossi da chiese" e confessioni religiose: veri e propri interventi culturali, con risultati distanti nel tempo, ma più incisivi e duraturi delle sbrigative pratiche della distribuzione di profilattici. Questa considerazione fa il paio con un suo intervento di qualche anno fa in cui si chiedeva come mai gli interventi preventivi "più significativi siano stati finora condotti sulla base di evidenze che risultano estremamente deboli", cioè sull'inefficacia di fatto della fornitura di condom alla popolazione adulta.
Il pensiero non può dunque non andare alle polemiche aspre, pretestuose e non scientifiche - ora è possibile ribadirlo anche con il supporto di questo studio - che seguirono il commento di Benedetto XVI sulla "non soluzione" del preservativo nella lotta contro l'Aids, durante il suo viaggio pastorale in Africa del 2009: "i profilattici sono a disposizione ovunque, ma solo questo non risolve la questione", ricorda il Papa nel libro intervista Luce del mondo.
Sempre di più, quindi, la ricerca scientifica, onesta e distaccata da logiche di vantaggio economico, riconosce che le azioni più efficaci nella lotta contro l'Aids sono quelle come il metodo A, B, C (astinenza, fedeltà e, solo in ultima analisi, utilizzo dei profilattici), adottata con successo in Uganda. La stessa rivista "Science" - come Lucetta Scaraffia ha ricordato su queste colonne - aveva messo in luce che "la parte più riuscita del programma è stata il cambiamento di comportamento sessuale, con una riduzione del 60 per cento delle persone che dichiaravano di avere avuto più rapporti sessuali e l'aumento della percentuale dei giovani fra i 15 e i 19 anni che si astenevano dal sesso". L'adozione del programma ha messo l'Uganda in una posizione esemplare nella lotta all'Aids del continente africano.
In definitiva, secondo lo studio di Halperin, occorre "insegnare a evitare la promiscuità e promuovere la fedeltà", sostenendo quelle iniziative che mirano davvero a costruire nella società toccata dal flagello dell'Aids una nuova cultura. Occorre insomma - come ha detto Benedetto XVI - operare per una "umanizzazione della sessualità".
Radio Vaticana - Scienza ed Etica, notizia del 25/02/2011 - Mons. Carrasco De Paula: mondo sempre più aggressivo contro la vita umana
«La sfida è molto seria. Ci troviamo a operare in un mondo che si dimostra sempre più aggressivo nei confronti della vita umana. La nostra missione dunque assume una rilevanza sempre più evidente e richiede un rinnovato impegno». Con queste parole il vescovo Carrasco De Paula, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ha inaugurato ieri i lavori della XVII assemblea generale nell’Aula vecchia del Sinodo in Vaticano. Per mons. Carrasco De Paula — nominato presidente il 30 giugno dello scorso anno — si è trattato della prima volta alla guida di un’assemblea generale del dicastero. Nel suo intervento, confermando la linea dei suoi predecessori, il presule – riferisce L’Osservatore Romano - ha ribadito che «al centro del nostro agire non c’è un concetto astratto, tanto meno un’ideologia. C’è una persona concreta. Tanto che la Pontificia Accademia per la Vita potrebbe chiamarsi “Pontificia Accademia per la persona”. Davanti a un mondo tanto aggressivo contro la vita la nostra missione è quella di riaffermare con forza la necessità di difendere l’uomo nella sua integralità». Ciò richiede naturalmente qualche «aggiustamento di rotta. Abbiamo raggiunto la maturità e dunque dobbiamo guardare al futuro con occhi nuovi. La prima cosa da fare è potenziare la nostra attività di studio».
«Siamo chiamati — ha spiegato il presidente — ad affrontare argomenti molto complessi che richiedono competenze scientifiche, tecniche, teologiche, etiche e morali di altissima qualità. Bisogna perciò adeguarsi. Spesso ci chiedono spiegazioni appropriate anche altri dicasteri vaticani, soprattutto quando c’è in gioco la dignità della persona umana». È per questo motivo che vengono riunite unità di studio internazionali composte dai massimi esperti nelle diverse tematiche da affrontare. I primi due gruppi — quelli che hanno approfondito le questioni delle banche di cordone ombelicale e del trauma post-aborto — hanno iniziato a lavorare dallo scorso mese di settembre e oggi sono chiamati a presentare i risultati dei loro studi. E già sta per iniziare il lavoro del terzo gruppo di studio. «Si occuperà — ha anticipato il vescovo — dell’infertilità e delle terapie in grado di superare questo scoglio. Non si occuperà certamente della questione che tiene banco in questo momento, cioè la procreazione assistita. Tanto meno ci occuperemo dei limiti e dei danni per la salute legati a simili procedure. Quello che ci interessa è mostrare le strade alternative».
Le coppie con problemi di fertilità oggi vengono quasi sempre indirizzate verso strutture che praticano tecniche artificiali. «Nessuno — ha affermato il presule — si preoccupa di avviare queste coppie verso centri che curano l’infertilità umana, un campo che ha fatto registrare enormi passi in avanti». Il più delle volte il consiglio «è addirittura quello di non perdere tempo con tentativi inutili. Una mentalità da sconfiggere — ha aggiunto — per restituire la speranza anche e soprattutto a chi non intende ricorrere a tecniche artificiali di procreazione. Proprio per dare risposte concrete abbiamo costituito un gruppo di studio del quale sono stati chiamati a far parte alcuni dei migliori specialisti italiani in materia. Con loro stiamo ora allargando l’orizzonte al mondo scientifico per dare vita ad una unità di lavoro internazionale. L’intenzione è quella di pubblicare un libro bianco sul problema della sterilità con tutte le soluzioni alternative possibili».
Per quanto riguarda gli obiettivi di questa XVII assemblea, il vescovo ha indicato innanzitutto la volontà di dimostrare l’importanza di mettere a disposizione di tutti una risorsa eccezionale, quale il cordone ombelicale, «superando la tentazione di gettarlo come fosse un rimasuglio o di conservarlo per sé, pur sapendo magari che si avranno poche possibilità di utilizzarlo». Secondo intento è quello di dimostrare che «di fronte a problematiche insorgenti in seguito a una interruzione di gravidanza procurata, non si può mai parlare di sindrome». La sindrome è «un concetto clinico molto preciso — ha detto mons. Carrasco De Paula — e nei casi di manifestazioni post-aborto non si può assolutamente parlare di sindromi correlate. Ci sono delle conseguenze, certamente. Possono essere minime o persino traumatiche, e comportare situazioni di disagio psicologico grave, anche in ambito familiare. Si tratta comunque di situazioni da valutare per aiutare chi ne è colpito. Però deve essere chiaro che non ci si trova in presenza di una sindrome».
Un Afghanistan nel Mediterraneo - Due scenari della rivolta nei paesi arabi. Quello dell'Egitto, con un'inedita alleanza tra cristiani e musulmani. E quello della Libia, dove il collasso dello stato spiana la strada all'islamismo radicale. L'analisi di Khaled Fouad Allam di Sandro Magister
ROMA, 23 febbraio 2011 – Le tre foto qui sopra sono state scattate al Cairo in piazza al-Tahrir, la piazza della Liberazione. Le ha pubblicate e commentate sull'agenzia on line "Asia News" del Pontificio Istituto Missioni Estere il gesuita egiziano Samir Khalil Samir, islamologo tra i più stimati da papa Joseph Ratzinger.
In piazza al-Tahrir, nei momenti della preghiera coranica, i cristiani copti facevano cordone in difesa dei musulmani in ginocchio. Al Cairo sono anche comparsi dei manifesti con la croce e il Corano affiancati, e la scritta in arabo: "Egiziani, una mano sola".
A giudizio di padre Samir, l'unità tra musulmani e cristiani che si è vista all'opera nei giorni della ribellione è segno che l'islamismo fondamentalista non comanda la svolta in atto, né in Egitto né negli altri paesi del Nordafrica e del Golfo.
Sicuramente, la rivoluzione che oggi sconvolge i paesi arabi non è partita dalle moschee. La più celebre e influente delle moschee sunnite, quella di al-Azhar al Cairo, è apparsa subito fuori gioco. I suoi leader, tutti di nomina presidenziale, pagano anch'essi il prezzo della caduta di Mubarak.
In Egitto, l'unica seria chance che gli islamisti hanno di conquistare il potere è legata alle sorti dei Fratelli Musulmani. Hanno notevole forza organizzativa. Hanno il controllo dei principali ordini professionali: ingegneri, medici, dentisti, farmacisti, commercianti, avvocati. Sono diffusi nelle campagne. Un loro leader, Sobhi Saleh, è presente nel comitato che i militari hanno costituito per riformare la costituzione egiziana. Ed è loro alleato il presidente di questo stesso comitato, l'anziano magistrato Tariq al-Bishri, figlio di un grande imam di al-Azhar.
Ma più che un effetto della loro forza, questa cooptazione dei Fratelli Musulmani dentro il comitato per la nuova costituzione sembra un gesto calcolato dei militari al potere, per controllarli.
Neppure l'exploit dello sceicco Yussuf al-Qaradawi, leader carismatico dei Fratelli Musulmani di tutto il mondo, rientrato al Cairo dopo decenni di esilio per guidare la preghiera di venerdì 18 febbraio in piazza al-Tahrir e arringare la folla, sembra aver piegato la rivolta nella direzione dell'estremismo religioso.
Al-Qaradawi ha esultato per l'abbattimento del "Faraone", ma la caduta di Mubarak non era certo avvenuta per mano dei Fratelli Musulmani.
Ha raccontato il sogno della liberazione di Gerusalemme dagli infedeli, ma né prima né dopo il sermone nessuna bandiera di Israele è stata bruciata.
Intatte, nei giorni della rivolta, sono rimaste anche le chiese cristiane, oggetto invece di crudeli aggressioni solo poche settimane prima, quando il regime di Mubarak aveva ancora il pieno controllo del paese. Il patriarca dei copti, Shenuda III, ha puntato fino all'ultimo sulla permanenza al potere di Mubarak, dal quale si sentiva più rassicurato che non da un cambio di regime. Ma i copti son scesi nelle strade fin dai primi giorni, a reclamare più libertà.
Padre Samir dice che il sommovimento attuale gli ricorda la rivoluzione egiziana del 1919 contro il Regno Unito che occupava l'Egitto e il Sudan, una rivoluzione non di tipo religioso ma mirata all'indipendenza.
Ma la rivolta che oggi infiamma i paesi arabi, dal Marocco allo Yemen, non si avventa contro potenze straniere: Israele, gli Stati Uniti, l'Occidente. Tanto meno contro i cristiani. I nemici sono interni, sono i regimi tirannici. Le richieste sono elementari. La prima delle rivolte, in Tunisia, è partita dal rincaro del pane.
Khaled Fouad Allam, algerino con cittadinanza italiana, professore di islamistica alle università di Trieste e di Urbino, ha spiegato al quotidiano della conferenza episcopale italiana "Avvenire", il 22 febbraio, che i protagonisti dell'attuale rivolta sono le giovani generazioni:
"I ragazzi tra i 18 e i 30 anni hanno una pratica religiosa di tipo pietista. L’islam non è più visto come la soluzione, come sarebbe probabilmente accaduto dieci o quindici anni fa. I giovani non credono più che il Corano darà loro il lavoro, come potevano crederlo i loro padri. Sono credenti e praticanti, ma non hanno una carica ideologica. Dallo Yemen all’Algeria di slogan religiosi non ne sentiamo".
E ancora:
"Poi c’è l’aspetto della globalizzazione: si sta sviluppando una coscienza mondiale della democrazia. Un ragazzo di Algeri che corrisponde via internet con un suo amico di Roma si chiede come mai sull’altra sponda del Mediterraneo c’è libertà e nel suo paese no. Ciò crea un sentimento molto forte. Non conta la tecnologia informatica in sé, ma il suo effetto, ovvero un’accelerazione della maturazione della presa di coscienza".
La rivolta non mostra di avere una direzione precisa. Non ha leader. Non ha grandi organizzazioni. "Durerà molto tempo", avverte Allam. Senza esiti prevedibili.
Il ritratto che ne esce è quello di un mondo arabo musulmano molto più fragile e disordinato di quello che si usa immaginare. Molto più variegato. Molto più esposto alla secolarizzazione e ai linguaggi della comunicazione globale, universali ma anche incerti di significato.
È un ritratto che corrisponde in modo impressionante a quello vividamente descritto in un libro autobiografico dell'italo-marocchina Anna Mahjar-Barducci, di cui questo servizio di www.chiesa ha riprodotto un capitolo:
> Anna e i suoi fratelli. I mille volti del vero islam
*
Quanto osservato fin qui si applica a quasi tutti i paesi arabi oggi in rivolta. Ma con una eccezione.
Questa eccezione è la Libia.
È ancora il professor Khaled Fouad Allam a spiegarla, in un commento del 23 febbraio su "Il Sole 24 Ore", il più diffuso quotidiano finanziario d'Italia e d'Europa.
La Libia non è mai stata una nazione omogenea. È un insieme di tribù arabe, berbere e africane, per ciascuna delle quali vale più di tutto lo spirito di corpo. Allo scoppiare della rivolta, rapidamente intere città e regioni si sono rese autonome.
In Libia non vi sono vere e proprie istituzioni statali, non c'è un parlamento, non c'è un esercito che possa assumere il potere, come è avvenuto in Egitto, e assicurare una transizione controllata.
Per Gheddafi la "rivoluzione" era lo stato, e lo stato era lui. Il suo era un "maoismo islamico" depurato dalla tradizione profetica, la Sunna, il che lo rendeva estraneo ed inviso all'insieme dello stesso mondo musulmano sunnita.
Paradossalmente, la tirannia di Gheddafi assicurava alla Chiesa cattolica livelli di libertà maggiori che in ogni altro paese musulmano della regione.
La caduta di Gheddafi può quindi coincidere col collasso totale della Libia. Che potrebbe diventare – avverte Allam – "un Afghanistan nel Mediterraneo".
Perché nel caos e nel vuoto statuale troverebbero spazio di presenza e di azione proprio le correnti islamiche più radicali, provenienti dall'Africa e da altri paesi arabi. A dispetto della "laica" domanda di libertà espressa dai giovani che anche in Libia hanno invaso le piazze, in molti casi pagando con la vita.
Un nuovo Afghanistan, con un islamismo incendiario, ricchissimo di petrolio e di gas, al confine con l'Italia e l'Europa.
25 febbraio 2011 - Avvenire.it, DIFESA DELLA VITA, Pillola del giorno dopo: dal Cnb sì a obiezione di coscienza dei farmacisti
Sì alla possibilità per i farmacisti di esercitare l'obiezione di coscienza per non vendere la pillola del giorno dopo, ma va al contempo garantito il diritto della donna ad ottenere il farmaco richiesto. È la posizione espressa dal Comitato nazionale di bioetica (Cnb) in un parere sull'argomento votato nella seduta svoltasi oggi.
Si tratta di una risposta, spiega il vicepresidente del Cnb Lorenzo D'Avack, "sollecitata dalla deputata dell'Udc Luisa Santolini, in merito all'obiezione di coscienza che può essere invocata dai farmacisti per non vendere prodotti farmaceutici per i quali non si può escludere la possibilità di un meccanismo di azione che porti all'eliminazione dell'embrione", sia pure non ancora annidato nell'utero materno.
Nel parere, ha sottolineato D'Avack, "non è stata raggiunta una unanimità di opinioni, tuttavia è emersa una maggioranza a favore dell'obiezione di coscienza per i farmacisti".
I membri del Cnb si sono invece espressi all'unanimità nel sollecitare, nell'ipotesi in cui il Legislatore dovesse riconoscere la possibilità di obiezione di coscienza per tale categoria, la previsione di un sistema organizzativo che consenta comunque alla donna che ne faccia richiesta di ottenere la pillola del giorno dopo. È cioè "indispensabile - ha affermato D'Avack - che lo Stato preveda degli strumenti che consentano sempre e comunque alla donna di poter realizzare la propria richiesta farmacologica, perchè la donna non riceva appunto un danno dal diritto di obiezione di coscienza eventualmente riconosciuto ai farmacisti".
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Islam, una "terza via" né laicista né fondamentalista di Massimo Introvigne, 26-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Di fronte allo sconvolgimento che ha colpito molti Paesi islamici dell'Africa e dell'Asia - iniziato in Tunisia e in Egitto, e che ora ha il suo epicentro in Libia - colpisce il disorientamento da parte degli specialisti internazionali che da anni studiano questi Paesi. I più onesti ammettono di non avere in nessun modo previsto quanto sta ora accadendo. Se avessero dovuto citare due esempi di regimi stabili nel mondo islamico, avrebbero menzionato la Libia e la Tunisia. Personalmente interrogati da chi scrive, sociologi di lungo corso del mondo arabo affermano di non essere in grado di tracciare una mappa delle forze che si oppongono a Gheddafi in Libia e che, se qualcuno afferma di essere capace di tracciarla, mente.
La micro-analisi è dunque ampiamente impossibile, e lo specialista corretto è quello che non finge di sapere quel che non sa. Tra l'altro, una tentazione ricorrente è quella di tradurre nei termini occidentali del partito politico quelle che sono, in Africa come in Asia, realtà etniche e tribali. In Libia - per quello che si capisce - le vere linee di divisione sono per tribù, ma la stessa nozione di tribù è sempre più controversa fra etnologi e sociologi.
Ancora più carente è la macro-analisi, e i media ci propongono esempi quotidiani di semplificazioni certamente false. Possiamo trascurare come mero folklore i tribuni giornalistici e televisivi italiani che adottano il semplice e provinciale criterio secondo cui i «cattivi» sono sempre gli «amici di Berlusconi». Ma anche fonti più autorevoli non sembrano meglio ispirate quando esaltano i «giovani democratici» che grazie a Facebook o a Twitter si organizzerebbero per cacciare i «vecchi dittatori». E più di un diplomatico ammette in conversazioni private che è sconsolante sentire questa retorica come unica analisi proposta da Barack Obama, a testimonianza di come l'attuale amministrazione statunitense, tutta ripiegata sui suoi problemi interni, abbia molte difficoltà a giocare un ruolo significativo in teatri internazionali di cui non sembra sempre apprezzare la complessità. Anche in assenza di micro-analisi complete e convincenti di alcuni scenari locali, la macro-analisi può tuttavia tentare d'identificare il senso di fondo di quanto sta succedendo. Il tentativo richiede però una pazienza ignota a molti giornalisti e politici. Come al solito, occorre infatti partire dalla storia.
Come ha ricordato Benedetto XVI nel suo viaggio in Africa nel 2008, l'Europa ha esportato in Africa e in Asia anzitutto la forza civilizzatrice del Vangelo e del cristianesimo, di cui non deve vergognarsi né chiedere scusa. Le scuse, però, sono necessarie perché nei bauli degli europei hanno cominciato ben presto a viaggiare anche l'Illuminismo, l'idea di un nazionalismo su base etnica, il socialismo e il comunismo. Questi prodotti di esportazione europea hanno fatto enormi danni in altri continenti.
Nei Paesi a maggioranza islamica le idee importate dall'Europa hanno incontrato una crisi dell'islam che, a partire dalla fine del XVII secolo, non stava più conquistando nuove terre ma vedeva vaste regioni musulmane cadere sotto il dominio delle potenze coloniali. A questa crisi teologicamente inspiegabile - perché il Corano e i detti del Profeta ai musulmani promettevano solo vittorie, non prevedevano sconfitte - l'islam reagì in due modi. Alcuni pensarono che i musulmani fossero sconfitti perché si erano troppo occidentalizzati e avevano voluto imitare l'Europa, abbandonando i severi costumi delle rozze ma invincibili prime generazioni del deserto. Nasce qui il movimento tradizionalista musulmano, che solo incontrando appunto idee e modelli politici occidentali si organizza politicamente nel XX secolo come fondamentalismo.
Altri, al contrario, pensarono che l'islam perdesse le battaglie non perché era troppo occidentalizzato, ma perché lo era troppo poco. Chi adottava questa analisi si diede a importare sempre di più nei Paesi islamici idee occidentali: prima l'Illuminismo e il laicismo, poi il socialismo, ben presto coniugati con forme di nazionalismo «inventate» a imitazione dell'Occidente. Lo scontro fra tradizionalismo - poi chiamato fondamentalismo - e nazionalismo, declinato in modi diversi a seconda dei Paesi, domina tutta la storia delle regioni a maggioranza islamica dal Settecento a oggi.
Quando dopo la Seconda guerra mondiale iniziò il processo di decolonizzazione, i Paesi occidentali e l'Unione Sovietica favorirono entrambi consapevolmente i nazionalisti - che erano laici e socialisti - rispetto ai fondamentalisti, considerati molto più lontani da qualunque modello occidentale, capitalista o comunista che fosse.
Dal momento che il personale politico nazionalista aveva tagliato in gran parte le radici con le sue tradizioni morali e religiose sostituendole con ideologie piuttosto posticce, non è sorprendente che fra i nazionalisti che andarono al potere abbondassero dittatori senza scrupoli corrotti e rapaci. Ma tutto l'Occidente - non solo l'Italia, e certamente non solo Berlusconi, dal momento che il processo risale almeno al 1948 - li favorì, pensando che fossero meno pericolosi dei fondamentalisti. La stessa diplomazia della Santa Sede, che pure conosceva bene tramite i vescovi locali le magagne dei regimi nazionalisti laici, si mosse sempre con grande cautela, perché sapeva che questi regimi garantivano alle minoranze cristiane non una vera libertà religiosa ma almeno la sopravvivenza fisica, assai più dubbia in caso di vittoria dei fondamentalisti.
Questa linea fu seguita per decenni sia dagli Stati Uniti e dall'Europa, sia dall'Unione Sovietica, e portò e mantenne al potere quasi ovunque un personale politico nazionalista di pessima qualità. Fecero parziale eccezione monarchie che avevano una loro legittimità tradizionale come quelle del Marocco e della Giordania. Altre due monarchie tradizionaliste nate su base tribale in Paesi che non erano mai stati colonie, l'Afghanistan e l'Arabia Saudita, cercarono di chiudersi a ogni influsso politico e ideologico occidentale. Di distruggere la monarchia afghana, per ragioni geopolitiche, s'incaricò direttamente l'Unione Sovietica, con conseguenze rovinose per gli afghani e in ultimo per gli stessi sovietici. I sauditi resistettero, perché avevano nel loro territorio sia i luoghi santi dell'islam sia le maggiori riserve petrolifere del pianeta.
Le cose cambiarono parzialmente dopo la vittoria dei fondamentalisti in Iran nel 1979 - a lungo considerata però solo un'anomalia sciita - e soprattutto dopo l'11 settembre 2001. George W. Bush si convinse che i regimi laici nazionalisti non funzionavano, perché non avevano impedito l'11 settembre, e si propose di sostituirli dove poteva non con i fondamentalisti ma con una «terza via», islamica e conservatrice ma nello stesso tempo ostile al terrorismo e non tecnicamente fondamentalista, i cui modelli erano le posizioni almeno di una parte dei vertici delle monarchie marocchina e giordana e della Turchia di Erdogan. La strategia non era folle, e oggi si assiste negli Stati Uniti alla sua vasta e paradossale rivalutazione a fronte degli svarioni di Obama. Tuttavia si arenò nei pantani delle guerre infinite afghana e irachena e nelle difficoltà d'identificare in molti Paesi chi potesse incarnare la «terza via». Non fu mai amata dall'Unione Europea, che preferiva i vecchi dittatori nazionalisti, né dal Partito Democratico negli Stati Uniti, che la liquidò appena tornato al potere con Obama, salvo riscoprirla tardivamente in questo giorni.
Il nucleo di verità della posizione di Bush era che i regimi nazionalisti erano comunque destinati a essere travolti per la loro natura impopolare e corrotta e per l'impetuoso risveglio religioso mondiale dell'islam. Era meglio governare la exit strategy da questi regimi che subirla.
Chi sosteneva che in Paesi come la Libia, la Tunisia, l'Egitto i regimi nazionalisti laici erano solidissimi, così che la «dottrina Bush» era pericolosa e prematura, aveva torto. Questi regimi impopolari sopravvivevano in periodi di relativa stabilità economica. La crisi economica internazionale ha reso ingestibili le proteste.
Questa analisi, beninteso, non risolve nessun problema. Sostenere che i regimi nazionalisti laici sono a fine corsa non significa saper prevedere che cosa verrà al loro posto. Ci sono almeno quattro scenari, e non è detto che lo stesso scenario si realizzerà in tutti i Paesi coinvolti Il primo scenario, da incubo specie per le minoranze cristiane, è una vittoria del fondamentalismo islamico nella sua forma più rigida. È un pericolo reale in Egitto, nonostante i sorrisi di qualche esponente del mondo fondamentalista di cui però è meglio non fidarsi. È uno scenario meno probabile in altri Paesi.
Il secondo scenario è quello gattopardesco dove tutto cambia perché tutto rimanga come prima. Deposto un generale nazionalista corrotto ne arriva un altro. Succederà senz'altro così da qualche parte, ma si tratterà solo di un modo per rimandare il problema.
Il terzo scenario - il sogno della Banca Mondiale e di altre istituzioni internazionali - è che arrivino al potere tecnocrati, possibilmente con un passato nelle Nazioni Unite, poco interessati ai valori tradizionali e molto ai valori di borsa. Figure come El Baradei in Egitto incarnano questi sogni, ma rimangono molti problemi quanto al consenso popolare che le presunte gioie della tecnocrazia riusciranno davvero ad assicurarsi nel medio e nel lungo periodo.
Il quarto scenario - il migliore - è che emergano personaggi con un forte radicamento nelle tradizioni locali, declinate però in modo conservatore e non fondamentalista. Era il cuore della «dottrina Bush», la quale però per essere ripresa magari in una versione corretta e migliorata da una parte presuppone che anche l'Europa accetti leader barbuti con mogli velate, purché siano lontani dal terrorismo e aperti ai diritti delle minoranze e al dialogo, dall'altra sconta il fatto che questi leader - se da qualche parte ci sono - in altri Paesi non si vedono neppure al più lontano orizzonte.
Nel frattempo, mentre questi quattro scenari si contrappongono, un'emigrazione di proporzioni bibliche rischia di dirigerei verso l'Europa, il che vuol dire anzitutto verso l'Italia. Il pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) è principalmente noto per la sua analisi del processo di scristianizzazione dell'Occidente attraverso quattro Rivoluzioni che ne hanno disarticolato le strutture rispettivamente religiose, politiche, economiche e familiari. Pochi sanno che nel 1992 Corrêa de Oliveira accennò pure alla «possibile invasione dell’Europa Occidentale da parte di orde di affamati provenienti dall’Oriente e dal Maghreb» (in gran parte, «orde maomettane») nonché da Paesi ex-comunisti ridotti alla miseria: in questo senso, «i diversi tentativi di albanesi bisognosi di penetrare in Italia sarebbero stati come un primo saggio di questa nuova “invasione barbarica” in Europa».
Nel testo del pensatore brasiliano non vi era nessun disprezzo per gli immigrati in Europa, meritevoli piuttosto di compassione come «povera gente, piena di fame e vuota di idee». Ma — sempre a titolo d’ipotesi, non solo da verificare ma se possibile da scongiurare — lo scontro fra gli immigrati e un ambiente europeo «che, per certi aspetti, potrebbe essere qualificato come supercivilizzato e, per altri, come putrefatto» sarebbe potuto degenerare, ammoniva, in «un mondo di anarchia totale, di caos e di orrore, che non avremmo timore di qualificare come di V Rivoluzione». Come si vede — dieci anni prima dell’11 settembre 2001 — la curiosità intellettuale di Corrêa de Oliveira lo spingeva a formulare ipotesi che, rilette oggi, appaiono di singolare attualità.
Mentre il percorso delle prime quatto Rivoluzioni si svolge all’interno della storia dell’Occidente, l’ipotetica Quinta Rivoluzione rappresenta un’irruzione «dall’esterno» di forze di per sé estrinseche al processo storico occidentale, scatenate dalla stessa esportazione da parte dell'Occidente dei suoi vizi, che si sono combinate con l'islam in una miscela esplosiva e oggi tornano come una nemesi di fronte alla quale occorrerebbe pregare, meditare e prepararsi anziché disperdersi in speculazioni politiche miopi e risse da cortile.
Quella mano leggera che sfiorò Edith Stein di Andrea Monda, 26-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Leggere un libro di suor Cristiana Dobner, monaca carmelitana di clausura, fine saggista e traduttrice che si occupa di letteratura e mistica, è sempre un'esperienza né semplice né scontata, soprattutto per lo stile con cui l'autrice conduce le sue riflessioni.
Come sottolinea Lucetta Scaraffia nell'introduzione all'ultimo lavoro della Dobner "Se affermo la mano che mi sfiora. Edith Stein: il linguaggio di Dio nel cuore della persona" (Marietti pp.158, euro 18) l'autrice «ha inventato uno stile tutto personale di scrivere: quello di parlare attraverso frammenti delle opere degli autori che conosce e ama, scelti perchè ha trovato in essi una forte rispondenza umana e spirituale con il suo animo. Cristiana non parla mai in prima persona, non espone teorie interpretative né scoperte intellettuali; cerca anzi di scomparire dietro gli autori che predilige e che vuole far conoscere e amare». Questo stile trova piena conferma in questo libro dedicato al tema degli aspetti formativi dell'accompagnamento spirituale, argomento complesso che viene sviluppato attraverso il racconto della vita di Edith Stein, ebrea convertita al cattolicesimo e morta, come suora carmelitana col nome di Teresa Benedetta della Croce, nelle camere a gas del campo di concentramento di Auschwitz il 9 agosto 1942.
L'effetto quindi è “esponenziale”: la suora carmelitana Cristiana Dobner legge la suora carmelitana Edith Stein che legge Teresa d'Avila (e anche San Giovanni della Croce, altro suo grande “accompagnatore”); ne scaturisce una riflessione profonda sulla spiritualità del Carmelo, “luogo” dalla grande potenza simbolica perchè, come ha osservato il teologo gesuita Erich Przywara (che della Stein fu profondo amico), «il Carmelo è l'unico Ordine che rappresenta l'unità dell'Antica e della Nuova Alleanza sotto il simbolo del profeta Elia che secondo la leggenda dell'Ordine ne è il fondatore». Questo è uno dei temi che corre sotto traccia all'intero saggio: la Grazia di Dio perfeziona la natura, come afferma San Tommaso d'Aquino, per cui quando rinnova la vita degli uomini non costringe l'uomo nuovo a rinunciare a niente del vecchio ma solo a rivitalizzarlo, l'ebrea Edith trova il compimento del suo cammino precedente nella Nuova Alleanza conosciuta attraverso la spiritualità carmelitana.
Come ebbe a dire Giovanni Paolo II in occasione della messa per la beatificazione a Colonia, il 1° maggio del 1987: «Ci inchiniamo profondamente di fronte alla testimonianza della vita e della morte di Edith Stein, illustre figlia di Israele e allo stesso tempo figlia del Carmelo. Suor Teresa Benedetta della Croce, una personalità che porta nella sua intensa vita una sintesi drammatica del nostro secolo, una sintesi ricca di ferite profonde che ancora sanguinano; nello stesso tempo la sintesi di una verità piena al di sopra dell'uomo, in un cuore che rimase così a lungo inquieto e inappagato, "fino a quando finalmente trovò pace in Dio"».
Questa suora carmelitana si trova come ad un crocevia tra Antico e Nuovo Testamento e la croce che ha scelto di inserire anche nel suo nuovo nome resta ancora oggi conficcata nel cuore dell’Europa ferita a morte dalla barbarie nazista. Il libro della sua consorella Dobner, ricchissimo di citazioni tratte sia dalle principali opere della Stein sia dalla “positio” preparata per il processo di canonizzazione, permette una rapida ma non superficiale (anzi profondissima) rilettura dell’intensa vicenda biografica di questa donna che Karol Wojtyla ha voluto proclamare co-patrona d’Europa.
Edith nasce il 12 ottobre 1891 a Breslavia, ultima di 11 figli, proprio mentre la famiglia festeggiava lo Yom Kippur, la maggior festività ebraica, il giorno dell'espiazione, una coincidenza che fu sempre considerata dalla carmelitana come un vaticinio. A due anni Edith perde il padre e pochi anni dopo la fede in Dio: «In piena coscienza e di libera scelta smisi di pregare». Brillante studentessa è appassionata di filosofia e della “questione femminile”. Nel 1913 avviene l’incontro all’università di Gottinga con Edmund Husserl di cui Edith diviene assistente: la fenomenologia è vissuta come un ritorno all'oggettivismo, alla concretezza e come premessa ad un ritorno alla fede religiosa. Seguirà Husserl all’università di Friburgo dove consegue nel 1917 la laurea con i massimi voti con una tesi "Sul problema dell'empatia".
In quello stesso anno avviene la crisi che la porta al cristianesimo, per la prima volta Edith sente una mano che la sfiora a cui tenterà di aggrapparsi: «Ciò che non era nei miei piani era nei piani di Dio» scriverà successivamente, «In me prende vita la profonda convinzione che - visto dal lato di Dio - non esiste il caso; tutta la mia vita, fino ai minimi particolari, è già tracciata nei piani della provvidenza divina». Nel frattempo la sua carriera universitaria è bloccata, prima a causa del suo essere donna, dopo, definitivamente, dal suo essere ebrea.
Una sera d’estate del 1921 legge, in una notte, l'autobiografia di Teresa d'Avila per poi dichiarare: «Quando rinchiusi il libro mi dissi: questa è la verità». Il primo gennaio del 1922 Edith Stein si fa battezzare, è il giorno della Circoncisione di Gesù, l'accoglienza di Gesù nella stirpe di Abramo: «Avevo cessato di praticare la mia religione ebraica e mi sentivo nuovamente ebrea solo dopo il mio ritorno a Dio». Il 14 ottobre del 1933 entra nel monastero delle Carmelitane di Colonia dove rimarrà fino al 1942, realizzando una vita di carità e di studio (scrivendo tra l'altro saggi filosofici come Essere finito ed essere eterno, in cui cerca di conciliare la filosofia di Tommaso d'Aquino e la fenomenologia di Husserl e La Scienza della Croce: Studio su Giovanni della Croce).
Nell'agosto del 1942 alla porta del monastero bussa la Gestapo. E' una rappresaglia contro gli ebrei convertiti scatenata dalla comunicazione di protesta dei vescovi cattolici dei Paesi Bassi contro i pogrom e le deportazioni degli ebrei. Insieme a centinaia di ebrei convertiti al cristianesimo Edith viene portata al campo di raccolta di Westerbork. Il 9 agosto Suor Teresa Benedetta della Croce, assieme a sua sorella Rosa ed a molti altri del suo popolo, muore nelle camere a gas di Auschwitz. Tutta questa drammatica vicenda scorre in filigrana sullo sfondo del libro di suor Cristiana Dobner sul linguaggio di Dio nel cuore dell'uomo, un linguaggio discreto, delicato. Dio che bussa alla porta di ogni uomo infatti non si impone né intende violentare la libertà umana che viene anzi custodita dalla sua grazia, un concetto ben espresso dal titolo: “se afferro la mano che mi sfiora”.
La cosa fondamentale, ci dice la Dobner (raggiunta telefonicamente nel suo convento di Concenedo), è che esiste la mano di un Altro che ci sfiora, che chiede il nostro contatto, la comunione, ma si tratta appunto di uno “sfiorare”, non è Dio che ci afferra ma siamo noi che possiamo, se vogliamo, afferrare Lui. E altrettanto fondamentale è il fatto che si tratti della mano di un Altro: il cammino interiore, necessario per fare luce nel mistero della propria esistenza, non equivale ad un vago intimismo né ad una deriva solipsistica che oggi molte vie “alternative” di spiritualità propongono. In questo senso molto chiara è la riflessione sulla preghiera e la sua importanza per la “costruzione” (Aufbau in tedesco) del proprio cammino esistenziale, perchè la preghiera non è un curvarsi in se stessi ma al contrario un aprirsi, un uscire fuori per tendersi verso la mano che ci sfiora.
IL NICHILISMO, L'“OSPITE INQUIETANTE” CHE SI AGGIRA PER L'EUROPA - Per il Card. Bagnasco, alla radice della crisi educativa vi è la “sfiducia nella vita”
ROMA, venerdì, 25 febbraio 2011 (ZENIT.org).- “C’è un ospite inquietante che si aggira per l'Europa: è il nichilismo” che “conforma pensieri, cancella prospettive e orizzonti”. E' quanto ha detto il Cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), nel presentare il 24 febbraio, all’Università Pontificia Salesiana di Roma, la Nota pastorale della CEI “Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020”.
Nel suo intervento il porporato ha posto diverse problematiche, ed ha invitato a “chiedersi non tanto cosa posso fare per i giovani, quanto cosa siamo noi adulti. Perché siamo punti di riferimento, maestri di vita, sia con le parole che con la testimonianza delle opere”. Per questo ha incoraggiato a “una messa in discussione” a “una verifica del proprio modo di essere”.
L’Arcivescovo di Genova ha quindi voluto ricordare che “l’atteggiamento di fondo della Chiesa verso il mondo è la simpatia”, tanto che il mistero dell’Incarnazione potrebbe essere interpretato come “la simpatia di Dio verso l’umanità ferita dal peccato e dalla morte”.
Dunque “è la passione per Cristo che spinge i credenti alla passione per l’umanità” e qui si trova “il nostro principio fondativo per servire il mondo”. Ma se questa motivazione si affievolisce, si perde “la motivazione di essere il sale e la luce della storia”. Per questo ha detto Bagnasco, il Santo Padre non si stanca di esortarci a “non distrarre lo sguardo dal volto di Cristo”.
Il porporato ha però sottolineato che alla radice della emergenza educativa vi è la “sfiducia nella vita”. Anche se un'altra causa si può rintracciare anche in “uno snervamento della ragione”.
E “su questa esposizione senza difese – ha continuato il Presidente della CEI –, si concentra il fuoco incrociato degli interessi più diversi, economico-commerciali, ideologici. Il risultato interiore è una emotività che, rispetto ai tempi passati, è molto più sollecitata e incontrollata, a cui corrisponde uno spazio di riflessione molto più modesto, fino a cristallizzare la non-distinzione tra intelligenza e impressionabilità”.
Citando il filosofo Jacques Maritain il Cardinale Bagnasco ha ricordato che “i giovani attendono altro: il loro cuore non invoca questo male di vivere, al contrario guarda e aspira altrove con la nativa speranza che l’avventura della vita sia promettente e piena di sole, ricca di significati, degna di essere vissuta lasciando qualcosa di meglio e di grande”.
L’opera educativa, ha proseguito, “esige un rapporto personale di fedeltà tra soggetti attivi, che sono protagonisti della relazione educativa, anche in forza del fatto che il lavoro educativo s’innesta nell’atto generativo e nell’esperienza di essere figli: non si finisce mai di essere figli, per questo possiamo essere padri ed educatori”. E quindi “ogni genitore di fronte al figlio, così come ogni educatore di fronte al giovane, non deve chiedersi 'cosa posso fare per lui?', ma 'chi sono io?'”.
Da qui anche la necessità di educare alle domande, alla verità, alla ragione, all’umano e alla fede pensata.
“La questione dei cosiddetti 'valori non negoziabili' – ha proseguito – , con tutto ciò che ne consegue, demarca questa linea di confine, questo crinale oltre il quale l’uomo perde se stesso e la società diventa disumana. Non essere pienamente consapevoli di questa scommessa e non starci con le ragioni della ragione confermata e illuminata dalla fede, significherebbe un grave peccato di omissione verso Dio e verso l’uomo”.
E “la nota espressione – cultura della vita e cultura della morte – non è una forma letteraria usata dal Magistero per la sua forza suggestiva, ma descrive lucidamente la realtà che viviamo: si tratta del futuro dell’uomo – ha concluso –. Ridimensionare o silenziare, non prendere in mano con decisione e grande impegno la questione, sarebbe mancare all’appuntamento a cui il Signore ci chiama”.
PER GIOVANNI PAOLO II IL PRIMO COMPITO DI UN PAPA È PREGARE - Parla il postulatore della causa di beatificazione di Karol Woityla di Chiara Santomiero
ROMA, venerdì, 25 febbraio 2011 (ZENIT.org).- “Una conferma della totale trasparenza della sua vita come uomo e come sacerdote”: ha sintetizzato così mons. Slawomir Oder, postulatore della causa di beatificazione di Giovanni Paolo II, il processo canonico che ha verificato le virtù eroiche del venerabile servo di Dio Karol Woityla aprendo la strada alla beatificazione del 1° maggio prossimo.
L’occasione è stata una conferenza svoltasi questo venerdì a Roma all'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. “Non vi fu – ha proseguito Oder – un Woityla pubblico e uno privato: l’opinione che il mondo aveva maturato nei suoi riguardi negli oltre 26 anni del suo pontificato, si è dimostrata vera”.
Di conseguenza “la sua simpatia, il fervore della preghiera, la spontaneità del raccontarsi, la capacità di intessere rapporti, non erano semplici attributi di un’immagine mediatica, ma costituivano la reale essenza della sua persona”. Piuttosto il “vero tesoro” del processo è “la conferma certa della fonte della sua coerenza, energia, entusiasmo, profondità e naturalezza” che è “l’incontro con Dio, il suo essere innamorato di Cristo e sentirsi amato da Lui”.
“Cercano di capirmi dal di fuori – aveva confidato una volta Woityla – ma io posso essere compreso solo dal di dentro”. Da qui “quell’autentico dono e gusto e gioia della preghiera” a cui Woityla “è rimasto sempre fedele, fino alle ore della sua agonia”. Una preghiera che costituiva “l’aria che respirava, l’acqua che beveva, il cibo che lo nutriva”. Come risulta da più testimonianze, per Giovanni Paolo II “il primo compito del Papa verso la Chiesa e il mondo è quello di pregare”
“Il percorso mistico di Woityla – ha spiegato Oder – si è profilato come un progressivo fare di se stesso un anawim, il ‘povero d’Israele’ che non ha altra speranza e altro punto di riferimento se non Dio”. “E’ dalla preghiera – ha aggiunto Oder – che nasceva la fecondità del suo agire”. Non per niente, ai collaboratori che invitati a suggerire delle soluzioni a particolari problemi ammettevano di non averle ancora trovate, era solito ripetere: “Si troveranno quando avremo pregato di più”. Dalla preghiera nasceva anche “la capacità di dire la verità senza paura poiché chi è solo davanti a Dio non ha paura degli uomini”.
Una straordinaria libertà interiore che si esprimeva, innanzitutto, nel rapporto con i beni materiali. “Anche da Papa – ha affermato Oder – egli è stato uomo di radicale povertà”. “Commuove – ha raccontato il sacerdote polacco – la testimonianza delle persone a lui vicine a Cracovia che per fargli rinnovare il guardaroba dovevano ricorrere allo stratagemma di lavare i nuovi indumenti più volte in modo da farli sembrare usati perché sapevano che altrimenti li avrebbe subito donati a una persona bisognosa”.
Tuttavia, uno degli aspetti più toccanti della sua scelta di povertà, secondo Oder è “aver lasciato la parola poetica per accogliere il Verbo”, superando, con la scelta del sacerdozio, “l’attrazione che esercitava su di lui un’altra vocazione, quella per il teatro”.
La libertà interiore si esercitava anche nei confronti degli altri e se “sapeva ascoltare e accettare la critica, prediligendo la collaborazione” tuttavia “non rinunciava a prendere posizioni difficili e scomode” per timore “delle reazioni delle autorità ostili alla Chiesa negli anni in Polonia” o per “l’incomprensione dell’opinione pubblica predominante negli anni del suo Pontificato”. Il suo obiettivo, infatti non era “il proprio successo o una sua autonoma realizzazione” ma “annunciare la verità del Vangelo e difendere la verità sull’uomo”. Da questa libertà che si fonda sul rapporto con Dio “nasce il grido ‘Non abbiate paura’, inizio e cifra del suo pontificato”.
Forse proprio la ricerca di vicinanza ad ogni uomo “nel desiderio di essere solidale con le sue gioie e i suoi dolori, di cercare e di vivere la verità dell’essere uomo” ha reso Woityla “così caro e amato dal popolo di Dio”. Si è verificato, secondo Oder “un fenomeno singolare: Woityla che ha perso ben presto la sua famiglia naturale, aveva un forte senso della famiglia, sapeva donare il calore umano”.
Come attestano le lettere che continuano ad arrivare all’ufficio del postulatore e in cui ci si rivolge a Giovanni Paolo II come “il nostro Papa, Lolek, Karol, zio, nonno, padre”. Un fenomeno che non è limitato ai cattolici: “in un incontro occasionale – ha raccontato Oder – una donna ebrea mi disse di aver perso il padre due volte; la prima quando le era morto il padre naturale e la seconda con la morte di Giovanni Paolo II”.
Un altro tratto essenziale della personalità di Woityla non va dimenticato: “la presenza della croce nella sua vita, portata con dignità e, alla fine, in un silenzio che parlava più della parola” rivendicando “il diritto all’esistenza che la società dell’effimero nasconde con vergogna”. “Milioni di persone nel mondo – ha ricordato Oder – conservano nella memoria l’immagine trasmessa dalla tv, del Papa di spalle nella sua cappella privata, abbracciato alla croce durante la celebrazione del Venerdì santo”.
“Sono convinto – ha affermato Oder – che celebrare il processo sia stato utile”. Lungi dall’essere “il burocratico esame di un’esistenza” ha, invece, “consentito di restituire intensità e vigore agli aspetti già noti della vicenda umana di Papa Woityla insieme agli episodi inediti offerti alla condivisione comune”. Se “scopo della Chiesa, come affermava Woityla, è portare il più grande numero di persone alla santità”, il popolo dei devoti “non ha dubbi – ha concluso Oder – sulla singolarità del suo esempio, spinto fino all’estremo sacrificio”.
Avvenire.it, 26 febbraio 2011 - ALLA PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA - Il Papa: l'aborto è sempre un'esperienza distruttiva
L'attuale sfondo culturale" è caratterizzato "dall'eclissi del senso della vita, in cui si è molto attenuata la comune percezione della gravità morale dell'aborto e di altre forme di attentati contro la vita umana". È il richiamo lanciato dal Papa che, ricevendo in udienza l'assemblea della Pontificia Accademia per la Vita, ha chiesto ai medici di mantenere "una speciale fortezza per continuare ad affermare che l'aborto non risolve nulla, ma uccide il bambino, distrugge la donna e acceca la coscienza del padre del bambino, rovinando, spesso, la vita famigliare".
I medici, inoltre, devono "difendere" le donne dall' "inganno" dell'aborto. Benedetto XVI ha sottolineato che l'aborto non è mai una soluzione nè a difficoltà familiari ed economiche, nè a problemi di salute, mentre "la donna viene spesso convinta, a volte dagli stessi medici, che l'aborto rappresenta non solo una scelta moralmente lecita, ma persino un doveroso atto 'terapeuticò ".
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Avvenire.it, 26 febbraio 2011 - ALLA PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA - «Tutta la società difenda il diritto alla vita»
Signori Cardinali
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari Fratelli e Sorelle,
vi accolgo con gioia in occasione dell’Assemblea annuale della Pontificia Accademia per la Vita. Saluto in particolare il Presidente, Mons. Ignacio Carrasco de Paula, e lo ringrazio per le sue cortesi parole. A ciascuno rivolgo il mio cordiale benvenuto! Nei lavori di questi giorni avete affrontato temi di rilevante attualità, che interrogano profondamente la società contemporanea e la sfidano a trovare risposte sempre più adeguate al bene della persona umana. La tematica della sindrome post-abortiva - vale a dire il grave disagio psichico sperimentato frequentemente dalle donne che hanno fatto ricorso all’aborto volontario - rivela la voce insopprimibile della coscienza morale, e la ferita gravissima che essa subisce ogniqualvolta l’azione umana tradisce l’innata vocazione al bene dell’essere umano, che essa testimonia. In questa riflessione sarebbe utile anche porre l’attenzione sulla coscienza, talvolta offuscata, dei padri dei bambini, che spesso lasciano sole le donne incinte. La coscienza morale - insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica - è quel “giudizio della ragione, mediante il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto che sta per porre, sta compiendo o ha compiuto” (n. 1778). È infatti compito della coscienza morale discernere il bene dal male nelle diverse situazioni dell’esistenza, affinché, sulla base di questo giudizio, l’essere umano possa liberamente orientarsi al bene. A quanti vorrebbero negare l’esistenza della coscienza morale nell’uomo, riducendo la sua voce al risultato di condizionamenti esterni o ad un fenomeno puramente emotivo, è importante ribadire che la qualità morale dell’agire umano non è un valore estrinseco oppure opzionale e non è neppure una prerogativa dei cristiani o dei credenti, ma accomuna ogni essere umano. Nella coscienza morale Dio parla a ciascuno e invita a difendere la vita umana in ogni momento. In questo legame personale con il Creatore sta la dignità profonda della coscienza morale e la ragione della sua inviolabilità.
Nella coscienza l’uomo tutto intero - intelligenza, emotività, volontà - realizza la propria vocazione al bene, cosicché la scelta del bene o del male nelle situazioni concrete dell’esistenza finisce per segnare profondamente la persona umana in ogni espressione del suo essere. Tutto l’uomo, infatti, rimane ferito quando il suo agire si svolge contrariamente al dettame della propria coscienza. Tuttavia, anche quando l’uomo rifiuta la verità e il bene che il Creatore gli propone, Dio non lo abbandona, ma, proprio attraverso la voce della coscienza, continua a cercarlo e a parlargli, affinché riconosca l’errore e si apra alla Misericordia divina, capace di sanare qualsiasi ferita.
I medici, in particolare, non possono venire meno al grave compito di difendere dall’inganno la coscienza di molte donne che pensano di trovare nell’aborto la soluzione a difficoltà familiari, economiche, sociali, o a problemi di salute del loro bambino. Specialmente in quest’ultima situazione, la donna viene spesso convinta, a volte dagli stessi medici, che l’aborto rappresenta non solo una scelta moralmente lecita, ma persino un doveroso atto “terapeutico” per evitare sofferenze al bambino e alla sua famiglia, e un “ingiusto” peso alla società. Su uno sfondo culturale caratterizzato dall’eclissi del senso della vita, in cui si è molto attenuata la comune percezione della gravità morale dell’aborto e di altre forme di attentati contro la vita umana, si richiede ai medici una speciale fortezza per continuare ad affermare che l’aborto non risolve nulla, ma uccide il bambino, distrugge la donna e acceca la coscienza del padre del bambino, rovinando, spesso, la vita famigliare.
Tale compito, tuttavia, non riguarda solo la professione medica e gli operatori sanitari. È necessario che la società tutta si ponga a difesa del diritto alla vita del concepito e del vero bene della donna, che mai, in nessuna circostanza, potrà trovare realizzazione nella scelta dell’aborto. Parimenti sarà necessario - come indicato dai vostri lavori - non far mancare gli aiuti necessari alle donne che, avendo purtroppo già fatto ricorso all’aborto, ne stanno ora sperimentando tutto il dramma morale ed esistenziale. Molteplici sono le iniziative, a livello diocesano o da parte di singoli enti di volontariato, che offrono sostegno psicologico e spirituale, per un recupero umano pieno. La solidarietà della comunità cristiana non può rinunciare a questo tipo di corresponsabilità. Vorrei richiamare a tale proposito l’invito rivolto dal Venerabile Giovanni Paolo II alle donne che hanno fatto ricorso all’aborto: “La Chiesa sa quanti condizionamenti possono aver influito sulla vostra decisione, e non dubita che in molti casi s’è trattato d’una decisione sofferta, forse drammatica. Probabilmente la ferita nel vostro animo non s’è ancor rimarginata. In realtà, quanto è avvenuto è stato e rimane profondamente ingiusto. Non lasciatevi prendere, però, dallo scoraggiamento e non abbandonate la speranza. Sappiate comprendere, piuttosto, ciò che si è verificato e interpretatelo nella sua verità. Se ancora non l’avete fatto, apritevi con umiltà e fiducia al pentimento: il Padre di ogni misericordia vi aspetta per offrirvi il suo perdono e la sua pace nel sacramento della Riconciliazione. Allo stesso Padre e alla sua misericordia potete affidare con speranza il vostro bambino. Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere con la vostra sofferta testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di tutti alla vita” (Enc. Evangelium vitae, 99).
La coscienza morale dei ricercatori e di tutta la società civile è intimamente implicata anche nel secondo tema oggetto dei vostri lavori: l’utilizzo delle banche del cordone ombelicale, a scopo clinico e di ricerca. La ricerca medico-scientifica è un valore, e dunque un impegno, non solo per i ricercatori, ma per l’intera comunità civile. Ne scaturisce il dovere di promozione di ricerche eticamente valide da parte delle istituzioni e il valore della solidarietà dei singoli nella partecipazione a ricerche volte a promuovere il bene comune. Questo valore, e la necessità di questa solidarietà, si evidenziano molto bene nel caso dell’impiego delle cellule staminali provenienti dal cordone ombelicale. Si tratta di applicazioni cliniche importanti e di ricerche promettenti sul piano scientifico, ma che nella loro realizzazione molto dipendono dalla generosità nella donazione del sangue cordonale al momento del parto e dall’adeguamento delle strutture, per rendere attuativa la volontà di donazione da parte delle partorienti. Invito, pertanto, tutti voi a farvi promotori di una vera e consapevole solidarietà umana e cristiana. A tale proposito, molti ricercatori medici guardano giustamente con perplessità al crescente fiorire di banche private per la conservazione del sangue cordonale ad esclusivo uso autologo. Tale opzione - come dimostrano i lavori della vostra Assemblea - oltre ad essere priva di una reale superiorità scientifica rispetto alla donazione cordonale, indebolisce il genuino spirito solidaristico che deve costantemente animare la ricerca di quel bene comune a cui, in ultima analisi, la scienza e la ricerca mediche tendono.
Cari Fratelli e Sorelle, rinnovo l’espressione della mia riconoscenza al Presidente e a tutti i Membri della Pontificia Accademia per la Vita per il valore scientifico ed etico con cui realizzate il vostro impegno a servizio del bene della persona umana. Il mio augurio è che manteniate sempre vivo lo spirito di autentico servizio che rende le menti e i cuori sensibili a riconoscere i bisogni degli uomini nostri contemporanei. A ciascuno di voi e ai vostri cari imparto di cuore la Benedizione Apostolica.
Benedetto XVI
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Avvenire.it, 26 febbraio 2011, LA DIFESA DELLA VITA - Farmacisti: obiezione possibile alla pillola del giorno dopo
Il Comitato nazionale per la Bioetica (Cnb) si pronuncia a favore dell’obiezione di coscienza dei farmacisti che non vogliono dare la pillola del giorno dopo, ma al contempo chiede che le autorità competenti provvedano a tutelare anche il diritto di chi richiede quel prodotto. Questa la posizione espressa in un documento votato dalla plenaria di ieri. «A fronte dell’ipotesi che il legislatore riconosca il diritto all’obiezione di coscienza del farmacista e degli ausiliari di farmacia – si legge in una nota del Comitato – i componenti del Cnb si sono trovati d’accordo che, nel rispetto dei principi costituzionali, si debbano considerare e garantire gli interessi di tutti i soggetti coinvolti, come generalmente previsto in situazioni analoghe. Presupposto necessario e indispensabile per l’eventuale riconoscimento legale dell’obiezione di coscienza è, dunque, che la donna debba avere in ogni caso la possibilità di ottenere altrimenti la realizzazione della propria richiesta farmacologia e che spetti alle istituzioni e alle autorità competenti, sentiti gli organi professionali coinvolti, prevedere i sistemi più adeguati nell’esplicitazione degli strumenti necessari e delle figure responsabili per la attuazione di questo diritto».
Come ha riferito il vicepresidente del Cnb, Lorenzo D’Avack, «è emersa una maggioranza a favore dell’obiezione di coscienza per i farmacisti». Tutti d’accordo, invece, i membri del Cnb nel sollecitare, quando il legislatore approverà la norma sull’obiezione di coscienza per tale categoria, la previsione di un sistema organizzativo che consenta comunque alla donna che ne faccia richiesta di ottenere la pillola del giorno dopo.
«In via generale» dunque il Cnb ha riconosciuto che l’obiezione di coscienza «ha un fondamento costituzionale nel diritto generale alla libertà religiosa e alla libertà di coscienza». Si è voluto aggiungere, però, che l’attuazione di questi principi «deve pur sempre essere realizzato nel rispetto degli altri diritti fondamentali previsti dalla nostra Carta costituzionale e fra questi l’irrinunciabile diritto del cittadino a vedere garantita la propria salute e a ricevere quella assistenza sanitaria riconosciuta per legge».
Il documento votato ieri risponde a un quesito formulato dalla deputata udc Luisa Capitanio Santolini, «in merito alla clausola di coscienza invocata dal farmacista per non vendere quei prodotti farmaceutici di contraccezione d’emergenza anche indicati come "pillola del giorno dopo", per i quali nel foglio illustrativo non si esclude la possibilità di un meccanismo d’azione che porti all’eliminazione di un embrione umano».
La maggioranza del Cnb ha «ritenuto che si possa riconoscere al farmacista un ruolo ritenuto riconducibile a quello degli operatori sanitari e che pertanto, in analogia a quanto avviene per altre figure professionali, debba necessariamente essere riconosciuta anche a questa categoria professionale il diritto all’obiezione. Il fatto che il farmacista svolga un ruolo "meno diretto" rispetto a chi pratica clinicamente l’aborto non è stata ritenuta ragione sufficiente per invalidare l’argomento a favore della clausola morale, dato che la consegna del prodotto contribuisce a un eventuale esito abortivo in una catena di causa ed effetti senza soluzione di continuità».
Secondo altri membri del Comitato, invece, non si potrebbe «assimilare la figura del farmacista a quella del medico, dato che il rapporto con l’utente è generico: è la ricetta che legittima la consegna del farmaco e non l’identità della persona che lo ritira». Secondo i sostenitori di questa tesi, il diritto all’obiezione di coscienza costituirebbe un impedimento all’autodeterminazione della donna e addirittura una facoltà di censurare l’operato del medico.
«Soddisfazione» per la posizione assunta dal Cnb, pur in attesa di leggere le motivazioni integrali, è stata espressa dalla Capitanio Santolini, che ha evidenziato come questo pronunciamento «sgombri il campo da polemiche pretestuose surrettizie». Ora, sottolinea la parlamentare dell’Udc, auspicando una pronta calendarizzazione della sua proposta, «il legislatore potrà mettere mano all’attuazione di questo parere e, nel provvedere a rendere disponibile il farmaco a chi lo richiede, non si deve minimamente ledere la libertà del farmacista di praticare l’obiezione di coscienza, anche se dipendente, garantendogli nel mondo più pieno l’esercizio di questo diritto fondamentale senza subire alcuna discriminazione». Nel parere viene evidenziato, ha notato sempre nell’Udc Paola Binetti, come «il ruolo del farmacista non possa essere ridotto ad una semplice funzione commerciale di compra-vendita, ma abbia invece tutta la dignità del lavoro dell’operatore sanitario, che ha una competenza specifica nella gestione del farmaco, come conferma l’obbligo di controllare le ricette».
Pier Luigi Fornari
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Avvenire.it, 26 febbraio 2011, L'OSPITE - Una retta interpretazione del Ddl sulla fine della vita - Con le Dat non si impone nulla - Ma certe scelte non sono delegabili
Un grande maestro europeo del diritto, R. Von Ihering, ha scritto una volta un aureo libretto che ricordo di avere letto nei miei anni giovanili. Il titolo è Der Zweck im Recht (La finalità nel diritto). Lì Jhering spiega che per interpretare una norma e collocarla in modo corretto nel sistema normativo di cui essa è parte bisogna prima di tutto intendere la finalità della norma stessa, l’interesse umano che essa intende proteggere. Anche per capire la legge che stiamo facendo sulle Dichiarazioni Anticipate di trattamento dobbiamo domandarci: “quale è il telos (il fine), quale è l’interesse che la legge intende proteggere?”. È l’interesse ed il diritto della persona a vivere fino al termine naturale della propria esistenza. Questo implica il rifiuto della eutanasia ed il rifiuto dell’accanimento terapeutico. L’eutanasia pone alla vita un termine artificiale, fa morire una persona prima che la vita sia giunta al suo termine naturale.
L’accanimento terapeutico prolunga la vita oltre il suo termine naturale.
Non è possibile criticare questa legge per il fatto che essa non contiene prescrizioni eutanasiche. Qualcuno è a favore dell’eutanasia ed avrebbe voluto una legge che introducesse in Italia l’eutanasia, magari solo in alcuni casi, in modo da rompere la presunzione a favore della vita che regge oggi il nostro ordinamento e legittimare più tardi interventi legislativi più forti a favore della eutanasia. Io sono grato a chi afferma francamente di essere a favore della eutanasia perché questo permette di discutere con onestà intellettuale. Diffido un poco invece di chi inizia il suo discorso dicendo “io beninteso sono contro l’eutanasia” per poi arrivare nei fatti a chiedere la liberalizzazione di prescrizioni eutanasiche.
Vediamo adesso di fornire alcune chiarificazioni su alcuni artifici retorici che spesso ricorrono nella discussione intorno a questa legge. Alcuni dicono “io sono contro l’eutanasia ma non possiamo imporre la alimentazione forzata a chi non la vuole”. La legge non prevede nessuna alimentazione forzata. Se uno non vuole la alimentazione forzata e la rifiuta nessuno può imporgliela. Fa uso della sua libertà e ne dispone lui davanti a Dio e davanti agli uomini. Il problema insorge quando uno non è in grado di formulare un atto di volontà, per esempio perché è in coma. La persona non è in grado di badare a se stessa ed è affidata a chi ne ha cura. Immaginiamo che il paziente sia in cura intensiva e che siano esaurite le probabilità di una guarigione. Il paziente ha lasciato un documento in cui dice di non volere essere mantenuto in vita artificialmente. Il medico in questo caso ha il dovere di sospendere le cure straordinarie. A questo punto in genere il paziente muore. Servono in questo caso le direttive anticipate di trattamento? Certo che servono. Il medico avrebbe dovuto decidere comunque prima o poi di sospendere i trattamenti. Il fatto di avere la dichiarazione del paziente lo aiuta a prendere la decisione (insieme con il fiduciario indicato nelle dichiarazioni anticipate) e lo tutela anche contro possibili azioni legali dei familiari. La decisione verrà presa (probabilmente) prima e con minori difficoltà. A questo serve la dichiarazione anticipata di trattamento. Nella stragrande maggioranza dei casi le cose vanno in questo modo. Quasi tutti noi moriremo così.
A volte però il paziente anche dopo che tutte le terapie sono state interrotte si rifiuta di morire. Che dobbiamo fare in questo caso? Qualcuno pensa: provvediamo noi a farlo morire comunque, magari iniettandogli un qualche veleno nelle vene. Evidentemente questo non sarebbe un termine naturale dell’esistenza e ciò sarebbe incompatibile con la legge. Qualcuno allora, per aggirare questa difficoltà, propone di sospendere la alimentazione del paziente, per farlo morire di fame e di sete. È ammissibile questo? Evidentemente no. La morte per fame e per sete non sarebbe un termine naturale dell’esistenza. A rendere più penosa la situazione si aggiunge il fatto che non è sempre chiaro il confine fra il vero coma prolungato ed altri stati solo apparentemente simili nei quali il paziente mantiene sensibilità e capacità di soffrire, tanto è vero che chi sospende l’alimentazione e la idratazione ha cura di dare la sedazione al paziente perché è possibile, anzi probabile, che egli avverta il dolore. La legge pensa che questo non si possa fare ed il paziente debba essere alimentato fino a che sopravvenga la morte naturale.
Immaginiamo però che il paziente abbia lasciato scritto che non vuole la alimentazione artificiale. Che faremo in questo caso? La legge in preparazione dice che in questo caso non si deve tenere conto del documento. Perché? Perché è giusto obbedire alla volontà di chi dice di non volere la alimentazione artificiale e non è giusto obbedire ad un documento che chiede la stessa cosa? La ragione è semplice. Il rifiuto di terapie salvavita o di ordinarie misure di assistenza e cura che preservano la vita è un atto personalissimo assolutamente non delegabile. La persona deve esprimerlo direttamente. La ragione è che ogni atto di volontà si colloca in un contesto. Il contesto della imminente minaccia di vita è un contesto assolutamente straordinario. È elevata la probabilità che in quel contesto la persona esprimerebbe una indicazione diversa da quella che ha lasciato scritta in un documento. Ne abbiamo la riprova nel caso, ben noto, di chi tenta il suicidio. La sua volontà di morire è, in questo caso, evidente e comprovata da un gesto ben più eloquente di una dichiarazione scritta. Noi tuttavia lo assistiamo e, se questo è possibile, gli salviamo la vita. Nella maggioranza dei casi l’aspirante suicida è contento di essere stato salvato e non ripete il tentativo. Per questo è ingiusto parlare di “alimentazione forzata”. Semplicemente vale qui una presunzione a favore della vita in assenza di una indicazione contraria attuale. La semplice verità è che noi non sappiamo cosa pensi o voglia chi è in stato di incoscienza. In altre parole: se uno si suicida deve farlo lui personalmente, non può delegare l’incombenza ad altri e meno che mai al servizio sanitario nazionale.
Ma, si dice, in questo modo noi neghiamo il principio costituzionalmente garantito della autodeterminazione del paziente. E si cita, a questo proposito, l’art. 32 della Costituzione, secondo comma. Leggiamolo allora questo articolo 32, ma leggiamolo per intero e non in una versione abbreviata di comodo, come ha fatto anche di recente un autorevole commentatore del Corriere della Sera. Ecco il testo abbreviato e falsificato: “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario”. Ecco il testo autentico: “Nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Invece di un divieto assoluto abbiamo qui una semplice riserva di legge. La riserva è poi rafforzata da una clausola di chiusura: “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. In altre parole ove venisse istituito un trattamento sanitario obbligatorio esso dovrebbe essere rivolto sempre (anche) al bene del paziente e dovrebbe trattarlo sempre come un fine in sé e non semplicemente come un mezzo. È risibile il tentativo di far derivare dal rispetto della persona umana il diritto alla eutanasia. Se alcuni vedono in tale diritto l’espressione suprema della libertà e dignità della persona altri vedono in esso la rinuncia più assoluta a tale libertà e dignità. È giusto che se ne discuta nel Parlamento e nel paese ma è bene che nessuno pretenda di chiudere le orecchie alle ragioni dell’altro sequestrando a proprio favore la Costituzione. La Costituzione è di tutti e non decide questo problema. Sarà bene ricordare, inoltre, che la Costituzione è il risultato di un patto fra cattolici, liberali laici e comunisti. Se una interpretazione capziosa ed estensiva altera i termini di questo patto e dichiara incostituzionali valori fondamentali dei cattolici allora è la ragione di vita della Costituzione che viene meno ed ha ragione chi dice che bisogna negoziare un nuovo patto costituzionale, ma non nelle aule dei tribunali bensì nel parlamento e nel paese. I cattolici possono accettare di essere sconfitti in una battaglia politica libera e democratica ma non possono accettare di essere considerati come cittadini di seconda categoria le cui convinzioni sono a priori contro la Costituzione.
Nel caso specifico che ci riguarda è però sbagliato scomodare l’art. 32 della Costituzione. Ciò di cui stiamo parlando sono semplicemente le condizioni di validità di un atto di volontà con cui si rinuncia a misure di sostegno vitale. Si dice semplicemente che questo atto non è delegabile. Nel bilanciamento fra il principio costituzionale della difesa della vita e quello della autodeterminazione si stabilisce un equilibrio per cui prevale il principio di autodeterminazione quando la volontà viene espressa direttamente e prevale il favor vitae quando manchi questa espressione diretta.
Resta infine da considerare un’ultima obiezione: la legge contraddirebbe gli indirizzi giurisprudenziali della Corte di Cassazione. Su questo punto basta replicare che le leggi non le fanno i giudici ma il Parlamento.
(testo integrale dell'intervento in Commissione Giustizia del 22 febbraio 2011, pubblicato in forma ridotta su Avvenire del 26 febbraio 2011)
Rocco Buttiglione, vicepresidente della Camera e presidente dell'Udc
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IL DRAMMA DELL’ABORTO NELLE PAROLE DEL PAPA - Nella coscienza morale il vero cuore dell’umano di ROBERTO COLOMBO, Avvenire, 27 febbraio 2011
Stiamo attraversando tempi in cui il dibattito sui comportamenti è entrato nelle nostre case e affiora nei i dialoghi attorno a un caffè tra colleghi e amici. Alla popolarità dell’etica 'in terza persona' – quella dello spettatore che si tiene lontano dal palcoscenico per non rischiare di immedesimarsi o di essere confuso con gli attori – corrisponde un’emarginazione della coscienza morale, dell’'io' in azione che si interroga su se stesso, sulla qualità di bene o di male dei propri desideri e atti, non di quelli degli altri. Alcuni vorrebbero insegnare come difendersi dalla tirannia del moralismo e far tramontare l’apoteosi dell’etica pubblica. Altri ne celebrano il trionfo, quasi preludio di una catarsi della società e della politica. Il grande assente resta il soggetto antropologico, l’uomo reale, concreto quale io sono, con la sua inalienabile dignità che gli deriva dall’essere l’unico abitante dell’universo che porta la coscienza di sé e del mondo, che vive la drammatica tensione tra la propria finitudine e la vocazione all’infinito, tra il desiderio del bene e il fascino suadente del male. Alla necessità di un ritorno alla coscienza come «cuore dell’umano» ha fatto riferimento Benedetto XVI nel limpido e incisivo discorso di ieri all’Accademia pontificia per la vita. Il Papa ha ricordato che uomo e coscienza coesistono originalmente: la seconda non è una sovrastruttura facoltativa, della quale ciascuno di noi si possa servire in talune circostanze e disfare in altre. «A quanti vorrebbero negare l’esistenza della coscienza morale dell’uomo, riducendo la sua voce al risultato di condizionamenti esterni o a un fenomeno puramente emotivo, è importante ribadire che la qualità morale dell’agire umano non è un valore estrinseco oppure opzionale e non è neppure una prerogativa dei cristiani o dei credenti, ma accomuna ogni essere umano». Il male non è solo una malattia della vita pubblica, della vita degli altri, da denunciare e da curare, ma è dentro ciascuno di noi per quella «ferita originale» con la quale veniamo al mondo, «cosicché la scelta del bene o del male nelle situazioni concrete dell’esistenza finisce per segnare profondamente la persona umana in ogni espressione del suo essere». Il riferimento al dramma dell’aborto, che lacera la coscienza della donna fino a incidere nella sua psiche anche per molti anni, diviene allora esemplare della drammaticità dell’umana esistenza, resa ancora più acuta da «uno sfondo culturale caratterizzato dall’eclissi del senso della vita». Una considerazione cara a Benedetto XVI, sin dall’inizio del suo pontificato, ripresa nel motu proprio
Ubicumque et semper
sulla nuova evangelizzazione: «Il grande problema dell’Occidente è l’oblìo di Dio: un oblìo che si espande» in ogni piega della vita, allargando quel «deserto interiore che nasce là dove l’uomo, volendosi unico artefice della propria natura e del proprio destino, si trova privo di ciò che costituisce il fondamento di tutte le cose». Il ritorno alla coscienza non è separabile dal ritorno al fondamento, all’Essere, la meraviglia per tutto ciò che esiste in me e attorno a me, ma che non ho fatto io.
«Due cose mi riempiono di stupore – diceva Kant –: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me. [...] Io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza». Di questo stupore ha bisogno ciascuno di noi per ricominciare a vivere ogni mattina, e l’intera società per far rifiorire la vita pubblica e il bene comune.
Domenica 27 febbraio 2011 - Il Papa ha capito che nelle "banche della vita" c'è un bel po' di egoismo. Dubbi anche dalla comunità scientifica di Carlo Bellieni © Copyright L'Occidentale, 27 febbraio 2011
Le parole del Papa nell’udienza di ieri ai membri della Pontificia Accademia per la Vita, che sollevano forti e concreti dubbi riguardo l’utilità di conservare “per uso proprio” e “in banca” il sangue che alla nascita si prende dal cordone ombelicale del neonato (come vorrebbero certi ambienti cosiddetti progressisti), solleveranno critiche: interessi e pregiudizi non si contano nel nostro Bel Paese; ma bisogna essere perlomeno disinformati per criticare un ragionamento chiaro e scientificamente fondato come quello del Santo Padre a proposito di questo uso. E se leggete qui, finirete col ringraziarlo.
Il sangue preso dal cordone ombelicale è ricco di cellule staminali curative che si possono donare o tenere per sé in costose banche private. Ma: “Il Sistema Sanitario non deve incoraggiare la creazione di banche commerciali per il sangue di cordone ombelicale”. E non sono parole del Papa, ma di Leroy Endozien sul British Medical Journal del 14 ottobre 2006. Ora, si deve sapere che alla nascita di un bambino è possibile prelevare il sangue dal cordone ombelicale (SCO) del bambino stesso, ricco in cellule staminali, donarlo al centro di ematologia che lo conserverà per possibili usi terapeutici in favore di un possibile paziente che ne avrà bisogno, o per lo stesso donatore se nel futuro si ammalasse. Proprio come si fa per le donazioni di sangue in caso di trasfusioni: il donatore non decide a chi donare, ma dal pool di sangue donato tutta la popolazione – senza criteri di censo, religiosi o altro – trarrà beneficio.
“Le donazioni altruistiche di cordone ombelicale sono usate per curare degli ‘estranei’”, scrive Endozien. “Per contro, le conservazioni commerciali operano la raccolta e la conservazione del SCO del bambino per un uso di quella persona (trapianto autologo) o dei suoi parenti”. L’attuale sistema di donazione del SCO in Italia si chiama “donazione altruistica” ed è proprio basato sulla certezza che “donando non si perde nulla”. In Italia è attualmente il sistema in vigore, perché la validità delle banche per lo stoccaggio personale del proprio SCO – tranne nei casi in cui si ha un parente malato – è stato ampiamente criticato dalla scienza.
“Dopo le prime critiche da parte dell’American Academy of Pediatrics e dell’American College of Obstetricians and Gynecologists – scrive Fisk nel 2005 sulla rivista PloS Medicine – il Royal College of Obstetricians and Gynecologists del regno Unito concluse nel 2001 che la conservazione commerciale del proprio SCO non è giustificata scientificamente, è logisticamente difficoltosa e non può perciò essere raccomandata. Nel 2002 il Comitato Francese Nazionale di Bioetica giunse a simili conclusioni. In Italia è proibito. Un report recente dell’Unione Europea ha avanzato serie preoccupazioni etiche sull’uso di banche commerciali per il SCO e mise in dubbio la loro legittimità nel vendere un servizio senza utilità reale”. La conservazione “per se stessi” è stata criticata anche dal Collegio Britannico delle Ostetriche.
Gli argomenti contro la conservazione “per se stessi” sono in sostanza, secondo Edozien, la bassa possibilità che una persona a basso rischio possa aver davvero bisogno di usare il sangue che ha messo da parte (“le stime variano da 1/1.400 a 1/20.000); “Il trapianto autologo può in certi casi non essere la miglior scelta – per esempio mutazioni preleucemiche possono essere presenti nel SCO di bambini che poi sviluppano leucemia”; “Gli argomenti per la conservazione “per se stessi” che il SCO potrebbe essere usato per trattare diabete e altre malattie sono teorici”; “I progressi nelle cure convenzionali e nei trapianti allogenici significano che solo pochi pazienti con leucemia acuta richiederanno trapianto autologo”.
Esistono inoltre problemi di tipo organizzativo (etichettatura, personale per il prelievo, che sono da considerare attentamente se siamo in presenza di donazione pubblica o di un servizio privato) e di tipo di pubblica sanità (che fare del SCO se una di queste “banche” fallisce?). Purtuttavia, osserviamo forti spinte anche in Italia perché la privatizzazione del SCO venga permessa. E’ una richiesta poco sostenibile, considerate tutte le controindicazioni che abbiamo visto finora. Non ci piace la privatizzazione di qualcosa che sarebbe più utile (e gratuito) se fosse di tutti. Le parole del Papa chiariscono questo punto e sono di aiuto alla scienza. Il sangue preso dal cordone è certo utile se messo a disposizione di tutti. Si pubblicizza, senza nessuna certezza, che questo sangue salverebbe la vita al bambino se se lo tenesse per sé. E si pensa così di fargli un regalo. Un regalo davvero forte sarebbe potergli dire che la sua vita è iniziata donando a qualcuno il suo sangue, che qualcuno se ne è servito avendone salva la vita, e che lui (o lei) potrebbe ricevere da un altro bambino un regalo così bello, semmai gli servisse. E’ la forza dell’altruismo, che va braccetto con la scienza e la fede.
LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 27.02.2011
Alle ore 12 di oggi il Santo Padre Benedetto XVI si affaccia alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare l’Angelus con i fedeli ed i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro.
Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:
PRIMA DELL’ANGELUS
Cari fratelli e sorelle!
Nella Liturgia odierna riecheggia una delle parole più toccanti della Sacra Scrittura. Lo Spirito Santo ce l’ha donata mediante la penna del cosiddetto "secondo Isaia", il quale, per consolare Gerusalemme abbattuta dalle sventure, così si esprime: "Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai" (Is 49,15).
Questo invito alla fiducia nell’indefettibile amore di Dio viene accostato alla pagina, altrettanto suggestiva, del Vangelo di Matteo, in cui Gesù esorta i suoi discepoli a confidare nella provvidenza del Padre celeste, il quale nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo, e conosce ogni nostra necessità (cfr 6,24-34). Così si esprime il Maestro: "Non preoccupatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno".
Di fronte alla situazione di tante persone, vicine e lontane, che vivono in miseria, questo discorso di Gesù potrebbe apparire poco realistico, se non evasivo. In realtà, il Signore vuole far capire con chiarezza che non si può servire a due padroni: Dio e la ricchezza. Chi crede in Dio, Padre pieno d’amore per i suoi figli, mette al primo posto la ricerca del suo Regno, della sua volontà. E ciò è proprio il contrario del fatalismo o di un ingenuo irenismo. La fede nella Provvidenza, infatti, non dispensa dalla faticosa lotta per una vita dignitosa, ma libera dall’affanno per le cose e dalla paura del domani.
E’ chiaro che questo insegnamento di Gesù, pur rimanendo sempre vero e valido per tutti, viene praticato in modi diversi a seconda delle diverse vocazioni: un frate francescano potrà seguirlo in maniera più radicale, mentre un padre di famiglia dovrà tener conto dei propri doveri verso la moglie e i figli. In ogni caso, però, il cristiano si distingue per l’assoluta fiducia nel Padre celeste, come è stato per Gesù. E’ proprio la relazione con Dio Padre che dà senso a tutta la vita di Cristo, alle sue parole, ai suoi gesti di salvezza, fino alla sua passione, morte e risurrezione. Gesù ci ha dimostrato che cosa significa vivere con i piedi ben piantati per terra, attenti alle concrete situazioni del prossimo, e al tempo stesso tenendo sempre il cuore in Cielo, immerso nella misericordia di Dio.
Cari amici, alla luce della Parola di Dio di questa domenica, vi invito ad invocare la Vergine Maria con il titolo di Madre della divina Provvidenza. A lei affidiamo la nostra vita, il cammino della Chiesa, le vicende della storia. In particolare, invochiamo la sua intercessione perché tutti impariamo a vivere secondo uno stile più semplice e sobrio, nella quotidiana operosità e nel rispetto del creato, che Dio ha affidato alla nostra custodia.
DOPO L’ANGELUS
Alors que la solitude est une épreuve pour de nombreuses personnes, la liturgie nous rappelle aujourd’hui, chers pèlerins francophones, que Dieu ne nous oublie pas et que nous avons du prix à ses yeux. Puissions-nous acquérir un regard capable de discerner sa présence au cœur de notre vie ! Car rechercher le Royaume de Dieu nous libère de la peur du lendemain et nous ouvre à la confiance et à l’espérance qui ne déçoit point. Je vous invite à être pour ceux qui vous entourent les témoins de l’amour de Dieu, plus tendre que celui d’une mère pour son enfant, et à prier pour que la justice et le dialogue l’emportent sur le profit et la violence. A tous, je souhaite un bon dimanche !
I welcome all the English-speaking pilgrims and visitors gathered for this Angelus prayer. In today’s Gospel Jesus invites us to trust in the provident care of our heavenly Father and to seek first his Kingdom and its righteousness. May his words inspire us to see all things in their true perspective and to live our lives in joyful faith and sure hope in God’s promises. Upon you and your families I invoke the Lord’s abundant blessings!
Gerne grüße ich die Pilger und Gäste aus den Ländern deutscher Sprache. Zur Grundhaltung des christlichen Lebens gehört das Vertrauen in Gottes Güte und Vorsehung. Bei aller notwendigen Sorge um die Dinge des täglichen Lebens darf das Eigentliche, das Wesentliche nicht aus dem Blick geraten, nämlich Gott selbst. „Euch muß es zuerst um das Reich Gottes und seine Gerechtigkeit gehen, dann wird euch alles andere dazugegeben" (vgl. Mt 6,33), mahnt uns der Herr im heutigen Evangelium. So wollen wir uns auch im Alltag ganz der Gegenwart Gottes öffnen. Er hilft uns, unsere Aufgaben zu meistern, und macht uns bereit, den Mitmenschen in Not beizustehen. Euch allen wünsche ich einen gesegneten Sonntag und eine gute Woche.
Saludo con afecto a los peregrinos de lengua española presentes en esta oración mariana, en particular al grupo de peregrinos de las parroquias de Santa Eulalia y de Santa Cruz, de la diócesis de Ibiza, acompañados de su Obispo, así como a los fieles provenientes de la parroquia de San Miguel Arcángel de Villanueva, de Córdoba. La liturgia de este día nos exhorta a confiar en la providencia divina; recordándonos que somos amados por Dios y asistidos por su auxilio. Os invito a corresponder a dicho amor, a imitación de la Virgen María, cuya existencia terrena se mostró siempre bajo el signo de la gratuidad y de la alabanza, para que así experimentéis la paz verdadera y la alegría auténtica. Feliz domingo.
Serdeczne pozdrowienie kieruję do Polaków. Liturgia dzisiejszej niedzieli wzywa nas, abyśmy ufali Bożej Opatrzności i zawierzyli Jej wszystkie nasze troski, kłopoty i niepokoje o przyszłość. „Starajcie się naprzód o królestwo Boga i o Jego sprawiedliwość, a wszystko będzie wam dodane" – mówi Chrystus (Mt 6, 33). Niech nie gaśnie w nas ta ufność i niech budzi gotowość do pomocy tym, którzy ją tracą na skutek trudnych doświadczeń życiowych. Niech Bóg wam błogosławi.
[Rivolgo un cordiale saluto ai polacchi. La liturgia della domenica odierna ci invita ad avere fiducia nella Divina Provvidenza e ad affidarLe tutte le nostre angosce, difficoltà e preoccupazioni per il futuro: "Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta". Non si spenga in noi questa fiducia e susciti in noi la prontezza ad aiutare coloro che la perdono a causa delle difficili esperienze di vita. Dio vi benedica!]
Srdečne pozdravujem slovenských pútnikov, osobitne z Cirkevného gymnázia Štefana Mišíka zo Spišskej Novej Vsi. Bratia a sestry, milí mladí, prajem vám, aby púť do Ríma posilnila vaše puto s Kristom a s jeho Cirkvou. Všetkých vás žehnám. Pochválený buď Ježiš Kristus!
[Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini slovacchi, particolarmente a quelli del Ginnasio Cattolico Štefan Mišík di Spišská Nová Ves. Fratelli e sorelle, cari giovani, vi auguro che il pellegrinaggio a Roma approfondisca il vostro legame con Cristo e con la sua Chiesa. A tutti la mia benedizione. Sia lodato Gesù Cristo!]
Infine, saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare la rappresentanza venuta in occasione della "Giornata per le malattie rare", con una preghiera speciale e un augurio per la ricerca in questo campo. Saluto i fedeli provenienti da Moncalvo e Ivrea, da Giussano, Cologno al Serio, Modena, Rimini e Cervia, Incisa Valdarno, Foligno e Spello, dalla diocesi di Concordia-Pordenone e dalla parrocchia romana di Santa Francesca Cabrini; i Salesiani Cooperatori di Latina, l’associazione culturale "L’Ottimista", il gruppo "Arcobaleno" di Modena, i ragazzi di Lodi e gli alunni della scuola "Don Carlo Costamagna" di Busto Arsizio. A tutti auguro una buona domenica.
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