Nella rassegna stampa di oggi:
1) LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 13.02.2011, da http://magisterobenedettoxvi.blogspot.com
2) Il discorso del Papa alla Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo - Occorre stare con Gesù per poter stare con gli altri (©L'Osservatore Romano - 13 febbraio 2011)
3) Da Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI "Perchè siamo ancora nella Chiesa", Rizzoli 2008, da http://paparatzinger4-blograffaella.blogspot.com/
4) 12/02/2011 - EGITTO – ISLAM - Il primo giorno dopo Mubarak: l’alba e l’effetto domino - A piazza Tahrir militari e giovani volontari ripuliscono il luogo dalle barricate e dai rifiuti. I Paesi arabi salutano “il giorno storico” dell’Egitto, m temono un “effetto domino”. Attivisti del Golfo si preparano a manifestazioni. Anche la Cina teme l’esempio egiziano Il Cairo (AsiaNews).
5) Riflessioni su "Ubicumque et semper" - Il principio dell'Incarnazione di JOSIP BOZANIC Cardinale arcivescovo di Zagabria (©L'Osservatore Romano - 13 febbraio 2011)
6) Alla ricerca dell'uomo nella società secolarizzata - Ricorda che in te abita qualche cosa di buono - Pubblichiamo ampi stralci di uno degli articoli contenuti nel numero in uscita della rivista "La Nuova Europa". - di OL'GA SEDAKOVA (©L'Osservatore Romano - 13 febbraio 2011)
7) In ricordo di Giuseppe Garrone - 7 Febbraio 2011 - Marisa Orecchia, a nome di Federvita Piemonte, ricorda Giuseppe Garrone
8) Mons. Bux affronta alcuni temi d'attualità sulla Fede - di Libertà e Persona - 12/02/2011 - Abbiamo intervistato Mons. Nicola Bux, famoso teologo, vicino a Benedetto XVI, voce di radio Maria e penna del Timone, autore di studi illuminanti sulla Liturgia – da http://www.libertaepersona.org
9) Affitasi - Da Avvenire, 10 febbraio 2011, di Lorenzo Schoepflin - 12/02/2011 - Fecondazione artificiale - Ecco cosa succede nell'epoca in cui Elton John e Nicole Kidman, solo per citare due casi da "Vip" (si fa per dire), hanno sdoganato la maternità surrogata, da http://www.libertaepersona.org
10) Tommaso d'Aquino e la vera libertà dei teologi. Gli occhi della Chiesa (Inos Biffi), Tommaso d'Aquino e la vera libertà dei teologi - Gli occhi della Chiesa di Inos Biffi (©L'Osservatore Romano - 13 febbraio 2011)
11) «Staminali, c’è ancora molta strada da fare» - Si lavora sugli effetti tumorali delle cellule «riprogrammate» di Emanuela Vinai, Avvenire, 13 febbraio 2011
LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 13.02.2011, da http://magisterobenedettoxvi.blogspot.com
Alle ore 12 di oggi il Santo Padre Benedetto XVI si affaccia alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare l’Angelus con i fedeli ed i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro.
Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:
PRIMA DELL’ANGELUS
Cari fratelli e sorelle!
Nella Liturgia di questa domenica prosegue la lettura del cosiddetto "Discorso della montagna" di Gesù, che occupa i capitoli 5, 6 e 7 del Vangelo di Matteo.
Dopo le "Beatitudini", che sono il suo programma di vita, Gesù proclama la nuova Legge, la sua Torah, come la chiamano i nostri fratelli ebrei. In effetti, il Messia, alla sua venuta, avrebbe dovuto portare anche la rivelazione definitiva della Legge, ed è proprio ciò che Gesù dichiara: "Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti: non sono venuto ad abolire, ma a dare il pieno compimento".
E, rivolto ai suoi discepoli, aggiunge: "Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli" (Mt 5,17.20). Ma in che cosa consiste questa "pienezza" della Legge di Cristo, e questa "superiore" giustizia che Egli esige?
Gesù lo spiega mediante una serie di antitesi tra i comandamenti antichi e il suo modo di riproporli.
Ogni volta inizia: "Avete inteso che fu detto agli antichi…", e poi afferma: "Ma io vi dico…". Ad esempio: "Avete inteso che fu detto agli antichi: "Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio". Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio" (Mt 5,21-22). E così per sei volte.
Questo modo di parlare suscitava grande impressione nella gente, che rimaneva spaventata, perché quell’"io vi dico" equivaleva a rivendicare per sé la stessa autorità di Dio, fonte della Legge.
La novità di Gesù consiste, essenzialmente, nel fatto che Lui stesso "riempie" i comandamenti con l’amore di Dio, con la forza dello Spirito Santo che abita in Lui. E noi, attraverso la fede in Cristo, possiamo aprirci all’azione dello Spirito Santo, che ci rende capaci di vivere l’amore divino. Perciò ogni precetto diventa vero come esigenza d’amore, e tutti si ricongiungono in un unico comandamento: ama Dio con tutto il cuore e ama il prossimo come te stesso.
"Pienezza della Legge è la carità", scrive san Paolo (Rm 13,10).
Davanti a questa esigenza, ad esempio, il pietoso caso dei quattro bambini Rom, morti la scorsa settimana alla periferia di questa città, nella loro baracca bruciata, impone di domandarci se una società più solidale e fraterna, più coerente nell’amore, cioè più cristiana, non avrebbe potuto evitare tale tragico fatto.
E questa domanda vale per tanti altri avvenimenti dolorosi, più o meno noti, che avvengono quotidianamente nelle nostre città e nei nostri paesi.
Cari amici, forse non è un caso che la prima grande predicazione di Gesù si chiami "Discorso della montagna"! Mosè salì sul monte Sinai per ricevere la Legge di Dio e portarla al Popolo eletto. Gesù è il Figlio stesso di Dio che è disceso dal Cielo per portarci al Cielo, all’altezza di Dio, sulla via dell’amore. Anzi, Lui stesso è questa via: non dobbiamo far altro che seguire Lui, per mettere in pratica la volontà di Dio ed entrare nel suo Regno, nella vita eterna. Una sola creatura è già arrivata alla cima della montagna: la Vergine Maria. Grazie all’unione con Gesù, la sua giustizia è stata perfetta: per questo la invochiamo Speculum iustitiae. Affidiamoci a lei, perché guidi anche i nostri passi nella fedeltà alla Legge di Cristo.
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Il discorso del Papa alla Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo - Occorre stare con Gesù per poter stare con gli altri (©L'Osservatore Romano - 13 febbraio 2011)
"Occorre stare con Gesù per poter stare con gli altri. È questo il cuore della missione". Lo ha ricordatoil Papa ai partecipanti all'assemblea generale della Fraternità sacerdotaledei missionari di San Carlo Borromeo, ricevuti in udienza sabato mattina,12 febbraio, nella Sala Clementina.
Cari Fratelli e amici,
è con vera gioia che vivo questo incontro con voi, sacerdoti e seminaristi della Fraternità san Carlo, qui convenuti in occasione del venticinquesimo anniversario della sua nascita. Saluto e ringrazio il fondatore e superiore generale, Mons. Massimo Camisasca, il suo consiglio, e tutti voi, parenti ed amici, che fate corona alla comunità. In particolare, saluto l'Arcivescovo della Madre di Dio di Mosca, Mons. Paolo Pezzi, e Don Julián Carrón, Presidente dalla Fraternità di Comunione e Liberazione, che esprimono simbolicamente i frutti e la radice dell'opera della Fraternità san Carlo. Questo momento riporta alla mia memoria la lunga amicizia con Mons. Luigi Giussani e testimonia la fecondità del suo carisma.
In questa occasione, vorrei rispondere a due domande che il nostro incontro mi suggerisce: qual è il posto del sacerdozio ordinato nella vita della Chiesa? Qual è il posto della vita comune nell'esperienza sacerdotale? La vostra nascita dal movimento di Comunione e Liberazione e il vostro riferimento vitale all'esperienza ecclesiale che esso rappresenta, pongono davanti ai nostri occhi una verità che si è andata riaffermando con particolare chiarezza dall'Ottocento in poi e che ha trovato una significativa espressione nella teologia del Concilio Vaticano II. Mi riferisco al fatto che il sacerdozio cristiano non è fine a se stesso. Esso è stato voluto da Gesù in funzione della nascita e della vita della Chiesa. Ogni sacerdote, perciò, può dire ai fedeli, parafrasando sant'Agostino: Vobiscum christianus, pro vobis sacerdos. La gloria e la gioia del sacerdozio è di servire Cristo e il suo Corpo mistico. Esso rappresenta una vocazione bellissima e singolare all'interno della Chiesa, che rende presente Cristo, perché partecipa dell'unico ed eterno Sacerdozio di Cristo. La presenza di vocazioni sacerdotali è un segno sicuro della verità e della vitalità di una comunità cristiana. Dio infatti chiama sempre, anche al sacerdozio; non vi è crescita vera e feconda nella Chiesa senza un'autentica presenza sacerdotale che la sorregga e la alimenti. Sono grato perciò a tutti coloro che dedicano le loro energie alla formazione dei sacerdoti e alla riforma della vita sacerdotale. Come tutta la Chiesa, infatti, anche il sacerdozio ha bisogno di rinnovarsi continuamente, ritrovando nella vita di Gesù le forme più essenziali del proprio essere.
Le diverse possibili strade di questo rinnovamento non possono dimenticare alcuni elementi irrinunciabili. Innanzitutto un'educazione profonda alla meditazione e alla preghiera, vissute come dialogo con il Signore risorto presente nella sua Chiesa. In secondo luogo, uno studio della teologia che permetta di incontrare le verità cristiane nella forma di una sintesi legata alla vita della persona e della comunità: solo uno sguardo sapienziale può infatti valorizzare la forza che la fede possiede di illuminare la vita e il mondo, conducendo continuamente a Cristo, Creatore e Salvatore.
La Fraternità san Carlo ha sottolineato, durante il corso breve ma intenso della sua storia, il valore della vita comune. Anch'io ne ho parlato più volte nei miei interventi prima e dopo la mia chiamata al soglio di Pietro. "È importante che i sacerdoti non vivano isolati da qualche parte, ma stiano insieme in piccole comunità, si sostengano a vicenda e facciano così esperienza dello stare insieme nel loro servizio a Cristo e nella rinuncia per il regno dei Cieli e ne prendano anche sempre più coscienza" (Luce del mondo, Città del Vaticano 2010, 208). Sono sotto i nostri occhi le urgenze di questo momento. Penso per esempio alla carenza di sacerdoti. La vita comune non è innanzitutto una strategia per rispondere a queste necessità. Essa non è neppure, di per sé, solo una forma di aiuto di fronte alla solitudine e alla debolezza dell'uomo. Tutto questo ci può essere, certamente, ma soltanto se la vita fraterna viene concepita e vissuta come strada per immergersi nella realtà della comunione. La vita comune è infatti espressione del dono di Cristo che è la Chiesa, ed è prefigurata nella comunità apostolica, che ha dato luogo ai presbiteri. Nessun sacerdote infatti amministra qualcosa che gli è proprio, ma partecipa con gli altri fratelli a un dono sacramentale che viene direttamente da Gesù.
La vita comune perciò esprime un aiuto che Cristo dà alla nostra esistenza, chiamandoci, attraverso la presenza dei fratelli, ad una configurazione sempre più profonda alla sua persona. Vivere con altri significa accettare la necessità della propria continua conversione e soprattutto scoprire la bellezza di tale cammino, la gioia dell'umiltà, della penitenza, ma anche della conversazione, del perdono vicendevole, del mutuo sostegno. Ecce quam bonum et quam iucundum habitare fratres in unum (Sal 133, 1).
Nessuno può assumere la forza rigenerante della vita comune senza la preghiera, senza guardare all'esperienza e all'insegnamento dei santi, in particolar modo dei Padri della Chiesa, senza una vita sacramentale vissuta con fedeltà. Se non si entra nel dialogo eterno che il Figlio intrattiene col Padre nello Spirito Santo nessuna autentica vita comune è possibile. Occorre stare con Gesù per poter stare con gli altri. È questo il cuore della missione. Nella compagnia di Cristo e dei fratelli ciascun sacerdote può trovare le energie necessarie per prendersi cura degli uomini, per farsi carico dei bisogni spirituali e materiali che incontra, per insegnare con parole sempre nuove, dettate dall'amore, le verità eterne della fede di cui hanno sete anche i nostri contemporanei.
Cari fratelli e amici, continuate ad andare in tutto il mondo per portare a tutti la comunione che nasce dal cuore di Cristo! L'esperienza degli Apostoli con Gesù sia sempre il faro che illumini la vostra vita sacerdotale! Incoraggiandovi a continuare sulla strada tracciata in questi anni, volentieri imparto la mia benedizione a tutti i sacerdoti e i seminaristi della Fraternità san Carlo, alle Missionarie di san Carlo, ai loro familiari e amici.
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Centoquattro preti e quaranta seminaristi in sedici Paesi
Venticinque case in sedici Paesi del mondo, con centoquattro preti e quaranta seminaristi impegnati prevalentemente nella missione parrocchiale e nell'insegnamento, nelle scuole superiori e nelle università. È questa la realtà della Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo, nata venticinque anni fa dal movimento di Comunione e liberazione. A presentarla a Benedetto XVI all'inizio dell'udienza è stato il fondatore e superiore generale don Massimo Camisasca. "Al termine della nostra XI assemblea generale - ha detto nel saluto al Papa - abbiamo sentito tutti l'urgenza interiore di venire qui, nella casa del Padre, per deporre ai suoi piedi questi venticinque anni di vita. Conosciamo infatti il valore affettivo del nostro rapporto con Pietro. Portando al vicario di Cristo le nostre vite, le nostre attese, i nostri desideri più profondi, le nostre esperienze missionarie, le persone che abbiamo incontrato, rinnoviamo il nostro rapporto con il Signore e ripetiamo, con le stesse parole di Pietro: "Da chi potremmo andare? Tu solo hai parole di vita eterna"". Camisasca ha sottolineato che le radici della Fraternità affondano nell'esperienza di don Luigi Giussani, in particolare nella "sua sapienza cristiana" e nel "suo amore per Cristo e per l'uomo, indistruttibilmente congiunti". Nati venticinque anni fa "anche per la spinta missionaria data al movimento dal suo venerabile predecessore Giovanni Paolo II" - ha ricordato - i sacerdoti e i seminaristi della Fraternità vivono in comune in piccole case. "L'esperienza della comunione, di cui don Giussani è stato per noi un maestro - ha spiegato - ci ha portato, fin dall'inizio, a scegliere la vita comune e perciò la casa come luogo di irraggiamento della fede". "Sentiamo nel vostro magistero - ha detto ancora - un punto di riferimento essenziale per la nostra vita e la nostra missione. In particolare il vostro richiamo al valore affettivo della fede, la liturgia come esperienza che ci introduce alla forma definitiva della vita, la necessità di centrare la nostra esistenza ecclesiale su ciò che è essenziale, sulla fiducia in Dio che guida le nostre esistenze e non sulle logiche mondane che rischiano sempre di portare dentro di noi speranze ingannevoli e, infine, deludenti". All'incontro con il Pontefice hanno partecipato anche genitori e amici dei sacerdoti, insieme con alcuni collaboratori laici. Erano presenti, tra gli altri, monsignor Paolo Pezzi, arcivescovo della Madre di Dio a Mosca, don Julián Carrón, successore di don Giussani alla presidenza di Comunione e Liberazione, e le missionarie di San Carlo, istituto femminile religioso nato recentemente dall'esperienza della fraternità e guidato da don Paolo Sottopietra.
Da Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI "Perchè siamo ancora nella Chiesa", Rizzoli 2008, da http://paparatzinger4-blograffaella.blogspot.com/
PERCHE’ SONO ANCORA NELLA CHIESA
Perchè rimango nella Chiesa
In queste considerazioni è già data la risposta di principio alla domanda che ci siamo posti: sono nella Chiesa perché credo che, ora come prima e a prescindere da noi, dietro la “nostra Chiesa” vive la “ Sua Chiesa”, e che io non posso stare vicino a Lui se non rimanendo vicino e dentro la Sua Chiesa. Sono nella Chiesa perché, nonostante tutto, credo che nel profondo essa non sia nostra, bensì proprio “Sua”.
In termini molto concreti: malgrado tutte le sue debolezze umane, è la Chiesa che ci dà Gesù Cristo e solo grazie a essa noi possiamo riceverlo come una realtà viva, potente, che mi sfida e mi arricchisce qui e ora. Henri De Lubac ha espresso così questa circostanza: “Coloro che accettano ancora Gesù pur rifiutando la Chiesa, non sanno che in ultima analisi è da questa che essi ricevono Cristo? […] Gesù è per noi una persona viva; eppure senza la continuità visibile della sua Chiesa, sotto quale cumulo di sabbia non sarebbero stati sepolti non soltanto il suo nome e il suo ricordo, ma anche la sua influenza vitale, l’efficacia del vangelo e della fede nella sua divina persona? […] “Senza la Chiesa Cristo dovrebbe darsi alla fuga , disgregarsi, scomparire. E che cosa sarebbe l’umanità se si togliesse Cristo?”. Questa ammissione elementare deve essere posta all’inizio: per quanto ci sia o ci sia stata infedeltà nella Chiesa, per quanto sia vero che essa ha costantemente bisogno di misurarsi su Gesù Cristo, non vi è alcuna contrapposizione definitiva tra Cristo e la Chiesa.
E’ attraverso la Chiesa che egli rimane vivo, superando la distanza della storia, ci parla oggi, ci è oggi vicino come nostro maestro e Signore , come nostro fratello che ci rende fratelli. Soltanto la Chiesa, dandoci Gesù Cristo, rendendolo vivo e presente nel mondo, facendolo rinascere continuamente nella fede e nelle preghiere degli uomini, dà all’umanità una luce, un sostegno e un criterio, senza i quali il mondo non sarebbe più concepibile.
Chi vuole la presenza di Gesù Cristo nell’umanità, non la può trovare contro la Chiesa, ma solo in essa.
In questo modo è chiarito anche il punto successivo. Io sono nella Chiesa per gli stessi motivi per i quali sono cristiano; poiché non si può credere da soli. Si può avere fede solo in comunione con gli altri. La fede è, per sua natura, una forza che unisce. Il suo archetipo è l’evento della Pentecoste, il miracolo di comprensione che accadde tra uomini che per provenienza e storia erano estranei gli uni agli altri. La fede o è ecclesiale o non esiste. Bisogna inoltre aggiungere che, così come non è possibile credere da soli, ma soltanto in comunione con gli altri, nello stesso modo non è possibile credere per propria iniziativa o invenzione, ma solo se vengo reso capace di credere, il che non è in mio potere, non viene dalla mia forza, ma mi precede.
Una fede che fosse un’invenzione personale sarebbe una contraddizione in termini, poiché potrebbe garantirmi e dirmi solo ciò che io già sono oppure so, ma non potrebbe superare i limiti del mio io. Perciò anche una Chiesa, una comunità che si creasse da sola, che si fondasse solo sulla propria grazia, sarebbe una contraddizione in termini. La fede esige una comunità che abbia autorità e che sia superiore a me, non una mia creazione, che sia lo strumento dei miei stessi desideri.
Tutto ciò si può formulare anche da un punto di vista più storico: o questo Gesù fu più che un uomo, con un potere assoluto superiore a un prodotto del proprio arbitrio, e quindi fu capace di tramandarsi attraverso i secoli; oppure egli non ebbe tale potere non potè neppure lasciarlo in eredità. In quest’ultimo caso sarei abbandonato alle mie personali ricostruzioni e quindi egli non sarebbe niente di più che una qualsiasi altra grande figura di fondatore, di cui si rinnova la presenza col pensiero. Ma se egli è qualcosa di più, allora non dipende dalle mie ricostruzioni e anche oggi vale il potere che egli ha lasciato in eredità.
Ma torniamo al punto precedente: si può essere cristiani solo nella Chiesa, non accanto a essa.
E non temiamo di porci ancora una volta in piena obiettività una domanda alquanto patetica: che cosa sarebbe il mondo senza Cristo? Senza un Dio che parli e che conosca gli uomini, e che quindi possa essere conosciuto dall’uomo? Sappiamo molto bene qual è la risposta oggi, se il tentativo di creare un mondo simile viene praticato con tanta accanita ostinazione: un esperimento assurdo, senza criterio. Per quanto il cristianesimo possa aver fallito concretamente nella sua storia (e lo ha fatto sempre in modo sconcertante), i criteri della giustizia e dell’amore sono tuttavia arrivati a noi, persino contro la loro volontà, dal messaggio custodito in esso, contro la Chiesa stessa, eppure mai senza la forza silenziosa di ciò che in essa è depositato.
In altre parole: rimango nella Chiesa perché considero la fede, realizzabile solo in essa e comunque mai contro di essa, una necessità per l’uomo, anzi per il mondo, che vive di essa anche se non la condivide. Infatti dove non c’è più Dio - e un Dio che tace non è Dio – non c’è più nemmeno la verità che precede il mondo e l’uomo.
E in un mondo senza verità non si può vivere a lungo; là dove si rinuncia alla verità, si continua a vivere in silenzio solo perché essa non si è ancora veramente spenta, così come se si spegnesse il sole, la sua luce rimarrebbe ancora per qualche tempo e potrebbe ingannare sulla notte dei mondi, che in realtà sarebbe già cominciata.
Si può esprimere lo stesso concetto ancora da un altro punto di vista: rimango nella Chiesa perché solo la fede della Chiesa redime l’uomo. Può sembrare un’affermazione molto tradizionale e dogmatica, irreale, ma è intesa in modo del tutto obiettivo e realistico. Nel nostro mondo di costrizioni e frustrazioni il desiderio di redenzione è riemerso con una forza primordiale. Gli sforzi di Freud e di Jung non sono altro che tentativi di dare redenzione agli irredenti. Partendo da altre premesse, Marcuse, Adorno, Habermas continuano a loro modo a cercare e ad annunciare la redenzione.
Sullo sfondo sta Marx e anche il suo è un problema di redenzione. Quanto più l’uomo diventa libero, illuminato, potente, tanto più lo tormenta il desiderio di redenzione, tanto più si ritrova non libero. Agli sforzi di Marx, di Freud e Marcuse è comune la ricerca della redenzione, l’aspirazione a un mondo senza sofferenza, malattia e povertà.
Un mondo libero dalla tirannia, dalla sofferenza, dall’ingiustizia è diventato il grande ideale della nostra generazione; a questa promessa mirano le ribellioni violente dei giovani, mentre il risentimento dei vecchi imperversa perché essa non è ancora realizzata ed esistono ancora la tirannia, l’ingiustizia, la sofferenza.
La lotta contro la sofferenza e l’ingiustizia nel mondo è in realtà un impulso assolutamente cristiano, ma l’idea che si possa creare un mondo senza dolore e il desiderio di ottenerlo subito con le riforme sociali, con l’abolizione del potere e dell’ordinamento giuridico sono un’eresia, una profonda incomprensione della natura dell’uomo. In questo mondo la sofferenza non deriva in verità solo dalla disparità di ricchezza e potere e la sofferenza non è l’unico fastidio di cui l’uomo dovrebbe liberarsi: chi lo pensa deve rifugiarsi nel mondo illusorio della droga, finendo solo per essere ancora più distrutto e in contrasto con la realtà. L’uomo ritrova se stesso, la propria verità, la propria gioia e felicità soltanto sopportando se stesso e liberandosi dalla tirannide del proprio egoismo. La crisi della nostra epoca dipende dal fatto che ci si vuole convincere che sia possibile diventare persona senza il dominio di se stessi, senza la pazienza della rinuncia e lo sforzo del superamento; che non è necessario il sacrificio di mantenere gli impegni presi né la fatica per soffrire con pazienza la tensione tra ciò che si dovrebbe essere e quello che si è in realtà.
Un uomo che venga privato della fatica e condotto nel paese della cuccagna dei suoi sogni perde se stesso, smarrisce la sua vera natura. In realtà l’uomo non viene redento se non attraverso la croce, con l’accettazione della sofferenza di se stesso e del mondo, che insieme alla sofferenza di Dio è diventata il luogo del significato che libera. Solo così, in questa accettazione, l’uomo diventa libero.
Tutte le altre offerte, più facili e comode, falliranno e si dimostreranno illusorie. La speranza del cristianesimo, l’occasione della fede dipende in ultima istanza molto semplicemente dal fatto che esso dice la verità.
La chance della fede è la chance della verità, che può essere offuscata e calpestata, ma non può soccombere.
Veniamo all’ultimo punto. Un uomo vede sempre soltanto nella misura in cui egli ama. Certo esiste anche la chiaroveggenza della negazione e dell’odio.
Ma questi possono vedere solo ciò che è loro conforme: gli aspetti negativi. Possono così preservare l’amore da una cecità nella quale esso finge di non vedere i propri limiti e pericoli, ma non sono in grado di costruire. Senza una certa quantità di amore non si trova nulla. Chi non si inoltra almeno per un po’ nell’esperimento della fede, chi non accetta di fare esperienza della Chiesa, chi non affronta il rischio di guardarla con gli occhi dell’amore, finisce soltanto per arrabbiarsi.
Il rischio dell’amore è il presupposto per giungere alla fede. Chi lo ha osato, non ha bisogno di nascondersi nessuno dei lati oscuri della Chiesa, ma scopre che essa non si riduce di certo solo a questi, perché si accorge che accanto alla storia della Chiesa degli scandali, c’è anche quella della forza liberatrice della fede, che si è mantenuta feconda nei secoli in personaggi meravigliosi come Agostino, Francesco d’Assisi, il domenicano Las Casas con la sua appassionata battaglia per gli indios, Vincenzo De Paoli, Giovanni XXIII.
Chi affronta questo rischio trova che la Chiesa ha proiettato nella storia un fascio di luce tale da non poter essere ignorato . Anche l’arte che è nata sotto l’impulso del suo messaggio, e che ancora oggi ci si mostra in opere impareggiabili, diventa una testimonianza di verità: ciò che è stato in grado di esprimersi a simili livelli non può essere soltanto tenebre. La bellezza delle grandi cattedrali, la bellezza della musica che si è sviluppata nell’ambito della fede, la dignità della liturgia della Chiesa, la stessa realtà della festa, che non si può fare da soli ma si può solo accogliere, il ciclo dell’anno liturgico, nel quale convivono l’ieri e l’oggi, il tempo e l’eternità – tutto questo non è a mio avviso una insignificante casualità. La bellezza è lo splendore del vero, ha detto Tommaso d’Aquino, e l’offesa del bello è l’autoironia della verità perduta – si potrebbe aggiungere. Le espressioni nelle quali la fede è stata in grado di tradursi nella storia sono testimonianza della verità che è in essa.
Non vorrei tralasciare un’ulteriore osservazione, anche se può sembrare che indulga molto nel soggettivo. Se si tengono aperti gli occhi, anche oggi è possibile di certo incontrare persone che sono testimonianza vivente della forza liberatrice della fede cristiana.
E non è una vergogna essere e rimanere cristiani anche grazie a questi uomini che, dandoci esempio di un cristianesimo autentico, con le loro vite lo hanno reso ai nostri occhi degno di amore e di fede. In fin dei conti l’uomo si illude quando vuole fare di sé una sorta di soggetto trascendentale, che considera valido solo ciò che non è casuale. E’ certamente doveroso riflettere su tali esperienze, esaminare il loro grado di responsabilità, parificarle e dal loro un nuovo contenuto.
Ma anche in questo necessario processo di oggettivazione non risulta forse come una prova rilevante a favore del cristianesimo il fatto che esso rende gli uomini più umani, legandoli a Dio? L’elemento più soggettivo non è qui anche un dato del tutto oggettivo, del quale non dobbiamo più vergognarci di fronte a nessuno?
Ancora un’osservazione in chiusura. Quando, come abbiamo fatto qui, si afferma che senza l’amore non si può vedere nulla e che quindi si deve amare anche la Chiesa, per poterla riconoscere, oggi molti diventano inquieti.
L’amore non è forse il contrario della critica? E non è in fondo il pretesto dei potenti che vogliono eliminare la critica e vogliono mantenere lo status quo a loro favore? Si giova di più agli uomini tranquillizzandoli e abbellendo la realtà, oppure intervenendo in loro favore continuamente contro la perdurante ingiustizia e contro l’oppressione delle strutture? Si tratta di questioni molto ampie, che non possono essere indagate qui nello specifico.
Ma una cosa dovrebbe essere ben chiara: il vero amore non è né statico né acritico. L’unica possibilità di cambiare in positivo un altro uomo è quella di amarlo e aiutarlo quindi a cambiare lentamente, da ciò che egli è a ciò che egli può essere.
Lo stesso vale per la Chiesa.
Guardiamo alla storia più recente: nel rinnovamento liturgico e teologico della prima metà di questo secolo è maturato un vero movimento di riforma, che ha portato cambiamenti positivi.
Ciò fu possibile soltanto perché vi furono uomini che amarono la Chiesa in modo vigile, con spirito “critico”, e furono pronti a soffrire per essa.
Se oggi non riusciamo più in nulla, è solo perché tutti siamo troppo preoccupati di affermare solo noi stessi.
Rimanere in una Chiesa che avesse bisogno di essere fatta da noi per diventare degna di essere abitata non ha senso; è una contraddizione in termini. Rimanere nella Chiesa perché essa è in sé degna di rimanere nel mondo, perché essa è in sé degna di essere amata e di un amore che la porti sempre a trasformarsi di nuovo in ciò che deve essere veramente – questo è il cammino che anche oggi viene indicato dalla responsabilità della fede.
Da Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI "Perchè siamo ancora nella Chiesa", Rizzoli
12/02/2011 - EGITTO – ISLAM - Il primo giorno dopo Mubarak: l’alba e l’effetto domino - A piazza Tahrir militari e giovani volontari ripuliscono il luogo dalle barricate e dai rifiuti. I Paesi arabi salutano “il giorno storico” dell’Egitto, m temono un “effetto domino”. Attivisti del Golfo si preparano a manifestazioni. Anche la Cina teme l’esempio egiziano Il Cairo (AsiaNews).
Il Cairo (AsiaNews) – Gli egiziani sono ancora in festa dopo le dimissioni del presidente Hosni Mubarak avvenute ieri sera. Decine di migliaia di giovani sono ancora presenti a piazza Tahrir e nelle vie adiacenti, le voci ormai rauche per il troppo gridare e cantare per tutta la notte. L’esercito ha cominciato a ripulire la piazza delle barricate e delle auto bruciate, mentre molti giovani e volontari spazzano l’area dai rifiuti.
L’entusiasmo è grande per questa “rivoluzione dei giovani”, come è stata battezzata dai maggiori media del Paese, anche se vi sono domande su cosa ci si attende dal futuro. Le forze armate hanno ora in mano il potere e hanno promesso di “non sostituirsi alla legittimità voluta dal popolo”, garantendo una “elezione presidenziale libera e trasparente” e il cambiamento della costituzione verso una visione più democratica.
Un manifestante ha dichiarato ad AsiaNews: “È la gioia pura. Siamo coscienti che nella vita non c’è fatalità o destino: la storia è nelle nostre mani”.
La comunità internazionale ha salutato le dimissioni di Mubarak, loro antico amico, come “un giorno storico”. Anche molti Paesi islamici hanno salutato “l’alba” di un nuovo Egitto. Ma vi sono anche timori per un possibile “effetto domino” che dall’Egitto si può comunicare ad altri Paesi arabi e non arabi.
Nelle scorse settimane, rivolte sono scoppiate in Tunisia, Egitto, Giordania, Marocco, Algeria, Siria, Yemen, tutte motivate da disoccupazione, carovita, corruzione, poteri dittatoriali.
Molti Paesi islamici temono che la loro gente segua l’esempio dell’Egitto, il più popoloso dei Paesi arabi. Gruppi di attivisti del Golfo stanno già programmando manifestazioni e hanno domandato ai governanti di Bahrein, Emirati, Arabia saudita di non bloccare i raduni. Essi chiedono loro di “comprendere che è tempo di liberare tutti i prigionieri politici e di coscienza e stilare una costituzione che risponda alle esigenze dei tempi moderni”.
Fra i Paesi che temono l’esempio dell’Egitto vi è pure la Cina. Nei 18 giorni di manifestazioni in piazza Tahrir, l’informazione in Cina era controllata. Alcuni giorni fa, a Guizhou, attivisti che distribuivano volantini con notizie su quanto accadeva al Cairo, sono stati fermati dalla polizia.
Riflessioni su "Ubicumque et semper" - Il principio dell'Incarnazione di JOSIP BOZANIC Cardinale arcivescovo di Zagabria (©L'Osservatore Romano - 13 febbraio 2011)
Secondo il motu proprio Ubicumque et semper l'espressione "nuova evangelizzazione" non equivale a un'unica formula uguale per tutte le circostanze poiché la diversità delle situazioni esige un "attento discernimento" (diligens iudicium). Nella storia la Chiesa ha affrontato l'impegno di annunciare il Vangelo facendo innanzitutto leva sulla perenne novità del messaggio di salvezza, senza mai vincolarsi a modelli assoluti o a formule valide in ogni situazione. Proprio l'insegnamento del passato appare oggi di particolare interesse, per capire come quel diligens iudicium si sia di volta in volta espresso. Ciò potrà aiutarci a rispondere alla stessa sfida, in questo tempo in cui Dio ci ha chiamato a evangelizzare.
Tale esigenza ha una ragione essenzialmente teologica, non disgiunta da motivi di carattere antropologico e culturale. Nella nuova evangelizzazione bisogna essere consapevoli del principio dell'Incarnazione, che fa cogliere il modo di agire di Dio nel suo entrare nella storia degli uomini. Questo ci fa andare oltre un'inculturazione fine a se stessa. Il cristianesimo, nella sua più profonda natura, si manifesta infatti come amico delle culture, e ciò nel variegato contesto contemporaneo rende l'evangelizzare più difficile ed esigente.
Infatti il cristianesimo, nella forza dello Spirito di Dio, parla agli uomini di ogni tempo in modo che l'annuncio del Vangelo risulta sempre nuovo. Il suo linguaggio era certo più incisivo in epoche in cui era facile formulare un discernimento delle caratteristiche culturali, sicuramente più disponibili all'apertura al soprannaturale. Se oggi chiedessimo cos'è, per esempio, la cultura occidentale e quali siano i suoi tratti, avremmo molte risposte parziali: è infatti assai difficile trovare indiscutibili contrassegni culturali, anche perché la pluralità che la connota non permette un'accettazione condivisa dei valori alla base della sua identità.
Guardando alla storia dell'ultimo secolo, è emblematica la situazione dei Paesi in cui erano al potere regimi basati su ideologie totalitarie, dove l'evangelizzazione era sempre soffocata con la forza. In quelle circostanze la Chiesa svolgeva la propria missione come poteva, il più delle volte con il coraggio che le veniva dallo Spirito, come rivela la testimonianza dei santi martiri. E tuttavia la minaccia diretta di un'ideologia ben definita non si è dimostrata come una vera difficoltà per il cristianesimo, poiché essa intendeva imporre dall'esterno una pseudo-cultura parallela. Non si contano i tentativi in tal senso del comunismo ateo, con la sua prassi sistematica di imporre l'ateismo. Ancora più devastanti sono stati gli effetti pratici del sistema comunista: paura, doppia morale, materialismo esistenziale, attacchi alla libertà, in particolare quella di coscienza.
Non valorizzando davvero il dinamismo culturale, ogni ideologia condanna se stessa alla distruzione. Le ideologie non amano la cultura né hanno le prerogative per dialogare davvero. L'impossibilità dei totalitarismi e delle loro teorie di dare risposte accettabili alle questioni cruciali sul senso della vita ha così rivelato per via indiretta la forza del mistero dell'incarnazione e della redenzione di Cristo. Ogni ideologia cerca di trovare o di inventare un'unica formula e di imporla coercitivamente dall'esterno, sperando di influenzare sin nell'intimo le coscienze. L'evangelizzazione non è sulla stessa strada. Essa ascolta gli impulsi culturali, cerca di conoscerne i dinamismi intrinseci, ossia i valori di fondo e le relazioni complesse che vi sono sottese, sapendo tuttavia che il mistero dell'Incarnazione porta con sé la sfida del dono inaspettato.
Oggi, più che di fronte a un'ideologia ben definita, siamo davanti e dentro a frammenti culturali, elementi mescolati senza evidenti connessioni tra loro. L'impressione è che tale frantumazione culturale abbia accresciuto l'indifferenza sociale, terreno fertile per il secolarismo e l'ateismo pratico. Dopo vari tentativi di innovazione sul piano della mera prassi pastorale, si avverte oggi la necessità di tornare ai fondamenti e di rafforzarli. Prova evidente che l'evangelizzazione comincia sempre come risposta alle domande di senso che l'uomo si porta dentro.
Il nodo della questione risiede, a mio avviso, nell'assumere il principio dell'Incarnazione in tutte le sue conseguenze, per una cultura permeata dal mistero trinitario. La Chiesa non deve dimenticare la propria natura. Adottando forme, metodi e mezzi (tecnici, economici, politici, e così via) che non tengono conto dell'Incarnazione e del suo compimento pasquale, non si possono dare le risposte che il mondo oggi attende. In fondo, quello tra il Vangelo e la cultura è un dialogo sempre a rischio, perché la cultura può anche veicolare elementi privi di un significato preciso, e tuttavia è l'ambito imprescindibile per l'agire in nome della fede. Non esiste infatti qualcosa di più provocatorio del Vangelo, realtà che oltrepassa l'orizzonte terreno e ci rivela la portata dell'incarnazione del Figlio di Dio, punto focale della storia.
Alla ricerca dell'uomo nella società secolarizzata - Ricorda che in te abita qualche cosa di buono - Pubblichiamo ampi stralci di uno degli articoli contenuti nel numero in uscita della rivista "La Nuova Europa". - di OL'GA SEDAKOVA (©L'Osservatore Romano - 13 febbraio 2011)
Un'antica leggenda cinese narra che quando l'Imperatore voleva sapere come andavano le cose nel Celeste impero, faceva venire i musicanti e chiedeva di cantare le canzoni più suonate nel paese in quel momento. In base al tono, alla melodia e all'armonia della musica si faceva un'idea molto chiara di ciò che accadeva nello Stato, e quindi di che cosa c'era da aspettarsi nell'immediato futuro.
Immaginandoci per un istante la somma di tutto quel che oggi si canta, si suona, si mostra, di tutto quel che di preferenza oggi colpisce gli occhi ed entra nelle orecchie, non si può non riconoscere, almeno fra sé se non davanti agli altri, che le cose vanno male. Perché gli uomini vogliono queste cose? Cosa cercano in tutto questo? Perché sono così infelici da volere questa roba?
Uno degli ultimi filosofi classici d'Europa, erede di Wittgenstein, dopo aver ascoltato l'ennesima opera attuale (si trattava di un oratorio minimalista davvero sadico), ha osservato: "Interessante, comunque, una società che produce sotto forma di arte soltanto una satira contro se stessa!". Satira, parodia, grottesco, una copia-remake storpiata e stupida fino al limite estremo. Immagini di generale disfacimento e naufragio, di demenza totale, certi incubi confusi che, fra l'altro, già da tempo non spaventano più nessuno e sono diventati oggetto di commercio. Perché si richiede roba del genere?
Il trauma è uno degli elementi centrali di quest'arte: l'esperienza del trauma come tema principale; produrre un trauma come forma - trauma dell'orecchio, della vista, della mente, di tutti i "concetti normali" del lettore-ascoltatore-spettatore. Sembra che l'artista e il suo pubblico in questo mondo non abbiano visto altro che traumi; il trauma si pone, secondo il parere degli psicologi, alle origini stesse del vivere umano: i "traumi infantili" determinano tutta la vita successiva. Psicologi e sociologi, com'è noto, sono i nostri àuguri, i principali interpreti dell'attualità; tutte le altre sfere umanistiche sono pianificate a partire da psicologia e sociologia, in cui si trova la spiegazione ultima e "oggettiva" di tutto.
"In principio erano delle rovine", così ha espresso questo stato d'animo una delle voci più autorevoli del mondo contemporaneo, Jacques Derrida. Se riflettiamo per un secondo su questa affermazione, ci accorgiamo che (come gran parte dei detti famosi) non è affatto realistica, per il semplice motivo che dalle rovine non incomincia niente; "all'inizio" doveva esserci qualcosa che poi è decaduto, si è ridotto in rovine. Così come ai traumi infantili doveva pur precedere un soggetto non ancora traumatizzato, poiché non si può traumatizzare qualcosa che non esiste. Allo stesso modo stanno le cose col "decadimento" di cui si ama tanto parlare. Prima di decadere bisognava pur essere in una qualche posizione, da cui si è caduti in basso.
E invece è così che oggi l'uomo ricorda: a partire dai traumi, a partire dalle rovine. E così ricorda anche se stesso, e il mondo. L'inizio non lo ricorda. Probabilmente l'inizio finora non era mai stato dimenticato così drasticamente. Di questo, credo, parlano le canzoni che si cantano oggi nel nostro Celeste impero. A ben guardare, non ricordano neppure la fine. Dove è ignoto il principio autentico è ignota anche la fine. La finitezza dell'uomo, la sua mortalità, sono temi popolari nei ragionamenti odierni: ma è strana questa finitezza che non viene in alcun modo accostata all'infinito, e questa mortalità che non viene accostata alla morte e all'immortalità.
Insieme col Principio è scomparso dal campo dell'esperienza umana tutto ciò che discende direttamente dal Principio: l'attenzione, la profondità, la concentrazione, la riconoscenza, lo stupore, la grazia, la lode, il rispetto, l'ispirazione, il dono, la speranza in ciò che sembra impossibile, la fiducia, la tristezza elevata. Tutto ciò di cui ha sempre parlato l'arte, e che sarebbe semplicemente assurdo cercare nelle canzoni del giorno d'oggi (parlo sempre di ciò che è più tipicamente attuale). In questo spazio al di fuori di un principio e di una fine ("noi viviamo dopo la fine", dicono, ma nella vita una cosa del genere non può semplicemente essere, la vita è tutta prima della fine!), non c'è assolutamente posto per tutto quello che abbiamo nominato e per molto altro. Questo spazio al di fuori di principio e fine, al di fuori di perdizione e salvezza, al di fuori di senso e nonsenso, questo spazio anti-escatologico e anti-ascetico, si chiama banalità quotidiana. L'uomo di oggi è immerso nella banalità quotidiana come mai prima. E questa banalità è ermeticamente chiusa: tutto il resto appare impossibile. Sull'impossibile non c'è niente da dire, ed è stupido sperarvi.
Parlando di antropologia dell'attuale società secolarizzata (o post-secolarizzata, come si dice), penso soprattutto al mondo europeo, ma non per contrapporlo a quello russo: almeno per quello che si canta, i due mondi non sono tanto diversi. Noi apparteniamo a un unico momento storico planetario. L'unica differenza può essere che quanto nel contesto occidentale è ormai routine nella vita artistica pubblica, nel contesto russo spesso viene ancora recepito come uno scandaloso oltraggio.
Tuttavia non si tratta di una puerile imitazione dell'Occidente, è l'aria dell'epoca che è arrivata nei nostri spazi con un certo ritardo. Un'altra corrente di quest'aria, costituita dalla società umanistica, ancora non è arrivata fin qui. E quando parliamo della società odierna e del suo cardiogramma che è l'arte, non possiamo non stupirci del loro contrasto apparentemente straordinario. La vita sociale della società attuale, che viene definita terapeutica o permissiva, è umana come non mai. La dignità dell'uomo, del singolo uomo a prescindere da attributi di ceto, etnia e genere, non era mai stata tanto stimata. Di per sé questa idea della dignità dell'uomo, la dignitas, slogan centrale dell'umanesimo che ha dato inizio all'epoca moderna, ha un'origine indiscutibilmente cristiana. Nessun'altra tradizione ha mai posto in cima a tutti gli altri valori la sola anima umana, la sua perdizione o la sua salvezza. Il cristianesimo qui ha proseguito e rafforzato l'intuizione veterotestamentaria di una dignità dell'uomo in qualche modo "non umana", su cui si interrogano con stupore i Salmi, tra cui quello che abbiamo scelto come epigrafe. Senza questa affermazione dell'uomo l'umanesimo classico non avrebbe semplicemente niente su cui poggiare, niente da cui iniziare.
Ai giorni nostri si preferisce parlare non tanto della "dignità" quanto dei "diritti" dell'uomo, ma il senso di tali "diritti", in sostanza, è lo stesso: difendere la dignità del singolo uomo davanti alle istanze impersonali. Per l'affermazione definitiva di questi diritti come norma formale indiscutibile e universale si è pagato con l'esperienza disastrosa del totalitarismo del XX secolo, che aveva annullato istituzionalmente il valore della persona e della sua vita. Il problema della persona nel mondo totalitario e presso i suoi edificatori suonava esattamente l'opposto di quella del salmo: "cos'è mai l'uomo, perché si debba pensare a lui, in confronto ai nostri progetti, scopi, idee, alla "necessità storica", al luminoso futuro del proletariato o al trionfo della razza ariana?". Che cos'è mai in confronto a tutto questo il singolo uomo, o migliaia e migliaia di singoli uomini? Ci sono cose più importanti. Quasi tutte le cose sono più importanti dell'uomo. Non solo di fronte a materie remote come il luminoso futuro o l'unica dottrina autentica, ma cos'è il singolo uomo di fronte alla necessità di costruire questa linea ferroviaria nel più breve tempo? Quanto alla lezione che bisogna trarre da questa esperienza, il mondo russo e quello europeo occidentale per ora sono molto distanti. Noi viviamo, bisogna riconoscerlo, in una società che non ha riesaminato e non ha superato la cinica ferocia che era stata inculcata alla gente generazione dopo generazione (basti ricordare che la parola "spietato" si usava, e ancora oggi si usa da noi, in senso positivo: "faremo una lotta spietata"). L'essere spietati, la "santa crudeltà" verso il nemico non ancora sbaragliato si considerava qualcosa di elevato, di eroico e persino tragico. Lo chiamavano "umanesimo socialista".
Il mondo occidentale ha risposto alla propria rovinosa esperienza con un pentimento che ha preso la forma di un "nuovo umanesimo"; questo umanesimo si è espresso nel porre i "diritti umani" in cima alla scala dei valori, e nell'atteggiamento generalmente "terapeutico", "permissivo" della società attuale. "Mai più di nessuno potremo dire: questo non è un uomo". Potremmo così esprimere la lezione che la cultura europea ha tratto dai lager di sterminio, dall'avventura del "superuomo". E nessuno può dire che questo contraddice il precetto evangelico: forse, dopo tutti i secoli di civiltà cristiana, è la prima volta che è stata presa sul serio la parola sul grande valore del povero. E poi? Poi, ahimé, per fare in modo di non dover più condannare nessuno, per conservare la dignità umana di un essere malato, storpio, demente, depravato, incapace, ignorante, dobbiamo abbandonare i nostri vecchi concetti di salute, bellezza, ragionevolezza, virtù, capacità, istruzione. Perché sono tutte norme repressive. Dobbiamo abbandonare le grandi idee e progetti perché producono grandi carneficine, le religioni perché generano il fanatismo che divide tutti in "amici" e "nemici", e così via. Rinunciare a tutto ciò che ha in sé una forza, perché forza e violenza non si distinguono più. E si distinguono malamente fede e fanatismo, certezza e dogmatismo. Sempre più in basso, sempre più in basso, fin dove non rimane quasi più niente. È l'antropologia del nuovo umanesimo. "Cos'è l'uomo? È un essere traumatizzato, ferito, misero, malato, svuotato dalla sua lunga storia. In lui non c'è niente di buono: può trasformarsi da solo in un carnefice. E questo essere bisogna proteggerlo. E possibilmente non chiedergli niente di straordinario". L'immagine dell'uomo, splendido, come cosmo, quasi onnipotente, libero e operoso, con facoltà di conoscenza quasi illimitate, l'immagine che ha ispirato il primo umanesimo classico, ha lasciato il posto nel nuovo umanesimo al suo contrario. La dignità dell'uomo si riduce al fatto che, sia come sia, esiste, la dignità del vivente sta nel semplice fatto che è vivo. Il Signore si ricorda anche di lui, aggiungiamo noi. Ma il nuovo umanesimo questo non lo dice. La sua idea è stata espressa dall'influente filosofo francese André Glucksmann, nel suo Undicesimo comandamento: "Ricorda che in te abita il male!". Splendido, anche questo lo ha insegnato per secoli la pedagogia monastica. C'è ancora una cosa che è stata dimenticata ancor più drasticamente, e forse merita parlarne: "Ricorda che in te abita qualcosa di buono".
Questa curiosa chenosi è la parte più poetica e seria del nuovo umanesimo. Da essa può nascere, e talvolta nasce, un nuovo pensiero, una nuova arte, un'arte povera, sommessa, quasi senza suono, quasi senza colore. Quasi non la si sente ancora oltre il fracasso e lo strepito dell'epoca. In questa povertà nasce una nuova intensità.
Mentre quello che si sente dappertutto e di cui abbiamo parlato, è l'arte della banalità quotidiana che ho chiamato realtà anti-escatologica e anti-ascetica. Anti-escatologica poiché vuole "esistere e basta", senza cominciare da un inizio e senza finire con la fine, senza interrogarsi sul senso e sul nonsenso, nel mondo della "necessità" e del "divertimento". Anti-ascetica, intendendo l'ascesi non come un sistema di volontarie limitazioni e rinunce, ossia la comune astinenza con la quale viene spesso confusa, ma come una realtà aperta, dinamica, come volontà umana tesa ad altro, a ciò che sulla base del dato sarebbe assolutamente impossibile e assurdo, ciò che un poeta ha chiamato "lo sforzo della resurrezione".
In ricordo di Giuseppe Garrone - 7 Febbraio 2011 - Marisa Orecchia, a nome di Federvita Piemonte, ricorda Giuseppe Garrone
Se dovessi definire Giuseppe Garrone con una sola frase direi che ha sempre cercato la verità e l’ha sempre proclamata tutta intera, senza sconti, senza cedimenti, senza compromessi.
Non stava zitto Giuseppe, neppure se era consapevole che quanto avrebbe detto gli sarebbe costata incomprensione, quando non ostilità e inimicizia. Aveva la ferma convinzione che nella battaglia a difesa della vita nascente la parola avesse da esser limpida, inequivocabile, fuori dalle insulsaggini del politicamente corretto, dalle omissioni tattiche del “cerchiamo quello che ci unisce” dalle sottili manipolazioni massmediatiche cui spesso è così comodo cedere per timore di allontanare , di sconcertare l’interlocutore.
E la sua parola è sempre risuonata così, nei convegni, nelle riunioni ad ogni livello, nelle relazioni che era chiamato a fare in giro per l’Italia, nelle scuole ai ragazzi, dai microfoni di Radio Maria.
Una parola chiara, persuasiva nei colloqui con le mamme inclini ad abortire, ma ferma e colma della tenerezza infinita di chi sapeva vedere, al di là delle storie di vita dura e faticosa, che bisognava prendere in mano per aiutare, sostenere, raddrizzare, il volto di quel bambino.
E la parola di Giuseppe non poteva non dare vita a SOS Vita, la parola al telefono che salva. Gli diede avvio nel 1992, nel giorno in cui si fa memoria dei SS. Innocenti ( di tali segni è costellata la vita di Giuseppe), con subitanea decisione seguita a fulminea intuizione, superando difficoltà tecniche (un numero verde su un radiomobile, primo caso in Italia) e remore di quanti gli dicevano che sì, l’idea era buona, ma bisognava pensarci bene, aspettare, c’erano i corsi di preparazione da fare, era necessario attrezzarsi per far fronte. Cominciò a strappare bambini all’aborto volontario con lunghe telefonate che giungevano da tutta l’Italia, ad ogni ora del giorno e della notte. Ancora oggi, a quasi vent’anni di distanza, ho davanti agli occhi le parole di Giuseppe riportate sull’agenda che, ben prima delle schede oggi in uso, serviva per tener conto delle mamme che telefonavano per chiedere aiuto, dei bambini salvati, delle donne disperate per aver ceduto all’aborto, rincuorate, consolate, riconciliate.
Ha sostenuto tutti ,la parola di Giuseppe, anche noi volontari dei MpV e dei CAV, quando, incerti, scoraggiati, affaticati per questo nostro continuo andar contro corrente, lo abbiamo chiamato perché ci ricordasse che la parola buona e la preghiera non cadono mai nel nulla.
Ma non solo profeta, Giuseppe. Anche testimone. Con la sua vita, tutta spesa per la vita nascente. Con le opere. Partiva a qualunque ora del giorno, se c’era da salvare un bambino con la sua mamma.
Ha rilanciato il cassonetto per la vita, quando molti, perplessi, pensavano che era “roba da medioevo”.
Ha profuso il suo impegno per la fondazione di Progetto Gemma , ha sollecitato instancabile una pastorale per le donne che hanno abortito e lui stesso si è dedicato alla loro rinascita spirituale.
Non ha lasciato nulla di intentato nella lotta quotidiana per la tutela della vita dei concepiti.
Ho scritto, subito dopo la sua morte, nel dolore del primo momento, che senza Giuseppe eravamo tutti un po’ più poveri e un po’ più soli. Non è vero: per quella realtà in cui speriamo e crediamo che è la Comunione dei Santi, Giuseppe è ancora con noi. Più vicino di prima.
Mons. Bux affronta alcuni temi d'attualità sulla Fede - di Libertà e Persona - 12/02/2011 - Abbiamo intervistato Mons. Nicola Bux, famoso teologo, vicino a Benedetto XVI, voce di radio Maria e penna del Timone, autore di studi illuminanti sulla Liturgia – da http://www.libertaepersona.org/dblog/articolo.asp?articolo=2306
1) Reverendo Monsignor Nicola Bux, il mondo cattolico tradizionale in questi ultimi anni si sta rivelando più vivo che mai. Sull’onda del motu proprio di Benedetto XVI per esempio, sono sorti siti molto interessanti, come messainlatino e rinascimento sacro, mentre nel panorama culturale, accanto all’ottima Radio Maria diretta da padre Livio, si segnalano da tempo riviste del cattolicesimo tradizionale come Il Timone e Radici Cristiane. Cosa ne pensa?
"In tutta la Chiesa agisce la forza spirituale, la vis Evangelii che viene dall’efficacia della passione di Gesù Cristo mediante il suo corpo e il suo sangue vivificati dallo Spirito Santo che continua a far nuove tutte le cose (cfr Ap 21,5). San Paolo definisce questa forza “la “potenza della risurrezione. Alla luce di tale potenza, mi sembra debbano leggersi i fermenti sempre più numerosi di rinascita della tradizione e della devozione. Non sono anche questi ‘segni dei tempi’, come amano dire i vescovi? O chiameremo in tal modo solo quegli accadimenti che corrispondono ai nostri schemi pastorali? “La risurrezione di Cristo è un fatto avvenuto nella storia, di cui gli Apostoli sono stati testimoni e non certo creatori” disse Benedetto XVI a Verona. Qualche esegeta o teologo cattolico scuoterà la testa, ma la celebrazione della santa Messa è ciò che salva continuamente il mondo, perché è l’estensione della salvezza compiuta una volta per tutte dal Signore col sacrificio della Croce. Gli ortodossi sanno che su questo non c’è da scherzare. Non si può proprio prescindere da questo. Se così non fosse, dopo tutte le persecuzioni e i martìri – nonostante le debolezze dei lapsi, i deboli che hanno collaborato con chi vuole annientarla – la Chiesa sarebbe finita. Per questo, il mordersi e divorarsi tra cristiani è ciò che contraddice la causa del Vangelo. Quanta energia si perde in tal modo, sottraendola alla evangelizzazione! L’unità tra i cristiani all’interno e all’esterno della Chiesa cattolica però, non siamo noi a farla, ma la favoriamo quando guardiamo a Gesù e non a noi stessi. Se lo facessero gli uomini sarebbe un programma politico destinato a fallire, perché la Chiesa e la sua unità le fa solo lo Spirito, e gli uomini, nella misura in cui docilmente si lasciano guidare, le facilitano. Nemmeno le commissioni di dialogo meglio intenzionate conseguirebbero il risultato dell’avvicinamento. Diceva il grande teologo Balthasar: la parola del Risorto è più grande di tutta l’esegesi che di essa si possa fare, perché viene da Dio".
2) Nell’ambito di questa vitalità sono nate anche opere che cercano di fornire uno sguardo critico sugli ultimi quarant’anni diverso dalla vulgata dominante. Mi riferisco in particolar modo ai lavori di Mons. Brunero Gherardini, con prefazione di mons Oliveri e di mons. Ranjith, e al testo “Concilio Vaticano II, una storia mai scritta” di Roberto de Mattei. Intorno a questi libri è nata una discussione vivace, con qualche tono acceso, ma ultimamente, a mio avviso, utile e arricchente. Lei cosa ne pensa?
"Siccome credo all’evoluzione delle idee umane, sarebbe auspicabile un confronto ‘scientifico’ tra la visione del Vaticano II proposta da Giuseppe Alberigo e i suoi seguaci – alcuni dei quali, come Claudio Leonardi, poi ne hanno preso le distanze – che è andata per la maggiore, e quella dei suddetti teologici e storici. V’è anche il contributo molto importante di S.E.Mons.Marchetto, con il quale recentemente abbiamo conversato della corretta ermeneutica del concilio, con base nella sua storia. Ora, in tale direzione, va il volume "Vatican II.Renewal within Tradition", di Mattew Larub e Mattew Levering, edito dalla Oxford University Press, New York 2008. L'opera è importante e andrebbe tradotta in italiano, poiché "dimostra" scientificamente, la continuità del rinnovamento - certo - "proclamata" dal Magistero. Continuità e riforma,s'intende. Il libro consta di circa 460 pagine. L'edizione italiana,sarebbe una risposta a quanti invocano le "prove" della continuità. Dobbiamo insomma fare lavoro di ‘scuola’, affinché il concilio Vaticano II, a quasi cinquant’anni dalla sua apertura che cadrà l’anno prossimo, venga compreso secondo il metodo indicato da Benedetto XVI nel noto discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005".
3) Una forte polemica è nata anche intorno al cosiddetto “spirito di Assisi”. Alcuni cattolici di fronte all’intenzione di Benedetto XVI di recarsi ad Assisi alla fine dell’anno, hanno voluto lanciare dalle colonne de Il Foglio un appello al Santo Padre, non tanto “per insegnargli il suo mestiere”, quanto per prevenire interpretazioni e fatti sincretistici, come quelli che avvennero durante e dopo il raduno interreligioso di Assisi 1986. L’appello correva sull’onda delle analoghe posizioni espresse in passato da personalità cattoliche d’eccezione come don Divo Barsotti, mons. Alessandro Maggiolini, il cardinal Giacomo Biffi, Sandro Magister, Vittorio Messori... Scriveva quest’ultimo, proprio commentando gli effetti di Assisi 1986 sull’opinione pubblica e nel mondo cattolico: “E´ indubbio, dunque, che (al di là, com´è ovvio, delle generose e limpide intenzioni papali) ciò che è stato recepito è un messaggio del genere: Dio si manifesta in molti modi, così che ogni religione ha pari verità e dignità; ciascuno militi, al meglio, nella tradizione religiosa in cui si trova; la si smetta con apostolati e missioni che non rispettano le credenze degli altri e neppure il piano divino che non esige una sola Verità; ciò che conta non è il nome del Dio nei Cieli ma l´impegno sulla terra di tutti quelli che credono in Lui, quale che sia il suo volto; il bene supremo non è la salvezza eterna, ma una realtà terrena come la pace tra le nazioni…questo l´effetto concreto del grande raduno dove, tra l´altro, gli animisti africani, invocando pace dai loro Dei, hanno sacrificato un pollo sull´altare”. Anche il recente appello citato, come a suo tempo le parole di Messori, ha sollevato forti obiezioni. Qualcuno ha accusato gli autori di essere “disobbedienti” e addirittura “eretici”. Lei ritiene che questa dialettica, tra favorevoli e contrari allo “spirito di Assisi”, stia nell’ottica cristiana (in dubiis libertas), o che, al contrario, l’appello citato sia stato di per se stesso, falso, negativo e condannabile? Ritiene positivo il dibattito, o negativa per la Chiesa la sua sola esistenza?
"Se lo "spirito di Assisi" non attingesse allo Spirito Santo, non avrebbe alcun senso. Lo Spirito Santo soffia da un lato per formare la Chiesa corpo di Cristo, dall'altro perché tutti gli uomini, religiosi e non, giungano liberamente alfine a scoprire che sono "ordinati" a Cristo nella Chiesa, come ha detto il concilio Vaticano II nella costituzione Lumen gentium e il papa Paolo VI nell'enciclica Ecclesiam suam.
Bisogna allora che anche lo "spirito di Assisi " si confronti con tale verità e si lasci verificare ed eventualmente modificare. Esso deve conformarsi alla linea indicata da papa Benedetto XVI nel messaggio al Meeting “Popoli e religioni” promosso dalla Comunità di S.Egidio nel settembre 2006, in specie ove diceva che bisogna tenere conto anche delle differenze tra le religioni. Detto questo, penso però ad un'altro aspetto: la libertà religiosa. Nel Messaggio per la Giornata della Pace 2011 il Papa spiega che non si tratta di un diritto positivo – il quale dovrebbe comprendere anche un “diritto all’errore”, mai riconosciuto dalla Chiesa – ma di un diritto negativo, di una “immunità dalla coercizione” nella società civile.Ciò è scritto nella Dignitatis humanae del Vaticano II che aggiunge: (DH 1)Questa immunità acquista certo un profilo specifico negli Stati moderni, per definizione incompetenti in materia di religione, ma corrisponde al principio antico secondo cui , se si può parlare di “diritto”, in senso giuridico, si tratta del diritto a non essere turbati da una intromissione dello Stato moderno nella formazione delle proprie convinzioni in materia di religione.
Il Papa ha poi chiarito: Oggi il problema riguarda il confronto sui diritti dell'uomo e sulla libertà religiosa, a 360 gradi con i musulmani e tutte le altre religioni. Questo certamente il santo Padre non lo eluderà ad Assisi e, da solo, sarà la novità. Egli pensa che non ci possa essere vero dialogo senza affrontare a mo' di premessa le questioni della libertà religiosa, della idea di uomo e dei suoi diritti.
Il Concilio Vaticano II ha prodotto la dichiarazione Dignitatis Humanae, proprio sulla libertà religiosa; perciò, non ci può essere dialogo tra culture e religioni, non ci può essere ecumenismo senza l'accettazione della libertà religiosa. Il discorso del Papa a Regensburg inaugura uno stile di dialogo che dice la verità tutta intera senza finzioni, senza reticenze ed è l'unica maniera per costruire una stabile e leale convivenza tra culture e religioni diverse. Non a caso all'indomani delle polemiche il Papa ha convocato gli ambasciatori musulmani, per dare in tal modo il segnale che il dialogo per non essere un vuoto esercizio retorico deve richiedere innanzitutto il rispetto dei diritti umani, della libertà, senza ricorrere a violenza alcuna per imporre le proprie idee. Poi, si deve accettare il confronto e la critica di alcuni aspetti per vedere quale sia la vera religione.
Ad esempio il concetto di uomo, di donna, di libertà e il concetto di partecipazione alla società e così via. Dal confronto vedremo qual è la migliore. Perché, come giustamente dice il Papa, la fede deve sempre rapportarsi con la ragione, e vorrei qui ricordare le parole di Giovanni Paolo II che nella "Fides et Ratio" afferma che la verità si raggiunge volando con entrambe le ali della fede e della ragione, in quanto se si vola con una sola ala, o si cade nel fideismo, o si cade nel razionalismo. Vorrei concludere dicendo che il primato è dell’amore. Cristo per questo chiese a Pietro: “Mi ami tu più di costoro?” Senza il primato dell’amore,che è esercitato col primato petrino e romano del Papa non vi può essere unità dei cristiani. Il primato romano è il punto di convergenza e concentrazione visibile della potenza della risurrezione di Cristo, perché in esso vive l’amore: la ragione vera è l’amore. Ogni volta che questo comandamento di Cristo è eseguito avviene l’unità in noi, perché in realtà essa sussiste sempre prima, ci precede nella Chiesa.
Il primato dell’amore. C’è una sola Roma, quella di Pietro e Paolo, nella quale ogni cristiano è romano; con essa, dicevano i padri seguendo il Vangelo, è bene che convengano tutti i cristiani. Essa è la presidente del corpo dell’amore, l’agape che è la Chiesa. Forse la divisione vera oggi non è tra cattolici e ortodossi, ma tra coloro che credono che la risurrezione di Gesù sia un fatto avvenuto nella storia e che continua ad influire su di essa, qui e ora, e coloro che la relegano al di fuori. I cattolici non vadano dietro una ‘linea ecumenica’, intesa come l’essere meno cattolici, con una religiosità generica, pacifista, ecologista…– caratteristiche - ha ricordato ironicamente il cardinal Biffi – dell’Anticristo paventato dal celebre pensatore russo Vladimir Solov’ev, che sembra oggi riproporsi – ma che abbia i contorni nitidi di Cristo e di ciò che viene da lui".
Affitasi - Da Avvenire, 10 febbraio 2011, di Lorenzo Schoepflin - 12/02/2011 - Fecondazione artificiale - Ecco cosa succede nell'epoca in cui Elton John e Nicole Kidman, solo per citare due casi da "Vip" (si fa per dire), hanno sdoganato la maternità surrogata, da http://www.libertaepersona.org
Dove sono tutte quelle che gridano da mane a sera "L'utero è mio e lo gestisco io"? Credono davvero che le donne che affittano l'utero siano libere?
Si intitola “Made in India” il documentario che nelle intenzioni delle due donne che lo hanno realizzato, Rebecca Haimowitz e Vaishali Sinha, vuole mostrare “le storie umane” dietro a quel “complesso e controverso” fenomeno che risponde al nome di maternità surrogata. Il documentario apre uno squarcio su un argomento che ormai è all’ordine del giorno delle cronache bioetiche, con tutti i suoi angoli bui dal punto di vista etico, economico e legale. E lo fa narrando la storia di Lisa e Brian, che dal Texas volano in India per avere quel figlio atteso da sette anni, aiutati da Aasia, una ventisettenne che porta il burqa per non farsi riconoscere quando entra nella clinica dove impianteranno nel suo utero l’embrione della coppia.
Un vero e proprio commercio, quello del “turismo riproduttivo”, soggetto alle leggi del mercato: in India affittare un utero non costa mai più di venticinquemila dollari, contro i centomila che si possono arrivare a spendere negli Stati Uniti. Nell’ottobre scorso, in Canada, una madre surrogata è stata costretta ad abortire su richiesta della coppia che aveva fornito i gameti. L’interruzione della gravidanza, alla quale la gestante si opponeva, era stata pretesa nel momento in cui gli esami avevano evidenziato che il nascituro era affetto da sindrome di Down. La coppia si era appellata ad un contratto firmato prima dell’impianto dell’embrione, che prevedeva proprio l’obbligo per la madre surrogata di abortire in determinati casi. Sulla validità del contratto si erano interrogati numerosi esperti, chiedendosi se la vita umana potesse essere oggetto di accordi simili a quelli che riguardano la vendita di beni materiali. Molti dubbi riguardano anche le difficoltà che l’affitto di un utero porta con sé in relazione alla definizione dei gradi di parentela tra il bambino che viene alla luce e coloro che si sono affidati alla maternità surrogata, anche in considerazione del fatto che non di rado ad essere coinvolte sono coppie omosessuali. In Australia una coppia di uomini ha visti riconosciuti i diritti di paternità anche per l’uomo che non ha fornito lo sperma per l’embrione poi impiantato nell’utero di una donna indiana.
“La parola ‘genitore’ suggerisce qualche legame biologico” – si legge nel dispositivo del giudice – “ma la biologia non ha realmente importanza, sta tutto nella responsabilità parentale”.
A fine gennaio, un’altra controversia legale ha agitato il dibattito sulla maternità surrogata nel Regno Unito. Ad una donna che aveva stipulato con una coppia un accordo informale che prevedeva l’affitto dell’utero e la consegna del figlio alla nascita, è stato riconosciuto il diritto a tenersi il bambino. La gestante aveva infatti cambiato idea e, secondo il giudice, adesso che il bimbo ha sei mesi, la separazione tra i due costituirebbe una ferita insanabile per l’infante e per la donna, visto il legame creato dal “processo naturale della gestazione e del parto”.
Alla luce di questi casi non sorprende che molti paesi stiano correndo ai ripari in tema di uteri in affitto. In primis l’India: il governo sta considerando il varo di una legge che impedisca alla donne di concedere il proprio utero per più di cinque volte, limitando la fascia di età delle madri surrogate tra i 21 e i 35 anni. Una legge dunque permissiva, ma, se si pensa che l’intento è una regolamentazione più definita, è facile intuire quanto oggi la situazione sia fuori controllo. Anche in Australia c’è chi si è dotato di un testo che regolamenta la maternità surrogata: la legge del Nuovo Galles del sud impedisce viaggi all’estero alla ricerca di donne disposte a portare avanti una gravidanza. E, proprio in questi giorni, il parlamento francese si trova a discutere la legge sulla bioetica che non sembra voler concedere spazio alla possibilità di affittare l’utero. In Italia la maternità surrogata è vietata dalla legge 40. Ma c’è chi non si arrende. E’ depositato presso la Camera un progetto di legge in tema di fecondazione assistita col quale, al primo comma dell’articolo 15 si vietano le tecniche di surrogazione della maternità. Ma al comma successivo si afferma che tale divieto “non si applica nel caso in cui l'incapacità della madre di portare avanti la gravidanza non sia altrimenti superabile”, fermo restando l’impossibilità di ricevere compensi per l’affitto dell’utero. La prima firmataria del testo è Maria Antonietta Farina Coscioni, deputata di quei radicali spesso sponsor dei numerosi attacchi alla legge 40.
Tommaso d'Aquino e la vera libertà dei teologi. Gli occhi della Chiesa (Inos Biffi), Tommaso d'Aquino e la vera libertà dei teologi - Gli occhi della Chiesa di Inos Biffi (©L'Osservatore Romano - 13 febbraio 2011)
Tommaso d'Aquino chiama i «sacri dottori (sacri doctores)», gli «occhi» della Chiesa: «Come nel corpo c'è l'occhio, così nella Chiesa ci sono i dottori» (sicut [...] oculus est in corpore, ita doctores sunt in Ecclesia; Contra impugnantes, 2, 2, c).
Tra questi «sacri dottori» sono compresi i teologi, quelli cioè che dedicano la loro vita, direbbe lo stesso Tommaso, allo studium sapientiae o alla contemplazione, nell'intento di ottenere l'«intelligenza della fede» (intellectus fidei), secondo l'espressione cara ad Anselmo d'Aosta (Proslogion).
I filosofi, seguendo «l'inclinazione naturale che c'è nell'uomo di conoscere la verità riguardante Dio» (Summa Theologiae, i-ii, 2, 94, 2, c), considerano le cose del mondo per salire a lui; i teologi, grazie alla Rivelazione, considerano i segreti di Dio per discendere nel mondo. La teologia, quindi, come lo sguardo proprio di Dio sulla realtà.
Nel 1256, alla prima lezione inaugurale del suo magistero dottorale, in cui commenta il versetto 13 del Salmo 103: «Colui che irriga i monti dalle sue alte dimore» (Rigans montes de superioribus suis), parlando della «dignità» (dignitas) dei dottori, Tommaso d'Aquino afferma: «I monti sono illuminati per primi dai raggi del sole; similmente i dottori ricevono per primi lo splendore dell'intelligenza. Come i monti, infatti, i dottori sono i primi a essere illuminati dai raggi della sapienza divina; ed è detto nel salmo 75, 5: Quando tu illumini in modo meraviglioso dai monti eterni, sono turbati tutti gli stolti di cuore, cioè dai dottori che partecipano dell'eternità, di cui in Filippesi 2, 15 è detto: In mezzo a loro splendete come astri nel mondo» (Primo enim montes radiis illustrantur. Et similiter sacri doctores mentium splendorem primo recipiunt. Sicut montes enim doctores primitus radiis divinae sapientiae illuminantur, Psal. 75, 5: illuminans tu mirabiliter a montibus aeternis, turbati sunt omnes insipientes corde; id est a doctoribus qui sunt in participatione aeternitatis, Philipp. 2, 15: inter quos lucetis sicut luminaria in mundo).
Veramente, la visione teologica appartiene a ogni credente che, accogliendo nella fede la Parola di Dio, si ritrova in dono «gli occhi illuminati del cuore» (cfr. Efesini, 1, 18) o il «lume della fede» (lumen fidei), com'è chiamato nella tradizione patristica e scolastica, che anche parlava dell'«occhio della fede» (oculus fidei), mentre già Tertulliano parlava di «fede dotata degli occhi» (fides oculata).
È, infatti, intrinseco alla fede l'«istinto» della sua comprensione. Manifestandosi all'uomo, Dio gli affida i suoi segreti, perché li iscriva nell'intelletto e nell'affetto e diventino, così, oggetto del suo pensiero e del suo amore. È nota la definizione agostiniana della fede: «un aderire accompagnato dalla riflessione» (cum assensione cogitare), che san Tommaso commenta dicendo: l'atto del credere «comporta un'adesione ferma, tuttavia la sua conoscenza non si compie mediante una percezione evidente» (habet firmam adhaesionem [...] et tamen eius cognitio non est perfecta per manifestam visionem; Summa Theologiae, ii-ii, 2, 1, c).
Ecco perché, continua ad affermare l'Angelico, «la conoscenza della fede non acquieta il desiderio; anzi, lo accende ancora di più, perché tutti desiderano vedere ciò che credono» (cognitio [...] fidei non quietat desiderium, sed magis ipsum accendit, quia unusquisque desiderat videre quod credidit; Summa contra Gentiles, III, 40).
In altri termini: «Il fine della fede è quello di giungere a capire quelle cose che crediamo» (finis fidei est nobis, ut perveniamus ad intelligendum quae credimus; Super Boetium de Trinitate, 2, 2, 7m).
Da questo profilo ogni credente appare istintivamente inclinato a essere teologo.
È, dunque, la forza stessa della fede a premere per diventare quanto possibile contemplazione, e così soddisfare l'intelligenza, che, vedendo quello che ama, provoca compiacenza e gioia. Più uno crede, «vede»; e più uno «vede», ama. È la peripezia del teologo.
Il quale, tuttavia, non va considerato isolato e a sé, ma nella sua appartenenza alla Chiesa, alla quale viene anzitutto affidato il mistero. I sacri dottori sono gli occhi nel corpo che è la Chiesa, perché è in essa che la teologia diviene una scelta di vita.
La radice della loro professione è la fede custodita e vivente nella Chiesa, semplicemente comune a tutti i credenti. Da qui la natura profondamente ecclesiastica della teologia. Quello dei teologi non è un pensare né sopra né a prescindere dalla fede della Chiesa. Il sapere globale della Chiesa è sempre maggiore del sapere di qualsiasi, per quanto acuto, teologo, il quale rimane sempre da essa giudicabile, in particolare dal Magistero dei «sacri dottori» intesi come i maestri della fede.
Questo non vuol dire che la Chiesa riconosca subito il valore di un pensiero teologico, né che il suo giudizio in merito sia sempre infallibile: la storia dimostra che spesso il riconoscimento richiede tempo e che non sempre sono risparmiate al teologo dolorose afflizioni. Un teologo deve prepararsi ad attendere, in questa vita o anche nell'eternità. Una volta ancora possiamo citare come esempio ammirevole il biblista Padre Lagrange, con le sue traversie.
Uno degli indici di serietà teologica è anche la pazienza, il senso delle proporzioni, la «modestia» o la «misura», l'attesa, la diffidenza nei confronti della facile pubblicità, la non facilità a porsi nello stato di vittima o di genio incompreso. A chi vi si dedichi, senza ulteriori mire, la teologia ha sempre di che soddisfare l'esistenza di uno studioso cristiano.
Oggi forse troppo gratuitamente ci si autoproclama teologi: oppure si perde vanamente il tempo a discutere della libertà del teologo invece di faticare a tempo pieno per diventarlo.
Senza dubbio, va precisato che la finalità della teologia non è propriamente né solo quella di spiegare o giustificare il Magistero, che d'altronde è per il teologo, come per tutti i credenti, un punto imprescindibile di riferimento, né è quella di limitare le sue indagini all'area delineata dallo stesso Magistero.
Guida del teologo è la Parola di Dio situata e autorevolmente interpretata nella Chiesa, il cui magistero è per lui come per tutti riferimento e dimensione imprescindibile. Egli tende, cioè, a pensare tutta la Rivelazione, quand'anche essa non abbia trovato la forma di un'esplicita proposizione magisteriale, e sarà l'intera Chiesa a beneficiare di questi approfondimenti. Si pensi ai due casi più illustri, quello di Agostino e quello di Tommaso d'Aquino, che hanno indagato su tutto l'arco del mistero cristiano, col risultato di segnare profondamente il contenuto e il linguaggio dello stesso Magistero.
D'altra parte, una teologia che reclami autonomia e indipendenza rispetto all'insegnamento della Chiesa si pone metodologicamente fuori strada, dal momento che il suo oggetto non è la Parola che Gesù Cristo ha consegnato alla sua Chiesa tramite gli Apostoli e la successione apostolica, da lui disposta come testimonianza e garanzia infallibile dell'autenticità dell'insegnamento evangelico. La libertà della teologia non significa riflessione arbitraria e indipendente.
Su questa via semplicemente non avremmo più la teologia cristiana e la pretesa di esserlo sarebbe abusiva.
Per tornare a san Tommaso: il suo appare un modello chiarissimo di teologia «libera» ma insieme consapevole della sua «relatività», che le assicura l'«ortodossia».
Proporre una dottrina in contrasto con quella insegnata dai «sacri doctores» -- intesi come i maestri autorevoli nella Chiesa (cfr. Atti degli Apostoli, 20, 28) -- vorrebbe dire perdere la prerogativa di essere un «dottore della verità cattolica» (catholicae veritatis doctor, come Tommaso chiama il teologo (Summa Theologiae, i, 1).
Deplorevolmente oggi parrebbe che l'eresia non esista più. In ogni caso già Paolo raccomandava a Tito di insegnare «quello che è conforme alla sana dottrina» (Tito, 2, 1), mentre, esortando Timoteo ad annunciare la Parola di Dio, gli prediceva: «Verrà un giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina» (2 Timoteo, 4, 2-3).
Quanto a Tommaso, sempre nel discorso inaugurale del suo insegnamento, assegnava al teologo il compito di difendere la fede contro gli errori: «I monti difendono la terra dai nemici; allo stesso modo i dottori della Chiesa devono essere impegnati a difendere la fede dagli errori» (Per montes terra ab hostibus defenditur. Ita et doctores ecclesiae in defensionem fidei debent esse contra errores).
Ma sembra un compito che oggi non entusiasma molto i teologi, intenti a dialogare e a complimentarsi e ad ammirarsi a vicenda.
Importa, comunque, chiarire che la libertà di insegnare l'eresia è altra cosa rispetto alla libertà della ricerca teologica, ossia di una ricerca nell'ambito di una scienza che per definizione è «scienza della fede» (scientia fidei), che, d'altronde, lascia uno spazio immenso e stimolante alla più sorprendente originalità.
Possiamo fare ancora una considerazione, per distinguere tra la teologia come frutto dell'ingegno, dello studio, della ricerca che abilitano a occupare una cattedra, con una «licenza di insegnare» (licentia docendi), e la teologia «sapienziale», che si riceve in virtù della grazia.
Si possono certamente «sentire le cose di Dio» (pati divina), averne l'esperienza, anche se non si è teologi «di professione». Basta essere in grazia di Dio, come una volta si diceva, e avere quindi il dono dello Spirito Santo, che è la sapienza.
Lo rileva san Tommaso, quando parla della conoscenza sapienziale «per inclinazione» o «per una certa connaturalità», distinguendola nettamente dalla teologia come «giudizio che si ottiene attraverso lo studio e la ricerca» (Summa Theologiae, I, 1, 6, 3m).
È questo secondo il senso da noi qui assegnato al termine teologia, la quale, così compresa, richiede lavoro assiduo, spesso non gratificante, restìo a improvvisazioni, o folgorazioni, esigente di disciplina e di assidua esercitazione dell'intelletto nel campo sia storico sia speculativo.
Con la conclusione che senza una vera ascesi rigorosa, severa e prolungata, difficilmente si diviene dei veri teologi. La scienza teologica, del resto come ogni scienza, non fa sconti a nessuno e non la si acquista a buon prezzo.
Per finire, può essere illuminante ricordare un testo forse meno noto di san Tommaso sulla «gratuità» della teologia.
La teologia o la «contemplazione della sapienza» ha in se stessa il proprio fine e la propria ricompensa. Essa «si può giustamente paragonare al giuoco, per due ragioni: la prima perché il giuoco è motivo di gioia, e la contemplazione della sapienza è fonte della più grande gioia; la seconda perché gli atti del giuoco sono ricercati per se stessi, e non sono ordinati ad altro: lo stesso avviene nel piacere che provoca la sapienza e che non ha la sua causa al di fuori di essa, per cui non produce nessuna ansietà, come se mancasse di qualcosa che attende» (Sapientiae contemplatio convenienter ludo comparatur, propter duo quae est in ludo invenire. Primo quidem, quia ludus delectabilis est, et contemplatio sapientiae maximam delectationem habet [...]. Secundo, quia operationes ludi non ordinantur ad aliud, sed propter se quaeruntur. Delectatio contemplationis sapientiae in seipsa habet delectationis causam: unde nullam anxietatem patitur, quasi expectans aliquid quod desit; In Boëthii de Hebdomadibus, Prologus).
È come dire che la ricompensa a una vita trascorsa a far teologia è in un certo senso la teologia stessa, che nasce dalla passione della visione di Dio e in certa misura ne è il preludio. Si può anche diventare più buoni a far teologia, ma Tommaso giungeva a dire, a differenza di Bonaventura, che non si fa teologia per essere buoni, semmai la si puo fare perché si è buoni. Infatti, la sacra dottrina non è una scienza pratica, ma speculativa: attratta tutta ed esaurientemente a Dio, oltre il quale non c'è nulla.
«Staminali, c’è ancora molta strada da fare» - Si lavora sugli effetti tumorali delle cellule «riprogrammate» di Emanuela Vinai, Avvenire, 13 febbraio 2011
Che le cellule «Ips» – staminali pluripotenti indotte, ovvero cellule somatiche potenzialmente in grado di trasformarsi in quasi tutte le altre ma senza sacrificare embrioni umani – potessero presentare margini di instabilità e di rischio lo aveva già ammesso lo stesso Shinya Yamanaka, il loro scopritore, ben prima che la rivista scientifica Cell Death and Differentiation mettesse in guardia venerdì contro la loro potenziale oncogenicità qualora venga usato un certo gene (il c-Myc) per ottenere l’effetto del ringiovanimento allo stadio simil-embrionale. In più occasioni il ricercatore giapponese ha spiegato che «il meccanismo di riproduzione cellulare accelerato comporta il rischio che i tessuti, una volta trapiantati, sviluppino particolari neoplasie chiamate teratomi». E ancora: «Prima di effettuare trapianti cellulari occorrerà superare molti ostacoli. Primo tra tutti, ottenere metodi di generazione più stabili e sicuri», obiettivo al quale molti ricercatori stanno lavorando con i primi successi. Dunque nessuna mistificazione com’era invece accaduto nel caso dello scienziato coreano Hwang Woo-suk, scomparso dalle scene dopo i suoi esperimenti contraffatti sulle staminali embrionali e la clonazione, ma la consapevolezza di dover ancora lavorare su una tecnologia dalle molteplici applicazioni e dagli innegabili benefici etici, per nulla sminuiti dalle ultime notizie. In un articolo pubblicato nel 2006 Yamanaka dimostrò che quattro geni (Oct4, Sox2, c-Myc, klf4) sono in grado di riprogrammare il genoma delle cellule e di farle così ritornare a uno stadio embrionale, in cui diventano capaci di generare tutti i tipi cellulari. Una rivoluzione copernicana in un settore in cui si continuano a creare e distruggere embrioni umani per ottenerne cellule staminali, ricorrendo anche agli embrioni 'soprannumerari' avanzati dai cicli di fecondazione assistita. Le Ips stanno obbligando a cambiare prospettiva, e con la loro plasticità promettono di offrire numerose soluzioni terapeutiche oggi solo ipotizzate. Di qui anche le resistenze incontrate tra i fautori della libertà di ricerca sugli embrioni umani. Lo studio pubblicato su Cell Death and Differentiation, frutto della collaborazione di alcuni istituti di ricerca tra i quali l’Istituto europeo di oncologia di Umberto Veronesi (anch’egli sostenitore della ricerca con embrioni), non fa che rammentare l’esigenza di procedere con cautela e determinazione. Ma approfondire criticità scientifiche non equivale ad approfittarne per introdurre il concetto di «dovere morale» nell’utilizzo degli embrioni soprannumerari per la ricerca.