sabato 19 febbraio 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    18/02/2011 – INDIA- Digiuno e sit-in di vescovi e fedeli contro un falso rapporto sulle violenze in Karnataka di Nirmala Carvalho
2)    Per un bilancio dell'"Humanae vitae" quarant'anni dopo - Progresso e destino nella visione di Papa Montini, di HERMANN GEISSLER  (©L'Osservatore Romano - 19 febbraio 2011)
3)    La vera libertà religiosa e chi la minaccia. L'intervento di Massimo Introvigne a Belgrado - pubblicata da Massimo Introvigne - Le minacce alla libertà religiosa nel XXI secolo
4)    Come san Pietro salì in Cattedran di Ruggero Sangalli, 19-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
5)    Il XXI secolo, che già si annuncia tragico di Massimo Introvigne, 19-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
6)    MONS. BETORI: PER FARE SCUOLA, OCCORRE LA “PASSIONE PER L’UOMO” - Intervento al convegno nazionale CdO Opere Educative
7)    Anthony Hopkins: «essere atei è come vivere in una cella senza finestre», 17 febbraio, 2011, da http://www.uccronline.it
8)    Sull’aborto Madrid «sfida» Zapatero - Spagna - Il Parlamento regionale creerà una rete per sostenere le donne incinte in difficoltà. Previsti aiuti economici e agevolazioni - DA MADRID MICHELA CORICELLI – 19 febbraio 2011

18/02/2011 – INDIA- Digiuno e sit-in di vescovi e fedeli contro un falso rapporto sulle violenze in Karnataka di Nirmala Carvalho

Il rapporto della commissione di giustizia Somasekhar scagiona due movimenti radicali indù dagli attacchi del 2008 a 56 chiese, contro ogni evidenza. Il presidente del Global Council of Indian Christians: “Un fascio di menzogne, teso a confondere e disinformare la gente”. Un contro-rapporto presentato oggi al governatore e al primo ministro del Karnataka.


Bangalore (AsiaNews) – Migliaia di cristiani in Karnataka danno vita a una manifestazione e a un digiuno per protestare contro un rapporto che negando testimonianze e evidenza scagiona alcune organizzazioni radicali indù nell’attacco di decine di chiese. Al digiuno silenzioso presso il campus dell’università di St Mark, a Bangalore, partecipano 18 vescovi, fra cui l’arcivescovo di Bangalore Bernard Moras. Oltre a digiunare e a manifestare nel sit-in, vescovi, esponenti del Global council of Indian Christians (Gcic) e cristiani del Karnataka presenteranno al governatore  e al primo ministro del Karnataka un contro-rapporto, intitolato: “1000 giorni di governo, 236 attacchi e 1000 persone traumatizzate”.

Il rapporto della commissione Somasekhar scagiona il Bajrang Dal e il suo coordinatore, Mahendra Kumar, così come il movimento radicale indù Sangh Parivar. Ma, fanno notare i cristiani, esiste una lista di 56 chiese, allegata al rapporto, in cui vengono indicati gli autori degli attacchi. In 12 casi si parla del Bajrang Dal, in un caso del Sangh Parivar. E Mahendra Kumar, in una sua dichiarazione, ammette il legame fra il Bajrang Dal e il Vhp, una organizzazione radicale indù. Quindi, sostengono i cristiani, non si capisce come il rapporto possa scagionare quei movimenti.

Il presidente del Gcic, Sajan K. George, commenta così il rapporto ad AsiaNews : “Un fascio di menzogne, teso a confondere e disinformare la gente. I più di 28 attacchi condotti nell’agosto e nel settembre 2008 in Karnataka erano guidati da estremisti indù, e in particolare dal Bajrang Dal”. Il rapporto Somasekhar è “completamente opposto” alla relazione provvisoria presentata l’anno scorso, che indicava responsabilità sia della polizia che dei leader del partito al governo e dei gruppi nazionalisti indù. Sajan K. George afferma anche che il rapporto Somasekhar cerca di giustificare l’uso eccessivo della forza da parte della polizia contro i bambini e le donne alle chiese di Kulshekara e di Vamanjoor, quando invece “è stata eccessiva e in violazione delle norme prescritte”.


Per un bilancio dell'"Humanae vitae" quarant'anni dopo - Progresso e destino nella visione di Papa Montini, di HERMANN GEISSLER  (©L'Osservatore Romano - 19 febbraio 2011)

Nel pomeriggio di venerdì 18 febbraio, alla Pontificia Università Lateranense, viene presentato il volume Custodi e interpreti della vita. Attualità dell'enciclica "Humanae vitae" (a cura di Lucetta Scaraffia, Città del Vaticano, Lateran University Press, 2010, Dibattito per il Millennio, pagine 253, euro 35). Anticipiamo l'intervento di uno dei relatori dell'incontro al quale, oltre alla curatrice del libro, partecipano anche l'arcivescovo Luis Francisco Ladaria Ferrer, segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, il vescovo Enrico dal Covolo, rettore della Pontificia Università Lateranense, la giornalista Ritanna Armeni e il direttore del "Foglio", Giuliano Ferrara.

"Ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi (...) Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere" (Matteo, 7, 17-20), così disse Gesù. L'enciclica Humanae vitae divenne ben presto "segno di contraddizione": non solo per le società occidentali segnate dalla rivoluzione sessuale, ma anche per vasti settori della Chiesa troppo influenzati dallo spirito del mondo. Il volume Custodi e interpreti della vita ha il pregio di mostrare con efficacia i frutti prodotti sia dall'importante documento di Papa Paolo VI, sia dalla rivoluzione sessuale che ha trasformato le relazioni interpersonali e sociali delle donne e degli uomini.
Considerando oggettivamente questi frutti, condividiamo pienamente la conclusione alla quale giunge Lucetta Scaraffia nell'introduzione: "Paradossalmente, dopo che per quarant'anni le società occidentali hanno trasgredito le norme morali proposte dall'Humanae vitae, oggi è più facile far capire il loro valore e la loro necessità. Il fallimento clamoroso della rivoluzione sessuale (...) rende la società più sensibile a un discorso diverso, pronunciato da chi, come la Chiesa, conosce bene l'essere umano e per questo non ha mai creduto alle utopie moderne" (pp. 11-12).
Non pochi ritengono che l'insegnamento morale della Chiesa presenterebbe troppi divieti, sarebbe una serie di "no", come mostrerebbe in particolare l'Humanae vitae con i suoi "no" all'aborto, alla sterilizzazione e alla contraccezione. I vari contributi del presente volume mettono in evidenza che è vero il contrario: l'Humanae vitae, come tutta la morale cattolica, è un grande "sì": un "sì" alla vita, alla dignità della persona e soprattutto all'amore coniugale. Le seguenti considerazioni cercano di sviluppare tale approccio in alcuni campi del dibattito circa l'Humanae vitae trattati nel volume che presentiamo.
Nel 1968 quando Paolo VI pubblicò l'Humanae vitae, giunse al suo culmine il processo di liberazione sessuale che mirava a "liberare il comportamento sessuale dalle regole morali che lo avevano imbrigliato, per restituirlo ad una mitica naturalità, cosa che avrebbe finalmente reso felici gli esseri umani" (p. 53). Nel contempo si parlava molto della crescita demografica, che - secondo alcuni - stava minando le risorse del pianeta. In questo contesto la "pillola anticoncezionale" appariva come la risposta ideale: permetteva alle donne, finalmente, di separare la sessualità dalla procreazione e costituiva un mezzo efficace per regolamentare la crescita della popolazione ed evitare un disastro ecologico. Così la pillola divenne quasi il "simbolo del progresso" e del tempo nuovo più libero e più felice. Paolo VI però disse "no" alla contraccezione e così appariva come nemico del progresso.
In realtà, l'Humanae vitae non è in alcun modo contro il vero progresso. Non ignora le condizioni demografiche, non è per sé contraria a una ragionevole limitazione della natalità, né alla ricerca scientifica e alle cure terapeutiche, né tanto meno alla paternità veramente responsabile. Nel suo illuminante contributo Giovanni Maria Vian cita un passo di un'importante omelia di Paolo VI pronunciata il 29 giugno 1978, quindicesimo anniversario della sua elezione alla cattedra di Pietro. Riassumendo il Pontificato, il Papa menziona come elemento imprescindibile del suo servizio alla verità "la difesa della vita umana", attestata da due encicliche: la Populorum progressio e l'Humanae vitae (cfr. p. 22). Paolo VI quindi cercò di servire il progresso veramente umano: quello dei popoli in via di sviluppo e quello della vita matrimoniale nel pieno rispetto di ogni vita umana e dell'amore coniugale. Scrisse al riguardo il cardinale Joseph Ratzinger in un testo ripubblicato nel volume: "Intenzione dell'enciclica non è quella di imporre pesi; il Papa si sente piuttosto impegnato a difendere la dignità e la libertà dell'uomo contro una visione deterministica e materialistica (...) Qui si manifesta come Paolo VI anche in questo punto (...) parli come avvocato della persona umana" (p. 52). Vediamo come l'Humanae vitae sia un "sì" al vero progresso, cioè a quello che rispetta e difende integralmente la dignità della persona.
L'ideologia della rivoluzione sessuale sostenne che nel matrimonio la donna si troverebbe quasi in una prigione perché dovrebbe far nascere tanti bambini non desiderati. Con la pillola, invece, potrebbe liberarsi e potrebbe emarginare completamente le nascite impreviste. Ciò comporterebbe in modo decisivo la sua liberazione e la nascita di figli veramente voluti e quindi, come si disse, "più sani e più intelligenti, ma anche più equilibrati e più felici di quelli nati "per caso"" (p. 61).
Tenendo conto degli sviluppi degli ultimi decenni, occorre costatare tuttavia che la pillola non ha comportato una più grande libertà della donna né un rispetto maggiore dei figli. Al contrario, come evidenziano i contributi di Paul Yonnet, Claudio Risé, Francesco D'Agostino, Eugenia Roccella e Jeanne H. Matlary, la contraccezione ha profondamente trasformato la vita familiare e sociale, caratterizzata sostanzialmente dall'"egocentrismo (...) prodotto specifico dell'individualizzazione moderna" (pp. 90-91); ha mutato il rapporto tra uomo e donna, "separato dalla sua sorgente originaria: Dio" (p. 96) e segnato da una "crisi del dono" (p. 97), perché l'altro viene visto sempre più come "una cosa" totalmente dominabile e manipolabile, con conseguenze terribili soprattutto per la donna (p. 100); ha favorito il diffondersi della fecondazione artificiale, che dimostra come l'uomo, ignorando l'ammonimento di Humanae vitae, abbia abdicato "alla propria responsabilità per rimettersi ai mezzi tecnici" (p. 121); ha aperto in tal modo il passo dal figlio desiderato al figlio scelto, che perde così "il senso di vita umana preziosa ed unica, e diventa immediatamente un oggetto selezionabile" (p. 131); finisce quindi con un relativismo etico che mina la base della politica europea e in particolare i diritti dei figli. In molti Stati, infatti, "viene ignorato il diritto di un bambino di sapere chi siano i suoi genitori biologici; allo stesso modo, viene ignorato che il medesimo bambino ha il diritto di essere allevato dai propri genitori biologici, se possibile. Inoltre, madre e padre non sono considerati necessari per la crescita del bambino, poiché il sesso è diventato una questione di costruzione sociale e non di biologia" (pp. 135-136). Questi sviluppi fanno vedere le conseguenze disastrose del "no" all'Humanae vitae, che rappresenta invece un grande "sì" alla dignità della donna e dei figli. La pillola favoriva il diffondersi di una nuova cultura, chiamata talvolta "cultura della contraccezione" (p. 232). Separando l'amore dalla procreazione, tale cultura pretendeva di "liberare" l'amore, di renderlo più pieno e più umano. Poiché l'Humanae vitae giudicava illecita la contraccezione, è stata presentata come un "no" al primato dell'amore e come ricaduta in una visione superata che vedeva l'unione matrimoniale solo in funzione della procreazione.
Leggendo il testo dell'enciclica, ci si accorge tuttavia che si tratta di un documento che parla innanzitutto dell'amore coniugale e offre la norma morale come un'esigenza intrinseca dell'autentico amore. Nel nostro volume questa dimensione fondamentale viene approfondita soprattutto nei contributi commoventi di Elena Giacchi e Evelyn L. Billings circa i "metodi naturali". Tali metodi hanno un'efficacia del 98-99 per cento (cfr. p. 161), sono facili da imparare e proponibili a tutte le coppie (cfr. p. 166) e consentono ai coniugi di attuare con serenità una "scelta consapevole e libera, secondo le proprie esigenze, di aprirsi alla ricerca della gravidanza, oppure di rinviare o evitare il concepimento, qualora sussistano validi motivi per farlo" (p. 164). Nel contempo i metodi naturali, che certamente esigono la conoscenza della fisiologia riproduttiva della donna e la disciplina nella vita dei coniugi, favoriscono la comunicazione, il rispetto vicendevole, l'armonia e l'amore tra marito e moglie. È molto eloquente la testimonianza di una donna semplice: "Questo Metodo è amore". Tale punto centrale è stato affrontato anche da Marta Brancatisano, che legge l'Humanae vitae alla luce della Mulieris dignitatem e giunge alla conclusione che occorre promuovere una "nuova cultura" che metta al centro il rapporto tra uomo e donna e riscopra la "chiamata al dono di sé, nella totalità del dono come fattore di realizzazione di sé" (p. 240). Sarebbe facile approfondire questo tema attingendo alle famose Catechesi e all'esortazione postsinodale Familiaris consortio di Giovanni Paolo II come anche all'enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI, secondo cui la "parola chiave" per comprendere l'Humanae vitae è "quella dell'amore" (p. 246).
Quando fu pubblicata l'Humanae vitae, un'idea molto promossa era quella della "pianificazione familiare" (p. 61). La pillola appariva allora come il mezzo che poteva garantire tale pianificazione secondo la scelta libera e responsabile dei coniugi. Ciò sembrava corrispondere perfettamente anche all'istanza della coscienza moderna che vuol prendere le decisioni in modo autonomo, soprattutto se riguardano questioni personali come quelle circa la propria sessualità. Di conseguenza, l'Humanae vitae fu interpretata come un "no" alla libertà e alla coscienza dei coniugi.
In realtà non è così. La libertà personale e il magistero ecclesiastico, infatti, non sono due poli in contrasto, come mostra John Michael McDermott nel suo ampio contributo. Secondo lui, in un mondo caduto l'esercizio della libertà personale è reso possibile soltanto dalla redenzione di Cristo e dalla luce dello Spirito Santo che preserva la Chiesa nella verità. "Perciò, chiunque voglia essere veramente libero e avverare la propria libertà nell'amore, sarà ben disposto ad accettare con gioia gli insegnamenti ordinari del magistero ecclesiale" (p. 216).
Occorre rilevare, inoltre, che nel caso dell'Humanae vitae il magistero non insegna una dottrina accessibile solo a coloro che credono, ma ribadisce con autorità una verità della legge morale naturale e quindi consentanea alla ragione umana. L'enciclica, infatti, non è in alcun modo contraria alla scelta consapevole e libera dei coniugi in merito alla procreazione, ma invita alla "paternità responsabile", seconda parola chiave per la retta comprensione del documento. Tale concetto include non soltanto la conoscenza dei processi biologici, il dominio della ragione e della volontà sugli istinti e l'integrazione ponderata delle condizioni fisiche, economiche, psicologiche e sociali, ma anche la considerazione dell'ordine morale oggettivo. Con altre parole, la decisione prudenziale di chiamare un bambino all'esistenza o di differire questa chiamata deve tener conto sia delle ragioni individuali soggettive che di quella razionalità oggettiva della "natura dell'atto coniugale", cioè della connessione inscindibile tra i due significati dell'atto coniugale: quello unitivo e quello procreativo. In questo contesto lo studio di Serge-Thomas Bonino evidenzia giustamente che occorre riscoprire "la natura come epifania del Lògos creatore" (p. 229), superando quel dualismo antropologico che riduce la persona allo spirito e svaluta il corpo a un mero oggetto manipolabile e dando fiducia ai coniugi che non devono abdicare alla propria responsabilità per rimettersi ai mezzi tecnici. L'Humanae vitae è un convinto "sì" alla paternità responsabile, che scaturisce dall'autentico amore coniugale. Prima della pubblicazione dell'Humanae vitae, non solo la maggioranza della commissione di studio, ma anche non pochi Pastori tendevano a ritenere eticamente lecito l'uso della pillola. Paolo VI prese una decisione in senso contrario, che in vasti settori della società e anche della Chiesa non è stata accettata, mettendo molti ad una dura prova, come mostra il commovente contributo del cardinale Francis J. Stafford sull'anno 1968. Ciò ha creato una situazione di dissenso che purtroppo non è ancora superata completamente. In questo contesto occorre rilevare che Paolo VI non poteva decidere diversamente. Nella Chiesa, infatti, conta la verità e non il principio democratico. Nella Chiesa conta la tradizione, da sempre contraria alla contraccezione (cfr. p. 51). Nella Chiesa conta la legge morale iscritta dal Creatore nella natura umana e illuminata dalla rivelazione divina. L'Humanae vitae, decisa da Paolo VI coram Domino (p. 31), è quindi, in ultima analisi, un grande "sì" a Dio stesso.
Il volume Custodi e interpreti della vita fa vedere innanzitutto i tanti frutti buoni del documento di Paolo VI e le conseguenze disastrose della "cultura della contraccezione". Mostra poi come l'enciclica sia un grande "sì" a tanti valori umani e cristiani di rilevanza decisiva per i coniugi e la società come tale. Invita infine alla lettura, allo studio e all'applicazione fedele dell'Humanae vitae, che costituisce uno dei documenti più profetici del magistero pontificio postconciliare.


La vera libertà religiosa e chi la minaccia. L'intervento di Massimo Introvigne a Belgrado - pubblicata da Massimo Introvigne - Le minacce alla libertà religiosa nel XXI secolo

Intervento all’incontro annuale del Comitato Congiunto della Conferenza delle Chiese Europee (Kek) e del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (Ccee), Belgrado, 18 febbraio 2011

Dal Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2011 all’annuncio di un nuovo incontro interreligioso ad Assisi, Benedetto XVI ha ripetutamente indicato la sua intenzione di fare del 2011 un anno internazionale della libertà religiosa. Un dettagliato inventario dei temi sul tappeto è stato offerto dall’annuale discorso al Corpo Diplomatico del 10 gennaio 2011.
Dal 5 gennaio 2011 ho assunto le funzioni di Rappresentante dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) per la lotta contro il razzismo, la xenofobia e la discriminazione e l’intolleranza contro i cristiani e i membri di altre religioni. In questa veste, sono molto grato al Papa per avere indicato anche alle organizzazioni internazionali – tra cui dunque l’OSCE, definita nel recente rapporto annuale dell’Aiuto alla Chiesa che Soffre sulla libertà religiosa come l’organizzazione più importante al mondo dopo le Nazioni Unite nel campo dei diritti umani – un’agenda precisa. Nei limiti delle mie possibilità e capacità, sto cercando di fare mia questa agenda, che naturalmente non è rivolta ai soli cattolici e neppure ai soli cristiani ma – sulla base dei diritti universali della persona umana – si rivolge a tutte le persone di buona volontà.
Il Papa ha indicato nel suo discorso cinque rischi per la libertà religiosa. Il primo riguarda un possibile equivoco su che cosa la libertà religiosa esattamente sia. La libertà religiosa è stata spesso confusa con il relativismo, cioè con la tesi che non esista una verità religiosa e che la scelta di una religione o di un’altra sia più o meno indifferente. Mentre, come Benedetto XVI ha richiamato nell’enciclica Caritas in veritate al n. 55, «la libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali».
Ma che cos’è la libertà religiosa? Conviene qui rileggere il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2011 di Benedetto XVI, che offre spunti molto importanti. Interpretando la dichiarazione Dignitatis humanae del Concilio Ecumenico Vaticano II, lo stesso Benedetto XVI ha spiegato più volte che dal punto di vista giuridico non si tratta di un diritto positivo – il quale dovrebbe comprendere anche un «diritto all’errore» che, come ribadisce il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2108, la Chiesa non ha mai riconosciuto – ma di un diritto negativo, che anche questo Messaggio chiama «immunità dalla coercizione». Questa immunità acquista certo un profilo specifico negli Stati moderni, per definizione incompetenti in materia di religione, ma corrisponde al principio antico secondo cui – come recita il Messaggio – «la professione di una religione non può essere […] imposta con la forza». Se si può parlare di «diritto», in senso giuridico, si tratta del diritto a non essere turbati da un’intromissione dello Stato moderno nella formazione delle proprie convinzioni in materia di religione.
Rispetto a interventi precedenti, vi è però nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2011 un secondo elemento, certamente non nuovo ma il cui collegamento inscindibile con il primo è ribadito con particolare forza. La libertà religiosa che la Chiesa proclama «va intesa non solo come immunità dalla coercizione, ma prima ancora come capacità di ordinare le proprie scelte secondo la verità». Da un punto di vista filosofico, un’analisi di che cos’è la persona viene «prima» delle soluzioni giuridiche. La persona è ordinata alla verità ed è dotata di libertà per la verità. Il libero arbitrio consente certamente il cattivo uso della libertà, contro la verità e addirittura contro Dio. Ma in questo caso, spiega Benedetto XVI, la libertà erode il suo stesso fondamento. «Una libertà nemica o indifferente verso Dio finisce col negare se stessa e non garantisce il pieno rispetto dell’altro. Una volontà che si crede radicalmente incapace di ricercare la verità e il bene non ha ragioni oggettive né motivi per agire, se non quelli imposti dai suoi interessi momentanei e contingenti, non ha una “identità” da custodire e costruire attraverso scelte veramente libere e consapevoli. Non può dunque reclamare il rispetto da parte di altre “volontà”, anch’esse sganciate dal proprio essere più profondo, che quindi possono far valere altre “ragioni” o addirittura nessuna “ragione”. L’illusione di trovare nel relativismo morale la chiave per una pacifica convivenza, è in realtà l’origine della divisione e della negazione della dignità degli esseri umani».
Un altro equivoco, indotto da una lettura secondo il Papa errata della nozione di libertà religiosa e della Dignitatis humanae, è quello che vorrebbe confinare la religione in una dimensione meramente privata, quasi che quando la Chiesa chiede leggi conformi alle verità naturali che fanno parte del suo insegnamento consueto – anzitutto nelle materie, specificamente richiamate nel Messaggio, della vita, della famiglia e della libertà dell’educazione (i famosi «valori non negoziabili» di Benedetto XVI) – stia negando la libertà religiosa dei non cattolici attraverso un’indebita ingerenza nella vita politica. Non solo i principi della morale naturale valgono per tutti, credenti e non credenti. Ma, sia pure «nel rispetto della laicità positiva delle istituzioni statali», l’orientamento della libertà alla verità non può rinunciare a una dimensione politica.
«La dimensione pubblica della religione deve essere sempre riconosciuta» e «le leggi e le istituzioni di una società non possono essere configurate ignorando la dimensione religiosa dei cittadini o in modo da prescinderne del tutto». «Non essendo questa [dimensione religiosa della persona] una creazione dello Stato, non può esserne manipolata, dovendo piuttosto riceverne riconoscimento e rispetto». Tutto questo è riassunto in un’espressione molto forte sul ruolo della società per la salvezza delle anime, che ricorda analoghe e celebri espressioni del venerabile Pio XII: «Anche la società, dunque, in quanto espressione della persona e dell’insieme delle sue dimensioni costitutive, deve vivere ed organizzarsi in modo da favorirne l’apertura alla trascendenza».
Questa ricostruzione della vera nozione di libertà religiosa esclude dunque anzitutto «la strada del relativismo, o del sincretismo religioso» – cose diverse, spiega il Papa, dal dialogo tra le religioni condotto nella chiarezza e nella verità – e consente di evitare i due errori opposti del fondamentalismo e del laicismo, anch’essi più volte richiamati nel Magistero di Benedetto XVI. «Non si può dimenticare – scrive ora il Papa – che il fondamentalismo religioso e il laicismo sono forme speculari» fra loro. Entrambe infatti negano il corretto rapporto fra fede e ragione. Nel fondamentalismo, la fede nega la ragione. Nel laicismo la ragione, o meglio il razionalismo, nega la fede. Entrambi sono nemici della libertà religiosa: il fondamentalismo vuole imporre la religione con la forza, il laicismo con la forza vuole imporre l’irreligione. Mentre solo l’equilibrio fra fede e ragione – senza confusione, ma anche senza separazione – garantisce la libertà religiosa che, ci assicura il Papa, «è all’origine della libertà morale» e dunque di ogni vera libertà.
Si tratta di una questione soltanto teorica? No di certo. In effetti, il timore che la libertà di religione porti con sé un relativismo e una sottovalutazione del ruolo delle religioni tipici dell’Occidente moderno è la prima ragione per cui Paesi con una forte identità religiosa islamica, indù o buddhista resistono all’applicazione delle convenzioni internazionali in materia di libertà religiosa. Essi temono che accettare la libertà religiosa significhi necessariamente cedere al relativismo e all’indifferentismo tipici di una certa cultura occidentale moderna. Vanno convinti che non è così, e che libertà religiosa e denuncia di quella che il Papa chiama dittatura del relativismo possono e devono coesistere, come illustra appunto il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2011.
Il secondo rischio richiamato nel discorso del 10 gennaio 2011, cui ora torno come «indice» dei temi all’ordine del giorno in materia di libertà religiosa, è quello del tentativo dell’islam ultra-fondamentalista, che certo non va confuso con l’islam in genere, di porre fine all’esistenza bimillenaria di comunità cristiane nel Vicino Oriente, ricorrendo anche al terrorismo. In alcuni Paesi il tentativo di una pulizia etnica che elimini definitivamente i cristiani è ormai del tutto evidente. I governi, è vero, prendono le distanze dagli ultra-fondamentalisti. Ma il tempo delle parole non seguite dai fatti è scaduto. Occorrono, afferma, il Papa, «misure efficaci per la protezione delle minoranze religiose».
Né si tratta solo di un problema di polizia, la cui azione in Paesi come l’Egitto è peraltro molto importante e deve compiere un salto di qualità, nonostante le recenti difficoltà, se vuole raggiungere risultati non fittizi. Si tratta anche delle leggi, che in molti Paesi a maggioranza islamica riducono la libertà religiosa alla sola libertà di culto. I cristiani – non ovunque – possono liberamente celebrare i loro riti chiusi in chiesa, ma dalle chiese e dalle sacrestie non possono uscire per annunciare il Vangelo. Se poi qualcuno si converte dall’islam al cristianesimo, è punito dalle leggi contro l’apostasia e – dove queste leggi sono state abrogate su pressione occidentale – da norme contro la blasfemia, che spesso sono solo leggi contro le conversioni mascherate. Il Papa ricorda «che la libertà religiosa non è pienamente applicata là dove è garantita solamente la libertà di culto, per di più con delle limitazioni». In modo molto esplicito, afferma pure che «tra le norme che ledono il diritto delle persone alla libertà religiosa, una menzione particolare dev’essere fatta della legge contro la blasfemia in Pakistan: incoraggio di nuovo le Autorità di quel Paese a compiere gli sforzi necessari per abrogarla, tanto più che è evidente che essa serve da pretesto per provocare ingiustizie e violenze contro le minoranze religiose».
Il terzo rischio – spesso poco conosciuto o sottovalutato – è costituito dalle aggressioni nei confronti dei cristiani da parte di «fondamentalisti» indù o buddhisti, che identificano l’identità nazionale dei loro Paesi con un’identità religiosa, difesa in modi talora violenti contro il cristianesimo. Sono quelle che il Papa chiama «situazioni preoccupanti, talvolta con atti di violenza, [che] possono essere menzionate nel Sud e nel Sud-Est del continente asiatico, in Paesi che hanno peraltro una tradizione di rapporti sociali pacifici. Il peso particolare di una determinata religione in una nazione non dovrebbe mai implicare che i cittadini appartenenti ad un’altra confessione siano discriminati nella vita sociale o, peggio ancora, che sia tollerata la violenza contro di essi».
Il quarto rischio è costituito dal fatto che, anche se molti vorrebbero dimenticarlo, ci sono ancora regimi comunisti nel senso più stretto e duro del termini. «In diversi Paesi – afferma il Papa con evidenti allusioni a questi regimi – la Costituzione riconosce una certa libertà religiosa, ma, di fatto, la vita delle comunità religiose è resa difficile e talvolta anche precaria (cfr Conc. Vat. II, Dich. Dignitatis humanae, 15), perché l’ordinamento giuridico o sociale si ispira a sistemi filosofici e politici che postulano uno stretto controllo, per non dire un monopolio, dello Stato sulla società». Il pensiero del Papa, così, «si volge di nuovo verso la comunità cattolica della Cina continentale e i suoi Pastori, che vivono un momento di difficoltà e di prova». Né si tratta dell’unico caso, se solo pensiamo per esempio al dramma ampiamente dimenticato dei cristiani nella Corea del Nord, un Paese che vince ogni anno la «medaglia d'oro» della organizzazione protestante Porte Aperte come il luogo dove in assoluto è più pericoloso essere un cristiani.
Il quinto rischio è rappresentato da quella che il Papa nel discorso alla Curia Romana del 20 dicembre 2010, facendo sua un’espressione coniata dall’illustre giurista ebreo statunitense di origine sudafricana Joseph Weiler, aveva chiamato la «cristianofobia» dell’Occidente. «Spostando il nostro sguardo dall’Oriente all’Occidente», ha detto il Papa, «ci troviamo di fronte ad altri tipi di minacce contro il pieno esercizio della libertà religiosa. Penso, in primo luogo, a Paesi nei quali si accorda una grande importanza al pluralismo e alla tolleranza, ma dove la religione subisce una crescente emarginazione. Si tende a considerare la religione, ogni religione, come un fattore senza importanza, estraneo alla società moderna o addirittura destabilizzante, e si cerca con diversi mezzi di impedirne ogni influenza nella vita sociale».
Si arriva così a pretendere che i cristiani agiscano nell’esercizio della loro professione senza riferimento alle loro convinzioni religiose e morali, e persino in contraddizione con esse, come, per esempio, là dove sono in vigore leggi che limitano il diritto all’obiezione di coscienza degli operatori sanitari o di certi operatori del diritto», particolarmente in tema di «aborto».
«Un’altra manifestazione dell’emarginazione della religione e, in particolare, del cristianesimo – ha aggiunto il Papa – consiste nel bandire dalla vita pubblica feste e simboli religiosi, in nome del rispetto nei confronti di quanti appartengono ad altre religioni o di coloro che non credono. Agendo così, non soltanto si limita il diritto dei credenti all’espressione pubblica della loro fede, ma si tagliano anche radici culturali che alimentano l’identità profonda e la coesione sociale di numerose nazioni». Anche qui il Papa non si è limitato ai principi generali, ma ha fatto un  preciso riferimento alla sentenza Lautsi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che vorrebbe vietare l’esposizione del crocefisso nelle scuole italiane, lodando chi si batte perché siano rimossi gli infausti e ingiusti effetti di quella sentenza. «L’anno scorso – ha detto Benedetto XVI – alcuni Paesi europei si sono associati al ricorso del Governo italiano nella ben nota causa concernente l’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici. Desidero esprimere la mia gratitudine alle Autorità di queste nazioni, come pure a tutti coloro che si sono impegnati in tal senso».
La «cristianofobia» si manifesta anche nelle minacce alla libertà di educazione e nell’avversione amministrativa alle scuole cristiane. Né si può, ha detto il Papa, «passare sotto silenzio un’altra minaccia alla libertà religiosa delle famiglie in alcuni Paesi europei, là dove è imposta la partecipazione a corsi di educazione sessuale o civile che trasmettono concezioni della persona e della vita presunte neutre, ma che in realtà riflettono un’antropologia contraria alla fede e alla retta ragione».
Il fatto che l’OSCE abbia istituito l’ufficio di un Rappresentante per la lotta alla discriminazione contro i cristiani  rappresenta un successo della diplomazia della Santa Sede e di quei governi che l’hanno intelligentemente affiancata. Le difficoltà e le opposizioni, naturalmente, non mancano, e in tempi di crisi economica le risorse delle organizzazioni internazionali sono severamente limitate.
Sul versante dell’azione concreta per la libertà dei cristiani, l’azione del mio ufficio all’OSCE si svolge attraverso un’azione diplomatica presso gli Stati partecipanti e country visits, talora condotte insieme agli altri due Rappresentanti, rispettivamente per la lotta all’antisemitismo e all’islamofobia. Quest’azione è peraltro istituzionalmente limitata agli Stati partecipanti all’OSCE.
Sul piano della consapevolezza delle discriminazioni contro i cristiani possiamo fare di più. Stiamo organizzando una roundtable dell’OSCE a Roma per il 4 maggio sul tema «Intolleranza e Discriminazione contro i Cristiani». Ho proposto anche agli Stati che vorranno aderirvi la celebrazione di una Giornata dei Martiri Cristiani del nostro tempo, da celebrarsi non – o non solo – nelle chiese, dove ci sono già iniziative analoghe, ma nelle scuole, nelle città, nelle istituzioni pubbliche perché la persecuzione dei cristiani non riguarda solo i cristiani, ma tutti. Ho proposto la data del 7 maggio  ricordando il grande evento ecumenico che il venerabile Giovanni Paolo II organizzò al Colosseo il 7 maggio 2000, con otto «stazioni» che ricordavano i principali gruppi di martiri cristiani del nostro tempo: le vittime del totalitarismo sovietico, del comunismo in altri Paesi, del nazismo, dei conflitti tra religioni, dei nazionalismi religiosi violenti in Asia, dell’odio tribale e anti-missionario, del laicismo aggressivo e della criminalità organizzata. Questa giornata potrebbe essere occasione ogni anno per un esame di coscienza collettivo e per un accostamento esigente dell’Europa al problema della tutela delle minoranze cristiane in diversi Paesi. Vale sempre la pena di rileggere l’appello che Giovanni Paolo II lanciò al Colosseo il 7 maggio 2000 al nuovo secolo XXI che allora iniziava: «Resti viva, nel secolo e nel millennio appena avviati, la memoria di questi nostri fratelli e sorelle. Anzi, cresca! Sia trasmessa di generazione in generazione, perché da essa germini un profondo rinnovamento». L’istituzione di una Giornata dei Martiri Cristiani del nostro tempo sarebbe una bella risposta a questo appello oggi più che mai attuale.


Come san Pietro salì in Cattedran di Ruggero Sangalli, 19-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

La vicenda di Simone figlio di Jonas, diventato Pietro e designato da Gesù guida della Chiesa, merita una panoramica storica nell’occasione fornita dalla memoria liturgica della Cattedra di San Pietro, il 22 febbraio.

Il pescatore del lago di Tiberiade, domiciliato a Cafarnao, sulla costa settentrionale di tale specchio d’acqua, era sposato: il vangelo di Marco (Mc 1,30-31) cita un episodio che ne coinvolge la suocera. L’episodio data posteriormente all’arresto di Giovanni il Battista: siamo già nella seconda metà del 31 d.C., come desumibile da una serie di circostanze cronologiche comuni a tutti e quattro i vangeli.

Tra i primi a seguire Gesù, Simone, poi detto in aramaico Kefa (pietra, da cui Petros in greco), si distinse per intraprendenza, generosità e saltuaria avventatezza.
La lettura dei Vangeli e degli Atti permette di seguire anche cronologicamente le tappe principali della sua vicenda.

L’autorevolezza di Papa Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret (cap. 9, par. 1 e 2) avvalora la sottolineatura che la data della Trasfigurazione (un episodio certamente indelebile nella memoria di chi lo visse) vada strettamente correlata con la confessione di Pietro a Cesarea di Filippo, con lo yom kippur e con la festa delle Capanne. Siamo dunque all’inizio dell’autunno e l’anno è il 32 d.C., a ridosso degli eventi decisivi della nostra redenzione.

La Pasqua ebraica del 33 vede Pietro segnato dalla drammatica situazione del rinnegamento di Gesù, che culmina nella terribile morte di croce del Salvatore; ma è anche il momento dell’esperienza della sconvolgente gioia della resurrezione, che Pietro dapprima indaga (Gv 20,6) e poi vive (Lc 24,34), sfociando in un mandato entusiasmante e pesantissimo, se non fosse che è “alleggerito” dalla presenza di Dio, allora come oggi: disporre delle chiavi del regno dei cieli (Mt 16,19), dover confermare la fede (Lc 22,32), aver la responsabilità di condurre il gregge (Gv 21,15-17).

Dagli Atti, dopo la Pentecoste del 33, rileviamo l’attività coraggiosa di Pietro coerente con un mandato tanto esigente. Non mancano minacce, interrogatori ed arresti. C’è il martirio di Stefano, prima della conversione di Paolo, quindi ancora nel 33.  Una prima tappa decisiva è segnata dalla vicenda che vede Pietro resuscitare una morta (At 9,36-41) e battezzare Cornelio (At 10), aprendo l’evangelizzazione ai Gentili. Siamo nel bel mezzo degli anni Trenta del primo secolo della storia cristiana.

Durante il periodo di Erode Agrippa (41-44) la persecuzione causa il martirio di Giacomo il maggiore e Pietro è protagonista una liberazione clamorosa (At 12,7) e la fuga precipitosa, probabilmente a Roma (At 12,17): la presenza di Pietro a Roma, con Marco, è alla base della tradizione che riconosce al vangelo secondo Marco una genesi romana: il testo redatto in greco (e con un substrato culturale semitico, rilevabile anche da retroversioni in aramaico del testo greco), costituisce in realtà il vangelo del memorie di Pietro, di cui Marco fu prezioso collaboratore. Si era sotto il regno di Claudio (41-54 d.C.) e a Roma Pietro si adoperò alla sconfessione di un tale Simon Mago (lo troviamo anche in Atti 8,9-24) e citato espressamente sia da Eusebio di Cesarea (Storia Ecclesiastica, II, 14) sia da Girolamo (Gli uomini illustri, I).

Girolamo scrive che Pietro resse la cattedra episcopale di Roma fino all’ultimo anno di Nerone (il 67-68), e che lo fece per 25 anni, quindi facendo risalire l’inizio al 42, coerentemente con la ricostruzione della persecuzione di Erode Agrippa, il martirio di Giacomo il Maggiore, l’arresto, la liberazione e la fuga di Pietro. Non necessariamente per questi 25 anni Pietro ha avuto residenza stabile a Roma. E anzi, proprio il suo viaggiare avrà suggerito che rimanesse qualcosa di scritto, da lui garantito: la cultura romana non era “orale” come quella orientale. Infatti Clemente Alessandrino (150-215) è citato da Eusebio in un ricordo attestante che quando Pietro predicò il vangelo a Roma, la gente chiese a Marco di mettere per iscritto le sue parole (Eusebio, Storia Ecclesiastica, VI, 14).

Ritroviamo Pietro a Gerusalemme per il Concilio del 49 d.C., ancora coraggioso decisore, capace di assecondare le tesi di Paolo, di confermare Giacomo e di correggere se stesso (At 5,7-11) dopo qualche screzio con Paolo a proposito dei Gentili. Questo accadde ad Antiochia, città nella quale la tradizione ecclesiale ricorda una lunga presenza di Pietro.

L’uomo stabilito da Gesù quale roccia su cui fondare la Chiesa ci ha lasciato due lettere apostoliche dalle quali si desume che all’epoca c’erano in circolazione le lettere  di Paolo, e che esse erano reputate degnissime di ascolto. Non manca un cenno all’indimenticabile episodio della Trasfigurazione, (2 Pt 1,16-18), che vide in Pietro uno dei tre testimoni oculari (e uditivi…). Il tema centrale di tutte le lettere apostoliche, databili tra il 60 e la distruzione di Gerusalemme (mai menzionata, nemmeno con vaghe allusioni) del 70, è la presenza crescente di “falsi maestri”. Nella seconda lettera di Pietro e in quella di Paolo a Timoteo c’è il sentore di un prossimo appuntamento con la morte.

Siamo probabilmente sul finire del 66. La data è desumibile da una serie di circostanze e da un accenno nella lettera di Giuda, coeva, ma leggermente posteriore alla seconda di Pietro. Attorno a quei mesi convergono infatti una serie di rivoli della storia che poi ingrossano fino a farne tracimare il fiume in immani tragedie. Giacomo il minore è morto martire, attorno al 61-62. La tradizione orientale pone in quegli anni anche il martirio di Andrea, fratello di Pietro. L’incendio di Roma nel luglio del 64 dà la stura alle persecuzioni anticristiane di Nerone.

La prima lettera di Pietro fotografa bene il clima della seconda parte del 64. Vi troviamo un’allusione a Babilonia (1 Pt 5,13) e può trattarsi solo di due città: Roma o Gerusalemme. Il dibattito è aperto, anche a proposito di “Babilonia la grande” di cui parla (ancora profeticamente) Apocalisse 18,2. Molti commentatori propendono per un’identificazione di questa città con Gerusalemme; in questo caso Pietro nel 64 era andato a Gerusalemme e di là scrisse la sua prima lettera. 

Nel 66, stante la ricostruzione possibile tramite Giuseppe Flavio, accade un fatto inquietante proprio a Gerusalemme, mentre il procuratore romano Gessio Floro innesca una serie di provvedimenti contro gli ebrei a seguito di una rivolta iniziata nella pasqua di quell’anno: nel giorno di pentecoste (metà maggio) una voce scuote il tempio (“Noi ce ne andiamo di qui”) e subito dopo, avvenute le prime ribellioni e rappresaglie, ancora in maggio Gessio Floro attacca la città. Un tentativo di conciliazione di Berenice ed Erode Agrippa II non va a buon fine. Ribellioni esplodono ovunque, contrapponendo giudei e gentili, mescolando rabbia per le tassazioni, credo religioso, voglia di indipendenza e rancori personali. Un’intera legione romana, la XII Fulminata, viene sbaragliata a Beth Horon. Devono essere ritornate in mente le parole di Gesù: in moltissimi lasciano la città.

Pietro tornò a Roma e vi morì martire, sul colle Vaticano, sul finire della primavera del 67, negli stessi giorni del martirio di Paolo, prima del suicidio dell’imperatore romano avvenuto nel 68 e prima che Nerone, dal luglio del 67, si recasse in Grecia per partecipare a quella edizione dei giochi olimpici, usati anche politicamente per far sembrare “tutto sotto controllo”.

Pietro resse la Chiesa per quasi 34 anni, a partire dal 33. Solo il Papa Pio IX, 31 anni e 7 mesi di papato, ha vissuto un periodo paragonabile a guida della Chiesa. Con buona pace di ogni distinguo ed il dovuto rispetto per gli eredi di ogni divisione prodottasi, la Chiesa di Gesù, cristiana, è indissolubilmente legata al primato (umile ed umiliato) di San Pietro ed al mandato ricevuto proprio dal Figlio di Dio (Mt 16,18-19 e Gv 21, 15-19). Chi non guardi a quella cattedra, volente o nolente, fa il gioco di qualcun altro.


Il XXI secolo, che già si annuncia tragico di Massimo Introvigne, 19-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Pubblchiamo l'intervento svolto dall'autore - Rappresentante dell'OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Coopperazione in Europa) per la lotta contro il razzismo, la xenofobia e la discriminazione e l’intolleranza contro i cristiani e i membri di altre religioni - all’incontro annuale del Comitato Congiunto della Conferenza delle Chiese Europee (Kek) e del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (Ccee) a Belgrado il 18 febbraio 2011. Nella foto, una chiesa distrutta in Indonesia.

* * *

Dal Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2011 all’annuncio di un nuovo incontro interreligioso ad Assisi, Benedetto XVI ha ripetutamente indicato la sua intenzione di fare del 2011 un anno internazionale della libertà religiosa. Un dettagliato inventario dei temi sul tappeto è stato offerto dall’annuale discorso al Corpo Diplomatico del 10 gennaio 2011.

Dal 5 gennaio 2011 ho assunto le funzioni di Rappresentante dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) per la lotta contro il razzismo, la xenofobia e la discriminazione e l’intolleranza contro i cristiani e i membri di altre religioni. In questa veste, sono molto grato al Papa per avere indicato anche alle organizzazioni internazionali - tra cui dunque l’OSCE, definita nel recente rapporto annuale dell’Aiuto alla Chiesa che Soffre sulla libertà religiosa come l’organizzazione più importante al mondo dopo le Nazioni Unite nel campo dei diritti umani - un’agenda precisa. Nei limiti delle mie possibilità e capacità, sto cercando di fare mia questa agenda, che naturalmente non è rivolta ai soli cattolici e neppure ai soli cristiani ma - sulla base dei diritti universali della persona umana – si rivolge a tutte le persone di buona volontà.

Il Papa ha indicato nel suo discorso cinque rischi per la libertà religiosa. Il primo riguarda un possibile equivoco su che cosa la libertà religiosa esattamente sia. La libertà religiosa è stata spesso confusa con il relativismo, cioè con la tesi che non esista una verità religiosa e che la scelta di una religione o di un’altra sia più o meno indifferente. Mentre, come Benedetto XVI ha richiamato nell’enciclica Caritas in veritate al n. 55, «la libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali».

Ma che cos’è la libertà religiosa? Conviene qui rileggere il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2011 di Benedetto XVI, che offre spunti molto importanti. Interpretando la dichiarazione Dignitatis humanae del Concilio Ecumenico Vaticano II, lo stesso Benedetto XVI ha spiegato più volte che dal punto di vista giuridico non si tratta di un diritto positivo - il quale dovrebbe comprendere anche un «diritto all’errore» che, come ribadisce il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2108, la Chiesa non ha mai riconosciuto –, ma di un diritto negativo, che anche questo Messaggio chiama «immunità dalla coercizione». Questa immunità acquista certo un profilo specifico negli Stati moderni, per definizione incompetenti in materia di religione, ma corrisponde al principio antico secondo cui – come recita il Messaggio – «la professione di una religione non può essere […] imposta con la forza». Se si può parlare di «diritto», in senso giuridico, si tratta del diritto a non essere turbati da un’intromissione dello Stato moderno nella formazione delle proprie convinzioni in materia di religione.

Rispetto a interventi precedenti, vi è però nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2011 un secondo elemento, certamente non nuovo ma il cui collegamento inscindibile con il primo è ribadito con particolare forza. La libertà religiosa che la Chiesa proclama «va intesa non solo come immunità dalla coercizione, ma prima ancora come capacità di ordinare le proprie scelte secondo la verità». Da un punto di vista filosofico, un’analisi di che cos’è la persona viene «prima» delle soluzioni giuridiche. La persona è ordinata alla verità ed è dotata di libertà per la verità. Il libero arbitrio consente certamente il cattivo uso della libertà, contro la verità e addirittura contro Dio. Ma in questo caso, spiega Benedetto XVI, la libertà erode il suo stesso fondamento. «Una libertà nemica o indifferente verso Dio finisce col negare se stessa e non garantisce il pieno rispetto dell’altro. Una volontà che si crede radicalmente incapace di ricercare la verità e il bene non ha ragioni oggettive né motivi per agire, se non quelli imposti dai suoi interessi momentanei e contingenti, non ha una “identità” da custodire e costruire attraverso scelte veramente libere e consapevoli. Non può dunque reclamare il rispetto da parte di altre “volontà”, anch’esse sganciate dal proprio essere più profondo, che quindi possono far valere altre “ragioni” o addirittura nessuna “ragione”. L’illusione di trovare nel relativismo morale la chiave per una pacifica convivenza, è in realtà l’origine della divisione e della negazione della dignità degli esseri umani».

Un altro equivoco, indotto da una lettura secondo il Papa errata della nozione di libertà religiosa e della Dignitatis humanae, è quello che vorrebbe confinare la religione in una dimensione meramente privata, quasi che quando la Chiesa chiede leggi conformi alle verità naturali che fanno parte del suo insegnamento consueto - anzitutto nelle materie, specificamente richiamate nel Messaggio, della vita, della famiglia e della libertà dell’educazione (i famosi «valori non negoziabili» di Benedetto XVI) - stia negando la libertà religiosa dei non cattolici attraverso un’indebita ingerenza nella vita politica. Non solo i principi della morale naturale valgono per tutti, credenti e non credenti. Ma, sia pure «nel rispetto della laicità positiva delle istituzioni statali», l’orientamento della libertà alla verità non può rinunciare a una dimensione politica.

«La dimensione pubblica della religione deve essere sempre riconosciuta» e «le leggi e le istituzioni di una società non possono essere configurate ignorando la dimensione religiosa dei cittadini o in modo da prescinderne del tutto». «Non essendo questa [dimensione religiosa della persona] una creazione dello Stato, non può esserne manipolata, dovendo piuttosto riceverne riconoscimento e rispetto». Tutto questo è riassunto in un’espressione molto forte sul ruolo della società per la salvezza delle anime, che ricorda analoghe e celebri espressioni del venerabile Pio XII: «Anche la società, dunque, in quanto espressione della persona e dell’insieme delle sue dimensioni costitutive, deve vivere ed organizzarsi in modo da favorirne l’apertura alla trascendenza».

Questa ricostruzione della vera nozione di libertà religiosa esclude dunque anzitutto «la strada del relativismo, o del sincretismo religioso» - cose diverse, spiega il Papa, dal dialogo tra le religioni condotto nella chiarezza e nella verità - e consente di evitare i due errori opposti del fondamentalismo e del laicismo, anch’essi più volte richiamati nel Magistero di Benedetto XVI. «Non si può dimenticare - scrive ora il Papa - che il fondamentalismo religioso e il laicismo sono forme speculari» fra loro. Entrambe infatti negano il corretto rapporto fra fede e ragione. Nel fondamentalismo, la fede nega la ragione. Nel laicismo la ragione, o meglio il razionalismo, nega la fede. Entrambi sono nemici della libertà religiosa: il fondamentalismo vuole imporre la religione con la forza, il laicismo con la forza vuole imporre l’irreligione. Mentre solo l’equilibrio fra fede e ragione - senza confusione, ma anche senza separazione - garantisce la libertà religiosa che, ci assicura il Papa, «è all’origine della libertà morale» e dunque di ogni vera libertà.

Si tratta di una questione soltanto teorica? No di certo. In effetti, il timore che la libertà di religione porti con sé un relativismo e una sottovalutazione del ruolo delle religioni tipici dell’Occidente moderno è la prima ragione per cui Paesi con una forte identità religiosa islamica, indù o buddhista resistono all’applicazione delle convenzioni internazionali in materia di libertà religiosa. Essi temono che accettare la libertà religiosa significhi necessariamente cedere al relativismo e all’indifferentismo tipici di una certa cultura occidentale moderna. Vanno convinti che non è così, e che libertà religiosa e denuncia di quella che il Papa chiama dittatura del relativismo possono e devono coesistere, come illustra appunto il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2011.

Il secondo rischio richiamato nel discorso del 10 gennaio 2011, cui ora torno come «indice» dei temi all’ordine del giorno in materia di libertà religiosa, è quello del tentativo dell’islam ultra-fondamentalista, che certo non va confuso con l’islam in genere, di porre fine all’esistenza bimillenaria di comunità cristiane nel Vicino Oriente, ricorrendo anche al terrorismo. In alcuni Paesi il tentativo di una pulizia etnica che elimini definitivamente i cristiani è ormai del tutto evidente. I governi, è vero, prendono le distanze dagli ultra-fondamentalisti. Ma il tempo delle parole non seguite dai fatti è scaduto. Occorrono, afferma, il Papa, «misure efficaci per la protezione delle minoranze religiose».

Né si tratta solo di un problema di polizia, la cui azione in Paesi come l’Egitto è peraltro molto importante e deve compiere un salto di qualità, nonostante le recenti difficoltà, se vuole raggiungere risultati non fittizi. Si tratta anche delle leggi, che in molti Paesi a maggioranza islamica riducono la libertà religiosa alla sola libertà di culto. I cristiani - non ovunque - possono liberamente celebrare i loro riti chiusi in chiesa, ma dalle chiese e dalle sacrestie non possono uscire per annunciare il Vangelo. Se poi qualcuno si converte dall’islam al cristianesimo, è punito dalle leggi contro l’apostasia e - dove queste leggi sono state abrogate su pressione occidentale - da norme contro la blasfemia, che spesso sono solo leggi contro le conversioni mascherate. Il Papa ricorda «che la libertà religiosa non è pienamente applicata là dove è garantita solamente la libertà di culto, per di più con delle limitazioni». In modo molto esplicito, afferma pure che «tra le norme che ledono il diritto delle persone alla libertà religiosa, una menzione particolare dev’essere fatta della legge contro la blasfemia in Pakistan: incoraggio di nuovo le Autorità di quel Paese a compiere gli sforzi necessari per abrogarla, tanto più che è evidente che essa serve da pretesto per provocare ingiustizie e violenze contro le minoranze religiose».

Il terzo rischio - spesso poco conosciuto o sottovalutato - è costituito dalle aggressioni nei confronti dei cristiani da parte di «fondamentalisti» indù o buddhisti, che identificano l’identità nazionale dei loro Paesi con un’identità religiosa, difesa in modi talora violenti contro il cristianesimo. Sono quelle che il Papa chiama «situazioni preoccupanti, talvolta con atti di violenza, [che] possono essere menzionate nel Sud e nel Sud-Est del continente asiatico, in Paesi che hanno peraltro una tradizione di rapporti sociali pacifici. Il peso particolare di una determinata religione in una nazione non dovrebbe mai implicare che i cittadini appartenenti ad un’altra confessione siano discriminati nella vita sociale o, peggio ancora, che sia tollerata la violenza contro di essi».

Il quarto rischio è costituito dal fatto che, anche se molti vorrebbero dimenticarlo, ci sono ancora regimi comunisti nel senso più stretto e duro del termini. «In diversi Paesi - afferma il Papa con evidenti allusioni a questi regimi - la Costituzione riconosce una certa libertà religiosa, ma, di fatto, la vita delle comunità religiose è resa difficile e talvolta anche precaria (cfr Conc. Vat. II, Dich. Dignitatis humanae, 15), perché l’ordinamento giuridico o sociale si ispira a sistemi filosofici e politici che postulano uno stretto controllo, per non dire un monopolio, dello Stato sulla società». Il pensiero del Papa, così, «si volge di nuovo verso la comunità cattolica della Cina continentale e i suoi Pastori, che vivono un momento di difficoltà e di prova». Né si tratta dell’unico caso, se solo pensiamo per esempio al dramma ampiamente dimenticato dei cristiani nella Corea del Nord, un Paese che vince ogni anno la «medaglia d'oro» della organizzazione protestante Porte Aperte come il luogo dove in assoluto è più pericoloso essere un cristiani.

Il quinto rischio è rappresentato da quella che il Papa nel discorso alla Curia Romana del 20 dicembre 2010, facendo sua un’espressione coniata dall’illustre giurista ebreo statunitense di origine sudafricana Joseph Weiler, aveva chiamato la «cristianofobia» dell’Occidente. «Spostando il nostro sguardo dall’Oriente all’Occidente», ha detto il Papa, «ci troviamo di fronte ad altri tipi di minacce contro il pieno esercizio della libertà religiosa. Penso, in primo luogo, a Paesi nei quali si accorda una grande importanza al pluralismo e alla tolleranza, ma dove la religione subisce una crescente emarginazione. Si tende a considerare la religione, ogni religione, come un fattore senza importanza, estraneo alla società moderna o addirittura destabilizzante, e si cerca con diversi mezzi di impedirne ogni influenza nella vita sociale».

Si arriva così a pretendere che i cristiani agiscano nell’esercizio della loro professione senza riferimento alle loro convinzioni religiose e morali, e persino in contraddizione con esse, come, per esempio, là dove sono in vigore leggi che limitano il diritto all’obiezione di coscienza degli operatori sanitari o di certi operatori del diritto», particolarmente in tema di «aborto».

«Un’altra manifestazione dell’emarginazione della religione e, in particolare, del cristianesimo – ha aggiunto il Papa – consiste nel bandire dalla vita pubblica feste e simboli religiosi, in nome del rispetto nei confronti di quanti appartengono ad altre religioni o di coloro che non credono. Agendo così, non soltanto si limita il diritto dei credenti all’espressione pubblica della loro fede, ma si tagliano anche radici culturali che alimentano l’identità profonda e la coesione sociale di numerose nazioni». Anche qui il Papa non si è limitato ai principi generali, ma ha fatto un  preciso riferimento alla sentenza Lautsi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che vorrebbe vietare l’esposizione del crocefisso nelle scuole italiane, lodando chi si batte perché siano rimossi gli infausti e ingiusti effetti di quella sentenza. «L’anno scorso – ha detto Benedetto XVI – alcuni Paesi europei si sono associati al ricorso del Governo italiano nella ben nota causa concernente l’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici. Desidero esprimere la mia gratitudine alle Autorità di queste nazioni, come pure a tutti coloro che si sono impegnati in tal senso».

La «cristianofobia» si manifesta anche nelle minacce alla libertà di educazione e nell’avversione amministrativa alle scuole cristiane. Né si può, ha detto il Papa, «passare sotto silenzio un’altra minaccia alla libertà religiosa delle famiglie in alcuni Paesi europei, là dove è imposta la partecipazione a corsi di educazione sessuale o civile che trasmettono concezioni della persona e della vita presunte neutre, ma che in realtà riflettono un’antropologia contraria alla fede e alla retta ragione».

Il fatto che l’OSCE abbia istituito l’ufficio di un Rappresentante per la lotta alla discriminazione contro i cristiani  rappresenta un successo della diplomazia della Santa Sede e di quei governi che l’hanno intelligentemente affiancata. Le difficoltà e le opposizioni, naturalmente, non mancano, e in tempi di crisi economica le risorse delle organizzazioni internazionali sono severamente limitate.

Sul versante dell’azione concreta per la libertà dei cristiani, l’azione del mio ufficio all’OSCE si svolge attraverso un’azione diplomatica presso gli Stati partecipanti e country visits, talora condotte insieme agli altri due Rappresentanti, rispettivamente per la lotta all’antisemitismo e all’islamofobia. Quest’azione è peraltro istituzionalmente limitata agli Stati partecipanti all’OSCE.

Sul piano della consapevolezza delle discriminazioni contro i cristiani possiamo fare di più. Stiamo organizzando una roundtable dell’OSCE a Roma per il 4 maggio sul tema «Intolleranza e Discriminazione contro i Cristiani». Ho proposto anche agli Stati che vorranno aderirvi la celebrazione di una Giornata dei Martiri Cristiani del nostro tempo, da celebrarsi non – o non solo – nelle chiese, dove ci sono già iniziative analoghe, ma nelle scuole, nelle città, nelle istituzioni pubbliche perché la persecuzione dei cristiani non riguarda solo i cristiani, ma tutti. Ho proposto la data del 7 maggio  ricordando il grande evento ecumenico che il venerabile Giovanni Paolo II organizzò al Colosseo il 7 maggio 2000, con otto «stazioni» che ricordavano i principali gruppi di martiri cristiani del nostro tempo: le vittime del totalitarismo sovietico, del comunismo in altri Paesi, del nazismo, dei conflitti tra religioni, dei nazionalismi religiosi violenti in Asia, dell’odio tribale e anti-missionario, del laicismo aggressivo e della criminalità organizzata. Questa giornata potrebbe essere occasione ogni anno per un esame di coscienza collettivo e per un accostamento esigente dell’Europa al problema della tutela delle minoranze cristiane in diversi Paesi. Vale sempre la pena di rileggere l’appello che Giovanni Paolo II lanciò al Colosseo il 7 maggio 2000 al nuovo secolo XXI che allora iniziava: «Resti viva, nel secolo e nel millennio appena avviati, la memoria di questi nostri fratelli e sorelle. Anzi, cresca! Sia trasmessa di generazione in generazione, perché da essa germini un profondo rinnovamento». L’istituzione di una Giornata dei Martiri Cristiani del nostro tempo sarebbe una bella risposta a questo appello oggi più che mai attuale.


MONS. BETORI: PER FARE SCUOLA, OCCORRE LA “PASSIONE PER L’UOMO” - Intervento al convegno nazionale CdO Opere Educative

ROMA, venerdì, 18 febbraio 2011 (ZENIT.org).- “Fare scuola. Una responsabilità che cresce con la forza dell’origine”: parafrasando il titolo del XII convegno nazionale CdO Opere Educative, riunitosi a Firenze dall'11 al 13 febbraio, mons. Giuseppe Betori ha voluto inaugurare la tre giorni di incontri che ha riunito oltre 250 gestori e amministratori di scuole paritarie.
Tra i temi centrali, affrontati durante le sessioni di lavoro, particolare interesse ha destato quello dell’autonomia, che la Federazione Opere Educative ritiene essere un vero nodo cruciale per giungere ad una riqualificazione complessiva del sistema nazionale di istruzione e ad una reale parità (anche economica), nell’ambito di una equa distribuzione e gestione delle risorse finanziarie.
Diversi i punti toccati durante il suo breve discorso dall'Arcivescovo di Firenze a partire dalla forte sottolineatura della “passione per l’uomo”, che contraddistingue la responsabilità  di chi si impegna nel fare scuola, e in particolare una “scuola libera”.
Nel fare scuola, infatti, nel prestare la propria opera e il proprio impegno quotidiano con i bambini e i ragazzi – ha detto mons. Betori – tale passione “è come amplificata”, implicando la necessità di far  “vedere e sperimentare una umanità nuova in cui la tensione all’ideale, al Mistero, a una vita 'vera', non sia avvertita né come uno sforzo né come un dovere, ma come una pienezza di vita che, affascinando, educa e che, coinvolgendo, fa crescere”.
Tuttavia, ha continuato il presule, “la responsabilità cresce”, come “necessità di un senso del compito e della missione che chi è impegnato nell’educazione deve avvertire”, come pure in termini di impegno, “per le nuove sfide che la società mette davanti alle giovani generazioni”.
Ed è una “fortuna”, allora, che stia crescendo “una primavera di laici che, più di prima, iniziano a fare i conti con l’esigenza di un progetto educativo cristiano per i propri figli e per la generazione di domani”. Per questo, pur di fronte alle difficoltà che l’educazione si trova oggi a fronteggiare, “è importante che questa crescita sia incoraggiata e sostenuta”, anche perché permette un’esperienza di libertà tanto per quanti frequentano la scuola quanto per coloro che la conducono e vi lavorano.
Inevitabile, a questo punto, un riferimento alla battaglia per un’effettiva libertà di educazione, che “si conduce sul terreno del dialogo, del confronto, delle profonde ragioni che la caratterizzano”,  come pure dei “numeri”, che “sono il segnale più evidente di una reale qualità della proposta educativa e del 'risveglio' di un interesse da parte di numerose famiglie”.
Valgano per tutti, allora, - ha aggiunto - le parole degli orientamenti pastorali della CEI: “Il principio dell’uguaglianza tra le famiglie di fronte alla scuola impone non solo interventi di sostegno alla scuola cattolica, ma il pieno riconoscimento, anche sotto il profilo economico, dell’opportunità di scelta tra la scuola statale e quella paritaria”.
Fondamentale, in conclusione, il richiamo all’origine della proposta educativa delle scuole paritarie cattoliche o di ispirazione cristiana, affinché di fronte alla complessità e difficoltà della situazione non ci si appiattisca sul problema economico: “L’origine fa riferimento soprattutto alla radice del Vangelo, dell’incontro con la persona di Gesù, dal quale scaturisce uno sguardo nuovo sul mondo e una forza di grazia per trasformarlo….Soltanto riaffermando e avendo ben presente l’origine, nella sua radice e nella fioritura che da essa si è sviluppata, è possibile garantire un futuro all’impegno educativo delle moltissime scuole cattoliche italiane”.
Ecco dunque la sfida e la strada indicata da mons. Betori, riprendendo gli orientamenti pastorali della CEI per questo decennio: “non prescindere dai carismi fondativi nell’immaginare una scuola e un’opera educativa che affronti i tempi e che, rinnovandosi continuamente, mostri la capacità della Chiesa di testimoniare la risposta al desiderio ultimo del cuore dell’uomo”.


Anthony Hopkins: «essere atei è come vivere in una cella senza finestre», 17 febbraio, 2011, da http://www.uccronline.it

Anthony Hopkins, famoso per aver interpretato il criminale Hannibal Lecter ne Il Silenzio degli innocenti, ha rilasciato un’intervista al Catholic Herald, in cui ha parlato della sua fede religiosa. L’attore, già premio Oscar, ha dichiarato: «Essere atei è come vivere in una cella chiusa senza finestre. Non vorrei vivere così. Li vediamo in televisione questi atei di professione, persone brillanti, che dicono di sapere per certo che è pazzia avere un Dio o credere nella religione. Beh, ok, che Dio li benedica per sentirsi in quel modo e spero che loro siano felici». Accenna poi sottlineando l’arroganza di certo laicismo moderno: «Mi chiedo: perché essi protestino così tanto? Come potranno essere così sicuri di ciò che è là fuori? E chi sono io per confutare le credenze dei grandi filosofi e di tanti martiri di questi secoli?». E conclude: «Il ruolo nel mio ultimo film [un esorcista N.d.A.] mi ha spinto a chiedermi in cosa credessi e perché. Ho letto sempre tutto quello che potevo sull’argomento, da Einstein a Darwin e sono convinto che la fede arricchisca la vita».


Sull’aborto Madrid «sfida» Zapatero - Spagna - Il Parlamento regionale creerà una rete per sostenere le donne incinte in difficoltà. Previsti aiuti economici e agevolazioni - DA MADRID MICHELA CORICELLI – 19 febbraio 2011

A ssegni sociali, centri di acco­glienza, facilitazioni per ottenere un posto di lavoro o un affitto a basso costo, appoggio psicologico, pan­nolini gratuiti e – soprattutto – informa­zioni reali (senza mezzi termini) sulla tra­gica scelta dell’aborto e sulla possibilità di portare avanti la gravidanza, senza sen­tirsi sole. Terribilmente sole. Il Parlamento regio­nale di Madrid ha approvato la discussio­ne di un’Iniziativa legislativa popolare (Ilp), con l’obiettivo di creare una «rete di sostegno solidale nei confronti delle don­ne incinta, affinché trovino alternative po­sitive di fronte al dramma dell’aborto». Nella Spagna del “diritto” all’interruzione di gravidanza – sancito fra mille polemi­che dall’ultima riforma del governo di Jo­sé Luis Rodriguez Zapatero – c’è ancora spazio per il “diritto” della donna «ad es­sere informata sulla maniera per supera­re qualsiasi tipo di conflitto che possa ge­nerare la gravidanza»: problemi econo­mici, familiari o sociali, soprattutto quan­do si tratta di minorenni. «In tutte le po­litiche assistenziali della comunità di Ma­drid – recita il testo varato dall’Assemblea regionale – si darà priorità alle donne in­cinte per l’accesso alle prestazioni o agli aiuti adeguati alla loro situazione». L’Ini­ziativa è stata approvata con i 61 sì del cen­trodestra madrileno, mentre socialisti e comunisti (45 voti) si sono opposti alla fu­tura legislazione anti-aborto.

Una ragnatela di protezione per mamme in difficoltà, in realtà, esiste già, ma è un progetto privato: quando passerà la nor­mativa, di fatto i centri di “Red Madre” (Rete Mamma) entreranno a far parte del­le strutture pubbliche regionali. La ragio­ne? In Spagna «il numero di morti causa­te dall’aborto cresce senza controllo»: nel­la sola regione di Madrid «ogni anno 16.228 donne sono state spinte ad abor­tire, perché la nostra società non è stata ca­pace di offrire loro alternative reali non traumatiche». Dal 1985 ad oggi, nel Pae­se iberico sono stati consumati oltre un milione di aborti.

L’Iniziativa popolare – presentata nel 2007 con oltre 76mila firme di sostegno – po­trebbe diventare legge prima delle elezio­ni regionali di maggio. Per Benigno Blan­co, presidente del Foro della Famiglia, le donne che vivono una gravidanza in una situazione spinosa sapranno «che posso­no contare sull’appoggio di migliaia di cit­tadini e avranno il diritto a ricevere gli aiu­ti previsti» dal testo. Oltre a Madrid, leggi ad hoc per aiutare le donne incinte sono già state approvate in Castiglia e Leon, Castiglia La Mancia, nella regione valencia­na, in Galizia, Murcia e alle Canarie.


Non è un Paese per vecchi - February 19th, 2011 - Il disagio dell’Occidente di fronte al Malato di Carlo Bellieni (Osservatore Romano)

Un rapporto scioccante del Garante per la sanità del governo inglese, riporta che negli ospedali migliaia di anziani sono lasciati sporchi, affamati, senza trattamento antidolorifico adeguato. L’Independent parla di “una società disumana”, il Daily Mail del 16 febbraio di “Crudeltà che getta vergogna su un Paese civile” mentre il 14 il Telegraph titolava inorridito: “Non c’è posto nella Grande Società per la generazione dei vecchi”. Ma non basta: l’Ufficio Nazionale di Statistica il 31 gennaio riporta che nel quinquennio 2005-2009, negli ospizi inglesi sono morti 650 anziani di disidratazione e 157 di malnutrizione. Neil Duncan-Jordan, dell’associazione nazionale pensionati riporta sul Daily Mail che nonostante che stare in ospizio sia molto costoso per l’anziano, “nessuno ti aiuta a mangiare o si assicura che tu abbia bevuto a sufficienza”. Scandalosa questa incuria, ma non inaspettata: si accorda purtroppo molto bene con altri report fatti al Parlamento inglese sul trattamento scadente riservato ai malati mentali - “Valuing People Now” (2007) e “Healthcare for all” (2008) - tanto che il Lancet nel giugno 2008 scriveva che i disabili mentali sono “invisibili” per il sistema sanitario nazionale inglese. Insomma, chi meno può far sentire la sua voce riceve un trattamento proporzionatamente inferiore. Ma è solo un problema di forza? Un’indagine fatta numerosi Paesi occidentali pochi anni fa mostrava che la maggioranza dei medici pensa che la vita con disabilità neurologica, ma anche con handicap fisico grave sia peggiore della morte, secondo quanto pubblicava il “Journal of the American Medical Association”, nel novembre 2000.

Segno di un vulnus culturale, di un disagio morale profondo, che mostra la disabilità non come qualcosa da superare, ma come cosa intollerabile, verso cui si prova avversione, non compassione. La riluttanza verso l’inerme ha due facce: una è quella vista finora, l’altra è parlare fino alla nausea di morte e come far morire, come se fosse quello il problema di malati e anziani.

Infatti in tanti Paesi, compresa l’Italia, sembra che il problema non sia come vivere meglio, ma invece, trovare soluzioni, escamotages e strategie “per morire”, come se il nemico non fosse l’abbandono, ma un supposto accanimento a tenerti in vita. Le pagine dei giornali sono dedicate al testamento biologico, all’eutanasia, alle direttive di fine vita, in una ricerca colma d’ansia di vie per morire. I giornali parlano ossessivamente di morte, una tendenza non equilibrata, che di fronte alla forte richiesta di compagnia e cura, sa solo offrire strade sempre più scaltre per morire. Non a caso in questo clima culturale, accade che in Francia diversi ospedali hanno aperto convenzioni con un’associazione favorevole all’eutanasia, che può anche entrare in contatto con i pazienti, a dispetto delle proteste anche di psicologi, che lamentano il rischio di un contatto tra certe idee e una popolazione di soggetti affettivamente fragili.

Il problema della morte con dignità non è come affrettarla, ma come vincere dolore e solitudine. Ma è stato creato scientificamente un clima di terrore verso un presunto e improbabile accanimento a tenere in vita. E il terrore scientificamente sparso è il tratto di fondo di questa società: come riporta in “Il diritto della paura” (Ed Il Mulino) Cass R. Sunstein, consigliere di Barak Obama, che sostiene una tesi ben nota agli economisti: l’essere umano è tanto colmo di paure, che se preso dai rumors e dalla propaganda, si disinteressa delle probabilità reali, magari scarse, che un avvenimento avvenga e si getta in un’impari lotta per evitarlo. Ci stanno trasformando in una generazione di persone impaurite, che sa solo cercare strade per difendersi, correre ai ripari, fuggire, guardando la morte come ultima disperata consolazione, perché la vita in fondo ha perso significato e attrattiva. E allora diventa logico non investire in cure migliori per chi “è inutile”, ma semmai nelle strategie “di uscita” da una vita divenuta ingombrante.

L’abbandono dei vecchi, oggi sulle prime pagine inglesi,  non è un problema di malasanità ma di disagio culturale di fronte al malato, icona incancellabile, finché in vita, della realtà della interdipendenza umana, della certezza che nessuna vita è inutile anche se non è più produttiva, idea certo non amata da chi invece predica il culto della vita “degna” solo a certe condizioni di indipendenza e salute. Insomma, chi sta male dà fastidio: non si trova nemmeno più chi sia disposto a fare l’infermiere dato che non si sopporta il contatto la persona fragile, memoria scomoda della propria fragilità. Per accudire chi è fragile, bisogna infatti essere forti e creare rapporti, mentre oggi, parafrasando Tacito, possiamo dire che “hanno creato solitudine e l’hanno chiamata libertà”.