lunedì 14 febbraio 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Quando la Madonna indossò il Tricolore… - 13 FEBBRAIO 2011 / IN NEWS - Antonio Socci - Da “Libero”, 13 febbraio 2011
2)    LIBERTÀ DI RELIGIONE A RISCHIO IN NEPAL - Rimane irrisolta la questione della sepoltura dei fedeli non indù di Paul De Maeyer - ROMA, domenica, 13 febbraio 2011 (ZENIT.org).
3)    POLIGAMIA E LIBERTÀ RELIGIOSA - A rischio il matrimonio in Canada di padre John Flynn, LC
4)    MA È QUESTA LA SCUOLA ITALIANA? di padre Piero Gheddo* - ROMA, domenica, 13 febbraio 2011 (ZENIT.org)
5)    IL CORDONE OMBELICALE SALVA BIMBA DI 6 ANNI DALLA LEUCEMIA di Paolo De Lillo* ROMA, domenica, 13 febbraio 2011 (ZENIT.org)
6)    Precariato adolescenziale e droga - Autore: Andraous, Vincenzo  Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 12 febbraio 2011
7)    14 Febbraio San Valentino da http://www.pontifex.roma.it
8)    Femminismo d'alto bordo - Di Renzo Puccetti - 12/02/2011 - Cultura e società, da http://www.libertaepersona.org
9)    Il 1968: quando sinistra e femministe minarono la famiglia, di Francesco Agnoli - 13/02/2011 - Cultura e società, da http://www.libertaepersona.org
10)                      IDEE/ Caro Barcellona, l'io non è minacciato dal Capitale ma dall'attentato al Padre di Salvatore Abbruzzese - lunedì 14 febbraio 2011 – il sussidiario.net
11)                      Avvenire.it, 12 febbraio 2011, IL CORTILE DEI GENTILI, Nichilisti ciechi davanti al male di Sergio Givone

Quando la Madonna indossò il Tricolore… - 13 FEBBRAIO 2011 / IN NEWS - Antonio Socci - Da “Libero”, 13 febbraio 2011

Gli italiani sono “gli azzurri”. Nessuno sa che con i 150 anni dell’Italia unita, si festeggiano anche i 100 anni dell’ “azzurro” come colore nazionale. Viene dall’iconografia mariana e la dinastia sabauda ne fece un suo simbolo.

Scrive Luigi Cibrario, storico della monarchia: “quel colore di cielo consacrato a Maria è l’origine del nostro color nazionale”.

Tutto cominciò il 21 giugno 1366. Amedeo VI di Savoia salpa da Venezia per la Terra Santa, per la crociata voluta da papa Urbano V e sulla sua nave ammiraglia – accanto al vessillo dei Savoia – fa sventolare uno stendardo azzurro con una corona di stelle attorno all’ immagine della Madonna, per invocare “Maria Santissima, aiuto dei cristiani”.

L’azzurro di quel vessillo mariano fu ripreso da alcuni cavalieri sabaudi che, in onore alla Santa Vergine, cinsero delle sciarpe azzurre sull’uniforme.

Ne nacque una tradizione, fra gli ufficiali savoiardi. L’azzurro entrò a far parte dei simboli dinastici e il 10 gennaio 1572, con Emanuele Filiberto, la sciarpa azzurra diventò ufficialmente parte dell’uniforme. E poi dell’araldica del Regno d’Italia.

Pare che sia diventato il nostro colore ufficiale nelle competizioni sportive, per la prima volta, a Milano, il 6 gennaio 1911, per la partita di calcio Italia-Ungheria: quindi cento anni fa.

La piccola storia di questo simbolo fa capire che la tradizione cattolica impregna totalmente la storia italiana. D’altra parte il Regno dei Savoia è sempre stato cattolicissimo.

Con la restaurazione fu l’unico regno italiano, insieme allo Stato pontificio, ad abolire il Codice napoleonico: “la dinastia sabauda” scrive De Leonardis “aveva dato alla Chiesa cinque beati e vantava titoli di fedeltà al Cattolicesimo che fino al 1848  erano forse superiori a quelli dei Borbone e degli Asburgo; a differenza di questi ultimi i sovrani sabaudi non si erano compromessi con le idee illuministe e massoniche”.

Sarà l’ultimo re d’Italia infine a donare alla Chiesa la più preziosa delle reliquie: la Sindone.

Che l’unificazione d’Italia sotto il re sabaudo – con Cavour – abbia preso la forma di un conflitto contro la Chiesa è una di quelle tragedie storiche che probabilmente nessuno volle in maniera deliberata.

Basti pensare che il Regno sabaudo nel suo Statuto proclamava il Cattolicesimo come sua religione ufficiale. E poi c’è anche il cattolicesimo di molti patrioti (come il Pellico) e infine il fatto che lo stesso Pio IX era un entusiastico sostenitore dell’unificazione nazionale (per via federale).

Non solo quando fu eletto, con il Motu proprio “Benedite, Gran Dio, l’Italia”, quando il nome del Pontefice veniva invocato dai patrioti (ed erroneamente costoro pretesero di trascinare il Papa a far la guerra all’Austria: da qui il no e la rottura).

Pio IX restò legato all’ideale dell’Italia sempre, anche nel pieno del conflitto risorgimentale. E questo è un aspetto quasi sconosciuto.

Come i cattolicissimi Savoia, anche il Papa visse un drammatico conflitto interiore fra il dovere di difendere la Chiesa – che veniva aggredita e spogliata dal nuovo Stato – e la sua personale simpatia per la causa nazionale.

Un giorno un conte germanico in visita al Santo Padre gli manifestò il suo sdegno per l’aggressione in corso ai danni dello Stato Pontificio e della Chiesa, e, dopo averlo ascoltato, Pio IX mormorò ai suoi: “Questo bestione tedesco non capisce la grandezza e la bellezza dell’idea nazionale italiana”.

Errori tragici ve ne furono da entrambe le parti. E certamente l’idea di unificare l’Italia non per via pacifica e federale come prospettava il Papa, ma per via militare e sotto una sola dinastia fu devastante anche per il meridione d’Italia, dove da secoli governava una monarchia legittima quanto quella sabauda.

Ben ventidue anni fa, nel 1988, quando ancora non era emersa la Lega Nord, scrissi un libro di denuncia contro il Risorgimento come “conquista piemontese” e – curiosamente – fu pubblicato dalla Sugarco di Massimo Pini, un editore molto vicino al garibaldino Bettino Craxi. Il libro – riedito sei anni fa col titolo “La dittatura anticattolica” uscì quando nessuno metteva in discussione il Risorgimento.

Oggi che – al contrario – è diventata una moda, vorrei sommessamente dire il mio “Viva l’Italia!” e penso che si debba festeggiare il 17 marzo.

Per noi cattolici c’è comunque qualcosa di provvidenziale nel Risorgimento italiano (anche nella fine del potere temporale dei papi, come ebbe a dire Paolo VI), perché Dio sa scrivere diritto anche sulle righe storte degli uomini.

E infine ha fatto salvare l’indipendenza, l’unità e la libertà dell’Italia proprio ai cattolici e al Papa, il 18 aprile 1948, a cento anni esatti dalla preghiera per l’Italia di Pio IX.

Del resto il cattolicesimo era il solo cemento degli italiani. Infatti cosa li univa nell’Ottocento? La lingua no.

Nel 1861 gli italiofoni erano solo il 2,5 per cento della popolazione, perlopiù toscani (gli stessi Savoia a corte parlavano francese).

Nemmeno l’economia li univa: la Sicilia era più integrata economicamente all’Inghilterra che alla Lombardia e il Piemonte più alla Francia che alla Sicilia.

Ciò che univa il Paese erano Roma e le tradizioni cattoliche. Tanto è vero che il poema della risorgente nazione italiana fu il poema della Provvidenza, “I promessi sposi” del cattolicissimo Manzoni.

E fu deciso “a tavolino” che la lingua italiana fosse, da allora, quella della Divina Commedia dantesca, cioè il più grande poema mistico e addirittura liturgico della storia della Chiesa.

Perfino il tricolore adottato dai Savoia – nato apparentemente ghibellino – è intriso di tradizione cattolica.

Lo studente bolognese Luigi Zamboni, che col De Rolandis lo concepì nel settembre 1794, nell’entusiastica attesa dell’arrivo napoleonico che avrebbe liberato dal giogo dello Stato pontificio, partì dallo stemma di Bologna, quella croce rossa in campo bianco che viene dalle crociate e dalla Lega lombarda (a cui Bologna appartenne). Al bianco e rosso lui aggiunse “il verde”, che – disse – era “segno della speranza”.

In effetti simboleggiava la speranza nella tradizione cattolica, come virtù teologale, insieme alla fede, che aveva come simbolo il bianco, e alla carità (il rosso).

Non a caso il primo “bianco, rosso e verde” lo troviamo proprio nella Divina Commedia, sono i vestiti delle tre fanciulle che, nel Paradiso terrestre, accompagnano Beatrice e che simboleggiano appunto le virtù teologali (Purg. XXX, 30-33).

Lo stesso “mangiapreti” Carducci, che certo non era ignaro di Dante, né di dottrina cattolica, nel suo discorso ufficiale per il primo centenario della nascita del Tricolore, a Reggio Emilia, dà, a quei tre colori, proprio il significato della Divina Commedia (fede, speranza e amore, sia pure in senso laico).

E’ ovvio che la Chiesa sia intimamente legata a questa terra “onde Cristo è romano” e pare evidente la missione religiosa dell’Italia (sembra che la parola I-t-a-l-y-a in ebraico significhi “isola della rugiada divina”).

Nessuno però sa che è stata addirittura la Madonna in persona a “consacrare” il tricolore nell’importante apparizione del 12 aprile 1947 a Roma, alle Tre Fontane, a Bruno Cornacchiola (il mangiapreti che si convertì).

Era un fanciulla di sfolgorante bellezza e indossava un lungo abito bianco, con una fascia rossa in vita e un mantello verde.

Consegnò al Cornacchiola un importante messaggio per il Santo Padre. E poi alla mistica Maria Valtorta spiegò che apparve “vestita dei colori della tua Patria, che sono anche quelli delle tre virtù teologali, perché virtù e patria sono troppo disamate, trascurate, calpestate, ed io vengo a ricordare, con questa mia veste inusitata, per me, che occorre tornare all’amore, alle Virtù e alla Patria, al vero Amore”.

Aggiunse che era apparsa a Roma perché “sede del papato e il Papa avrà tanto e sempre più a soffrire, questo, e i futuri, per le forze d’Inferno scagliate sempre più contro la S. Chiesa”.

Aggiunse che apparve per la terribile minaccia del “Comunismo, la spada più pungente infissa nel mio Cuore, quella che mi fa cadere queste lacrime”.

Essa è “la piovra orrenda, veleno satanico” che “stringe e avvelena e si estende a far sempre nuove prede”, una minaccia “mondiale, che abbranca e trascina al naufragio totale: di corpi, anime, nazioni”.

Era in effetti il 1947. L’Armata Rossa stava marciando su mezza Europa, fino a Trieste. E l’Italia il 18 aprile 1948 si salvò solo per l’impegno del papa e della Chiesa, da cui venne alla patria uno statista come De Gasperi, che salvò la libertà e così compì davvero il Risorgimento.


LIBERTÀ DI RELIGIONE A RISCHIO IN NEPAL - Rimane irrisolta la questione della sepoltura dei fedeli non indù di Paul De Maeyer - ROMA, domenica, 13 febbraio 2011 (ZENIT.org).

ROMA, domenica, 13 febbraio 2011 (ZENIT.org). Neppure l'arrivo della democrazia sembra aver stabilizzato il Nepal. Le continue tensioni fra le varie formazioni politiche e l'ex guerriglia maoista, guidata da Pushpa Kamal Dahal - detto "Prachanda", cioè il "terribile” - ha provocato una situazione di stallo, che si è sbloccata solo il 3 febbraio scorso dopo sette mesi di crisi con l'elezione da parte del parlamento di un nuovo primo ministro, Jhalanath Khanal, capo del partito comunista marxista-leninista NCP-UML.
"La mia priorità è la formazione di un nuovo governo che sia in intesa con tutte le parti politiche, per concludere il processo di pace del Paese e scrivere la nuova costituzione nel tempo stabilito", così ha detto Khanal subito dopo la sua elezione all'agenzia AsiaNews (4 febbraio). "La Costituzione comprenderà le esigenze delle minoranze, delle comunità etniche e delle donne", ha aggiunto.
Ed è propio qui che nascono i timori della piccola ma crescente comunità cristiana del Nepal, la quale conterebbe secondo alcune stime persino due milioni di fedeli, anche se - come ricorda il sito Églises d'Asie (7 gennaio) - l'unica cifra sicura è il numero di cattolici: circa 8.000, secondo i registri parrocchiali. La bozza di nuova Costituzione, che dovrebbe essere promulgata entro il 28 maggio prossimo e sostituirà il testo "ad interim" del 2007, vuole mantenere infatti l'impostazione "anti-conversioni" già presente nella Costituzione del 1959 e ripetuta in tutte le versioni successive, quella provvisoria del 2007 inclusa.
"Ogni persona avrà la libertà di professare, praticare e preservare la propria religione in conformità con la propria fede, o di astenersi da qualsiasi religione. A patto che nessuna persona sia autorizzata ad agire contrariamente alla salute pubblica, al contegno decente e alla moralità, abbandonandosi ad attività che mettano in pericolo la pace pubblica o convertendo una persona da una religione a un'altra, e nessuna persona agisca o si comporti in modo da violare la religione altrui”. Così stipola la Clausola 11 della Bozza preliminare della Commissione sui Diritti fondamentali e i Principi direttivi (CFRDP) dell'Assemblea costituente, nella quale non siede alcun rappresentante della comunità cristiana (Compact Direct News, 21 settembre 2010).
Anche se l'esperienza delle varie "leggi anti-conversioni" in India serve da monito, la comunità cristiana del Nepal rimane fiduciosa. "Non abbiamo alcuna paura e continueremo a fare quello che stiamo facendo, sia in caso di una Costituzione indù sia di una laica", ha detto nel settembre scorso monsignor Anthony Sharma, gesuita e vescovo di Kathmandu. "La conversione viene da Dio; la gente risponde semplicemente a Lui. La nostra filosofia è 'Noi proponiamo ma non imponiamo'. La crescita della Chiesa in Nepal è da attribuire alla testimonianza cristiana, e non solo alla predicazione", così ha ribadito il presule e primo nepalese etnico ad essere ordinato sacerdote nella Compagnia di Gesù (Compact Direct News).
Altri esponenti cristiani non nascondono però la loro preoccupazione: il pericolo di abusi - in particolare l'accusa di presunte conversioni "forzate" o "indotte" - è infatti sempre dietro l'angolo. Alcuni cristiani, come Ramesh Khatri, direttore esecutivo dell'Association for Theological Education in Nepal, non riescono a togliersi di dosso l'etichetta di "rice christian", cioè di una persona convertitasi in cambio di benefici materiali (CDN, 30 marzo 2010). Come in India, operano anche in Nepal d'altronde vari movimenti radicali indù, come il Nepal Defense Army (NDA), che prendono di mira la minoranza cristiana e musulmana.
Alcuni capi cristiani temono inoltre un ritorno alla monarchia induista. A simpatizzare ultimamente con il deposto re Gyanendra Bir Bikram Shah Dev - ritenuto da alcuni una incarnazione del dio Vishnu - sono proprio i maoisti di Prachanda, cioè uno dei gruppi che ha contribuito maggiormente alla caduta della monarchia. Lo stesso re ha rotto nel marzo scorso il suo silenzio e ha proclamato che la monarchia non è morta in Nepal e può essere restaurata qualora il popolo lo voglia. Un partito politico, il Rastriya Prajatantra Party-Nepal (RPP-N), chiede persino una consultazione popolare a favore della monarchia.
Un primo "test" per la libertà di religione in Nepal e per il nuovo primo ministro Khanal è la disputa esplosa recentemente attorno all'autorizzazione di seppellire i morti nei pressi del tempio indù di Pashupatinath, nella periferia est di Kathmandu. Mentre in Nepal viene praticata la cremazione secondo la tradizione induista, alcune religioni minoritarie preferiscono l'inumazione.
Ma a causa di un "boom" edilizio, i terreni per la sepoltura si fanno sempre più rari nella capitale, un fenomeno che ha spinto alcuni gruppi, fra cui i cristiani e i Baha'i, a seppellire i loro morti nella foresta di Sleshmantak, nei pressi del tempio di Pashupatinath, uno dei più importanti dell'induismo, che sorge sulle rive del fiume sacro Bagmati. Secondo i dati della Federazione cristiana del Nepal, ci sono già 200 pietre tombali nell’area di Sleshmantak e i cristiani hanno pagato dai 6 ai 10 euro per ogni tomba (AsiaNews, 28 gennaio).
Dopo le proteste della comunità indù, che considera sacra l'intera foresta, le autorità hanno proibito il 29 dicembre scorso le inumazioni a Sleshmantak e l'ente che gestisce il tempio - il Pashupati Area Development Trust (PADT) - ha cominciato a distuggere le prime tombe. In seguito alla protesta da parte delle minoranze religiose, fra cui il "Christian Advisory Committee for the New Constitution" (CACNC), il ministro della Cultura e degli Affari federali, Minendra Rijal, sembrava disposto ad autorizzare nuovamente le sepolture ma poi è stato costretto a cambiare idea sulla scia delle reazioni veementi dei gruppi indù radicali, dicendo che "non permetterebbe a nessuno di ferire i sentimenti religiosi di milioni di indù" (EDA, 10 febbraio).
La crisi si è aggravata quando la polizia ha bloccato il funerale di un giovane membro della minoranza etnica Kiranti-Rai, che da lunghissimo tempo seppellisce i propri defunti nella foresta di Sleshmantak. In seguito alle manifestazioni di protesta dei Kiranti, il governo ha autorizzato nuovamente il 2 febbraio la sepoltura di Kiranti nella foresta ed ha annunciato la creazione di una commissione che dovrà risolvere la delicata questione delle sepolture dei defunti non indù.
A sua volta, la United Christian Alliance of Nepal (UCAN) - un organismo ecumenico che raggruppa dieci denominazioni cristiane, fra le quali la Chiesa cattolica - ha pubblicato il 5 febbraio una dichiarazione chiedendo al nuovo governo di dedicare "tutta la sua attenzione alle comunità cristiane e alle persone che reclamano il diritto di poter seppellire i loro morti", sempre secondo l'EDA. Di fronte al silenzio governativo, il segretario generale del CACNC, il reverendo C. Bahadur Gahatraj, ha lanciato un ultimatum che scadrà martedì 15 febbraio e che non esclude il ricorso allo sciopero della fame o al blocco delle strade con i cadaveri rimasti privi di sepoltura.
In attesa di una soluzione, i cattolici di Kathmandu hanno cominciato già circa un anno fa a praticare a loro volta la cremazione. "Per risolvere questa situazione noi cattolici abbiamo iniziato a cremare i morti, mettendo una lapide commemorativa sulle pareti delle chiese", aveva annunciato il parroco della cattedrale dell’Assunzione di Kathmandu, padre George Karapurackal (AsiaNews, 22 febbraio 2010).
Questa soluzione provvisoria comporta però nuove forme di discriminazione, come ha ricordato mons. Sharma, che è anche il primo vicario apostolico del Nepal. "Sui ghat [le piattaforme sulle quali avvengono le cremazioni, ndr] di Pashupatinath, si fa una distinzione fra le caste, e i cristiani sono trattati come persone di bassa casta. Abbiamo dovuto installare i nostri propri siti di cremazione", così ha detto il presule (EDA, 10 febbraio).


POLIGAMIA E LIBERTÀ RELIGIOSA - A rischio il matrimonio in Canada di padre John Flynn, LC

ROMA, domenica, 13 febbraio 2011 (ZENIT.org).- La poligamia dovrebbe essere consentita, in quanto esercizio della libertà religiosa, secondo uno dei gruppi appartenenti ai mormoni in Canada.

Negli ultimi mesi, il giudice Robert Bauman, della Suprema Corte di giustizia del British Columbia, ha ascoltato argomentazioni sulla questione della legalizzazione della poligamia. Secondo la comunità Bountiful, della Chiesa fondamentalista di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni (FLDS), dai diritti religiosi sanciti dalla Carta dei diritti e delle libertà del Canada discenderebbe il diritto di poter avere più mogli.

L’organizzazione conta con circa 10.000 membri tra Stati Uniti e Canada, secondo un rapporto della BBC del 23 novembre. Di questi circa un migliaio vive a Bountiful.

Il British Columbia ha una legge del XIX secolo che vieta la poligamia, ma in passato ha chiuso un occhio su ciò che l’organizzazione stava facendo, nel timore di un eventuale giudizio di incostituzionalità della legge. Le autorità hanno ultimamente cambiato impostazione e hanno accusato due persone di Bountiful di poligamia. Il caso è stato archiviato per motivi tecnici nel 2009.

Anziché fare appello contro la decisione di archiviazione, le autorità del British Columbia hanno chiesto alla Corte suprema di pronunciarsi sulla costituzionalità della legge che vieta la poligamia, da cui l’attuale procedimento giurisdizionale che ha appena concluso la fase del dibattimento delle due parti.

Se la legge dovesse essere bocciata, il rischio è che il Canada potrebbe attrarre un’immigrazione di famiglie poligame, incidendo negativamente sulla società, secondo quanto sostenuto dal pubblico ministero Craig Jones davanti alla Corte, ha riferito il quotidiano Globe and Mail del 23 novembre.

Jones ha detto che la comunità di Bountiful ha avuto problemi tra cui matrimoni minorili, gravidanze di adolescenti e uomini giovani e adulti che sono stati allontanati. Questi problemi sono “inevitabili conseguenze” della poligamia, ha sostenuto.

“La poligamia lascia molti giovani senza opportunità per sposarsi e crearsi una famiglia”, ha detto il giorno dopo Deborah Strachan, rappresentante dell’Attorney-General (procuratore generale ndt) del Canada, secondo l’edizione del 24 novembre del Globe and Mail. “C’è una schiera di ragazzi e giovani che si vedono respinti in un modo o in un altro dalla comunità”, ha aggiunto.

Sottomissione

L’economista Shoshana Grossbard, autrice di diversi libri sull’economia del matrimonio, ha fornito alcuni dati dicendo che invariabilmente i leader maschili delle società poligame tendono ad imporre una sottomissione delle donne, secondo il Vancouver Sun del 9 dicembre.

Intervenendo in qualità di testimone esperto, la professoressa della San Diego State University ha osservato che le società poligame hanno una maggiore frequenza di matrimoni combinati con uomini più anziani delle donne, e che questo aumenta le probabilità di vedovanza precoce e di difficoltà economiche.

Altri esperti, di entrambe le parti, hanno fornito ulteriori elementi informativi, tra dicembre e gennaio, prima che il processo iniziasse a sentire le testimonianze di alcuni membri di Bountiful. Secondo Daphne Bramham, un editorialista del Vancouver Sun, gli esperti della parte pubblica hanno avuto la meglio.

“Gli elementi forniti finora hanno quasi univocamente affermato che la poligamia è intrinsecamente dannosa per gli individui e per la società”, ha osservato nel suo articolo apparso il 7 gennaio.

John Witte, Jr., direttore del Law and Religion Center della Emory University, ha riferito che esiste una consistente tradizione di 2.500 anni secondo cui il matrimonio è l’unione monogama tra due persone, secondo un servizio pubblicato sul Vancouver Sun del 10 gennaio.

“Questo consenso plurisecolare sottolinea il fatto che il divieto è sia pre-cristiano che post-cristiano”, ha affermato.

Un esempio grafico dei danni che possono essere procurati è stato fornito in una ulteriore audizione, in cui si è affermato che, frequentemente, nella Chiesa fondamentalista di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni, si pratica sui bambini una forma di tortura con l’acqua.

Paura

Carolyn Blackmore Jessop, che ha lasciato l’organizzazione nel 2003, ha detto che questa tortura, che si chiama “breaking in”, è perpetrata dal padre, secondo il National Post del 12 gennaio. Lo scopo è in instillare il timore dell’autorità, ha spiegato.

Jessop ha spiegato di essere fuggita via con i suoi otto figli perché non aveva alcuna possibilità di proteggere i suoi figli dalle violenze fisiche. Aveva 18 anni quando si era deciso che doveva diventare la quarta moglie del cinquantenne Merril Jessop.

Alcune delle attuali mogli nella comunità hanno fornito delle testimonianze segrete, sotto la garanzia dell’anonimato. Il pubblico e i media hanno potuto ascoltare attraverso un collegamento audio. Per la testimone numero due, la vita a Bountiful era gradevole e non vi era coercizione, come ha riferito il Toronto Star del 25 gennaio.

La donna ha circa 45 anni e condivide il marito con una sua sorella biologica. Solo loro hanno avuto 19 figli. Una delle figlie si è sposata a 15 anni. Lei ha ammesso di vivere sulla soglia della povertà, ma che questo è anche dovuto ai contributi dati per il finanziamento delle battaglie legali dei loro confratelli negli Stati Uniti.

La testimone numero quattro crede di vivere un “matrimonio celeste” voluto da Dio, secondo il National Post del 27 gennaio. All’età di 16 anni si è sposata con l’attuale marito che ha conosciuto solo trenta minuti prima della cerimonia del matrimonio. Sei mesi dopo, il marito ha preso un’altra moglie, una ragazza di 15 anni.

Secondo l’autore dell’articolo, Barbara Kay, donne come la testimone numero quattro hanno subito un lavaggio del cervello, vivendo in una comunità del tutto avulsa dal resto del mondo.

La Corte ha ascoltato anche alcune testimonianze critiche, di ex appartenenti alla comunità Bountiful. Truman Oler, figlio di James Oler, un leader della comunità con molte mogli, ha parlato di una comunità di padri lontani e di figli trascurati, secondo quanto riferito dal National Post il 25 gennaio.

“Personalmente non vedo perché [gli aderenti alla FLDS] facciano così tanti figli se poi non vogliono prendersene cura”, ha detto alla Corte.

Ulteriori informazioni sulle condizioni di vita dei bambini sono state fornite da Bruce Klette della Vital Statistics Agency del British Columbia. Secondo i dati anagrafici del periodo 1986-2009 vi sono state 833 nascite da 215 madri e 142 padri, ha riferito il Globe and Mail il 27 gennaio.

Poco più del 10% dei bambini è nato da ragazze diciottenni o minori, mentre la media della provincia si attesta sul 2,7%. La distanza tra l’età delle madri e quella dei padri risulta di 8 anni, mentre la media della provincia è di 4,6. Circa il 45% delle madri è nato fuori dal Canada, principalmente nello Utah, rispetto al 30% delle madri straniere del British Columbia.

L’articolo ha anche osservato che dai dati sull’istruzione, relativi alle due scuole di Bountiful, risulta che dal 2003 solo 25 studenti hanno concluso l’ultimo anno delle superiori.

Eguale dignità

Commentando le testimonianze depositate nel processo, da cui risultano gli scarsi livelli di istruzione, lo sfruttamento delle mogli e i tassi abnormi di gravidanze adolescenziali, l’editoriale del Globe and Mail del 31 gennaio fa appello per il mantenimento della legge contro la poligamia.

“Il divieto della poligamia rimane un limite ragionevole alla libertà religiosa e un efficace strumento per ribadire che la legge deve proteggere chi è vulnerabile e tutelare l’eguaglianza dei diritti e la dignità umana delle donne e dei bambini”, ha affermato l’articolo.

Una posizione non dissimile da quella della Chiesa cattolica.

L’unione tra marito e moglie si radica nella naturale complementarietà che esiste tra l’uomo e la donna, spiega Giovanni Paolo II nella sua Esortazione apostolica del 1981 sulla famiglia “Familiaris consortio”.

“Una simile comunione viene radicalmente contraddetta dalla poligamia”, afferma. “Questa, infatti, nega in modo diretto il disegno di Dio quale ci viene rivelato alle origini, perché è contraria alla pari dignità personale dell'uomo e della donna, che nel matrimonio si donano con un amore totale e perciò stesso unico ed esclusivo” (n. 19).

Ora, in Canada, l’indebolimento dei valori fondamentali del Cristianesimo, che hanno sempre difeso l’istituto del matrimonio, si manifesta anche nel tentativo di legalizzare la poligamia. Si può solo sperare che il Canada, che forse non a caso ha legalizzato il matrimonio omosessuale, non vorrà introdurre, per decisione giudiziale, un ulteriore colpo al matrimonio, legalizzando lo sfruttamento delle donne e dei bambini.


MA È QUESTA LA SCUOLA ITALIANA? di padre Piero Gheddo* - ROMA, domenica, 13 febbraio 2011 (ZENIT.org)

ROMA, domenica, 13 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Mi telefona una cara amica di una cittadina vicina a Milano, con 30 anni di insegnamento nelle scuole elementari, per augurarmi Buon Anno e poi continua: “Più vado avanti  e più mi accorgo che di cinque in cinque anni i genitori dei bambini sono sempre più preoccupati di tutto, meno che dell’educazione e dei valori da trasmettere ai loro figli. Quel che importa è che il bambino non torni a casa scontento. Sono sempre pronti a mettere i puntini sulle i, ma educazione zero. Numerosi quelli che prendono la scuola come un parcheggio: io lavoro, il  mio bambino è custodito e basta. Bambini non controllati, non seguiti”.
“A volte mi metto a pulire le loro cartelle e dico al bambino: quand’è l’ultima volta che tua mamma ha guardato dentro alla tua cartella? Tiro fuori manate di carta, disegni stropicciati, senza il materiale che serve. Nella nostra città arriviamo al 45-50% dei bambini non italiani, sono bengalesi, singalesi, equadoregni, peruviani.  Queste famiglie, eccetto qualche caso, ci tengono di più all’istruzione, all’educazione,  chiedono se il bambino è educato, se si comporta bene. E’ duro dirlo, ma molte famiglie italiane non sono così. Gli immigrati fanno più figli e sanno educarli. Sono in condizioni peggiori delle famiglie italiane, ma fanno più figli e ci tengono ad educarli bene. Come fanno? Rinunziano a tante comodità e dimostrano che si può vivere bene anche in una povertà dignitosa”.
“E poi, com’è diventato difficile, anche nelle scuole elementari, fare certi discorsi. Per Natale il parroco voleva venire ad augurare il Buon Natale a tutti. Abbiamo dovuto mandare ai genitori una lettera nella quale chiedevamo se permettevano che il bambino partecipasse a questo saluto. Mamma mia! Ma un augurio o anche la benedizione del sacerdote non ha mai fatto male a nessuno. E ci sono italiani che dicono di no, mentre i genitori stranieri, in genere, rispondono che il loro figlio canta le canzoncine di Natale, partecipa al saluto del sacerdote….. Insomma, non possiamo più fare un passo senza avere il consenso dei genitori in tutto e per tutto”.
“Ci sono ancora delle famiglie italiane che si salvano, ma sono sempre meno. Dieci-vent’anni fa, c’erano mamme che venivano a chiederti notizie del figlio, come faceva, se si comportava bene, chiedevano consiglio; se c’è qualcosa da dire me lo dica pure. Adesso, se la maestra ha scritto un appunto sul quaderno del bambino, perché è già tre volte che viene in classe senza il quaderno, oppure perché per il terzo giorno consecutivo ha picchiato un altro bambino; la mamma viene a chiedermi come mi sono permessa di scrivere quelle cose sul suo tesoro.  Bisogna pesare e soppesare le parole. E’ vero, non bisogna offendere, ma dire lo stesso le cose che devi dire. Perché ci sono delle colleghe che ti dicono: ma chi te lo fa fare? Tu dì che va tutto bene e sei a posto. Ma non è giusto. La maestra non insegna solo delle nozioni, ma educa la personcina di cui ha la responsabilità”.
“Oggi poi  è diventato difficile proporre cose che possano andar bene a tutti. Ad esempio, una volta la IV e la V si ritrovavano, anche fuori dell’orario scolastico, per celebrare la festa del IV novembre, le famiglie ci tenevano; oppure si andava in chiesa all’inizio dell’anno e i bambini venivano tutti. Queste cose non si possono più fare, ma non diamo la colpa al fatto che ci sono stranieri di religione diversa. Non è vero, ci sono italiani che della religione non glie ne importa assolutamente niente e vogliono che il bambino sia educato così”.
“Ricordo che c’era un reduce dalla guerra in Russia che sapeva parlare ai ragazzi. Veniva in classe e raccontava la sua prigionia in Russia, le lunghe camminate sulla neve, la sofferenza della fame e altro. I bambini ascoltavano attenti, con la bocca aperta. Portava in classe i suoi scarponi come li aveva portati dalla Russia, con ancora la terra della Russia attaccata alle suole: un cimelio. Era un racconto educativo. Oggi non si può più fare. I genitori si scandalizzerebbero. I bambini non debbono soffrire di nulla, non possiamo parlare della morte, della sofferenza, i bambini debbono essere sempre contenti. Poi li lasciano allo sbando per ore davanti alla televisione in tenera età. Noi ci accorgiamo dai discorsi che fanno in classe, chiaramente televisivi. I bambini non debbono essere messi a confronto con la realtà, che è anche dolore, malattia, morte! L’importante è che non rompano le scatole ai genitori”.
“Ho ancora presente una bambina egiziana. Mamma e papà  erano due gioielli. La bambina si è presentata in prima elementare e aveva problemi di linguaggio. Il papà chiedeva di  fare il lavoro la notte per sei mesi, in modo da poter accompagnare la bambina due volte alla settimana per la logopedia. Quando gli ho detto che la bambina era curiosa, interessata a tutto e stava migliorando, quell’uomo, che era un armadio, si è messo a piangere. A quest’uomo e a sua moglie, una bellissima signora, ho chiesto se a Natale la bambina poteva cantare le canzoncine di Natale e hanno risposto: 'Rania canta tutto, anche le canzoni di Natale. Rania deve sapere che ci sono anche le altre religioni'. Ci sono famiglie italiane che non vogliono, sono atee, i loro bambini debbono essere come loro. Nei primi anni che ero in scuola, si faceva la preghierina tutte la mattine, adesso non si può più. Noi insegnanti cattoliche in una scuola laica, abbiamo anche degli insegnanti che sono contro la religione e la Chiesa. Bisogna agire con calma ma una volta abbiamo bisticciato per le canzoncine natalizie”.
“Purtroppo, oggi la maggioranza delle famiglie non sono regolari. Anni fa facevamo fare il compito 'La mia famiglia' oppure 'Mio papà e mia mamma' e venivano fuori dei bei temini che  commuovevano i genitori. Adesso non si può più perché molte famiglie sono irregolari e si mettono in difficoltà i bambini. Qualcuno viene fuori a dire: 'Io ho due papà. Il mio papà vero e il mio papà finto'. Una mamma viene a dirmi che si è separata dal marito e mi consegna un foglio del tribunale e dice: se il marito viene a ritirare la bambina, non bisogna dargliela. La società non si rende conto che la separazione e il divorzio lo pagano i bambini. I genitori vogliono il diritto di fare quel che vogliono, ma al diritto del bambino di avere due genitori che si vogliono bene, chi lo rispetta? Quando i genitori si separano o divorziano, i bambini sono quelli che più ci perdono. Crescono male, hanno una ferita psicologica che li accompagnerà tutta la vita”.
----------
*Padre Piero Gheddo (www.gheddopiero.it), già direttore di Mondo e Missione e di Italia Missionaria, è stato tra i fondatori della Emi (1955), di Mani Tese (1973) e Asia News (1986). Da Missionario ha viaggiato nelle missioni di ogni continente scrivendo oltre 80 libri. Ha diretto a Roma l'Ufficio storico del Pime e postulatore di cause di canonizzazione. Oggi risiede a Milano.


IL CORDONE OMBELICALE SALVA BIMBA DI 6 ANNI DALLA LEUCEMIA di Paolo De Lillo* ROMA, domenica, 13 febbraio 2011 (ZENIT.org)

ROMA, domenica, 13 febbraio 2011 (ZENIT.org).- I dottori Ammar Hayani e Sharad M. Salvi del reparto di Ematologia pediatrica-Oncologia dell' Advocate Hope Children's Hospital and Christ Medical Center di Oak Lown (Illinois), insieme al dottore David Morgan del reparto di Radioterapia oncologica dello stesso ospedale, hanno pubblicato il primo rapporto su un trapianto autologo di sangue del cordone ombelicale per la cura della leucemia linfoide acuta in una bambina, con la collaborazione del dottor Eberhard Lampeter del Dipartimento di Patologia della Mayo Clinic di Rochester (Minnesota). L'annuncio è avvenuto su Pediatrics[1], il prestigioso mensile ufficiale dell'Associazione Americana di Pediatria.
La paziente E.M. è una bambina di 6 anni, che all'età di 3 aveva iniziato a manifestare emorragie e splenomegalia, valori altissimi di leucociti, bassi di emoglobina e, soprattutto, di piastrine. L' esame del midollo osseo mostrava un 94% di linfoblasti immaturi con morfologia L-1.Vi è presenza di proteine oncogene (CD45), caratteristiche della forma linfoblastica (CD10) o di parziale differenziazione cellulare (CD19 e CD20): purtroppo, i segni di una leucemia linfoblastica acuta.
La paziente è stata curata con un protocollo per la leucemia ad alto rischio a causa dell' alto numero di globuli bianchi. Ha ottenuto una totale remissione dopo 4 settimane di terapia d'induzione, seguita da 6 cicli di terapia di consolidamento. La cura è stata terminata con una chemioterapia di continuazione. Purtroppo alla quarantaquattresima settimana, una puntura lombare di controllo mostrava un alto numero di cellule nucleate tipo L senza globuli rossi nel liquido cefalo-rachidiano, mentre il midollo osseo risultava normale, segno di una ricaduta a livello del sistema nervoso centrale. La paziente ha ottenuto una seconda remissione con una chemioterapia intratecale settimanale tripla.
A causa della precocità della ricaduta è stato preso in considerazione un trapianto di cellule staminali autologhe dal cordone ombelicale della bambina crio-conservato dopo la nascita, anche per la mancanza di familiari compatibili. Per primi sono stati eseguiti 3 cicli di chemioterapia di consolidamento. Il regime di condizionamento da irradiazione totale del corpo e irradiazione cranica a dosi elevate è stato seguito da trattamento con etoposside e ciclofosfamide a dosi alte.
Sono stati effettuati test molecolari per individuare un eventuale clone della leucemia nel sangue del cordone. Non essendoci la presenza di marcatori cromosomici specifici, sono stati ricercati riarrangiamenti dei geni per il recettore della catena pesante delle immunoglobuline (igH) e del recettore T-gamma Jg per mezzo della reazione della catena polimerasi: fortunatamente sono risultate negativi.
Al momento dello scongelamento le cellule nucleate del sangue del cordone ombelicale erano 979 milioni e le cellule che producono la proteina CD34, favorente l'adesività delle staminali al midollo osseo, 2,59 milioni. Il loro tasso di recupero era del 92%, mentre la vitalità variava dall'80% al 98%, a seconda del metodo usato: in ogni caso ottimi valori. Le staminali sono state infuse senza complicazioni ed il trapianto è stato portato a termine 15 giorni dopo.
A distanza di 4 mesi la conta di tutte le cellule del sangue era divenuta del tutto normale. La paziente stava molto bene, senza infezioni serie, importanti complicazioni, né segni di rigetto del trapianto. Ad 1 anno l'esame del midollo osseo mostrava una diminuzione del numero di cellule a livelli nella media, nonché un'ematopoiesi normale [2].La leucemia linfoide acuta è la più comune neoplasia nell'infanzia e oggi ha un tasso di sopravvivenza che si avvicina all' 80%. Il sistema nervoso centrale è la seconda localizzazione delle ricadute per incidenza dopo il midollo osseo. La sopravvivenza libera da malattia nei 4 anni successivi è del 71% ; la percentuale migliora se la durata della prima remissione completa è maggiore di 18 mesi (83%), peggiora, invece, se minore (46%). Le cause favorenti una ricaduta nel sistema nervoso centrale sono la localizzazione iniziale specifica della leucemia nel SNC, così come la resistenza delle cellule linfoblastiche alterate alla chemioterapia. L'importanza di quest'ultima è evidenziata dal fatto che la ricaduta localizzata nel midollo osseo è la più comune forma di fallimento della terapia dopo ricadute delimitate al sistema nervoso centrale: 50% rispetto al 14%, che colpiscono il SNC[2].
Questi dati consigliano una terapia sistemica intensiva in aggiunta a quella per il sistema nervoso centrale, con l' uso di chemioterapia intratecale e di radioterapia, ad alte dosi, seguite da trapianto di cellule staminali emopoietiche. Esso può essere indicato per pazienti leucemici con ricadute temporalmente precoci circoscritte al sistema nervoso centrale. Il professor Bordigoni ha riscontrato nei suoi studi una sopravvivenza libera da malattia del 77% dopo trapianto di staminali nei bambini, che avevano avuto ricadute delimitate al SNC, dopo aver ricevuto una chemioterapia. Questo è un risultato nettamente migliore rispetto a quello ottenuto dopo una tradizionale radioterapia o chemioterapia in questo tipo di pazienti [3].
Inoltre questa bambina aveva avuto una ricaduta estremamente precoce, nonostante l'utilizzo di dosi molto elevate: 10 mesi dall'inizio del trattamento. Ciò potrebbe comportare un altissimo rischio di fallimento del trattamento medico e di ricadute usando chemioterapie e radioterapie tradizionali. L'uso di staminali autologhe del sangue del cordone ombelicale comportava i vantaggi di una diminuzione della mortalità e della morbilità; in particolare un calo del rischi di rigetto del trapianto da parte del sistema immunitario del ricevente di ben il 30%. Questi elementi positivi superavano ampiamente i rischi, per altro non chiaramente dimostrati, di una infusione accidentale del clone della leucemia e della mancata risposta immunitaria delle cellule trapiantate contro quelle neoplastiche sopravvissute.
Al momento del rapporto la bambina era rimasta nella seconda remissione completa per ben 28 mesi: una ulteriore ricaduta sarebbe stata estremamente improbabile. Il professor Ritchey afferma nei suoi studi che la maggior parte delle ricadute in pazienti trattati per il rimanifestarsi precoce della leucemia linfoblastica acuta del SNC avveniva entro 2 anni. Solo il 4% si verificava oltre i 28 mesi [2]. Il sangue del cordone ombelicale è stato utilizzato per la prima volta nel 1988 per un trapianto. Alcuni dei suoi numerosi vantaggi sono l'ampia disponibilità, la facilità di raccolta, la donazione priva di rischi, l'assenza d'infezioni, l'immediata reperibilità delle unità crioconservate nel caso di necessità di un trapianto, e, soprattutto, il ridotto rischio di rigetto immunitario. Diversi studi hanno dimostrato l'origine prenatale della leucemia dei bambini, con fusione di geni specifici per la leucemia o riarrangiamenti di altri. Per questa paziente la mancanza di riarrangiamenti del gene, che codifica per il recettore della catena pesante delle immunoglobuline (IgH) e di quello per il recettore T-gamma JG, dava una forte assicurazione che il sangue cordonale non contenesse il clone della leucemia.
Inoltre non è affatto sicuro che la sfortunata presenza di tale clone nell'infusione porti ad alti rischi per il paziente, che senza l'uso del cordone ombelicale spesso avrebbe poche speranze di salvezza, come nel caso di questa bambina americana. Infatti l'incidenza del clone nella popolazione è ben 100 volte maggiore di quella della leucemia infantile, riducendo la probabilità di questo grave effetto collaterale all' 1% dei casi trattati. Ciò fa supporre la necessità di un secondo fattore scatenante di tipo ambientale successivo alla nascita, perché si posa manifestare la malattia [4].
Il tasso d' incidenza della neoplasia nei bambini è stimato a 130 per milione, quindi con una percentuale di rischio di 2 casi su 1.000 durante tutta l'infanzia. L'uso delle staminali è indicato, secondo il rapporto del dottor Hayani e colleghi, in caso di leucemia mieloblastica acuta, quella fibroblastica acuta ad alto rischio, ricadute della leucemia e del linfoma, e stadi avanzati del neuroblastoma, anche se nel periodo successivo a questo rapporto le indicazioni sono notevolmente aumentate: in meno di 4 anni da 1 caso su 2.000 di uso delle staminali ematopoietiche nel 2010 si è passati ad 1 su 1.000. Anche la vitalità delle staminali del cordone ombelicale crioconservate è passata da 5-15 anni a 40, grazie a recentissime scoperte [1].
1) Ammar Hayani MD e coll. - Pediatrics – 01/01/2007 - pag. e295-e300
2) Ritchey AK e coll. - Improved survival of children with isolated CSN relapse of acute lymphoblastic leukemia – J Clinic Oncol. - 1999 – 17:3745-3742
3) Bordigoni e coll. - Total body irradiation-high-dose cytosine arabinoside and melphalan followed by allogenic bone marrow transplantation... - A Societe Francaise de Greffe de Moelle study. - Br J Haematology – 1998 – 102: 656-665
4) Mori H e coll. - Chromosome translocations and covert leukemic clones are generated during normal fetal development... Proct Natl Acad Sci USA – 2002 – 99: 8242-8247
-------
*Paolo De Lillo è dottore in Farmacia.


Precariato adolescenziale e droga - Autore: Andraous, Vincenzo  Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 12 febbraio 2011

Sul problema droga, alcol e violenza collegata, ho l’impressione che non si voglia inquadrare in maniera comprensibile il massacro cui vanno soggetti soprattutto i più giovani.
Esiste un tentativo piuttosto timido di indicare un certo precariato sociale, quella parte di collettività che rimane fuori dal mercato del lavoro, mentre sul precariato inteso come mondo adolescenziale e giovane adulto è calata una cappa, costringendoli all’indietro, come a voler nascondere i cedimenti che hanno prodotto un futuro che sembra non attenderli più.
Qualcuno sostiene che ci sono due milioni di ragazzi che non frequentano la scuola, non vanno al lavoro, non fanno volontariato, non svolgono nulla che non sia un girovagare sotto vuoto spinto, due milioni di nomadi in una comunità assente, costretta a guardare da un’altra parte, a pensare a se stessa e poco agli altri, tanto meno ai propri figli che domani ne prenderanno il posto di educatori.
Si tratta di una degenerazione che non è riconducibile ai guasti di una globalizzazione usata male, dalle leggi del mercato mondiale oppresso dall’ appetito cannibalico in preda all’ansia di guadagno.
C’è qualcosa di più a fare da ponte a questo scollamento di valori e solidarietà che integra le differenze.
Giovani dislocati qua e là, in città e in periferia, a volte ritardano, altre si perdono, in qualche occasione non tornano più, e mentre tutto questo si cristallizza intorno a noi, l’opinione diffusa è che la maggioranza dei giovani è stanca di stare a guardare, di rimanere all’angolo con la faccia al muro per colpe non sempre riconducibili alla loro immaturità.
I pensieri assumono riflessi contrastanti, sono curve che dapprima accecano, poi addormentano, infine rendono il presente una sequela di domani sfornati in serie dalla noia e dalla disistima.
La fascinazione delle droghe, tante, variopinte, nascoste e in bella mostra, al costo accettabile, sempre più accessibile, in centro si comprano e qualche volta si vendono, fuori dalle mura urbane ognuno ha la sua merce, ciascuno possiede l’illusione pregiata per ogni circostanza, per chi non fatica sui banchi di scuola, nei campi da arare, per chi non sa sudare e per chi non sa accompagnare chi è in avaria.
Società dei valori da re-inventare, una collettività per un verso intontita e per l’altro in bilico, al punto da non saper riconoscere quei valori di cui parla, che già ci sono, lì, semiassiderati dal freddo dell’indifferenza.
Una società da bere, da sniffare, da fumare, che persiste a debordare sulle irresponsabilità assunte a giustificazioni dai contendenti ubriachi di adrenalina a basso costo.
Eppure tutto questo non deve metterci knock down, o farci sentire indegni e sprofondare nell’abulia, occorre diventare protagonisti attivi a tal punto da assumere in prima persona questo ruolo, ciò per tentare di spostare l’asse di coordinamento sociale, basata per lo più su un’accettazione di illegalità diffusa.
Ora più che mai è necessario richiamare tutte le energie interiori rimaste per fare adultità, ma farlo significa non rimanere nei rifugi disposti a misura, ma affondare le braccia fino ai gomiti nel male e nell’ingiusto, nei sacrifici e nelle rinunce, senza paura di sporcarsele, e non accettarci più supinamente per quello che siamo diventati.



14 Febbraio San Valentino da http://www.pontifex.roma.it

Risalgono al V secolo i documenti più antichi a riguardo di San Valentino; si racconta che fu cittadino e Vescovo di Terni a partire dal 197, consacrato da San Feliciano. Già in vita era molto noto per la santità, la carità, lo zelante apostolato e le grazie che già in vita fece. Giunge a Roma, dove guarisce il figlio undicenne di un celebre oratore di nome Cratone che si converte al Cristianesimo insieme a tutta la famiglia. A Roma converte anche molte altre personalità, come il prefetto della città. L’imperatore Aureliano, avvisato della notorietà del Vescovo ternano, lo fece imprigionare e decapitare il 14 Febbraio del 273. Il suo corpo fu trasportato a Terni e deposto al LXIII miglio della via Flaminia. Nel medioevo la festa del Vescovo ternano sostituisce le ricorrenze pagane legate alla purificazione dei campi e ai riti di fecondità. Le usanze pagane, definite oscene, da Augusto vennero vietate definitivamente da Papa Gelasio nel 494. La Chiesa cristianizzò il rito della fecondità attribuendo al martire la capacità di proteggere i fidanzati e gli innamorati, promettendo un’unione matrimoniale allietata da figli. Secondo alcune leggende, San Valentino amava regalare delle rose agli innamorati, augurandone una unione felice.

Oggi il Santo è riconosciuto universalmente come il protettore degli innamorati, ma l’amore di cui Valentino amava parlare non era inteso solo come quello normale tra uomo e donna, ma come l’amore tra Dio e gli uomini. Nell’Amore di Dio risiede la solidarietà, la pace, l’unità della famiglia e dell’intera umanità.

A Terni esistono numerose associazioni intitolate a San Valentino, che curano eventi culturali e folcloristici nel mese di Febbraio, in cui i ternani ricordano il loro Santo patrono con feste tradizionali.

E’ nato negli ultimi anni un gruppo di cittadini, di nome “San Valentino Festival”, che si occupa di eventi valentiniani per tutto l’arco dell’anno. [Fonte Santiebeati.it]


Femminismo d'alto bordo - Di Renzo Puccetti - 12/02/2011 - Cultura e società, da http://www.libertaepersona.org

Provate ad andare su un qualsiasi motore di ricerca della rete, cliccate sulla funzione 'ricerca immagini' e digitate 'femministe sulla vostra tastiera.

Troverete una sfilza di foto ottenute in tempi e luoghi diversi, il simbolo più ricorrente sono le mani unite a mimare l'organo genitale femminile, ma non mancano i seni al vento.

Ricordo ancora una puntata del Maurizio Costanzo Show, il programma condotto dal campione della tolleranza ideologica, in cui una prostituta fu invitata ad illustrare la sua scelta. Mi ricordo il senso delle sue parole: perché rinunciare ad un mestiere che le consentiva di guadagnare in una sola serata il corrispettivo di un intero usurante mese di lavoro come operaia?

Perché sfiancarsi ad accudire marito e figli, quando invece il mestiere di prostituta la metteva in contatto con personaggi importanti e facoltosi?

Un unico filo comune lega quelle rivendicazioni femministe alla scelta della prostituta sotto i riflettori: l'autodeterminazione, quello stesso principio espresso nell'arcaico slogan "il corpo è mio e lo gestisco io".



L'apparato mediatico e ideologico relativista ha per decenni sostenuto in tutte le salse quel principio di autodeterminazione sciolto da ogni istanza veritativa pervicacemente negata in tutte le circostanze: non esiste né vero, né falso, ma solo opinioni, il bene di un'azione non consiste nel contenuto della scelta, ma nella libertà di effettuare la scelta.



 Per anni si sono adoperati per accreditare il sesso pre ed extramatrimoniale, il sesso adolescenziale, l'educazione alla sessualità liberata dal peso della fecondità, il sesso sulle copertine, il sesso nel cinema, il sesso in ogni spazio. Sesso nelle scuole coi distributori di preservativi, fuori dalle scuole con le prescrizioni a catena di pillole del giorno dopo, nemmeno la consacrazione religiosa doveva restarne immune; il celibato ecclesiastico è sempre stato giustamente percepito come una silenziosa, intollerabile testimonianza vivente del credere nel regno dei cieli.

 Il corpo delle donne dal '68 della rivoluzione sessuale è stato fino ad oggi esposto per sottrarlo al pudore, ritenuto segno di sottomissione all’oppressione della società dei maschi.

Oggi le donne scendono in piazza per protestare a difesa della loro dignità che dicono essere stata sfregiata. Verrebbe da dire 'finalmente!'; hanno capito che non può esserci vera libertà senza verità? Hanno compreso che uomo e donna hanno una dignità grande rispettata da certe azioni e violata da altre?

Avranno cominciato a comprendere che esiste un significato intrinseco proprio di un'azione, che esso non necessariamente corrisponde a quello attribuito dall'intenzione, che fare sesso non è lo stesso che fare l'amore, quello vero, quello che vuol dire voglio il tuo bene donandomi tutto a te e prendendo tutta te, ora e per sempre?


Con un po' di ottimismo se la manifestazione di oggi fosse sincera ci si potrebbe aspettare di vedere sventolare i librettini della lettera apostolica di Papa Giovanni Paolo II 'Mulieris dignitatem' e persino osare sperare di vedere i cortei trasformarsi in processioni.

E invece niente di tutto questo accadrà. Oggi si manifesterà avendo nel cuore lo stesso principio di autodeterminazione delle femministe di quarant'anni fa, le più giovani delle quali oggi sono nonne: del proprio corpo la donna può farci quel che vuole, tutto va bene, ogni cosa è lecita, basta che non lo conceda al cavaliere.


Il 1968: quando sinistra e femministe minarono la famiglia, di Francesco Agnoli - 13/02/2011 - Cultura e società, da http://www.libertaepersona.org

Quello che disturba, nella manifestazione delle femministe di oggi, non è la protesta contro le donne ridotte ad oggetto, dalla televisione, dalla stampa, dalla cultura domnante ( e magari anche dal premier Berlusconi), ma il fatto che i principali protagonisti della protesta provengono dalla cultura che di tutto ciò è la I responsabile.

Ricordarsi cosa fu, quanto a questo, il 1968, nato a sinistra, può essere utile a capire:

"Il 1968 incomincia con l’apertura dell’anno giudiziario a Roma. Il procuratore generale Reale nota l’aumento delle domande di separazione personale tra coniugi: 12800 nel 1967 contro le 11600 del 1966 (sino alle 29.285 separazioni, a cui vanno aggiunti 10.618 divorzi, del 1975 e alle 71.969 separazioni e 37.573 divorzi, del 2000; sino ai 47. 036 divorzi del 2005 e ai 61.153 divorzi del 2006!). Anche per i reati vi è stato un aumento, nell’ultimo anno, del 4 %. Sono cresciuti in particolare i delitti di atti osceni, furto aggravato, rapina, estorsione, sequestro di persona…

Nella stessa occasione il dott. Guarnera mette in risalto il legame strettissimo che esiste tra l’aumento dei delitti e il dilagare sempre più abbondante della pornografia e degli spettacoli immorali. Ricorda che nel 1967 si sono moltiplicati nella capitale i sequestri di materiale pornografico. Sono infatti numerosissime le riviste che vivono sull’immoralità come fonte di guadagno: Gong, Men, Playmen, King, Caballero, Supersex, Bang, Sexybell…

Alberto Cavallari, sul “Corriere della sera” del 9 dicembre 1967, scrive: “molte inchieste sociologiche dicono che in pochi anni l’Italia è diventata uno dei paesi di punta tra i produttori di ‘piccante’. Studiosi attenti riferiscono che ormai esportiamo verso la Francia. Osservatori scrupolosi ci avvertono che siamo antagonisti diretti di Tangeri e di Hong Kong”.

Negli stessi giorni il parlamentare socialista Loris Fortuna intraprende con forza la battaglia per l’introduzione del divorzio, e i giovani comunisti, quasi contemporaneamente, dichiarano la loro proposta di legalizzazione delle droghe leggere. ..

Intanto i leaders nostrani della contestazione - provenienti per lo più dalle scuole e dalle università, non dalle fabbriche; sfociati spesso nel giornalismo d’opinione, o nella politica di professione- alternano sit in davanti alle fabbriche alla lettura dei nuovi maestri, delle nuove bibbie: Kerouac, A.Ginsberg, A.Huxley, A.Hoffmann (lo scopritore dell’LSD), “La morte della famiglia” di Cooper, “La rivoluzione sessuale” di Marcuse, “La marijuana fa bene” di Blumir...

 “Quando andavamo in giro a parlare - scrive Mauro Rostagno, uno dei massimi leader del Movimento Studentesco - non rivendicavamo mai i nostri aspetti più belli, ma soltanto quelli tradizionali e scontati : il rapporto con la classe operaia...non le altre cose che poi si sono rivelate più importanti”.

Detto questo Rostagno descrive le sue mirabolanti imprese sessuali, in nome dell’ “amore libero”, l’uso di acidi e sostanze psichedeliche, la lettura e la conoscenza di testi che sarebbero diventati sacri per la new age, e che queste esperienze orgiastiche e psichedeliche esaltavano.

Racconta: “A questi discorsi sulla droga associai quelli sulla liberazione sessuale…Vai in giro a predicare ogni sorta di liberazione e poi, distrutto, torni a casa a picchiare tua moglie e i tuoi figli” (A. Ricci, “I giovani non sono piante”, Sugarco). E Ancora: “Vivevo con Renato Curcio e Paolo Palmieri in una casa abbandonata…per la prima volta nella vita mi trovavo bene, non c’era bisogno di chiedere per prendere una cosa, dividevamo tutto, chi si svegliava prima prendeva i vestiti che trovava, salvo le scarpe…Leggiamo Mao, Regis Debray, Che Guevara, la letteratura terzomondista…. Le ragazze non amavano me, ma il mio ruolo e la mia immagine…volevano scopare con il ruolo di capo e l’immagine della liberazione…Scoprii che ero pronto ad approfittarne. Di solito mi avvicinavo a un gruppo di donne, sceglievo e ne invitavo una a prendere un caffè, non dicevo ‘andiamo a scopare’. La cosa importante non era che ci scopassi, ma che pubblicamente le dicessi andiamo io e te a prendere un caffè. Così scatenavo le altre contro di lei…non ero un rivoluzionario, ero un bastardo” (Aldo Cazzullo, “I ragazzi che volevano fare la rivoluzione”, Mondadori).

Non era libertà, ma schiavitù dei sensi, sottomissione agli istinti e alle passioni bestiali. Sottomissione talmente bruta, che nelle loro rievocazioni le donne del Sessantotto raramente trascurano di rammentare con amarezza la loro condizione di allora. “Il movimento, racconta Chiara Saraceno, era la cosa più maschilista che ci fosse. Le donne erano degradate ad angeli del ciclostile, ancelle dei capi e poco altro” (Concetto Vecchio, “Vietato vietare”, Bur): il maschio imparava piano piano, coadiuvato da quel movimento contro la donna che fu il femminismo, ad andare a letto con chi capitava, in nome della libertà, a non rispettare più i tempi naturali della donna, grazie agli anticoncezionali, o all’aborto, cui molte ragazze di questi anni si troveranno a ricorrere in conseguenza anche della nuova promiscuità sessuale. Altre arriveranno a farsi sterilizzare, forse per divertirsi loro, o forse, mi sembra più verosimile, perché così avrebbero divertito maggiormente i capetti rivoluzionari, capricciosi ed irresponsabili.…

 In quest’ottica anche la famiglia diventa un’istituzione oppressiva, una “camera a gas”, una gabbia soffocante, una maledizione culturale, non naturale, da sconfiggere. Parlando dell’ “energica liberazione sessuale” portata dal movimento del ‘68, Rossana Rossanda afferma che fin da un convegno del ‘64 apparve chiaro, a lei e compagni, “che un movimento comunista deve battersi per la fine della famiglia” (“Cinque lezioni sul ‘68”, supplemento al n. 34 di Rossoscuola, Torino ’87). Lidia Ravera, giornalista dell’Unità e autrice di un best seller di quegli anni, “Porci con le ali”, scrive: “ricordo di aver preso la parola in un seminario contro la famiglia” (Sette, n.15, 1998). “Non siamo figli, scrivono i provos milanesi nel 1966, né padri di nessuno, siamo uomini che non vogliono credere in niente e a nessuno; senza dio, senza legge, senza famiglia, senza patria, senza religione, senza legge….” (M. Flores, “Il sessantotto”, Il mulino).

Le femministe ripetono invece concetti di questo tipo: “Verginità, fedeltà, castità, non sono virtù, ma vincoli per costruire e mantenere la famiglia…siamo contro la famiglia” (Carla Lanzi, “Rivolta femminile”, 1970).

Tratto da: "1968", Fede & Cultura, di Pucci Cipriani e Francesco Agnoli (http://fedecultura.com/1968.aspx)


IDEE/ Caro Barcellona, l'io non è minacciato dal Capitale ma dall'attentato al Padre di Salvatore Abbruzzese - lunedì 14 febbraio 2011 – il sussidiario.net

Ci sono molte affermazioni nell’articolo di Pietro Barcellona che sono ampiamente condivisibili, tanto più che coinvolgono l’essenziale del discorso e le stesse conclusioni. Tuttavia l’analisi che conduce dalle premesse alle conseguenze può essere diversa e forse più inquietante: vale la pena di precisarla.

È vero che per l’uomo contemporaneo, cioè per il soggetto immerso nella città occidentale, le categorie spazio-temporali sono saltate. Ed è ancora più vero quanto sottolinea Pietro Barcellona quando, in sintonia con i documenti episcopali, parla di un mutamento antropologico. Nella misura in cui l’unico tempo nel quale ci ritroviamo a vivere è una sorta di eterno presente e lo spazio ha perso ogni consistenza, per declinarsi - interamente o quasi - nella dimensione virtuale, finiamo inevitabilmente con il vivere in un contesto radicalmente diverso da quello che ha caratterizzato l’esistenza di quanti ci hanno preceduto. Si tratta, certamente, di un contesto a rischio, dove i rapporti umani sono esposti alla triste possibilità di scolorire e farsi evanescenti.

Ma il motore che alimenta il contesto contemporaneo risiede solo in parte nelle autostrade informatiche e nell’universo di internet. L’abolizione dello spazio e del tempo sono preesistenti all’invasione informatica e questa non ha fatto che renderli evidenti. L’uno e l’altro sono il prodotto di una lettura moderna della realtà dove il passato - tanto quello personale e famigliare quanto quello collettivo e sociale - hanno perso spessore e non hanno che un puro valore di archivio: al massimo sono una galleria di curiosità, buona per allestire spazi museali in nome del “come eravamo” o del come ci si rappresentava la realtà. Nella modernità il presente si autoproduce a colpi di innovazioni tecnologiche e collassi di modelli produttivi (è questo il primato del Capitale). E’ proprio per questo che il tempo perde ogni dimensione di “lunga durata” e finisce per avere un valore strategicamente decisivo solo in quanto coincide con il “timing” delle agende politiche e delle decisioni aziendali. L’individuo si affaccia alle porte della società dei consumi e si accalca dinanzi agli schermi dell’universo dell’apparire quando è già stato de-umanizzato da una lettura della realtà che ne ha messo ai margini la memoria personale, famigliare, nazionale riducendole tutte ad altrettante schede di archivio, ininfluenti nel presente se non come vincoli residuali, rigidità da superare.
La società dei consumi e lo stesso universo virtuale non avrebbero affatto il peso che hanno se non collaborassero e risultassero funzionali nell’alimentare il mito moderno di una soggettività liberata dal peso di contesti e tradizioni, per la quale ogni vincolo (fisico-materiale, ma anche socio-culturale o etico-morale) può tranquillamente essere eluso e sorpassato e con esso il passato che lo rappresenta.

Tanto l’universo del consumo quanto quello dell’immagine si rivelano letali quando si appoggiano ed alimentano consapevolmente questo mito di una soggettività completamente autoreferenziale, senza legami né vincoli, ricca delle mille opportunità costantemente percorribili e sempre rinnovabili. Il vero mercato è quello dei beni che traducono dei sogni, dove ogni merce si accompagna ad un ambiente che ricrea, una leggerezza dell’essere che propone, una soggettività che costruisce, magari anche solo per gioco e consapevole finzione, ma non per questo meno efficace nel restituire quel profumo delle mille opportunità costantemente aperte, tali da consentire di sfuggire ai mille vincoli che, benché ignorati, continuano ad esistere.

La scomparsa della vita interiore indicata da Pietro Barcellona, coincide allora non solo con la perdita del contesto spazio-temporale, ma anche e soprattutto con la progressiva elisione di una memoria personale capace di veicolare le domande fondamentali dell’io. Una tale memoria, che non si riduce alle foto dell’album di famiglia ma ha la pretesa di dire “ciò da cui si viene” e quindi “ciò che si è”, è pervicacemente e reiteratamente messa ai margini nell’antropologia dell’uomo contemporaneo. Il soggetto può riuscire a pensarsi come aperto a scelte eternamente reversibili - vero e proprio mito della società contemporanea - non solo quando il mercato gli propone nuovi modelli di quotidianità attraverso un nuovo range di consumi e l’universo dell’immaginario televisivo ne intona il canto, ma anche e soprattutto quando ritiene di poter mettere tra parentesi ciò che esso stesso è nel mondo, quando non ha più nessuna percezione di ciò che lo sostanzia nella sua concreta e carnale identità, cioè quando, precipitando nell’illusione autofondativa, ha perso di vista il proprio “destino”. Solo una volta liquidata la dura consistenza del proprio essere la sua vita interiore può apparirgli insostenibilmente leggera, fino a scomparire. Solo a condizione della scomparsa di questa coercitività, costituita dal dove si viene e da ciò che si è chiamati a realizzare (la propria vocazione), il soggetto può liquidare la propria vita interiore, facendola coincidere con un eterno sogno ad occhi aperti: quello delle mille possibilità sempre percorribili e sempre da “giocare”.
La “sonnolenza ottusa”, della quale parla a ragione Pietro Barcellona, non combacia solo con l’ignoranza delle tracce materiali presenti nel territorio, ma anche e soprattutto coincide con l’illusione di una individualità costantemente ricostruibile e ricomponibile, in una sorta di moratoria culturale ed etica, dove nulla è per sempre, ma tutto è relativo, o relativizzabile. Dove ogni memoria capace di dire da dove si viene, ogni identità capace di restituire lo spessore del proprio essere, sono interpretate più come vincoli da controllare e reprimere che come risorse, criteri guida da mantenere.

L’invito di Barcellona è quindi tutto da sottoscrivere: resistere e battersi per la ricerca di un nuovo spazio umano, “ridare senso al proprio bisogno di affetti e di comunità”. Ma un tale obiettivo implica proprio il recuperare tanto i primi quanto la seconda come il cuore del proprio essere, accettandone il legame che propongono, la dipendenza che implicano. Una simile operazione, per non avvenire su di un piano di pura remissione e di vera e propria “fuga dalla libertà”, implica un recupero di ciò che si è, cioè della memoria del proprio essere. Ma una tale memoria può realmente costituire un evento liberatorio solo se transita attraverso la prima e la più imprescindibile delle dipendenze: quella da un padre che in qualche modo ci ha custodito e ci ha fatti crescere. Non è a caso se le religioni monoteiste hanno alimentato e tenuto per mano intere civilizzazioni, coltivandone l’affetto per il Padre e ancora oggi continuano a farlo. E non è nemmeno a caso se le moderne società secolarizzate, cioè strutturalmente definite a partire da una consistenza identitaria laicamente autofondata, possono riuscire a mantenere la loro coesione interna e la loro forza morale solo riferendosi costantemente al loro principio fondatore, cioè alla memoria di ciò a cui si sono votate ad essere. Un individuo senza padre ed una società senza memoria sono il vero motore per ogni deriva possibile.
 © Riproduzione riservata.


Lotta all'Aids, il Papa aveva ragione di Andrea Tornielli, 14-02-2011, il sussidiario.it

Ve lo ricordate ciò che accadde nel marzo 2009, in seguito a una risposta del Papa sulla lotta all’Aids in Africa? Benedetto XVI stava iniziando il suo primo viaggio del continente nero, dove avrebbe visitato il Camerun e l’Angola. Sul volo da Roma a Yaundé disse che il problema della diffusione del virus non si poteva risolvere con la distribuzione di preservativi a pioggia, perché così facendo si sarebbe rischiato di peggiorare la situazione. Non era una questione di «tecnica» quanto piuttosto di educazione.

Papa Ratzinger venne sbertucciato, attaccato, criticato aspramente. Finì nel mirino di alcuni parlamenti occidentali, si mossero ministri degli Esteri, capi di Gabinetto, organizzazioni internazionali. Tutti concordi nel dire che il vescovo di Roma si sbagliava di grosso, e che la Chiesa con le sue posizioni retrograde era rimasta al Medio Evo. Ci fu qualcuno, è vero, che fece sommessamente notare come alcune ricerche scientifiche nel decennio precedente avevano dimostrato che una sensibile diminuzione del contagio si era potuto ottenere soltanto in quei Paesi dove erano stati applicati programmi basati sul cosiddetto «ABC» (Abstinence, Be feithful, Condom), centrati principalmente sull’educazione all’astinenza dai rapporti occasionali e alla fedeltà di coppia, oltre che sull’uso del preservativo per alcune categorie a rischio.

Ma queste voci finirono subbissate dallo strepito degli indignati. Tre giorni fa, lo studioso di sanità pubblica Daniel Halperin, docente alla Harvard University, ha pubblicato – e reso consultabile sul Web – una ricerca su quanto avvenuto in un decennio nello Zimbabwe, arrivando a documentare, come già avevano fatto in passato altri scienziati, che soltanto l’educazione è efficace nel prevenire il contagio.

È interessante notare che la notizia, rilanciata dal portale del Pime, missionline.org, è stata inizialmente diffusa dall’agenzia Irin, promossa dalle Nazioni Unite, i cui organismi sanitari e di sviluppo (come l’Oms e l’Unfpa) preferiscono abitualmente sostenere campagne di distribuzione di prerservativi piuttosto che campagne educative tradizionalmente portate avanti dai missionari. Nello Zimbabwe, nel decennio 1997-2007, si è verificata la diminuzione del 13 per cento dei contagi, passati dal 29% al 16% della popolazione adulta.

I ricercatori di Harvard hanno riscontrato che la consistente diminuzione non è dovuta a una curva naturale, ma «a cambiamenti di comportamento e anche i dati empirici derivanti dai comportamenti suggeriscono un cambio». Secondo Halperin il successo dello Zimbabwe accomuna il Paese all’Uganda, che fu la prima nazione a promuovere programmi educativi per la distruzione dei partner sessuali come via per sconfiggere l’Aids.

I dati della ricerca mostrano dunque che nella provincia di Manicaland, dove si è riscontrato l’abbattimento del 13 per cento dei contagi, tra il 1998 e il 2003, erano diminuiti del 40% gli uomini che avevano ammesso di avere partner sessuali multipli: lo stesso periodo in cui, segnala lo studioso, è diminuita l’incidenza del virus.


Avvenire.it, 12 febbraio 2011, IL CORTILE DEI GENTILI, Nichilisti ciechi davanti al male di Sergio Givone

I primi passi del Cortile dei gentili, lo «spazio di dialogo tra credenti e non credenti» promosso dal presidente del Pontificio consiglio della Cultura, cardinal Gianfranco Ravasi, si muovono oggi a Bologna, nell’aula magna dell’Università. Alle 10 col rettore Ivano Dionigi e Ravasi interverranno Vincenzo Balzani, Augusto Barbera, Massimo Cacciari e Sergio Givone; Anna Bonaiuto leggerà passi di Agostino, Pascal e Nietzsche. Qui anticipiamo la riflessione di Givone.

---

Dice ancora qualcosa la morte di Dio agli uomini di oggi? Secondo Nietzsche, poco o nulla. L’annuncio che «Dio è morto» è destinato a cadere nel vuoto. Magari tutti ripetono la fra­se a proposito di questo o di quello (secolarizzazione, scristianizzazio­ne, pensiero unico, e così via). Ma come se fosse un’ovvietà, una cosa scontata, di cui prendere atto per poi archiviarla senza farsi troppi problemi. Un po’ come dire: siamo moderni, emancipati, la fede in Dio appartiene al passato. Dovran­no passare secoli – è sempre Nietz­sche a sostenerlo – prima che gli uomini tornino a interrogarsi sul senso profondo e misterioso di questa morte.

Che la morte di Dio appaia come un evento che è or­mai alle nostre spalle e che ci lascia sostanzialmente indifferenti non è ateismo. È nichilismo. L’ateismo a suo modo tiene ferma l’idea di Dio. Non fosse che per distruggere e negare quest’idea, liquidando al tempo stesso ogni forma di trascendenza: sia la trascendenza della legge morale, sia la trascen­denza del senso ultimo della vita. Tutte cose che costringerebbero l’uomo in uno stato di sudditanza e gli impedirebbero di realizzare la sua piena umanità. L’ateismo in Dio vede il nemico dell’uomo. Per­ciò gli muove guerra. Per il nichilismo niente di tutto ciò. Quella di Dio è una bellissima idea. Talmen­te alta e nobile che, come afferma quel perfetto nichilista che è Ivan Karamazov, c’è da stupire che sia venuta in mente a un «animale sel­vaggio » come l’uomo. Però desti­nata a dissolversi come rugiada al sole sotto i raggi spietati della scienza. Rimasto senza Dio, l’uo­mo deve fare i conti con la realtà. Deve imparare a vivere sotto un cielo da cui non può più venirgli alcun soccorso né consolazione. Quindi, deve riappropriarsi della sua vita terrena e soltanto terrena. Con quanto di buono e prezioso la terra ha da offrire una volta che Dio è uscito di scena. Ma siccome non c’è nulla di buono e prezioso se non in forza dei nostri stessi li­miti, diciamo pure in forza del no­stro destino di morte (infatti come potremmo amarci gli uni gli altri se fossimo immortali?), sia lode al nulla! Questo dice il nichilismo. Ma anche più importante di quel che il nichilismo dice, è quel che il nichilismo non dice.

Per realizzare il suo progetto di riconciliazione con la mortalità e la finitezza, il ni­chilismo deve tacere su un punto decisivo: lo scandalo del male. Pre­cisamente lo scandalo che l’atei­smo aveva fatto valere contro Dio, in questo dimostrandosi consape­vole del fatto che il male sta e cade con Dio. È di fronte a Dio che il male appare scandaloso. Cancella­to del tutto Dio, persino come i­dea, il male continua a far male, ma rientra nell’ordine naturale delle cose. Ed ecco la parola d’ordi­ne del nichilismo: tranquilli, non è il caso di far tragedie. A differenza del nichilismo, l’ateismo pur ne­gando Dio ne reclama o ne evoca la presenza. E­semplare da questo punto di vista il ragio­namento (che a Voltaire sem­brò invincibile) svolto da Pier­re Bayle. Il ma­le c’è, indiscutibilmente. Come la mettiamo con Dio? O Dio non vuole il male ma non può impedir­lo, e allora è un dio impotente; o Dio può impedire il male ma non vuole, e allora è un dio malvagio; o Dio non può e non vuole, e allora è un dio meschino (oltre che impo­tente); o Dio può e vuole (ma di fatto non lo impedisce), e allora è un dio perverso. Dunque: non può essere Dio un dio impotente oppu­re malvagio oppure meschino op­pure perverso. Obietterà Leibniz: non è vero che Dio lasciando esse­re il male si condanna alla malva­gità e quindi alla non esistenza. Il bene, sul piano ontologico, è infi­nitamente più grande del male: anche se il bene è silenzioso, spes­so invisibile, e invece il male sconquassa il mondo. Il valo­re positivo del bene è infinita­mente più grande del valo­re negativo del male. Non solo, ma il bene è ogni volta una vittoria sul male, mentre non si può dire che il male sia una vittoria sul bene, perché il bene re­sta, anche se c’è il male, e al con­trario il male, pur non cancellato, è vinto dal bene. Perciò Dio, pur po­tendolo, non impedisce il male. Se lo facesse, col male toglierebbe an­che il bene. Quel bene che, rispetto al male, è un di più di essere, di vi­ta, di senso.

Lasciamo stare se gli argomenti di Bayle siano convin­centi e se la risposta di Leibniz possa soddisfare pienamente. Cer­to è che tanto l’ateismo di Bayle quanto il teismo di Leibniz concor­dano su un punto: è alla luce dell’i­dea di Dio che il male rivela la sua natura per così dire «innaturale», sconcertante, scandalosamente di­sumana. Tolto Dio, certo si conti­nua a soffrire, e cioè a patire le of­fese che la natura reca agli uomini e gli uomini a loro stessi, ma quan­to più debole sarebbe quel «no, non deve essere» che osiamo dire di fronte al male chiamando in causa Dio… Il nichilismo, a differenza dell’ateismo, non vuole ve­dere il male, non può vederlo. E questo per la semplice ragione che Dio non è più l’antagonista, il ne­mico: semplicemente non è più. Lo stesso si deve dire del male: non è più. Evaporato, dissolto, fattosi impensabile. «L’unico senso che do alla parola peccato – ha detto recentemente un filosofo che fa professione di nichilismo – è quel­lo che è contenuto nell’espressio­ne: che peccato!». Viva la chiarez­za. Il nichilismo è subentrato all’a­teismo. Potremmo dire che il nichilismo altro non è che una forma di ateismo in cui Dio non è più un problema, come non è più un pro­blema il male – Dio è morto, e que­sta sarebbe l’ultima parola, non solo su Dio, ma anche sul male. Questo nichilismo amichevole e pieno di buon senso, oltre che per­fettamente pacificato, continua a essere la cifra del nostro tempo.