1) Quando l'Onu dà i numeri E Repubblica li spara di Riccardo Cascioli, 06-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it/
2) Si aprono crepe nel «diritto di abortire» - A 30 anni dal referendum sulla 194, si sta rimettendo in discussione la cultura che vede nella interruzione di gravidanza una conquista delle donne - I Comuni di Correggio e Modena varano misure per contenere il dramma degli aborti per povertà di Viviana Daloiso, Avvenire, 5 maggio 2011
3) «Pass» contraccezione nei licei della Francia di Daniele Zappalà, Avvenire, 5 maggio 2011
4) «Il mio Wojtyla, teologo della vita» di Davide Zanelli *, Avvenire, 5 maggio 2011
5) Emanuele Samek Lodovici, una vita per la Verità di Gianluca Segre*, 05-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
6) «Su di me sono sovrano». Sicuro? - I bioeticisti della scuola dell’individualismo assoluto rivendicano in un recente libro curato da Demetrio Neri il principio di autonomia come base di ogni scelta. Ma c’è anche chi prende le distanze e lascia discrezionalità al medicoDi Maurizio Soldini – Avvenire, 5 maggio 2011
7) Maternità surrogate, chi pensa alle donne? - La moda lanciata da vip come Elton John, Nicole Kidman e Miguel Bosè consiste nell’usare pance in affitto, ma nessuno reagisce. Non è schiavismo: è peggio - di Costanza Miriano Avvenire, 5 maggio 2011
8) La vera emergenza - Senza un'educazione alla realtà, alla ragione e all'ideale, non distinguiamo più bene e male – Francesco Agnoli, Il Foglio, 5 maggio 2011
9) Quando la medicina nega le cure ai neonati - L'erosione dei diritti umani di CARLO BELLIENI (©L'Osservatore Romano 6 maggio 2011)
10) Il filosofo Hadjadj: «se si toglie Cristo, tutto il resto è noia» - 5 maggio, 2011 – da http://www.uccronline.it
11) Beppino Englaro, a Tione: sicuro di essere il testimonial del “padre ideale”? Di Caius - 05/05/2011 – da http://www.libertaepersona.org
12) Avvenire.it, 3 maggio 2011 - VIAGGIO TRA LE MOLECOLE/1 - Negli atomi il logos di Dio di Luigi Dell’Aglio
13) Sballo di massa e genitori sorpassati, May 5th, 2011, di Carlo Bellieni, da http://carlobellieni.com/
Quando l'Onu dà i numeri E Repubblica li spara di Riccardo Cascioli, 06-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it/
Ricomincia il circo dell’esplosione demografica. A dare l’occasione è la Revisione 2010 delle stime sulla popolazione mondiale, pubblicata dall’Onu, che sostiene che la popolazione mondiale raggiungerà i 9,3 miliardi nel 2050 e crescerà almeno fino al 2100 per raggiungere la cifra di 10,1 miliardi di abitanti.
In realtà l’Onu presenta semplicemente dei dati – su cui faremo qualche considerazione – ma non annuncia catastrofi prossime venture. Compito a cui si dedica invece Repubblica che – spargendo una bella dose di ansietà e angoscia – riferendosi all’Africa parla addirittura di “ritmi di proliferazione impressionanti, forse raccapriccianti”.
I dati dell’Onu e l’interpretazione di Repubblica meritano sicuramente un’analisi accurata, ma qui intanto merita chiarire subito alcuni punti.
Secondo Repubblica, l’Onu fa retromarcia, perché finora era prevista una stabilizzazione della popolazione intorno al 2050 prima di iniziare una discesa. In realtà non è così, e questo è anche il motivo per cui il nuovo rapporto Onu non parla di clamoroso capovolgimento di tendenza. In effetti della stabilizzazione entro il 2050 sono convinti molti demografi ed è l’Us Census Bureau che ha fatto la stima di un picco di 9 miliardi di persone nel 2042. L’Onu, invece, ha sempre previsto che la crescita della popolazione continuasse – seppur molto rallentata – anche dopo il 2050.
Cosa c’è di nuovo quindi in questa Revisione 2010?
Da una parte un leggero aumento nella stima della crescita (una differenza di 150 milioni di persone per il 2050), dall’altra il fatto che per la prima volta le proiezioni si spingono fino al 2100 mentre fino ad ora non osavano andare oltre il 2050. Inoltre l’Onu sottolinea l’uso, in questo caso, del metodo probabilistico per ottenere le nuove stime.
Che dev’essere uno strumento fenomenale, se si ottengono risultati strabilianti come quelli sottolineati – e ovviamente presi molto sul serio - da Repubblica. Ad esempio la Nigeria, la cui popolazione attuale presunta è di circa 150 milioni di persone. Ebbene, secondo le nuove stime dell’Onu nel 2100 arriverà a 730 milioni di persone, cioè aumenterà di 5 volte! Anche a occhio nudo, si nota che qualcosa non quadra. In effetti, andando a fare un confronto tra le stime appena pubblicate e quelle pubblicate invece nel 2008 si scoprono cose a dir poco inquietanti: con riferimento al 2050 (i dati più avanzati per cui è possibile un confronto) scopriamo che i dati 2010 prevedono 390 milioni di abitanti, mentre nel 2008 se ne prevedevano 290 milioni. Avete letto bene: in una previsione a 40 anni, fatta dallo stesso organismo, troviamo una differenza di 100 milioni di persone. E cosa sarà mai successo in Nigeria negli ultimi 2 anni per poter giustificare un’esplosione demografica di questo genere? Nulla ovviamente. Come nulla è successo per lo Yemen (dal punto di vista demografico, ovviamente), l’altro paese per cui il corrispondente dagli Usa Federico Rampini prova raccapriccio: per il 2050 si prevedono oggi 61,5 milioni di abitanti contro i 24,1 attuali, due anni fa non si andava oltre i 53,6. Otto milioni di differenza, il 35% della popolazione attuale. Spostamenti spettacolari di popolazione anche nei cali, come in Cina: secondo la Revisione 2010 nel 2100 la popolazione sarà scesa a 940 milioni dopo aver raggiunto il picco di 1.395 milioni nel 2025: vale a dire che in 75 anni perderebbe il 50% della popolazione! Ma la differenza si vede già per il 2050: 1.295 milioni per la revisione attuale, 1.417 si credeva solo fino a 2 anni fa: anche qui, ben 120 milioni di differenza tra una stima e l’altra. E pensare che secondo Rampini “questi non sono numeri in libertà”. E cosa sarebbero allora?
Se non altro questo dovrebbe insegnare qualcosa: quando si parla di stime, proiezioni, scenari i dati vanno presi con molta attenzione, e consapevoli del loro limite. Soprattutto quando si tratta di scienze sociali, molte variabili possono cambiare e smentire totalmente o in parte i dati “previsti”. Peraltro, quando si parla di popolazione futura, dobbiamo tenere conto che per fare una stima bisogna assumere alcune condizioni future, che sono esse stesse aleatorie: il tasso di sviluppo economico e sociale, la possibilità o meno di guerre ed epidemie, le catastrofi naturali, i tassi di fertilità e mortalità, e così via. Ad esempio, prevedere che fra 90 anni ci sarà una moltiplicazione della popolazione africana significa dare per scontato che questo Continente rimarrà sostanzialmente sottosviluppato. E’ una previsione, un auspicio o un programma?
Qualche dubbio in effetti viene leggendo Repubblica. La preoccupazione del giornalista è infatti concentrata sulla crescita dell’Africa, il cui peso demografico sul totale mondiale diventerà “insostenibile”. E indubbiamente dei dati “fantasiosi” come quelli stimati per il 2100 con strane moltiplicazioni per i paesi africani e drastici tagli nella popolazione asiatica, sembrano fatti apposta per dare argomenti a Repubblica e soci. Che l'unica cosa che vogliono è promuovere il controllo delle nascite.
Il terrore per l’aumento demografico si unisce poi a un’altra paura: quella della scarsità di risorse, messe in pericolo dal consumo di così tanta gente, che magari aspira anche a mangiare carne, guidare automobili e vestire adeguatamente. In realtà anche questo è un argomento inconsistente perché la storia ci dimostra che con l’aumentare della popolazione le risorse non solo sono aumentate in misura più che proporzionale ma si sono anche diversificate. Così che oggi, rispetto a cento anni fa, la popolazione è quadruplicata, ma tutti viviamo meglio, più a lungo e mangiamo di più (anche nei paesi più poveri). Il motivo è semplice: le risorse non sono definite dalla natura, ma dall’ingegno e dalla creatività dell’uomo che sa usare della natura per rispondere ai bisogni dell’umanità.
Ecco perché alla fine l’unica vera risorsa di cui temere la scarsità è l’uomo, che se è vero che consuma le risorse è anche vero che le produce in quantità ancora maggiore.
E a questo proposito lascia davvero perplessi che anche Avvenire, in una risposta del direttore a un lettore (5 maggio), voglia avallare questa litania sull’esaurimento delle risorse: è l’argomento forte di chi propugna un’ideologia della paura, che vede l’uomo come un nemico dell’ambiente, e per questo è disposto a sacrificarlo, magari promuovendo l’aborto e l’eutanasia.
Si aprono crepe nel «diritto di abortire» - A 30 anni dal referendum sulla 194, si sta rimettendo in discussione la cultura che vede nella interruzione di gravidanza una conquista delle donne - I Comuni di Correggio e Modena varano misure per contenere il dramma degli aborti per povertà di Viviana Daloiso, Avvenire, 5 maggio 2011
Accorgersi che un aborto in meno è un successo per tutti. Capire che la donna non è davvero "libera di scegliere" – come recitano ancora gli slogan tipici di certo femminismo intransigente – se la componente economica rappresenta un ostacolo alla gravidanza. E decidere, al di là di ogni polverone ideologico, che aiutare la maternità è un bene politico e sociale indiscutibile. Sempre e comunque. A trent’anni ormai dal referendum del 17 maggio 1981 sulla legge 194 (tuttora largamente disapplicata nella parte in cui detta «norme per la tutela sociale della maternità») è quantomai necessario interrogarsi laicamente – tutti – su quel che ha scavato nella mentalità e nella cultura diffusa il provvedimento che ha legalizzato l’aborto in Italia. Ma occorre farlo senza barricate né pregiudizi, guardando in faccia la realtà: che cos’è davvero l’aborto? E come va chiamato oggi: diritto, o sconfitta? Conquista, o scelta comunque drammatica alla quale spesso ci si sente costretti? I fatti cominciano a rivelare una realtà diversa da quella troppo a lungo raccontata in esclusiva dai fautori dell’aborto come "valore" per le donne.
Emilia Romagna nelle ultime settimane ha fatto due passi rivoluzionari. Uno nel piccolo comune di Correggio, l’altro nella più grande Modena, tanto importanti da lasciare senza parole persino le associazioni impegnate da anni a difesa della famiglia e della vita nascente. Cosa è successo? Le due giunte, entrambe di centrosinistra, hanno approvato la costituzione di un Fondo per aiutare la maternità difficile. Diecimila euro da una parte e trentamila dall’altra per dire che le donne con difficoltà economiche, se vogliono tenere il loro bambino, saranno aiutate, seguite, tutelate, come accade in Lombardia con il Fondo «Nasko».
Entrambi i provvedimenti emiliani sono stati presi grazie a iniziative trasversali – nel caso di Modena, a convincere la giunta sono stati un consigliere comunale dell’Udc, Davide Torrini, insieme a uno del Pd, Paolo Trande – e con la collaborazione concreta di diversi attori istituzionali (a Correggio il Distretto sanitario, il Servizio sociale integrato, il Movimento per la vita, la Caritas, la sezione femminile della Croce Rossa e l’Ausl reggiana).
«Si tratta di un progetto di comunità che coinvolge una rete – spiega il sindaco di Correggio, Marzio Iotti – e nella piena applicazione della direttiva regionale 1690/2008 e della 194. Che non viene messa in discussione. L’intento è fare in modo che le problematiche di natura economico-sociale non diventino motivo di ricorso a un’interruzione di gravidanza. Soltanto così la donna è davvero libera di scegliere: può farlo per l’aborto, ma anche per la vita».
In effetti la legge 194 troppo spesso è stata considerata (e difesa) solo per il "diritto" che garantirebbe – quello all’aborto: ma si tratta solo di una depenalizzazione – e non per il dovere che impone con chiarezza alle istituzioni, ovvero quello di fare di tutto perché le donne siano messe nella condizione di evitarlo.
«Pensare alla gravidanza e parallelamente all’aborto in chiave ideologica – spiega il consigliere regionale del Pd Giuseppe Pagani, che ha subito esternato il suo plauso per le due iniziative – è un errore che siamo tutti stanchi di veder compiere. La maternità invece è una valore politico e sociale: senza nuovi nati il nostro territorio si sta spopolando, investire nelle gravidanze e sulle famiglie in generale è investire nel futuro».
Un passo dirompente, soprattutto per certa sinistra... «Ho saputo di alcune critiche in seno al Pd e a Sinistra e Libertà, ma si tratta di posizioni superate – continua sicuro Pagani –. Solo se la società e le istituzioni sono capaci di togliere ogni ostacolo a una gravidanza la scelta dell’aborto è davvero libera».
Di anacronismi parla anche una femminista convinta, giornalista e scrittrice, come Paola Tavella: «La verità è finalmente emersa: e cioè che la sinistra non è mai stata contraria alla vita, e che la distinzione tra pro-life e prochoice è del tutto infondata, non ha senso.
Qui assistiamo invece alla vera contrapposizione odierna: quella tra "biofili" e "necrofili", tra chi crede nella vita e chi predica la morte, una contrapposizione che non accade solo nel campo della maternità».
Che fare? «Farsi sentire. Come per le due iniziative che arrivano dall’Emilia. Sostenere che la vita è il valore più universale fra tutti. Che ogni politica deve farlo suo. E scoraggiare, ammutolire i troppi necrofili. Continuano a parlare, e sono in ancora tanti».
«Pass» contraccezione nei licei della Francia di Daniele Zappalà, Avvenire, 5 maggio 2011
La fine della legislatura si avvicina, e in Francia cresce di nuovo la tentazione politica di usare l’accesso alla contraccezione e all’aborto in chiave elettorale. Cresce lo scetticismo presso associazioni ed esperti di diverso orientamento davanti a soluzioni elaborate dai partiti politici in ambiti complessi come l’educazione sessuale dei più giovani e l’aborto.
Dopo essersi a lungo opposto, il governo del presidente Sarkozy ha appena deciso di sostenere i cosiddetti «pass contraccezione», lanciati nel 2009 a livello regionale da Ségolène Royal, l’ex candidata socialista all’Eliseo. Si tratta di carnet gratuiti che i liceali possono impiegare per consultare autonomamente medici generalisti, ginecologi, ostetrici, centri di planning familiare, così come per sottoporsi a esami clinici o per ottenere contraccettivi.
Nell’Ile de France, la regione della capitale governata dai socialisti, l’iniziativa è stata appena lanciata con clamore tacitando i dubbi degli specialisti. I pass potrebbero essere adottati in tutto il Paese anche se il dibattito sui rischi familiari, psicologici e sociali è stato finora in gran parte evitato, come denuncia un numero crescente di voci non solo cattoliche. A molti i "messaggi pedagogici" che accompagnano i pass paiono insufficienti. Fra i rischi più evocati, l’isolamento dei giovani in particolare rispetto alla famiglia. Educatori e psicologi temono che col «pass» il dialogo fra genitori e figli possa spezzarsi, soprattutto nei contesti familiari più fragili.
Nei grandi media a rompere il silenzio sui «pass» è stato un intervento sul Figaro di Jean-Eude Tesson, presidente del Cler, fra i principali organismi nazionali sulle questioni familiari. Per l’esperto oggi l’autentica priorità è un’altra: «Andare al di là degli approcci puramente "igienisti"», accettando la sfida «di informare i giovani ma anche di accompagnarli partecipando alla loro educazione affettiva, di aiutarli a riflettere sul senso della loro vita e ad acquisire il senso di responsabilità, del rispetto di sé e degli altri».
«Il mio Wojtyla, teologo della vita» di Davide Zanelli *, Avvenire, 5 maggio 2011
Paolo VI, quando nel luglio 1968, «dopo mature riflessioni e assidue preghiere», firma l’enciclica Humanae vitae, deve affrontare una drammatica solitudine ma incontra anche il sostegno di due figure speciali, tra loro in qualche modo legate: Padre Pio e Karol Wojtyla.
Appena eletto Papa, Wojtyla approfondisce la dottrina dell’Humanae vitae inquadrandola alla luce della teologia del corpo e vi dedica centotrenta udienze del mercoledì (interrotte solo dall’attentato) che diverranno le catechesi sull’amore umano. Nel 2000 assiste alla costituzione dell’Istituto scientifico internazionale che, intitolato a Paolo VI, si dedica alla ricerca sulla fertilità e infertilità umana per una procreazione responsabile.
Compiacendosi di questa risposta all’appello di Humanae vitae, sottolinea il bisogno di coniugare il rigore della ricerca con un’etica dello stupore che sappia preparare formatori e maestri di vita, nel binomio di «cultura e santità». L’istituto dà così un nuovo impulso a quel Centro studi che già nel 1980, all’interno del Policlinico Gemelli, aveva avviato i lavori sotto la guida pionieristica della ginecologa Anna Cappella. Una delle sue tante allieve è l’ostetrica aretina Flora Gualdani, fondatrice nel 1964 dell’opera «Casa Betlemme».
«Come tutti coloro che sono impegnati nella promozione della regolazione naturale della fertilità – afferma –, anch’io mi sono sentita sostenuta in modo straordinario dagli insegnamenti di Giovanni Paolo II, soprattutto di fronte a certe critiche che si incontrano su questo scottante fronte bioetico».
Il Papa, racconta Flora, ad ogni congresso internazionale faceva arrivare il suo messaggio che era un incoraggiamento dal punto di vista teologico: «Grazie a lui si è irrobustita anche qui la sintesi tra fede e ragione, cioè quell’armonia con cui aiutiamo tante persone a diventare "veramente libere e liberamente vere"». In più occasioni, al fianco di Anna Cappella, le è capitato di essere ricevuta da Giovanni Paolo II: «Una volta, superando l’elenco degli appuntamenti che aveva in agenda, volle riceverci nelle sue stanze fuori protocollo, prima di andare a cena».
Questa ostetrica fa parte di una capillare rete di insegnanti qualificate nel mondo: nell’enciclica Evangelium vitae Wojtyla volle dedicare parole di riconoscenza verso queste persone e la loro preziosa opera educativa «spesso misconosciuta». Le parole del Pontefice, nel ricordo di Flora, erano un incitamento ad andare avanti nonostante i pregiudizi, la disinformazione e «l’imperialismo contraccettivo». E aggiunge: «Personalmente lo considero il grande padre della mia fede». Il beato Giovanni Paolo II, spiega Flora, si ostinava a credere nell’educabilità dell’uomo redento da Cristo ed era convinto che con il tempo la storia avrebbe dato ragione all’Humanae vitae. «Dopo i risultati in India e Africa – conclude l’ex ostetrica aretina –, abbiamo già assistito ad interessanti aperture sia dalla Cina che dagli ambienti femministi. E anche nella mia diocesi sono molti più di quanto si pensi i giovani che vengono ad imparare da questa enciclica "scandalosa". In un’epoca in cui si parla di amore liquido si sta rivelando come un contributo per la costruzione di famiglie solide».
*associazione Casa Betlemme di Arezzo
Emanuele Samek Lodovici, una vita per la Verità di Gianluca Segre*, 05-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Un insegnante ha effetto sull’eternità: non si può mai dire dove termina la sua influenza.
(Henry Adams).
Conobbi Emanuele Samek alla fine del liceo, invitato dal mio docente di religione ad un incontro presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, a Torino.
Fu l’inizio di una frequentazione che sarebbe stata interrotta tre anni dopo dalla sua improvvisa morte. Ma l’amicizia no, quella non si interrompe. “Più forte della morte è l’amore..”; beh, vale anche per le grandi amicizie, in virtù della comunione dei santi.
Ero già deciso a studiare filosofia, grazie al mio docente, il prof. Fornero, che sarebbe poi divenuto autore di uno dei manuali più diffusi nei licei italiani.
L’incontro con Emanuele, che mantenne poi la consuetudine di tenere incontri dedicati a giovani studenti, anche presso case di amici torinesi, fu determinante per aprirmi orizzonti insospettati. Ero su posizioni genericamente esistenzialistiche e neo-illuministiche, che avrei poi lasciato.
Mi invitò a partecipare, nell’estate dopo la maturità, ad un convegno universitario a Urio, sul lago di Como. Accettai, e rimasi colpito dal clima di allegria e di amicizia creatosi tra i partecipanti, così come dalla loro capacità di ascoltare, nei momenti “accademici” le relazioni di docenti come Vittorio Mathieu e come appunto Emanuele Samek.
Ci parlò di memoria e di libertà. Quella conferenza, indimenticabile, fu per me l’inizio di un crescente interesse per Bergson, S. Agostino, Plotino e per T.S. Eliot nei Quattro quartetti : “A che serve la memoria? A liberarci”.
Ecco una delle sue grandi doti: con una citazione sapeva aprirti una finestra e un intero mondo. Scoprii i fulminanti aforismi di Karl Kraus.
Ma Emanuele era capace di prenderti per il braccio e di invitarti ad andare con lui nella piccola cappella (oratorio, come più precisamente viene chiamato) della residenza di Urio; e lì di insegnarti a pregare, a tu per tu con Dio. Difficile non uscirne cambiati, e così fu. Ero andato al convegno “sulla fiducia” e per amicizia, ma senza alcuna intenzione di partecipare a momenti di formazione cristiana; ritornai trasformato in profondità. Emanuele fu così strumento della grazia, la quale sa trovare le sue strade, a volte con insospettabile rapidità.
Era uomo di totale disponibilità e di simpatici e generosi slanci: un pomeriggio non ebbe esitazione a spogliarsi e a lanciarsi in acqua per soccorrere al largo alcuni ragazzi in seria difficoltà per via del forte vento. Alla fine dovette ovviamente essere anche lui soccorso.
Poi, l’anno accademico e le lezioni universitarie. L’aula con lui si riempiva.
Emanuele Samek era il contrario del politically correct: non temeva di sparare ad alzo zero sul pensiero radicale, su certe forme di femminismo, sul marxismo che, allora (a fine anni ’70) sembrava ancora vincente, e su un certo milieu clericale per il quale Hans Kung era il massimo…
Queste lezioni sarebbero poi confluite nel testo Metamorfosi della gnosi, che rimane fondamentale per chiunque voglia comprendere il cuore dell’attacco portato alla concezione cristiana dell’uomo e del mondo. Un attacco definito “micro strutturale” perché colpisce coloro che portano e trasmettono i princìpi e i valori, imponendo un nuovo modo di essere uomo, donna, figlio. Oggi questo è divenuto esplicitamente l’ideologia del gender. Di tutto ciò si veda nel profilo biografico-intellettuale scritto dall’amico Giacomo Samek.
Pochi cenni, dunque, per ricordarlo con cuore grato e commosso.
Gli devo moltissimo, nell'orientamento intellettuale, umano e cristiano. Mi è di incoraggiamento nel ritrovare il quotidiano slancio di fronte agli studenti.
*docente di Storia e Filosofia a Torino
«Su di me sono sovrano». Sicuro? - I bioeticisti della scuola dell’individualismo assoluto rivendicano in un recente libro curato da Demetrio Neri il principio di autonomia come base di ogni scelta. Ma c’è anche chi prende le distanze e lascia discrezionalità al medicoDi Maurizio Soldini – Avvenire, 5 maggio 2011
Nel volume a cura di Demetrio Neri pubblicato alla fine del 2010 per la casa editrice Le Lettere, «Autodeterminazione e testamento biologico» sono raccolti nove interventi e tre testimonianze presentati in un convegno tenutosi a Roma un anno fa dal titolo «Perché l’autodeterminazione valga tutta la vita e anche dopo», che fa da sottotitolo al testo collettaneo. Il sottotitolo del libro è programmatico e come dice Neri nel suo intervento introduttivo il testo dovrebbe aiutare a riflettere sul testamento biologico oltre a fare da introduzione storico-teorica sulla problematica tra le più controverse in bioetica, ma soprattutto dovrebbe servire a criticare la legge allora (come ora) in discussione al Parlamento sulle Direttive anticipate di trattamento.
Secondo Neri, la filosofia stessa che ispira la legge dovrebbe tenere maggiormente in considerazione «il diritto di autodeterminarsi nei confronti dei trattamenti sanitari… fondato sulla libertà personale». Anche Eugenio Lecaldano argomenta sulle Dat cercando di trovare un fondamento offerto dalla sovranità sul proprio corpo come costitutiva della responsabilità morale ispirata a John Stuart Mill, il quale afferma l’indipendenza assoluta dell’individuo: «Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano».
Come Neri e Lecaldano, esponenti della «bioetica laica», ma che meglio mi piace identificare come esponenti della scuola di pensiero dell’«individualismo metodologico», ispirata al caposcuola Uberto Scarpelli, un altro autorevole esponente, Maurizio Mori, osserva che «il consenso informato è l’analogo del diritto di voto: come col voto il cittadino afferma la sovranità sulla vita politica, così col consenso informato il paziente la afferma sulla vita biologica.
Se vale l’analogia proposta, allora il testamento biologico come allargamento del consenso informato è un’importante conquista di sovranità».
Nella posizione dei bioeticisti sopra menzionati c’è, a mio modo di vedere, al di là di una prospettiva morale, che inchioda i problemi su una dimensione legalistica, in un gioco di diritti-doveri che valgono solo prima facie, una deriva che tende a semplificare e a matematizzare secondo principi (e secondo il principio di sovranità o meglio di autonomia) una dimensione come quella della bioetica, che non è né semplificabile né riducibile a qualche principio, ma che necessita di una fondazione antropologica che si faccia carico della delicatezza dei problemi. A questo scopo ci pare molto più adeguata la riflessione di Stefano Semplici, che in qualche modo mette in discussione l’assolutezza dell’autodeterminazione. Semplici evidenzia da subito come «il problema non sia l’autonomia, ma il suo limite».
Se è vero, come è vero, come sostiene Semplici, che «il diritto a rifiutare un trattamento, garantito dall’articolo 32 della nostra Costituzione, non può ovviamente essere messo in discussione», tenendo ben fermo che esiste un «dovere di garanzia» in capo al medico, come ha stabilito il Comitato nazionale per la bioetica, essendoci «la necessità che la formale acquisizione del consenso non si risolva in uno sbrigativo adempimento burocratico, ma sia preceduta da un’adeguata fase di comunicazione e interazione fra il soggetto in grado di fornire le informazioni necessarie (il medico) e il soggetto chiamato a compiere la scelta (il paziente)», si viene a porre il vero e proprio problema che è al centro delle Dat, ovvero «il rispetto dell’autonomia del paziente» quando «il consenso a un trattamento o il suo rifiuto non è e non può essere attuale, ma è differito o, come spesso si preferisce dire, espresso "ora per allora"». In questo spazio problematico per il filosofo romano c’è la possibilità di un ragionevole accordo. Ma ci sono dei limiti entro i quali la legge può chiedere a un medico se rispettare la volontà del paziente invece di stare nella propria integrità professionale, qualora la volontà non sia attuale ma affidata alle Dat. Semplici afferma in modo lapidario: «La distanza fra il momento della decisione e quello della situazione concretamente vissuta introduce un elemento di oggettiva difficoltà sul piano della "consapevolezza" e dunque della "effettività" della volontà, che non possono che risultare attenuate quando ci si esprime su una possibilità semplicemente immaginata».
In qualunque modo l’interessato mai potrà esprimersi sulla effettività dei fatti. Ecco perché Semplici, che ci pare inquadrarsi in una dimensione prudenziale propria dell’etica delle virtù, conclude dicendo che «mancando il requisito dell’attualità della volontà e dunque la possibilità di realizzare tutte le condizioni richieste per la piena efficacia del consenso o del rifiuto informato, è ragionevole immaginare che possa essere lasciato al medico … un margine di discrezionalità nella valutazione di tale limite». La coscienza del malato viene prima, ma non è e non può essere sola, soprattutto quando non può esprimersi qui ed ora. Per questo la decisione «spetterà in ultima analisi …alle persone qualificate per parlare a nome suo o ai medici». Chiamare in causa il medico alla fine della vita e ristabilire il valore dell’alleanza terapeutica a dispetto dell’assolutizzazione del principio di autodeterminazione voluto dall’individualismo metodologico mi pare la strada maestra per arrivare alla legge sulle Dat.
Maternità surrogate, chi pensa alle donne? - La moda lanciata da vip come Elton John, Nicole Kidman e Miguel Bosè consiste nell’usare pance in affitto, ma nessuno reagisce. Non è schiavismo: è peggio - di Costanza Miriano Avvenire, 5 maggio 2011
Le sto ancora aspettando. Adesso arriveranno, mi dico. Sicuramente le faranno. Senza dubbio le femministe organizzeranno delle manifestazioni di piazza contro l’uso del corpo delle donne. I giornali leveranno gli scudi, gli editorialisti faranno sentire le loro voci indignate e piene di compassione, contro questa cattiveria che si fa alle donne. No, non a quelle fotografate in pose discinte per vendere qualcosa, che non è niente in confronto. E neanche a quelle che si vendono al piacere degli uomini.
Mi riferisco all’uso più spietato e crudele che si possa fare del corpo di una donna: usarne una, massicciamente bombardata di ormoni, per produrre ovuli da abbandonare a qualcuno in giro per il mondo; poi un’altra per crescere un essere umano grande quanto uno spillo fino a che diventi in grado di farcela da solo; poi, infine, metterla da parte, impedendole perfino di toccarlo, quel bambino strappato alle sue viscere.
Di donne che scendono in piazza per questo motivo, però, non se ne vedono. Di giornali sbigottiti non se ne leggono. E la cosa è talmente crudele e impensabile che diventa ineffabile.
Non si trovano le parole per dirlo. Madre surrogata. Utero in affitto. Parole tirate per i capelli, per dire una realtà che non è umana.
È vero, si tratta di una donna che è stata consenziente, diranno i sostenitori di queste magnifiche sorti e progressive del genere umano, sempre più emancipato dai suoi limiti di creatura. È stata consenziente almeno al momento della firma del contratto, diranno. Ma, mi chiedo: quale necessità aveva (girano cifre a parecchi zeri)? E soprattutto, si rendeva conto a cosa sarebbe andata incontro?
Lui non si tratta di schiavismo, è molto peggio. È servirsi del bisogno economico di qualcuno non per svolgere un lavoro, perché portare un bambino non è come portare uno zaino sulle spalle, ma per vendere una parte di sé, e la più preziosa. La capacità di trasmettere la vita.
Sapeva, quella donna che ha firmato il contratto che la sua carne si sarebbe fusa con quella carne? Sapeva che il suo sangue avrebbe alimentato un uomo? Sapeva che la sua voce e il suo battito lo avrebbero cullato per nove mesi? Sapeva che il suo corpo poi abbandonato, devastato, non si sarebbe mai più ripreso? Si ricordava che l’utero non è un sacchetto ma è parte integrante di una persona vera, unita alla mente, al cuore, allo spirito? Sono sicura, voglio credere, che non sapeva che poi quel «prodotto del concepimento» (sic!) non lo avrebbe potuto stringere, annusare, attaccare al seno. Che glielo avrebbero preso prima che potesse calmare il primo impaurito vagito.
All’improvviso, separati. Divisi per sempre. Questo prevedono di solito i contratti.
Se questo non porti a impazzire, mi domando cosa. E mi stupisco che non sia già successo più volte davvero, magari senza che la notizia finisca in pagina. Già, perché i giornali sono tutti impegnati a celebrare i padri o le madri che hanno coronato i loro sogni pur essendo omosessuali come Ricky Martin, Miguel Bosé ed Elton John, o troppo avanti con gli anni come Nicole Kidman o Sarah Jessica Parker, o per chissà quali motivi, come Robert De Niro o Dennis Quaid.
Nessuno qui condanna il desiderio di maternità o paternità, ci mancherebbe. Ma i figli non sono un diritto, sono un dono. E se la scienza ci può aiutare è chiaro che deve avere dei limiti. I figli devono avere un solo padre e una sola madre, e dover dimostrare la cosa è talmente ridicolo che davvero sembra siano arrivati i tempi – direbbe Chesterton – in cui «tutto diventerà un credo... fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro, spade sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate»...
Un ultimo pensiero – intanto che aspettiamo che le femministe organizzino le manifestazioni per la difesa della donna – va al bambino.
Chissà cosa lascerà nella sua mente, nel suo sangue, negli angoli più reconditi di sé un rapporto così intenso e totale interrotto per sempre. E mentre da un lato i reparti maternità più evoluti si attrezzano per non spezzare la sacra diade mamma-bambino sin dai primi giorni (quando, credetemi, una mamma stremata dal parto la interromperebbe anche, almeno per qualche oretta, la sacra diade), sullo stesso pianeta si permette qualcosa di così paurosamente non umano.
La vera emergenza - Senza un'educazione alla realtà, alla ragione e all'ideale, non distinguiamo più bene e male – Francesco Agnoli, Il Foglio, 5 maggio 2011
Si parla da tempo di "emergenza educativa". Penso che lo abbia fatto per primo, con questa espressione, Don Luigi Giussani, che è stato, appunto, un grande e acuto educatore.
Cosa significa codesta emergenza? Nella mia esperienza mi sembra di poter dire questo: che il dato più evidente per chi abbia oggi a che fare con i giovani, ma non solo, è che molti non sono educati.
Manca infatti, spesso, una famiglia alle spalle. Sempre più manca un padre che faccia al padre: che sappia appioppare una sberla, quando serve; che indichi paletti chiari, pochi ma ben precisi, coniugando regole e libertà.
Intendo padre in senso lato. Qualche mese fa un professore viene in una mia classe per spiegare la donazione del sangue e incomincia: "Per donare il sangue non bisogna fare uso abituale di droghe…". E subito dopo: "Non che io stia giudicando un modello di vita, ognuno fa ciò che vuole". Questo è il messaggio della società, dei media, persino di non pochi che dovrebbero insegnare, con una funzione, diciamo così, paterna: "Fai ciò che vuoi". Cioè: non crescere, rimani lì, dove il tuo ombelico, dove il tuo istinto, dove il tuo capriccio, dove la circostanza, di porta. Inchiodato lì.
Cosa nasce da questo modo di intendere il rapporto tra generazioni, tra genitori e figli, tra società e giovani? Una società sbrindellata, un uomo che cresce solo, e che non viene mai contenuto, aiutato, guidato, per cui finisce per essere instabile, incapace di equilibrio, di autocontrollo, di tenacia. Senza forma.
La fragilità estrema è la prima caratteristica di chi non è stato educato. Perché l'educazione permette di stare, con una propria forma, nella realtà: di non subirla soltanto, né di ribellarsi ad essa, come un toro che vede sempre rosso, ma di viverla. Anzi, è la realtà stessa, se rispettata, che ci educa. Un figlio viene educato quando riconosce intorno a sé ruoli distinti chiari; un figlio cresce quando impara che vi è un tempo per obbedire e che ogni luogo e ogni circostanza ha le sue regole, non assurde, arbitrarie, farisaiche, ma profondamente corrispondenti, appunto, ad una realtà.
Educare alla realtà significa anche educare alla ragione. È necessaria una corrispondenza tra un ordine oggettivo e la nostra esistenza soggettiva. Chi si droga, per capirci, non "fa ciò che vuole", ma va contro la realtà e contro la ragione.
Chi approva che un'anziana cantante possa avere un figlio senza marito, grazie la tecnica, violenta la realtà e la ragione, perché pretende di affermare la propria volontà su tutto e tutti. La ragione ci aiuta a non cadere nelle grinfie di Circe o di Armida.
Una vera educazione, dunque, deve essere, anzitutto, educazione alla realtà, alla ragione e all'ideale.
La letteratura antica e medievale insegna proprio questo, che c'è un dover essere. Ulisse è chiamato a superare le circostanze contingenti, le difficoltà sul suo cammino, per tornare in patria, la moglie, sudditi e figlio. Ulisse è proposto come reale, esattamente come Ettore nell'”Iliade"; come Enea nell'”Eneide", come Rinaldo e Goffredo nella "Gerusalemme liberata"… Il giovane deve crescere sapendo che può e deve tendere verso l'alto, che ogni talento che gli è stato dato, va messo a frutto e moltiplicato. C'è un compito, nella vita.
L'esistenza dell'ideale contempla anche la consapevolezza di una distinzione tra bene e male. Quando questa non vi è più, non si dà educazione, perché non si dà né crescita non è vera scelta. Il bambino deve sapere che vi sono azioni pensieri giusti e ingiusti, e con gradualità deve essere educato a capire e ad amarne il perché. Oggi invece si tende spesso ad una educazione di tipo roussoiano: come se non esistesse una nostra intrinseca miseria. La quale, se ignorata, diventa più radicata che mai.
I comandamenti? Roba vecchia
Persino nelle parrocchie, ai ragazzi che fanno catechismo, non si insegnano più, da decenni, i comandamenti: roba vecchia, si dice, sono meglio gli "insegnamenti in positivo". In verità è l'uomo di oggi che non tollera più un’autorità con cui confrontarsi e da cui essere aiutato a crescere. Anche Dio è diventato polista: non più giusto, non è misericordioso, né "geloso", ma solo indifferente. Un Dio che non ci turba mai, che non ci chiede, che non esige nulla. Un dio inutile. Così facendo si dimentica che è la pedagogia stessa di Dio a indicare, come primo passo verso la crescita, la chiara condanna di ciò che è male: initium sapientiae timor Dei. I dieci comandamenti, per lo più in negativo, sono il preludio necessario al comandamento dell'amore. Non sa amare chi non è stato educato a dire di no al proprio egoismo, alla propria superbia, alla propria propensione anche al male. Averlo dimenticato ha prodotto generazioni di cattolici che si fanno la morale da soli e che alla fine modificano la stessa fede alla luce della loro morale. La caratteristica dell'uomo non educato è proprio questa: il rifiuto a riconoscere un bene e un male che lo trascendono. Si chiama relativismo. Ma laddove il limite del comandamento, persino il concetto, è respinto, rimane l'immensa superbia dell'uomo, che crede di essere libero, ma è in verità vittima della propria miseria e della propria continua e irragionevole pretesa sulla realtà.
PILLOLE Amare - NEL 2010 SONO STATI SOLO 21 I FARMACI APPROVATI DALL'AGENZIA AMERICANA FDA, COME CONFERMATO DAL COMMISSARIO DELL'ENTE Margaret Hamburg – di Francesca Cerati da http://www.ilsole24ore.com
Ridimensionamento, acquisizioni, diversificazione. Il fattore che costringe Big Pharma a ripensare al suo modello di business è l'enorme numero di brevetti che scadrà nei prossimi cinque anni. E che ha garantito gran parte dei profitti degli ultimi decenni. Tra oggi e il 2015, secondo Ims Health, prodotti che oggi fatturano oltre 142 miliardi di dollari dovranno affrontare la concorrenza dei generici, fondamentali per la sostenibilità della spesa farmaceutica.
Il 53% degli italiani nel 2009 si è affidato a questi farmaci e nel 2010 il 15,3% delle prescrizioni mediche di fascia A, rimborsate dal Ssn, ha riguardato farmaci equivalenti, con un risparmio per lo Stato pari a 625 milioni di euro. In più, l'Aifa (Agenzia per il farmaco), in una recente delibera ha abbassato il valore dei rimborsi per i generici dal 10 al 40% per far risparmiare 600 milioni all'anno al Ssn. Il provvedimento, però, non è ancora coinciso con la riduzione del prezzo da parte delle aziende produttrici e il rischio è che l'adeguamento ricada sui bilanci delle famiglie. I ticket sui farmaci infatti sono più cari, come si legge nel rapporto di Federfarma sul 2010: la quota a carico dei pazienti è passata dal 6,6% nel 2009 al 7,6% nel 2010.
Con anche la "stretta" dei governi sui bilanci della sanità, non c'è da meravigliarsi che le farmaceutiche stiano tagliando i costi e spostando il focus. La strategia finora adottata è stata quella di acquisire promettenti farmaci da sviluppatori esterni e d'investire su prodotti che non richiedono prescrizione. Poi è iniziato lo spostamento verso altri mercati, Asia in testa. Tutto questo porterà a una riprogettazione della società farmaceutica?
Dentifrici, collutori e bevande energetiche non sono proprio quella che si dice «l'avanguardia della scienza della vita», ma fatturano di più. Insomma, il consumer healthcare paga. E bene. Anche se, per esempio, Glaxo sta lavorando su terapie innovative per il cancro, resta il fatto che il suo prodotto di punta nei mercati emergenti come l'India è un latte in polvere al malto che ha raggranellato 214 milioni di dollari nel 2009, raggiungendo il 48% del mercato delle bevande calde. Ma diversificare non signica solo vendere una gamma più ampia di prodotti. I giganti del farmaco si stanno espandendo nei mercati emergenti, che possono acquistare medicine che non potevano permettersi qualche anno fa.
Nel complesso, nei prossimi cinque anni, la crescita delle vendite nei mercati emergenti sarà tre volte superiore a quella dei mercati sviluppati. Già oggi il 20% del totale delle esportazioni farmaceutiche indiane riguarda gli Usa: dai 128 miliardi di rupie nel 2003 si è passati ai 384 miliardi di euro nel 2009. Le Big Pharma sanno anche che devono fare di più che vendere dentifrici ed espandersi in Asia: hanno bisogno di nuovi farmaci, e velocemente. Già, ma le loro pipeline non hanno ancora sufficienti molecole in grado di sostituire i blockbuster in scadenza.
Come si è arrivati a questo punto? I drastici tagli di budget in R&s è uno dei più profondi cambiamenti del settore degli ultimi decenni. Che ha ridotto, a partire dal 1997 a oggi, il numero di nuove sostanze sul mercato del 44%, secondo Cmr international. E, come in una reazione alchemica inversa, l'oro si è trasformato in piombo: i soldi risparmiati sono serviti per produrre integratori e non medicine. Come se le grandi scoperte del secolo scorso avessero frenato il mercato di questo inizio secolo.
Poi c'è stata la esternalizzazione della ricerca. Una buona notizia per le organizzazioni di ricerca a contratto, che assumono molti dei rifugiati di Big Pharma. Non a caso, alcuni dei migliori farmaci oggi in commercio sono stati concepiti in laboratori esterni, come il Crestor di AstraZeneca e Abilify della Bristol-Myers Squibb. Ma il tasso di outsourcing fino a dove può arrivare? Di certo le farmaceutiche dovranno conservare un sufficiente know how interno per continuare a valutare correttamente il valore delle molecole sfornate dalle piccole società esterne. Senza contare che gli alti profitti vanno anche giustificati... Internamente al settore dicono che è tutta una questione di equilibrio: la "torta" sarà composta da farmaci tradizionali, una quota di vaccini, prodotti di consumo, mercati emergenti e farmaci biotech, nuovo terreno di caccia. Detto questo, in che misura cambierà l'industria farmaceutica prima di perdere la sua anima scientifica e la sua strada?
Una legge malata per curare i malati di Tommaso Scandroglio , 06-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
L’attivista statunitense Wendell Phillips, vissuto nell’Ottocento, una volta ebbe a dire: “Il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza”. Ora pare proprio che occorra vigilare assai sulla proposta di legge denominata “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”, in approvazione in questi giorni alla Camera.
Infatti il testo, seppur non ancora definitivo, presenta alcune fessurazioni giuridiche molto pericolose e inquietanti. Infatti un elemento da tenere in considerazione quando si analizza un testo normativo è la sua efficacia. Cioè ogni volta che si giudica la validità di una legge bisogna farsi anche questa domanda: gli effetti delle disposizioni di tale legge rimarranno scritti sulla carta oppure produrranno identiche conseguenze giuridiche anche nella prassi? Detto in altri termini: questa legge è scritta così bene che anche il giudice più ideologizzato non potrà che applicarla in modo fedele ai principi che ispirarono gli estensori della stessa, oppure è piena di ambiguità e di oscurità che consentiranno di manipolarla a proprio uso e godimento? Se dunque il criterio di efficacia non viene soddisfatto si corre il rischio di scrivere ottime norme, ma vergate sull’acqua. La legge cosiddetta sul fine vita, come anticipato, sotto questo versante non ci lascia completamente tranquilli e per alcuni aspetti pare essere una legge fragile che paradossalmente nutre l’ambizione di tutelare i più fragili. Vediamo qui di seguito allora alcune criticità presenti nel testo attuale.
Mancanza di definizione di “eutanasia”. L’art. 1 esprime il “divieto di qualunque forma di eutanasia”. E’ sicuramente buona cosa questo divieto, ma sarebbe stato indispensabile illustrare meglio cosa si debba intendere per eutanasia, cioè indicare in quali circostanze tale situazione viene ad esistenza. Il caso di Piergiorgio Welby che chiese il distacco del respiratore e così morì configura la cessazione di trattamenti sanitari sproporzionati rispetto al quadro clinico, e quindi la rinuncia dell’accanimento terapeutico, o fu una pratica eutanasica? Il malato terminale di cancro con metastasi diffuse e agonizzante in un letto di ospedale che negli ultimi giorni di vita rifiutasse una radioterapia total body dice sì all’eutanasia o dice no all’accanimento terapeutico?
Si comprende bene come queste situazioni se dovessero approdare in aula di tribunale potrebbero essere interpretate secondo criteri personalissimi dal giudice di turno, producendo così una giurisprudenza sul tema alquanto arlecchinesca. La mancanza di una definizione di “eutanasia” poi potrebbe portare a vari contenziosi giudiziari che sfocerebbero ad una verifica di costituzionalità della legge. Ad esempio un magistrato potrebbe così argomentare: la legge prevede il divieto di ogni forma di eutanasia. Quindi anche di quella omissiva. La condotta del paziente che rifiuta le cure con l’appoggio dei medici configura eutanasia omissiva. Ma il rifiuto delle cure è permesso ex art. 32 Costituzione. Ma allora la legge è incostituzionale, ergo ricorriamo alla Corte Costituzionale per dichiarare illegittimo l’art. 1 di questa legge. Come uscire da questo pasticcio? Cercando una perfetta definizione di eutanasia? No, non serve tentare di trovare una definizione a prova di bomba ideologica, perché questa non esiste. Bastano i già vigenti art. 575, 579 e 580 del Codice Penale che vietano rispettivamente l’omicidio, l’omicidio del consenziente e l’istigazione e l’aiuto al suicidio. Questi articoli vengono detti “a condotta libera”, cioè si esige perché si configuri reato, oltre all’elemento del dolo, solo un nesso causale tra la condotta ad esempio del medico e la morte di un soggetto, evitando di specificare tutte le azioni possibili che potrebbero configurare eutanasia, e quindi scavalcando tutte l’eventuali incertezze interpretative presenti in una definizione della stessa. In tal modo in questi articoli è potenzialmente ricompresa qualsiasi condotta adiuvante nel dare la morte, sia le condotte attive (es. iniezione letale), sia quelle omissive (es. privazione di acqua e cibo). E così il combinato tra l’art. 580, l’art. 579 e 575 già attualmente non presenta lacune normative e già attualmente vieta l’eutanasia pur non fornendone definizione alcuna.
Chi decide se c’è accanimento terapeutico? L’estensore delle Dichiarazioni anticipate di trattamento non il medico. Infatti l’art. 3 comma 3 così recita: “Nella dichiarazione anticipata di trattamento può essere esplicitata la rinuncia da parte del soggetto ad ogni o ad alcune forme particolari di trattamenti sanitari in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale”. Quindi sarà il dichiarante a decidere cosa dovrà intendersi per accanimento terapeutico. In tal modo in questa espressione potrà confluire in ipotesi qualsiasi trattamento anche il più innocuo, oppure anche quello salvavita, però entrambi sgraditi al dichiarante. Sarà sufficiente che l’estensore delle DAT lo specifichi nel documento stesso. Pare evidente che questo comma è foriero di pericolosissime conseguenze. Infatti non si può decidere a priori nelle DAT – nemmeno con l’aiuto di un medico – quali terapie in futuro saranno proporzionate al quadro clinico del paziente e quali invece inutili: è solo la situazione presente che può determinarlo.
E poi il paziente non possiede le indispensabili competenze tecniche per comprendere se una cura è efficace oppure no, insomma se il gioco vale la candela. Infatti la qualificazione di una terapia come sproporzionata ai fini preposti è una determinazione che vede come referente principale il medico, seppur attraverso un doveroso colloquio di quest’ultimo con il paziente o con i familiari se questi è incapace di intendere e volere, medico che illustra i pro e i contra di un certa cura nel frangente attuale in riferimento ad un particolare quadro clinico, grazie anche all’ausilio della letteratura scientifica.
DAT non vincolanti ma legittimanti. Secondo l’art. 7 comma 1 il medico non è vincolato ad eseguire quanto scritto nelle DAT. Però le volontà dell’estensore pur non avendo carattere obbligatorio per l’operato del medico possono avere valore legittimante, come sottolineato anche dal magistrato Giacomo Rocchi in alcuni suoi scritti. Oggi in costanza di un trattamento sanitario salvavita se il medico acconsente all’interruzione dello stesso è complice della eventuale morte del paziente (omicidio del consenziente). Domani con questa legge il consenso contenuto nelle DAT, che in ipotesi permetterebbe l’interruzione di queste terapie, potrebbe valere come scriminante in procedimento giuridico a carico del medico e quindi quest’ultimo potrebbe essere assolto. Una sorta di garanzia giuridica professionale derivante dai desiderata del paziente scritte nere su bianco in un atto avente non più valore meramente privatistico – come è oggi – bensì valore pienamente giuridico.
Curare o non curare? L’art. 2 comma 8 così recita: “Per tutti i soggetti minori, interdetti, inabilitati o altrimenti incapaci il personale sanitario è comunque tenuto, in assenza di una dichiarazione anticipata di trattamento, a operare avendo sempre come scopo esclusivo la salvaguardia della salute del paziente”. Vediamo se oltre sulla carta anche nella realtà questa disposizione apparentemente valida non mostri il fianco ad attacchi giurisprudenziali. Facciamo il caso di un minore affetto da una patologia molto grave che sta morendo e che è in preda a forti dolori. Dare o non dare oppiacei al ragazzo sapendo che tale somministrazione lo porterà a morire anzitempo? Dal punto di vista morale tale somministrazione può essere lecita: io medico non cerco la morte del minore, che è inevitabile, ma voglio diminuire le sue sofferenze tollerando l’effetto non ricercato della sua morte a seguito della somministrazione di antidolorifici.
Dal punto di vista giuridico invece l’articolo prima menzionato potrebbe complicare le cose. Infatti il medico al fine ottemperare a questo articolo potrebbe essere indotto a non dare oppiacei al ragazzo perché questa somministrazione sarebbe in grado di accorciargli la vita e quindi, in punta di diritto, ledere il bene “salute” tutelato dall’articolo 2 comma 8. Se invece decidesse per la somministrazione degli oppiacei e quindi per un’anticipazione della morte del paziente forse potrebbe essere trascinato in giudizio anche se i genitori si fossero schierati dalla parte del medico. In questo caso un giudice coscienzioso interpreterà l’articolo nel modo seguente: di fronte ad una morte inevitabile il medico ha preferito non far soffrire ulteriormente il piccolo paziente. Un magistrato più "malizioso” e capzioso troverà forse un pertugio per dire: "Tu medico non dovevi dargli quella cura perchè hai accorciato la vita del paziente e quindi ha leso la sua salute ex art. 2 al di là del fatto che ha sofferto meno".
Insomma, pare banale ricordarlo, dai buoni non ci dobbiamo guardare, ma dai cattivi sì. E la vicenda Englaro insegna che i cattivi ci sono anche nelle aule di giustizia e a volte non siedono sui banchi degli imputati.
Quando la medicina nega le cure ai neonati - L'erosione dei diritti umani di CARLO BELLIENI (©L'Osservatore Romano 6 maggio 2011)
È possibile che vengano erosi dalla scienza e dalla medicina i diritti umani nell'epoca che a parole moltiplica le garanzie civili? Difficile da credere, ma è proprio quello che sta avvenendo. E non ci riferiamo solo alla perdita di valore della vita fetale, ma all'erosione sistematica dei diritti di chi è già nato.
Basta leggere la stampa scientifica per vedere come i diritti alle cure di bambini già nati siano volutamente ridotti rispetto a quelli di cui godono gli adulti.
Iniziò la canadese Annie Janvier, con una serie di studi, a mostrare come a parità di prognosi la percentuale di medici pronti a fornire cure salvavita a un neonato malato sia molto inferiore a quella che rianimerebbe un adulto con prognosi simile. E uno studio pubblicato nel 2000 sul "Journal of the American Medical Association" evidenziava che molti medici europei e statunitensi, al momento di rianimare un bambino, prendono in considerazione il peso che questi può diventare per i genitori. Tanto che Michael Gross concludeva un'altra ricerca su quattro Paesi occidentali spiegando che "esiste un assenso generale al neonaticidio, a seconda del parere del genitore sull'interesse del neonato definito in modo da considerare sia il danno fisico" sia il danno a terzi ("Bioethics", 2002).
E come se questo non bastasse, sull'ultimo numero di "Pediatrics" si spiega che i medici in Canada e negli Stati Uniti tengono conto dell'età della madre o del tipo di famiglia al momento di rianimare il neonato, dando la preferenza a chi è stato concepito in vitro, o a chi ha la madre avvocato. Ma quanto sia grave la situazione è dimostrato dall'ultimo numero dell'"American Journal of Bioethics", in cui Dominic Wilkinson, neonatologo e filosofo, spiega che "è giustificabile in alcune circostanze per genitori e medici decidere di lasciar morire un bambino anche se la sua vita meriterebbe di essere vissuta".
L'assunto di Wilkinson è che oggi, per decidere se rianimare un neonato si fa un conto del suo benessere futuro e del peso che una eventuale disabilità gli porterebbe; e se la bilancia si inclina in questo senso, s'interrompono le cure, dato che la vita in quel caso "non merita di essere vissuta": visione tragica e mercantilistica della vita stessa, la quale assume un valore che può essere ritenuto inaccettabile. Wilkinson va oltre e spiega che anche se la bilancia si inclina moderatamente verso il futuro benessere - cioè anche se "la vita merita di essere vissuta" - il genitore o il medico possono scegliere di sospendere le cure.
Si tratta di una vera e propria erosione dei diritti: non una trascuratezza, ma una reale e scientifica selezione di soggetti ai quali toglierli a favore di altri, tanto che Annie Janvier ha intitolato due suoi studi Il criterio di fare il miglior interesse del paziente non viene applicato ai neonati ("Pediatrics", 2004) e I neonati sono diversi dagli altri pazienti? ("Theoretical Medicine and Bioethics", 2007).
Ma questa tendenza non si limita ai neonati: nel 1996 il maggior studioso mondiale di nanismo pubblicava su "Archives de Pédiatrie" un terribile articolo (J'accuse! Il nanismo ha ancora diritto di cittadinanza?), in cui parlava della discriminazione che pesa su chi è di bassa statura. E cosa dire quando si legge che le persone con disabilità mentale o addirittura con un danno fisico altamente invalidante perdono il diritto a essere chiamati "persone"?
La citata ricerca del "Journal of the American Medical Association" mostrava come un'alta percentuale di medici pensi che in caso di disabilità (fisica o mentale) la morte sia preferibile alla vita. Non bisogna allora stupirsi se in alcuni Paesi ai malati di demenza senile che non riescono più ad alimentarsi da soli si riducano le cure ("Annals of Internal Medicine", agosto 2002) o si eviti di fornire l'idratazione, e se le persone con disabilità mentali sono diventate "invisibili" per il sistema sanitario ("Lancet", 2008).
Ma, nel caso dei neonati, questo lasciare l'ultima parola ai genitori - spesso in preda all'angoscia e certamente non in possesso di cognizioni scientifiche - e legare la rianimazione alla disabilità futura, dà proprio l'idea di un'estensione a dopo la nascita delle leggi sull'aborto, con la differenza che qui non si provoca direttamente la morte, ma semplicemente si sospendono le cure, con analogo risultato. In un'epoca che a parole scrive i diritti dell'infanzia, ma nei fatti è pronta ad archiviarli quando questa infanzia non risponde a un modello ideale o alle attese.
In molti Paesi, significativamente in quelli a maggior benessere, esistono protocolli per non rianimare bambini nati con possibilità di sopravvivenza - in alcuni casi decisamente alta ("Pediatrics" gennaio 2006) - per la possibilità residua di morire o di avere un handicap. E stupisce l'accettazione di questi protocolli da parte degli operatori: forse per un malinteso senso di solidarietà verso i parenti, o per un'avversione verso la disabilità che sconfina nell'eugenetica. Non risulta che nei Paesi dove questi protocolli sono in auge ci siano ospedali che si dissociano o operatori che facciano obiezione. Preoccupa seriamente che la rianimazione selettiva sia diventata una routine accettata come normale pratica clinica. Insomma, una banale consuetudine.
Il filosofo Hadjadj: «se si toglie Cristo, tutto il resto è noia» - 5 maggio, 2011 – da http://www.uccronline.it
Proponiamo un altro brillante intervento del filosofo francese Fabrice Hadjadj, scrittore e docente all’Università di Tolone ex ateo e convertitosi al cattolicesimo nel 1998 (cfr Ultimissima 3/3/11). Nel 2009 il matematico Laurent Lafforgue (medaglia Fields 2002) ha detto di lui: «Fabrice Hadjadj scrive e insegna molto, ma non ho mai letto o sentito una frase da lui che mi abbia dato la sensazione di essere stato scritta o parlata nel vuoto. Le sue pagine spesso mi stupiscono, mi prendono in contropiede e nonostante questo, nel leggerli, ne riconosco l’esattezza e la verità. Nessuno scrittore contemporaneo di lingua francese mi interessa più di lui» (cfr. Que peut une politique de la langue?).
PERDERE LA FEDE E’ PERDERE LA CULTURA. Il filosofo ha commentato in un’intervista per Avvenire le parole che Benedetto XVI ha pronunciato durante l’ultimo Cortile dei gentili svoltosi in Francia e a cui ha partecipato lui stesso (cfr. Ultimissima 2/4/11). Nell’intervista si è soffermato particolarmente sulla situazione dell’uomo europeo rispetto alla fede cristiana: «Abbiamo l’abitudine di smembrare. Se noi europei non vogliamo più conoscere la fede in Gesù Cristo, questo è perché siamo annoiati dalla nostra propria storia e cultura. La perdita della fede cristiana non è la semplice perdita di un culto, ma anche di una cultura. Non solo lo smarrimento dell’Eterno, ma pure la dimenticanza della storia. Questo significa che abbiamo svuotato della loro profondità le nostre ricchezze artistiche: Giotto, Rubens, il gregoriano, Mozart. E abbiamo svilito le nostre idee etiche: la dignità della persona, il rispetto della libertà o la bontà della carne».
IL TENTATIVO LAICISTA. La cultura laica ha tentato (e sta ancora tentando) di costruire un mondo emancipato da Cristo, attingendo però inevitabilmente dalla radice cristiana della sua morale: «La modernità ha trasformato alcuni aspetti della fede cristiana in «valori» e ha messo questi «valori», separati da Cristo, come in un vaso, proprio come dei fiori recisi. Grazie a questo isolamento, tali fiori possono sembrare, per un attimo, più belli, poi iniziano a morire. Così, il materialismo storico e il progressismo hanno suscitato, all’inizio, un certo entusiasmo. Ma ben presto sono collassati nell’esperienza totalitaria e in un senso ristretto, tipicamente postmoderno, della finitezza dell’uomo. Nel suo umanismo più rivoluzionario l’Europa ha diffuso una speranza mondana, sostituto della speranza cristiana. Ora che tale speranza è morta, il nostro Continente non conosce altro che la disperazione, che cerca di fuggire gettandosi a peso morto nel divertimento dello spettacolo e nei sogni della tecnologia».
LA FEDE NON E’ UN’AFFARE PRIVATO. L’uomo precipita così nell’incredulità, nel dubbio e nello scetticismo quando vive la fede come «un campo separato dell’esistenza, qualcosa che avrebbe a che fare con la «spiritualità», la «trascendenza », la «mistica». Ora, la fede non è un qualcosa «a fianco » della vita quotidiana, un’attività della domenica, un’interiorità vaga di cui ci si prende cura ogni tanto in cappella. Essa è ciò che ci mette in contatto con la sorgente di tutto ciò che esiste. In fondo, è in gioco l’unità dell’uomo. La fatica e la noia d’oggi provengono dalla separazione di queste realtà inseparabili».
Beppino Englaro, a Tione: sicuro di essere il testimonial del “padre ideale”? Di Caius - 05/05/2011 – da http://www.libertaepersona.org
-Eluana è morta dopo 17 ani di stato vegetativo; ma suo padre Beppino, secondo le sue stesse dichiarazioni, ha chiesto subito che fosse lasciata morire. Non lo ha chiesto dopo 17 anni, neppure dopo due anni. Subito.
-“Il dottor Carlo Alberto Defanti, nella certificazione sanitaria che precede la ragazza alla casa di cura, aveva scritto come anamnesi che la paziente ‘non ha avuto in passato patologie rilevanti’ e nella diagnosi aveva parlato di ‘stato vegetativo permanente post-traumatico’, giudicandola in ‘buone condizioni di salute’. Aveva certificato che il suo ciclo sonno-veglia è ‘normale’, che ha ‘comportamento tranquillo’ e che ‘non ha piaghe da decubito’. Quali sarebbero le ‘gravi condizioni’ che hanno legittimato ‘una sorta di procedura d’urgenza’?”. (da Lucia Bellaspiga, Pino Ciociola, “Eluana. I fatti”, Ancora editrice).
-Eluana, ci è stato detto da alcuni, era già morta: non capiva, non sentiva, dunque non soffriva… Eppure, quando la hanno privata forzatamente del cibo e dell’acqua, perché il cuore batteva, il respiro c’era, hanno dovuto chiamare accanto a lei un anestesista, per darle grosse dosi di “sedativi per calmare crampi e contratture” (Corriere della Sera, 9/2/2009). Hanno dovuto iniettarle “farmaci sedativi per evitare spasmi o reazioni muscolari”, una “terapia sedativa e antidolorifica anche pesante” (Corriere della Sera, 4/2/20009). Perché? Forse perché, senza cibo e senza acqua, stava questa volta sì, soffrendo?
-Nell'ultimo giorno della vita di Eluana, scrive il Corriere della Sera, “si incomincia a compilare il registro della sofferenza. Dopo 24 ore le prime complicazioni: sabato pomeriggio Eluana respira a fatica, le mucose sono asciutte. Gli infermieri nebulizzano acqua. Domenica la situazione si complica: gli infermieri la girano ogni due ore, le nubulizzano acqua sulle mucose. Una cronista che la vede, Marinella Chirico, racconta che 'è irriconoscibile, le sue orecchie hanno delle escoriazioni'. Eluana è già sedata. Il farmaco è il Delorazepam, iniettato sottocute. Lunedì le sue condizioni precipitano. Il registro della sofferenza parte all'una di notte...la sedazione prosegue. Nel pomeriggio la febbre sale. Eluana è debole, respira malissimo, è sempre sedata. Le urine sono scomparse. Alle 19.35 il cuore si ferma” (Corriere della Sera, 11/2/2009). Accanto il padre non c'è, da una settimana ormai: “Alle 20.10 (del 9 febbraio ndr) Eluana muore. Suo padre l'ha vista l'ultima volta martedì” (Corriere della Sera, 10/2/2009).
Avvenire.it, 3 maggio 2011 - VIAGGIO TRA LE MOLECOLE/1 - Negli atomi il logos di Dio di Luigi Dell’Aglio
«La prima volta che mi successe ero molto giovane. Avevo fatto una reazione di sintesi che doveva portare ad un certo prodotto, ma ciò che avevo ottenuto era diverso da quanto mi aspettavo. Dopo molto studio riuscii a capire quale composto avevo ottenuto: era una struttura nuova, un anello fatto da atomi di carbonio, azoto e ossigeno, allora non ancora noto. Provai un’emozione fortissima: in momenti come questo si sente in concreto di aver dato un contribuito – anche se limitato – al progredire delle conoscenze scientifiche. Ogni chimico organico che si occupa di ricerca ha sintetizzato nuove molecole che possono trovare applicazioni utili oppure no, ma che senza di lui non sarebbero mai esistite». Il professor Leonardo Marchetti insegna Chimica organica all’Università di Bologna e presiede il consorzio interuniversitario "La chimica dell’ambiente". E non è un caso che questo sia anche il titolo che l’Onu ha dato al 2011 quando lo ha proclamato "Anno internazionale della chimica".
Professore, quali sono le caratteristiche di questa scienza che, con l’occasione, vanno spiegate ai giovani?
«Prima di tutto, la sua magnifica razionalità. La chimica ha leggi precise e inviolabili, che permettono di conoscere come è costituita la materia: le possibilità che ne scaturiscono sono straordinarie. Affascinante, per me, è poi la chimica degli organismi viventi: studiandola si ha la dimostrazione che non può essere frutto di una casualità cieca. È evidente che vi è dietro un preciso e sapiente disegno ordinatore. Ai giovani va illustrata questa profonda razionalità della chimica e delle sue leggi, la cui conoscenza permette di indirizzare le reazioni chimiche verso i nostri obiettivi. E questo gli studenti lo capiscono bene. All’università arrivano anche giovani con un’ottima preparazione, sensibili agli aspetti ambientali della scienza. Certamente il livello della didattica chimica nelle scuole medie superiori è molto più elevato che nel passato».
Per i rischi che comporta, la chimica non è troppo amata. La maggior parte delle persone, quando si trova a passare in prossimità degli alambicchi argentei di un’industria chimica, si preoccupa. È ancora giustificata la "paura della chimica"?
«No. Oggi la chimica non rappresenta più un rischio, non è un mostro in agguato, ma un valido sostegno per la nostra vita quotidiana, una scienza che può assicurare il benessere. La chimica sta dando molte prove di poter essere "amica dell’uomo". Esistono normative su sostanze e processi chimici, che offrono un’assoluta garanzia di sicurezza. Si tratta di farle rispettare: solo quando vengono violate la chimica può diventare una minaccia. Mi riferisco in particolare a quanto accade nei Paesi che, per attuare aggressive politiche commerciali, si rifiutano di adottare norme come quelle in vigore nell’Unione Europea e in altri Paesi industrializzati».
È possibile prevedere ed eliminare sul nascere le emissioni tossiche e inquinanti?
«Sì: oggi da un punto di vista teorico, e ancora di più sulla base di prove sperimentali, si può prevedere la possibilità di emissioni dannose. Da alcuni anni esistono su questi punto normative a livello internazionale. Nella Ue, ad esempio, è in vigore una direttiva sull’uso dei prodotti chimici che fornisce gli strumenti legislativi, tecnologici e culturali perché non si verifichino i gravi incidenti che hanno accompagnato la chimica nella sua storia e che spesso erano frutto di una conoscenza inadeguata della materia».
Quali efficaci innovazioni sono state già introdotte?
«L’Ocse ha definito diverse aree di interesse in cui la "chimica verde" è impegnata: ad esempio le materie prime alternative, rinnovabili e meno tossiche; i reagenti innocui, intrinsecamente meno pericolosi; i processi naturali e le trasformazioni chimiche basate sulla biosintesi o sulla biocatalisi; i solventi che abbassano i rischi ambientali; le tecnologie per un ridotto consumo energetico; minore impiego di additivi e imballaggi, per arrivare all’obiettivo "rifiuti zero"».
Quanto sono scese le emissioni chimiche?
«Molto. La diminuzione può essere percepita agevolmente confrontando l’ambiente di oggi, nelle città e nei luoghi di lavoro, con quello del passato. Si osservi come si vive nelle metropoli che applicano le procedure della "chimica verde" e in quelle che l’hanno ignorata. Basta pensare a Londra e al Tamigi, ma gli esempi positivi sono molti».
La crisi economica mondiale può scoraggiare gli investimenti nella chimica "pulita"?
«La "chimica verde" sta vivendo una fase di considerevole espansione. Ormai un progetto chimico, a livello nazionale o internazionale, viene finanziato soltanto se risponde ai principi-base della salvaguardia dell’ambiente: tutti gli enti di controllo tendono sempre più a rendere "puliti" i processi e le sintesi chimiche. Applicare i canoni della "chimica verde" ha certamente un costo, e soprattutto richiede un rilevante impegno tecnologico, sociale e culturale, ma oggi è indispensabile marciare in questa direzione. L’Europa, all’avanguardia nel mondo, sta facendo scuola. Chi pensa solo alla produzione senza curarsi dell’ambiente produce forse a costi inferiori, ma provoca un dissesto ambientale con conseguenze drammatiche che poi ricadono su tutti, anche su chi ha creduto di "risparmiare"».
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Sballo di massa e genitori sorpassati, May 5th, 2011, di Carlo Bellieni, da http://carlobellieni.com/
Recenti studi spiegano il rapporto tra uso di cannabis e inizio di gravi malattie mentali. In certi casi la cannabis può provocare questo effetto ritardando la maturazione del cervello (vedi la rivista Schizophrenia Research dell’Aprile 2011). Per non parlare dei rischi dovuti alla perdita di controllo, di riflessi, anche per giorni dopo l’assunzione della droga. Ci si domanda allora perché in tanti spettacoli televisivi si guardi con indulgenza all’uso di stupefacenti, perché si accetti che i soliti VIP ne parlino ammiccando o supponendo addirittura che sia “normale” farne uso, magari specificando che è un vezzo dell’adolescenza che “poi passa”.
Ci si dovrebbe rendere conto che la droga è un modo di fuggire dalla realtà, e la fuga per la fuga è già in sé un cattivo messaggio da dare a chi è fragile come un adolescente. A questo sommiamo poi le conseguenze sulla salute e c’è quanto basta per inasprire l’allarme. Certo, questo vale anche per l’alcol, altro “vezzo giovanile”, che oggi trova grande diffusione, nella forma del ‘binge drinking’ tra i giovani, cioè il buttar giù drink su drink per “sballare”.
In Francia l’accesso precoce all’alcol o alla droga è associato con la tendenza al suicidio, secondo l’International Journal of Public Health dell’aprile 2011. Sono 4 milioni gli italiani che praticano il binge drinking, cioè bere 6 o più drink in un’unica occasione, almeno una volta l’anno. Del fenomeno si occupa l’Osservatorio alcol dell’Istituto Superiore di Sanità. “Nei giovani di 15-24 anni - spiega - il binge drinking raggiunge 1,450 milioni di persone, e riguarda 450mila ragazzi fino a 15 anni” (Ansa, 28 aprile).
Cosa spinge i ragazzi a cercare lo sballo in massa? E cosa fa sì che la politica se ne occupi solo marginalmente? Stiamo allevando una generazione di figli senza ideali, ci avvertono i sociologi, e non dipende dalla mancanza dei posti di lavoro, ma dallo sguardo privo di speranza dei loro genitori. Si chiamano “echo boomers” questi giovani, che vivono solo di riflesso dei desideri dei loro genitori; con una specie di obbligo di compiere i desideri frustrati di chi li ha messi al mondo. E siccome sono morti gli ideali (o sopravvivono solo in pochi), l’unico desiderio cosciente dei giovani è quello di far soldi, che è quello dei loro genitori, che facevano i rivoluzionari capelloni “cheguevaristi” e poi sono andati tutti a finire nella più omologata borghesia: questa è la prima generazione nella storia del mondo in cui i giovani – figli di tali padri – rimproverano ai genitori non di essere “sorpassati” moralmente o culturalmente, ma di non dargli abbastanza soldi o posti di lavoro. Così riportano acutamente vari osservatori.
E’ una generazione che sa di essere nata perché ha superato “l’esame genetico prenatale” cui tutti loro sono stati sottoposti; e da una generazione di sopravvissuti, già moralmente vecchi appena nati perché invecchiati dalle aspettative “vecchie” dei loro genitori, cosa possiamo aspettarci?