Nella rassegna stampa di oggi:
- Avvenire.it - 1 maggio 2011- Omelia Santa Messa di beatificazione di Giovanni Paolo II
- Avvenire.it, 30 aprile 2011 - Noi e Giovanni Paolo II beato - Non la fama ma la croce di Davide Rondoni
- Avvenire.it, 29 aprile 2011, INTERVISTA - l'incompletezza ci rende più liberi di Luca Miele
- Il Papa buono? È sempre quello morto di Massimo Introvigne, 30-04-2011 – da http://www.labussolaquotidiana.it/
- Erode è tornato e scrive sul «Lancet» di Carlo Bellieni, 02-05-2011 - http://www.labussolaquotidiana.it
- STAMINALI/ Lo "spauracchio" del brevetto per le cellule embrionali umane di Augusto Pessina - lunedì 2 maggio 2011 – il sussidiario.net
- Proposal to withhold care from sick babies is unethical, Vatican adviser says - May 1st, 2011 By David Kerr da http://carlobellieni.com/
- GIOVANNI PAOLO II/ Weigel: la sua è la storia di un uomo innamorato di Cristo - INT. George Weigel - sabato 30 aprile 2011 – il sussidiario.net
- Gli occhi di Marthe Robin di Antonio Socci - Posted: 29 Apr 2011 01:42 AM PDT - Come promesso eccovi un capitolo del mio nuovo libro "La guerra contro Gesù" (Rizzoli)
- Ucciso Osama Bin Laden Il terrorismo è ancora vivo di Massimo Introvigne, 02-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
- Il Papa che si riprese la speranza di Massimo Introvigne, 02-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Il Papa che si riprese la speranza di Massimo Introvigne, 02-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
- COMA, STATO VEGETATIVO E MINIMA COSCIENZA: DISTINZIONI IMPORTANTI - Pubblicato il 28 aprile 2011 da http://www.blogscienzaevita.org/
- L'AUTODETERMINAZIONE ASSOLUTA IMPLICA NEGAZIONE DELLA LIBERTA' DELL'ALTRO - Pubblicato il 27 aprile 2011 da http://www.blogscienzaevita.org/
- AUTONOMIA DEL PAZIENTE E LIBERTA' PROFESSIONALE DEL MEDICO - Pubblicato il 21 aprile 2011 da http://www.blogscienzaevita.org/
Avvenire.it - 1 maggio 2011- Omelia Santa Messa di beatificazione di Giovanni Paolo II
Cari fratelli e sorelle! Sei anni or sono ci trovavamo in questa Piazza per celebrare i funerali del Papa Giovanni Paolo II.
Profondo era il dolore per la perdita, ma più grande ancora era il senso di una immensa grazia che avvolgeva Roma e il mondo intero: la grazia che era come il frutto dell'intera vita del mio amato Predecessore, e specialmente della sua testimonianza nella sofferenza. Già in quel giorno noi sentivamo aleggiare il profumo della sua santità, e il Popolo di Dio ha manifestato in molti modi la sua venerazione per Lui. Per questo ho voluto che, nel doveroso rispetto della normativa della Chiesa, la sua causa di beatificazione potesse procedere con discreta celerità. Ed ecco che il giorno atteso è arrivato; è arrivato presto, perché così è piaciuto al Signore: Giovanni Paolo II è beato! Desidero rivolgere il mio cordiale saluto a tutti voi che, per questa felice circostanza, siete convenuti così numerosi a Roma da ogni parte del mondo, Signori Cardinali, Patriarchi delle Chiese Orientali Cattoliche, Confratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio, Delegazioni Ufficiali, Ambasciatori e Autorità, persone consacrate e fedeli laici, e lo estendo a quanti sono uniti a noi mediante la radio e la televisione. Questa Domenica è la Seconda di Pasqua, che il beato Giovanni Paolo II ha intitolato alla Divina Misericordia. Perciò è stata scelta questa data per l'odierna Celebrazione, perché, per un disegno provvidenziale, il mio Predecessore rese lo spirito a Dio proprio la sera della vigilia di questa ricorrenza. Oggi, inoltre, è il primo giorno del mese di maggio, il mese di Maria; ed è anche la memoria di san Giuseppe lavoratore. Questi elementi concorrono ad arricchire la nostra preghiera, aiutano noi che siamo ancora pellegrini nel tempo e nello spazio; mentre in Cielo, ben diversa è la festa tra gli Angeli e i Santi! Eppure, uno solo è Dio, e uno è Cristo Signore, che come un ponte congiunge la terra e il Cielo, e noi in questo momento ci sentiamo più che mai vicini, quasi partecipi della Liturgia celeste.
«Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Gv 20,29). Nel Vangelo di oggi Gesù pronuncia questa beatitudine: la beatitudine della fede. Essa ci colpisce in modo particolare, perché siamo riuniti proprio per celebrare una Beatificazione, e ancora di più perché oggi è stato proclamato Beato un Papa, un Successore di Pietro, chiamato a confermare i fratelli nella fede. Giovanni Paolo II è beato per la sua fede, forte e generosa, apostolica. E subito ricordiamo quell'altra beatitudine: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli» (Mt 16,17). Che cosa ha rivelato il Padre celeste a Simone? Che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Per questa fede Simone diventa "Pietro", la roccia su cui Gesù può edificare la sua Chiesa. La beatitudine eterna di Giovanni Paolo II, che oggi la Chiesa ha la gioia di proclamare, sta tutta dentro queste parole di Cristo: «Beato sei tu, Simone» e «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». La beatitudine della fede, che anche Giovanni Paolo II ha ricevuto in dono da Dio Padre, per l'edificazione della Chiesa di Cristo.
Ma il nostro pensiero va ad un'altra beatitudine, che nel Vangelo precede tutte le altre. E' quella della Vergine Maria, la Madre del Redentore. A Lei, che ha appena concepito Gesù nel suo grembo, santa Elisabetta dice: «Beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (Lc 1,45). La beatitudine della fede ha il suo modello in Maria, e tutti siamo lieti che la beatificazione di Giovanni Paolo II avvenga nel primo giorno del mese mariano, sotto lo sguardo materno di Colei che, con la sua fede, sostenne la fede degli Apostoli, e continuamente sostiene la fede dei loro successori, specialmente di quelli che sono chiamati a sedere sulla cattedra di Pietro. Maria non compare nei racconti della risurrezione di Cristo, ma la sua presenza è come nascosta ovunque: lei è la Madre, a cui Gesù ha affidato ciascuno dei discepoli e l'intera comunità. In particolare, notiamo che la presenza effettiva e materna di Maria viene registrata da san Giovanni e da san Luca nei contesti che precedono quelli del Vangelo odierno e della prima Lettura: nel racconto della morte di Gesù, dove Maria compare ai piedi della croce (cfr Gv 19,25); e all'inizio degli Atti degli Apostoli, che la presentano in mezzo ai discepoli riuniti in preghiera nel cenacolo (cfr At 1,14). Anche la seconda Lettura odierna ci parla della fede, ed è proprio san Pietro che scrive, pieno di entusiasmo spirituale, indicando ai neo-battezzati le ragioni della loro speranza e della loro gioia. Mi piace osservare che in questo passo, all'inizio della sua Prima Lettera, Pietro non si esprime in modo esortativo, ma indicativo; scrive, infatti: «Siete ricolmi di gioia» – e aggiunge: «Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la meta della vostra fede: la salvezza delle anime» (1Pt 1,6.8-9). Tutto è all'indicativo, perché c'è una nuova realtà, generata dalla risurrezione di Cristo, una realtà accessibile alla fede. «Questo è stato fatto dal Signore - dice il Salmo (118,23) - una meraviglia ai nostri occhi», gli occhi della fede.
Cari fratelli e sorelle, oggi risplende ai nostri occhi, nella piena luce spirituale del Cristo risorto, la figura amata e venerata di Giovanni Paolo II. Oggi il suo nome si aggiunge alla schiera di Santi e Beati che egli ha proclamato durante i quasi 27 anni di pontificato, ricordando con forza la vocazione universale alla misura alta della vita cristiana, alla santità, come afferma la Costituzione conciliare Lumen gentium sulla Chiesa. Tutti i membri del Popolo di Dio – Vescovi, sacerdoti, diaconi, fedeli laici, religiosi, religiose – siamo in cammino verso la patria celeste, dove ci ha preceduto la Vergine Maria, associata in modo singolare e perfetto al mistero di Cristo e della Chiesa. Karol Wojtyła, prima come Vescovo Ausiliare e poi come Arcivescovo di Cracovia, ha partecipato al Concilio Vaticano II e sapeva bene che dedicare a Maria l'ultimo capitolo del Documento sulla Chiesa significava porre la Madre del Redentore quale immagine e modello di santità per ogni cristiano e per la Chiesa intera. Questa visione teologica è quella che il beato Giovanni Paolo II ha scoperto da giovane e ha poi conservato e approfondito per tutta la vita. Una visione che si riassume nell'icona biblica di Cristo sulla croce con accanto Maria, sua madre.
Un'icona che si trova nel Vangelo di Giovanni (19,25-27) ed è riassunta nello stemma episcopale e poi papale di Karol Wojtyła: una croce d'oro, una "emme" in basso a destra, e il motto "Totus tuus", che corrisponde alla celebre espressione di san Luigi Maria Grignion de Montfort, nella quale Karol Wojtyła ha trovato un principio fondamentale per la sua vita: "Totus tutus ego sum et omnia mea tua sunt. Accipio Te in mea omnia. Praebe mihi cor tuum, Maria – Sono tutto tuo e tutto ciò che è mio è tuo. Ti prendo per ogni mio bene. Dammi il tuo cuore, o Maria" (Trattato della vera devozione alla Santa Vergine, n. 266). Nel suo Testamento il nuovo Beato scrisse: "Quando nel giorno 16 ottobre 1978 il conclave dei cardinali scelse Giovanni Paolo II, il Primate della Polonia card. Stefan Wyszyński mi disse: «Il compito del nuovo papa sarà di introdurre la Chiesa nel Terzo Millennio»". E aggiungeva: "Desidero ancora una volta esprimere gratitudine allo Spirito Santo per il grande dono del Concilio Vaticano II, al quale insieme con l'intera Chiesa – e soprattutto con l'intero episcopato – mi sento debitore. Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito.
Come vescovo che ha partecipato all'evento conciliare dal primo all'ultimo giorno, desidero affidare questo grande patrimonio a tutti coloro che sono e saranno in futuro chiamati a realizzarlo. Per parte mia ringrazio l'eterno Pastore che mi ha permesso di servire questa grandissima causa nel corso di tutti gli anni del mio pontificato". E qual è questa "causa"? E' la stessa che Giovanni Paolo II ha enunciato nella sua prima Messa solenne in Piazza San Pietro, con le memorabili parole: "Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!". Quello che il neo-eletto Papa chiedeva a tutti, egli stesso lo ha fatto per primo: ha aperto a Cristo la società, la cultura, i sistemi politici ed economici, invertendo con la forza di un gigante – forza che gli veniva da Dio – una tendenza che poteva sembrare irreversibile. Swoim świadectwem wiary, miłości i odwagi apostolskiej, pełnym ludzkiej wrażliwości, ten znakomity syn Narodu polskiego pomógł chrześcijanom na całym świecie, by nie lękali się być chrześcijanami, należeć do Kościoła, głosić Ewangelię. Jednym słowem: pomógł nam nie lękać się prawdy, gdyż prawda jest gwarancją wolności. [Con la sua testimonianza di fede, di amore e di coraggio apostolico, accompagnata da una grande carica umana, questo esemplare figlio della Nazione polacca ha aiutato i cristiani di tutto il mondo a non avere paura di dirsi cristiani, di appartenere alla Chiesa, di parlare del Vangelo. In una parola: ci ha aiutato a non avere paura della verità, perché la verità è garanzia di libertà.] Ancora più in sintesi: ci ha ridato la forza di credere in Cristo, perché Cristo è Redemptor hominis, Redentore dell'uomo: il tema della sua prima Enciclica e il filo conduttore di tutte le altre. Karol Wojtyła salì al soglio di Pietro portando con sé la sua profonda riflessione sul confronto tra il marxismo e il cristianesimo, incentrato sull'uomo. Il suo messaggio è stato questo: l'uomo è la via della Chiesa, e Cristo è la via dell'uomo. Con questo messaggio, che è la grande eredità del Concilio Vaticano II e del suo "timoniere" il Servo di Dio Papa Paolo VI, Giovanni Paolo II ha guidato il Popolo di Dio a varcare la soglia del Terzo Millennio, che proprio grazie a Cristo egli ha potuto chiamare "soglia della speranza".
Sì, attraverso il lungo cammino di preparazione al Grande Giubileo, egli ha dato al Cristianesimo un rinnovato orientamento al futuro, il futuro di Dio, trascendente rispetto alla storia, ma che pure incide sulla storia. Quella carica di speranza che era stata ceduta in qualche modo al marxismo e all'ideologia del progresso, egli l'ha legittimamente rivendicata al Cristianesimo, restituendole la fisionomia autentica della speranza, da vivere nella storia con uno spirito di "avvento", in un'esistenza personale e comunitaria orientata a Cristo, pienezza dell'uomo e compimento delle sue attese di giustizia e di pace. Vorrei infine rendere grazie a Dio anche per la personale esperienza che mi ha concesso, di collaborare a lungo con il beato Papa Giovanni Paolo II. Già prima avevo avuto modo di conoscerlo e di stimarlo, ma dal 1982, quando mi chiamò a Roma come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, per 23 anni ho potuto stargli vicino e venerare sempre più la sua persona. Il mio servizio è stato sostenuto dalla sua profondità spirituale, dalla ricchezza delle sue intuizioni.
L'esempio della sua preghiera mi ha sempre colpito ed edificato: egli si immergeva nell'incontro con Dio, pur in mezzo alle molteplici incombenze del suo ministero. E poi la sua testimonianza nella sofferenza: il Signore lo ha spogliato pian piano di tutto, ma egli è rimasto sempre una "roccia", come Cristo lo ha voluto. La sua profonda umiltà, radicata nell'intima unione con Cristo, gli ha permesso di continuare a guidare la Chiesa e a dare al mondo un messaggio ancora più eloquente proprio nel tempo in cui le forze fisiche gli venivano meno. Così egli ha realizzato in modo straordinario la vocazione di ogni sacerdote e vescovo: diventare un tutt'uno con quel Gesù, che quotidianamente riceve e offre nell'Eucaristia. Beato te, amato Papa Giovanni Paolo II, perché hai creduto! Continua – ti preghiamo – a sostenere dal Cielo la fede del Popolo di Dio. Amen.
© riproduzione riservata
Avvenire.it, 30 aprile 2011 - Noi e Giovanni Paolo II beato - Non la fama ma la croce di Davide Rondoni
Un santo non è un divo. Un santo non somiglia a un uomo di successo. I cristiani lo sanno. E sanno che c'è una bella differenza tra il successo nelle cose del mondo, e quello nelle cose del cielo. Che poi sono quelle della terra ma vissute, per così dire, in modo centuplicato, in modo più vero. In modo senza fine. Perché è scritto così nel Vangelo. Ed è scritto nella vita di tutti i santi, quelli noti e quelli meno noti. Gente che ha vissuto nel mondo. Come se non finisse tutto nel mondo. Gente che ha sperimentato e fatto vedere agli altri l'infinito nelle cose finite. Il cielo dentro la terra, il centuplo quaggiù, che è una ricchezza di senso. Una ricchezza incalcolabile.
La beatificazione, domani, di Giovanni Paolo II non è l'apoteosi di un divo. Anche se certe apparenze, anche se certe parole enfatiche – usate spesso da chi non sa cos'è il cristianesimo – vorrebbero farlo credere. Come se fosse un divo dei nostri tempi. Che si può esaltare (o criticare) come un divo, secondo le categorie dell'uomo di successo a partire dai canoni, dalle idee che oggi prevalgono per decretare il successo di un uomo. Il divo, come insegnano l'arte e la letteratura dell'umanesimo e del rinascimento che riprendevano ideali pre-cristiani o anticristiani, è l'uomo che cerca compimento nel somigliare a un dio. Allargando il suo potere, provando a determinare la propria fortuna in tutto e per tutto. Il divo è chi sembra possedere il proprio destino. L'uomo che in fondo non ha bisogno di Dio, poiché basta a se stesso: la fama acquistata con le imprese che l'epoca ritiene degne di gloria e il potere che ne consegue sono la sua realizzazione.
Il santo è tutta un'altra faccenda. Una faccenda di cielo mischiato alla terra. Spesso di nessuna riuscita, nessuna fama. Sono santi uomini oscurissimi, di nessuna notorietà pubblica. O, come nel caso di Giovanni Paolo II, è una faccenda che riguarda ciò che è noto e ciò che è segreto nella vita di un uomo. Ciò che è stato visibile alle folle e ciò che è stato visibile a pochi testimoni o solo a Dio. Non c'entra la fama. C'entra la croce. Non si fonda sul successo, ma sul sacrificio di sé. E sull'amore a Cristo. Tutte cose – specie l'ultima – che non sono necessarie, anzi non sono proprio richieste, per essere divi dei nostri giorni. I divi odierni sono spesso ammantati di aura morale. Oggi va di moda l'uomo 'buono' o meglio 'corretto'. E in un certo senso è un bene, anche se spesso si tratta di una morale tagliata su misura sui valori esaltati dai media e delle classi al potere. E i media e le classi al potere sono disposti forse ad accettare Giovanni Paolo II come un divo, ma non del tutto. Perché non sta del tutto dentro la immagine di divo comune. Ha certe cose che non tornano. Che sono poi le cose che lo fanno santo. Le classi dominanti – ma diciamolo: la mentalità che domina anche in noi – è disposta a esaltarlo come divo, ma parzialmente. E di più: vorrebbero che la santità coincidesse con il loro rilascio di patente di divo. Che il divo coincidesse con il santo. E dunque che se qualcosa non funziona nell'immagine del divo, allora si deve mettere in discussione anche la realtà del santo. Ma i cristiani lo sanno: non sono per nulla la stessa cosa.
A Roma ci recheremo in tanti a festeggiare un uomo speciale, a pregarlo. Un uomo vivo e operante nella santità dei secoli dei secoli. Non a esaltare un divo morto. Guarderemo un uomo santo come a un esempio per le nostre pene e ferite. E per il nostro amore a Cristo. Non invidieremo acidamente la sua fuggente fortuna – come accade coi divi – ma gli affideremo dolcemente la nostra povera esistenza, deponendola ai piedi della sua paternità senza fine.
© riproduzione riservata
Avvenire.it, 29 aprile 2011, INTERVISTA - l'incompletezza ci rende più liberi di Luca Miele
Novecento è stato segnato dalla terribile esplosione, anche in campo filosofico, dell'idea della "soluzione finale": una "terapia" che liquidasse ogni controversia, appianasse ogni diversità, risolvesse ogni contraddizione. Il filosofo Salvatore Veca rintraccia l'antidoto a ogni pretesa totalizzante nell'idea di incompletezza (L'idea di incompletezza. Quattro lezioni, Feltrinelli, pag. 174, euro 19). Un'incompletezza alla quale è ancorata la nostra esistenza di esseri «prospettici e finiti, per cui può essere, o dovrebbe essere, cruciale trascendere i limiti di una prospettiva inevitabilmente situata e contingente». Proprio perché siamo esseri incompleti, scrive Veca, «possiamo provare la passione e l'amore della sapienza».
Nella sua prima lezione scrive: «Non solo noi dobbiamo scegliere, ma dobbiamo scegliere in un mondo di persistente e spesso accelerata trasformazione». In che modo l'idea di incompletezza può essere una guida per i nostri tempi?
L'essere consapevoli della natura incompleta di qualsivoglia risposta possiamo formulare rende più riflessive e mature le nostre scelte. È necessario essere consapevoli che esse non costituiranno mai la soluzione finale. Questo non riduce l'importanza delle nostre scelte, ma dà loro un tocco più appropriato. Le nostre risposte hanno un'essenziale incompletezza, che io definisco insaturazione. C'è chi ritiene che il riconoscere l'incompletezza delle nostre risposte possa dar vita a una specie di polverone instabile e frammentario, sfociare in un supermarket delle credenze. Non è così: noi siamo tenuti alla più ferma lealtà alle nostre credenze, consapevoli però della loro incompletezza nel tempo.
Il suo elogio dell'incompletezza sottende una visione dinamica dei valori. Come possiamo essere fedeli ai nostri valori e allo stesso tempo "incontrare" gli altri?
Nel libro riporto una battuta di Confucio: abbiamo il dovere di essere leali, fedeli a noi stessi. Siamo tenuti a difendere i valori fondamentali della nostra convivenza, le credenze che scandiscono la nostra esistenza. Ma proprio in quanto chiamati a essere leali a noi stessi, siamo provocati all'attenzione verso gli altri, all'apertura, alla curiositas. È perché siamo leali a noi stessi che possiamo aprirci agli altri.
Lei sostiene le ragioni del pluralismo contro quella del relativismo.
Le cose buone della vita sono più d'una entro di noi, sono più d'una entro la comunità e sono più d'una tra comunità differenti. Il pluralismo comincia nel condominio, non c'è bisogno di pensare al rapporto tra noi e i confuciani o i salafiti. Parte dentro di noi. Sono quelle che io chiamo le piccole guerre civili del sé. Questa idea non ha nulla a che vedere con il relativismo. Il relativismo vuol dire: tu pensi che il meglio sia lo champagne, io penso che il meglio sia il caffè e non c'è altro da dirci.
La sua ricerca ruota attorno a un dato incontrovertibile: l'uomo è istituito nel limite. Che senso dare al limite, come custodire la dimensione creaturale dell'uomo?
L'elogio dell'incompletezza va in tandem con la consapevolezza del nostro essere situati e limitati. Ma non dobbiamo lasciarsi intrappolare dentro una singola idea di incompletezza. Vogliamo metterci alla prova tra persone che hanno credenze diverse? Prendere sul serio l'idea del confronto? Allora è necessario assumere che le nostre credenze trovino il proprio limite proprio nell'incontro con le credenze degli altri. Il riconoscere la nostra incompletezza deriva dal semplice fatto che vi sono altri che hanno altre ragioni, che raccontano altre storie, che cantano altre canzoni.
Lei scrive che «siamo esseri per cui è decisiva la dimensione dell'interrogazione».
Come mostra il libro della Sapienza in noi è costitutivo il perdurare della domanda di senso. Immagini delle persone per le quali non abbia alcun senso il porsi domande o porre domande ad altri: sarebbero strane monadi complete e sature. È invece importante la durevolezza del domandare. L'interrogazione è una costante del nostro modo di vivere. Siamo predatori di senso. Fare delle domande vuol dire cercare delle risposte. Siamo dei predatori di risposte, risposte di senso.
Michel Foucault ha scritto che la filosofia è in qualche modo chiamata a pensare l'impensato. Lei parla di immaginazione filosofica. Quali sono le pratiche a cui affidarsi per coltivare questa curiosità?
Nella mia ricerca delineo un paesaggio abitato dalla figura del coltivatore di memorie e dell'esploratore di connessioni. Il primo prende sul serio la storia, il secondo porta a un alto grado di generalità i risultati della sua indagine per cercare di dire l'ultima parola che si converte sempre nella penultima, data l'idea di incompletezza. Ciascuno di noi vive col pilota automatico innestato. Coltivare l'immaginazione filosofica significa allora il tentativo di poter guardare le cose in altro modo. Le nostre vite sono vite per lo più sul tapis roulant, vita di creature d'abitudine. Proviamo a sospendere la validità di queste abitudini, a guardare le cose in un altro modo come se avessero una luce diversa. Allora c'è un po' di filosofia dappertutto.
© riproduzione riservata
Il Papa buono? È sempre quello morto di Massimo Introvigne, 30-04-2011 – da http://www.labussolaquotidiana.it/
Una denuncia è presentata al Tribunale Internazionale dell'Aja contro il Papa per crimini contro l'umanità. Una serie di personalità e organizzazioni omosessuali denuncia le sue parole sull'AIDS e afferma che il Pontefice, mettendo in dubbio l'efficacia del preservativo come mezzo di contrasto alla malattia, è un criminale personalmente responsabile della morte di milioni di africani.
Il lettore penserà che stiamo parlando di Benedetto XVI e delle polemiche seguite alle sue dichiarazioni sul volo che lo portava in Africa nel 2009. La tesi del Papa sul preservativo che non ferma l'AIDS era scientificamente fondata, ma non è questo ora il punto. La denuncia all'Aja fu proposta, in effetti, nel novembre 2004 contro Giovanni Paolo II (1920-2005). È difficile oggi immaginare l'autentica offensiva d'insulti che colpì il Pontefice polacco quando ripeté le condanne contro la contraccezione artificiale e riaffermò che gli atti omosessuali costituiscono un disordine oggettivo, come quando prese posizione contro la teologia della liberazione d'ispirazione marxista. Fu contro Papa Wojtyla che il movimento radicale transnazionale promosse le sue più grandi manifestazioni anticlericali e coniò lo slogan «No Taliban no Vatican». Trasformatisi rapidamente in teologi - ma anche sostenuti da teologi veri, cattolici dell'ala più progressista -, molti esponenti del sistema dei media laicisti c'intrattenevano su come il Papa venuto dalla Vistola, con il suo rozzo anticomunismo, stesse smantellando il Concilio Vaticano II e tramasse nell'ombra per una restaurazione anticonciliare.
E molti rimpiangevano Paolo VI (1897-1978). Papa Montini, si diceva, con la sua sapienza bresciana e democristiana e il lungo dialogo dell'Ostpolitik con l'Unione Sovietica avrebbe evitato le ingenue intemperanze di Giovanni Paolo II. Celebrare Paolo VI significava per molti, ogni volta che Giovanni Paolo II disturbava i manovratori dell'opinione pubblica su temi morali o politici, contestare la vera o presunta «restaurazione» wojtyliana e dare un brivido ai teologi progressisti nostalgici dei (per loro) gloriosi anni 1970. La nostalgia di Paolo VI era sorprendente: contagiava persone che nel 1968, dopo l'enciclica Humanae vitae e la rinnovata condanna della contraccezione artificiale, avevano attaccato Papa Montini con parole raramente usate nel XX secolo contro un Pontefice. Ma Paolo VI aveva soprattutto un grande pregio per i laicisti e i progressisti che attaccavano Papa Wojtyla: era morto. Per i nemici del Papato e del Magistero, infatti, da molti anni il Papa buono è sempre il Papa morto.
Oggi sappiamo - dalle memorie dei più conseguenti animatori della fazione ultraprogressista al Concilio Ecumenico Vaticano II come il vescovo brasiliano Hélder Câmara (1909-1999) - che la contrapposizione del Papa morto al Papa vivo non è un semplice fenomeno psicologico. Per qualche verso, fu studiata a tavolino. Quando apparve chiaro che sugli anticoncezionali, il celibato dei sacerdoti, la guida collegiale della Chiesa e l'ordinazione delle donne la frangia ultraprogressista avrebbe trovato in Paolo VI un ostacolo invalicabile, fu messa in atto una vera e propria strategia per contrapporre a Papa Montini, il Papa «che frenava il Concilio», il mito di Giovanni XXIII (1881-1963), il «Papa buono».
Un Papa molto amato, certo, ma che fu ricordato - sia durante il Concilio, sia ai tempi della polemica sull'Humanae vitae - con chiassose manifestazioni che costituivano un attacco neppure troppo velato al suo successore. Convenientemente, si dimenticava che in materia morale Papa Roncalli non era certamente un progressista, e che nel 1959 aveva approvato e sottoscritto un documento del Sant'Uffizio che dichiarava illecito per i cattolici «dare il proprio voto durante le elezioni a quei partiti o candidati che, pur non professando princìpi contrari alla dottrina cattolica o anzi assumendo il nome cristiano, tuttavia nei fatti si associano ai comunisti e con il proprio comportamento li aiutano».
Nulla di nuovo, dunque, quando vediamo celebrare Giovanni Paolo II come un "Papa buono" per contrapporlo al "Papa cattivo" Benedetto XVI. La logica è sempre quella di opporre il Papa morto al Papa vivo, un escamotage nei cui confronti i cattolici dovrebbero essere ormai vaccinati da decenni. Purtroppo non è sempre così, e ci sono anche oggi cattolici che cadono facilmente in trappola. Le lodi interessate e pelose a Giovanni Paolo II hanno influenzato anche alcuni "tradizionalisti" che - cambiando semplicemente di segno lo schema dei media laicisti - contrappongono il buon «conservatore» Benedetto XVI al cattivo "progressista" Giovanni Paolo II, di cui contestano la beatificazione. Costoro insistono sulla presentazione mediatica del primo incontro di Assisi o sulla politica della distensione con Cuba praticata in una certa stagione dalla diplomazia vaticana, dimenticando completamente le encicliche e i discorsi fermissimi sul piano dottrinale del Papa polacco e il suo contributo decisivo - riconosciuto ormai anche da storici insospettabili - alla caduta dell'impero sovietico.
Che cosa si debba pensare di chi contrappone un Pontefice all'altro allo scopo di creare confusione e divisioni tra i cattolici ce lo insegna Benedetto XVI al numero 12 della sua enciclica Caritas in veritate, con parole riferite a chi contrappone il Magistero sulla politica e l'economia di Paolo VI a quello dei suoi predecessori, e che non valgono solo per la dottrina sociale: «Non contribuiscono a fare chiarezza certe astratte suddivisioni della dottrina sociale della Chiesa che applicano all'insegnamento sociale pontificio categorie ad esso estranee. Non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo. È giusto rilevare le peculiarità dell'una o dell'altra Enciclica, dell'insegnamento dell'uno o dell'altro Pontefice, mai però perdendo di vista la coerenza dell'intero corpus dottrinale».
Erode è tornato e scrive sul «Lancet» di Carlo Bellieni, 02-05-2011 - http://www.labussolaquotidiana.it
Al leggere l'articolo pubblicato sul Lancet di Febbraio 2011 dal noto filosofo Peter Singer, una domanda sorge: "A chi appartiene un figlio?". Infatti Singer sostiene che si debba permettere la ricerca scientifica sui neonati, anche se questo li espone a moderati rischi, lasciando la decisione all'altruismo dei genitori (ma l'altruismo si esprime mettendo a disposizione il figlio o mettendo a disposizione se stessi?), come se il figlio fosse una loro propaggine. La domanda "A chi appartiene un figlio?" diventa stringente quando Wilkinson, filosofo di Oxford, sostiene (American Journal of Bioethics, Marzo 2011) che si possa lasciar morire un neonato non solo quando il conto "pesi-benefici" per la vita futura pende verso i primi (e nemmeno questo ci piace, come se tante vite cariche di sofferenza avessero vantaggio di essere spente d'ufficio), ma anche quando la vita del bambino malato, fatti i suddetti conti, "merita di essere vissuta", perché il danno non è troppo grave; come se anche in questo caso il figlio fosse una proprietà di mamma e papà.
Vediamo di capire meglio.
I bambini non dovrebbero venir esposti a rischi neanche minimi per un esperimento scientifico - e questo ho espresso nella mia replica sul Lancet (Aprile 2011) -, dato che ogni protocollo di ricerca richiede il consenso informato di chi deve subire il rischio, e non si vede perché chi non si può esprimere non debba avere tutte le garanzie, soprattutto quella di supporre che, considerando la sua fragilità, ben si guarderebbe da mettere a rischio la propria integrità. La ricerca scientifica è sacrosanta: basta rispettare i pazienti. E vita o morte non "si decidono", ma si constatano e basta: non si possono sospendere le cure perché il bambino è disabile e i genitori sarebbero sovraccaricati di un pesante fardello.
Purtroppo i bambini per certi filosofi non sono "persone", dunque sono soggetti al volere dei genitori: prima della nascita e anche nel periodo successivo alla nascita, dato che in tanti protocolli per la rianimazione dei neonati i genitori sono gli arbitri quando si intravede la possibilità di un serio handicap. E non ci vengano a dire che i genitori sono i migliori tutori dei figli: tanti episodi di cronaca li smentiscono; e certo non sono preparati medicalmente. Dunque tutta la decisione la possono prendere solo sulla base dell'emotività: che croce viene buttata loro sulle spalle! Il bello è che questo diritto sulla vita dei figli oggi tanti genitori lo sentono anche negli anni successivi, tanto da imporre loro il carico di essere figli unici (che poi dovranno accudirli da soli nella vecchiaia e non è uno spasso), o il carico di compiere i loro desideri frustrati.
Siamo al diritto di vita e di morte romano sui figli, risuscitato, dopo duemila anni; siamo all'idea di figlio come proprietà, come diritto, e di una cultura che vuole i genitori non più custodi dei figli ma padroni (anche di pretendere poi dal figlio la perfezione, come l'avevano pretesa alla diagnosi genetica prenatale altrimenti non sarebbero stati lasciati nascere).
Pensare che i genitori o i medici possano decidere sulla vita e sulla morte di un bambino, quando ci sono alternative e speranze serie, o che si possa esporre un minore fragile (alcuni pesano meno di un chilo!) a dei rischi non nel suo specifico interesse, ma per un supposto altruismo dei genitori (fatto sulle spalle dei figli), prospetta uno scenario in cui il figlio è una proprietà piuttosto che un soggetto. E non è strano sentire questi discorsi in una società che parla di figli come di prodotti (del concepimento), o di "diritto" dei genitori, o di "scelta".
"Di chi è un figlio?" ci chiedevamo? La risposta è nel Mistero che lo ha voluto e ce lo ha dato da custodire, cosa che vale intuitivamente anche per un non credente che abbia il coraggio di accettare il dato di fatto che i figli non sono "suoi"; perché i figli non sono prodotti che vengono bene o male, ma dei "tu", che hanno una libertà e una dignità anche quando questa non è apparente o quando contraddicono – alla nascita o al liceo- le nostre aspettative: questa è la sfida.
STAMINALI/ Lo "spauracchio" del brevetto per le cellule embrionali umane di Augusto Pessina - lunedì 2 maggio 2011 – il sussidiario.net
Nel marzo scorso, la rivista scientifica Nature ha dato risalto critico alle conclusioni che Yves Bot (Avvocato generale della Corte di giustizia della Comunità europea) aveva inviato alla Corte stessa. In queste conclusioni, l'avvocato Bot aveva saggiamente sostenuto che tutte le procedure riguardanti cellule staminali embrionali umane (anche quando non coinvolgano direttamente la distruzione di un embrione umano) non possono essere brevettate. Ciò, sostanzialmente, in quanto equivale a fare un uso industriale di embrioni umani: cosa da ritenersi "contraria all'etica e alla politica pubblica".
Ora, nell'imminenza di una decisione definitiva della Corte (prevista per maggio), è ancora la stessa rivista a riproporre un appello, a firma di Austin Smith del Wellcome trust center di Cambridge e di dodici suoi colleghi, perché la Corte bocci il parere di Bot autorizzando così i brevetti riguardanti cellule embrionali umane. L'articolo di Smith è stato fatto circolare da Unistem dell'Università di Milano, che ha invitato i ricercatori a sottoscrivere l'appello.
Austin Smith è noto per avere sempre sostenuto l'utilità della ricerca con embrioni umani e le ragioni che riporta nell'appello sono sempre le stesse, ambigue e fuorvianti. Egli sostiene che le cellule staminali embrionali sono solo linee cellulari e non embrioni. Peccato che ometta di dire che esse sono derivate dalla distruzione di embrioni umani (esseri umani in via di sviluppo) che lui definisce come "surplus" di ovociti fertilizzati in vitro (sic!).
Smith ammette che di queste linee ve ne siano già centinaia (qualcuno sostiene migliaia), ma non se ne vede ancora l'utilità terapeutica e trova il modo di sottolineare quanto imperfette siano le tecniche di riprogrammazione di staminali adulte (cui molti sostenitori delle staminali embrionali si sono convertiti di recente). La sua conclusione è quasi commovente (da commedia rosa), quando scrive che i lavori degli scienziati coinvolti in questo campo non troveranno più sponsor (cioè denaro) delle industrie perché queste non avranno incentivi non potendo coprire con brevetti le loro ricerche!
Speriamo invece che la Corte Europea consideri seriamente la prudente posizione di Bot a salvaguardia della dignità della persona umana e la trasformi in legislazione. Sarà una ragione in più per sperare che all'Europa sia rimasto almeno qualche spezzone di quelle radici che per secoli le hanno permesso di crescere. E per ricordare che, in realtà, la vita umana è già stata brevettata.
© Riproduzione riservata.
Proposal to withhold care from sick babies is unethical, Vatican adviser says - May 1st, 2011 By David Kerr da http://carlobellieni.com/
Rome, Italy, Apr 30, 2011 / 05:03 am (CNA).- A proposal to allow premature or sick newborn babies to die even when their life would be deemed worth living by medical staff has been condemned by a leading member of the Pontifical Academy for Life.
Doctor Carlo Bellieni says the suggestion being made by the Oxford-based physician James Wilkinson is both "flawed" and "an erroneous way of considering life."
Dr. Wilkinson outlines his controversial argument in the American Journal of Bioethics. "The prevailing official view is that treatment may be withdrawn only if the burdens in an infant's future life outweigh the benefits. … I conclude that it is justifiable in some circumstances for parents and doctors to decide to allow an infant to die even though the infant's life would be worth living," Dr. Wilkinson wrote.
But as Dr. Bellieni explained to CNA, such a suggestion makes for bad ethics and poor patient care. "Firstly, babies are not the property of their parents. Secondly, at birth parents are often stressed and full of pain and suffering. The mother has the pain of childbirth. The father has the shock and stress of being faced with a very premature baby. When you're in such pain and stress, you're not really free to make clear-minded decisions that are so important for your offspring."
Most importantly, Dr. Bellieni said, "the decision about life should only be taken on an objective basis and in the interest of the patient, not in the interests of a third party."
Dr. Bellieni, who is a Director of the Neonatal Intensive Therapy Unit at Siena University Hospital, is internationally recognized as an expert in the field of neonatal care. In addition to being a member of the Pontifical Academy for Life, he is also the Secretary of the Bioethics Committee of the Italian Pediatrics Society.
Although the Italian neonatalogist said he doesn't know whether hospitals in the Western world are actually practicing Dr. Wilkinson's radical approach, he pointed towards recent research in Canada suggesting that newborn babies are now receiving less guarantees of treatment than adults. "It's a very sad scenario. I believe that babies should receive more care than other patients but many philosophers now believe that newborns are not persons and so they actually are receiving fewer guarantees than older people."
"Even when burdens do seem to be high, for example in the case of severe disability, this is not a sufficient reason to withhold life-saving treatments. After all, a disabled baby has a full right to life too," Dr. Bellieni stressed.
"Dr. Wilkinson claims that the prevailing clinical view is contrary to this. If that is the case then it's very worrying indeed and we cannot possibly accept such a viewpoint as ethical."
GIOVANNI PAOLO II/ Weigel: la sua è la storia di un uomo innamorato di Cristo - INT. George Weigel - sabato 30 aprile 2011 – il sussidiario.net
«La dedizione di Karol Wojtyla a Cristo è alla radice di tutto ciò che ha fatto nella sua vita». Alla vigilia della beatificazione, che si stima farà confluire a Roma più di un milione di fedeli da tutto il mondo, ilsussidiaro.net ha parlato di Karol Wojtyla con George Weigel, tra i più noti esponenti del pensiero cattolico americano. Weigel, autore di una monumentale biografia dedicata alla vita e al pensiero di Wojtyla - dal titolo Testimone della Speranza - sottolinea il ruolo epocale svolto da Giovanni Paolo II nella cultura e nella politica del XX secolo. Ma è come se tutto ciò venisse dopo, perché - dice Wigel - «ciò che rende unita la personalità di Giovanni Paolo II è la sua profonda, davvero radicale, sequela cristiana».
Professor Weigel, Karol Wojtyla disse di se stesso che «io posso solo essere capito dal di dentro». Cosa c'è al fondo della straordinaria personalità del Wojtyla filosofo, poeta, sacerdote?
Ciò che rende unita la personalità di Giovanni Paolo II è la sua profonda, davvero radicale, sequela cristiana. La dedizione di Karol Wojtyla a Cristo è alla radice di tutto ciò che ha fatto nella sua vita, dalla seconda Guerra Mondiale in poi.
Le virtù eroiche, la santità di vita e il miracolo riconosciuto dalla Congregazione per le cause dei santi hanno portato alla beatificazione di Giovanni Paolo II in un tempo record, certamente favorito da Benedetto XVI. Qual è il rapporto profondo che lega i due, al di là della lunghissima collaborazione?
Non direi che Benedetto XVI abbia particolarmente favorito, né tantomeno "spinto", questa beatificazione. Ha in effetti derogato al periodo di cinque anni previsto per poter iniziare il processo, come fece Giovanni Paolo II per Madre Teresa, ma ha detto al Postulatore (che me lo ha più tardi riferito) che voleva un processo di beatificazione completo e secondo tutte le norme. E così è stato. La collaborazione tra Giovanni Paolo II e Joseph Ratzinger è stata una delle più feconde nella lunga storia del papato. Ognuno dei due ha visto nell'altro talenti che lui non possedeva; entrambi hanno avuto l'umiltà di riconoscere nell'altro doni che personalmente non aveva ricevuto; entrambi erano uomini del Concilio che volevano il Concilio realizzato pienamente. È stata una collaborazione notevole, tanto più straordinaria se si tiene conto che il Papa era polacco e il suo collaboratore teologico un tedesco.
Qual è il valore culturale e storico della beatificazione di Giovanni Paolo II per il cattolicesimo americano e per quello europeo?
«La dedizione di Karol Wojtyla a Cristo è alla radice di tutto ciò che ha fatto nella sua vita». Alla vigilia della beatificazione, che si stima farà confluire a Roma più di un milione di fedeli da tutto il mondo, ilsussidiaro.net ha parlato di Karol Wojtyla con George Weigel, tra i più noti esponenti del pensiero cattolico americano. Weigel, autore di una monumentale biografia dedicata alla vita e al pensiero di Wojtyla - dal titolo Testimone della Speranza - sottolinea il ruolo epocale svolto da Giovanni Paolo II nella cultura e nella politica del XX secolo. Ma è come se tutto ciò venisse dopo, perché - dice Wigel - «ciò che rende unita la personalità di Giovanni Paolo II è la sua profonda, davvero radicale, sequela cristiana».
Professor Weigel, Karol Wojtyla disse di se stesso che «io posso solo essere capito dal di dentro». Cosa c'è al fondo della straordinaria personalità del Wojtyla filosofo, poeta, sacerdote?
Ciò che rende unita la personalità di Giovanni Paolo II è la sua profonda, davvero radicale, sequela cristiana. La dedizione di Karol Wojtyla a Cristo è alla radice di tutto ciò che ha fatto nella sua vita, dalla seconda Guerra Mondiale in poi.
Le virtù eroiche, la santità di vita e il miracolo riconosciuto dalla Congregazione per le cause dei santi hanno portato alla beatificazione di Giovanni Paolo II in un tempo record, certamente favorito da Benedetto XVI. Qual è il rapporto profondo che lega i due, al di là della lunghissima collaborazione?
Non direi che Benedetto XVI abbia particolarmente favorito, né tantomeno "spinto", questa beatificazione. Ha in effetti derogato al periodo di cinque anni previsto per poter iniziare il processo, come fece Giovanni Paolo II per Madre Teresa, ma ha detto al Postulatore (che me lo ha più tardi riferito) che voleva un processo di beatificazione completo e secondo tutte le norme. E così è stato. La collaborazione tra Giovanni Paolo II e Joseph Ratzinger è stata una delle più feconde nella lunga storia del papato. Ognuno dei due ha visto nell'altro talenti che lui non possedeva; entrambi hanno avuto l'umiltà di riconoscere nell'altro doni che personalmente non aveva ricevuto; entrambi erano uomini del Concilio che volevano il Concilio realizzato pienamente. È stata una collaborazione notevole, tanto più straordinaria se si tiene conto che il Papa era polacco e il suo collaboratore teologico un tedesco.
Qual è il valore culturale e storico della beatificazione di Giovanni Paolo II per il cattolicesimo americano e per quello europeo?
Milioni di cattolici negli Stati Uniti sono stati motivati da Giovanni Paolo II e lo saranno ancora di più dalla sua beatificazione. Per quanto riguarda l'Europa, ovviamente la beatificazione ha un particolare significato per la Polonia. Spero, però, che essa risvegli anche il resto dell'Europa dall'attuale malessere culturale, descritto così bene da Paolo II, alle capacità rivitalizzanti della fede cristiana.
Come e perché un figlio spirituale della Polonia è stato capace di indicare una via d'uscita a tutte le contraddizioni della cultura europea? E in che modo Wojtyla ha anticipato il Concilio?
Perché ha capito che la cultura è la forza più dinamica nella storia ed è stato così capace di richiamare a un rinnovamento culturale al di là delle consuete barricate della politica. Ha poi anticipato il Concilio con la sua idea di "chiamata universale alla santità" e il riconoscimento del ruolo critico dei laici nell'evangelizzazione.
Nel metodo e nell'insegnamento filosofico e pastorale di Wojtyla, e poi nel suo magistero, l'esperienza occupa un posto fondamentale. È d'accordo? Può spiegarlo?
È quanto fa un fenomenologo: di fronte a una questione, guarda all'esperienza umana, cercando di approfondire la questione. Pastoralmente, Giovanni Paolo II aveva una lunga esperienza nella preparazione dei giovani al matrimonio e alle responsabilità della vita familiare, che ha dato evidentemente influenzato il suo insegnamento in queste materie.
È ormai opinione comune che Giovanni Paolo II ha cambiato la storia del mondo, dando un contributo decisivo ad abbattere il comunismo. Chi lo afferma però non è spesso in grado di spiegare come questo è avvenuto. In altre parole, Giovanni Paolo II non ha sconfitto i regimi totalitari sul piano politico. Ma allora che cos'ha fatto esattamente?
Su questo argomento ho scritto ben tre libri: The Final Revolution (1992), Witness to Hope (1999), and The End and the Beginning (2010). Giovanni Paolo II ha acceso in Polonia una rivoluzione delle coscienze che ha creato nuove forme di potere cui il comunismo non è riuscito a contrapporsi.
Come è cambiato con Giovanni Paolo II il rapporto della Chiesa con il potere?
Giovanni Paolo II ha rafforzato il papato come globale testimonianza morale. Qualcosa di nuovo che riflette l'insegnamento del Concilio Vaticano Secondo sul corretto rapporto della Chiesa con la politica.
Una delle immagini di Karol Wojtyla più diffuse a livello mediatico è quella di "grande comunicatore". Non pensa che dietro la verità si sia pian piano formato uno slogan ideologico, che porta a fraintendere la sua figura?
No, penso sia solo un'etichetta giustapposta da chi non vuol fare la fatica di capire ciò che uno sta dicendo, o che non riesce a capire che ciò che quell'uomo sta dicendo è realmente in grado di influenzare le persone. La stessa cosa è successa con Reagan.
Lei come lo ha conosciuto e incontrato, e quale ricordo ha di lui?
Sono stato in un rapporto personale con Giovanni Paolo II per dodici anni e, ovviamente, ho lì moltissimi ricordi di lui, sui quali potrei un giorno scrivere un libro.
Milioni di cattolici negli Stati Uniti sono stati motivati da Giovanni Paolo II e lo saranno ancora di più dalla sua beatificazione. Per quanto riguarda l'Europa, ovviamente la beatificazione ha un particolare significato per la Polonia. Spero, però, che essa risvegli anche il resto dell'Europa dall'attuale malessere culturale, descritto così bene da Paolo II, alle capacità rivitalizzanti della fede cristiana.
Come e perché un figlio spirituale della Polonia è stato capace di indicare una via d'uscita a tutte le contraddizioni della cultura europea? E in che modo Wojtyla ha anticipato il Concilio?
Perché ha capito che la cultura è la forza più dinamica nella storia ed è stato così capace di richiamare a un rinnovamento culturale al di là delle consuete barricate della politica. Ha poi anticipato il Concilio con la sua idea di "chiamata universale alla santità" e il riconoscimento del ruolo critico dei laici nell'evangelizzazione.
Nel metodo e nell'insegnamento filosofico e pastorale di Wojtyla, e poi nel suo magistero, l'esperienza occupa un posto fondamentale. È d'accordo? Può spiegarlo?
È quanto fa un fenomenologo: di fronte a una questione, guarda all'esperienza umana, cercando di approfondire la questione. Pastoralmente, Giovanni Paolo II aveva una lunga esperienza nella preparazione dei giovani al matrimonio e alle responsabilità della vita familiare, che ha dato evidentemente influenzato il suo insegnamento in queste materie.
È ormai opinione comune che Giovanni Paolo II ha cambiato la storia del mondo, dando un contributo decisivo ad abbattere il comunismo. Chi lo afferma però non è spesso in grado di spiegare come questo è avvenuto. In altre parole, Giovanni Paolo II non ha sconfitto i regimi totalitari sul piano politico. Ma allora che cos'ha fatto esattamente?
Su questo argomento ho scritto ben tre libri: The Final Revolution (1992), Witness to Hope (1999), and The End and the Beginning (2010). Giovanni Paolo II ha acceso in Polonia una rivoluzione delle coscienze che ha creato nuove forme di potere cui il comunismo non è riuscito a contrapporsi.
Come è cambiato con Giovanni Paolo II il rapporto della Chiesa con il potere?
Giovanni Paolo II ha rafforzato il papato come globale testimonianza morale. Qualcosa di nuovo che riflette l'insegnamento del Concilio Vaticano Secondo sul corretto rapporto della Chiesa con la politica.
Una delle immagini di Karol Wojtyla più diffuse a livello mediatico è quella di "grande comunicatore". Non pensa che dietro la verità si sia pian piano formato uno slogan ideologico, che porta a fraintendere la sua figura?
No, penso sia solo un'etichetta giustapposta da chi non vuol fare la fatica di capire ciò che uno sta dicendo, o che non riesce a capire che ciò che quell'uomo sta dicendo è realmente in grado di influenzare le persone. La stessa cosa è successa con Reagan.
Lei come lo ha conosciuto e incontrato, e quale ricordo ha di lui?
Sono stato in un rapporto personale con Giovanni Paolo II per dodici anni e, ovviamente, ho lì moltissimi ricordi di lui, sui quali potrei un giorno scrivere un libro.
© Riproduzione riservata.
Gli occhi di Marthe Robin di Antonio Socci - Posted: 29 Apr 2011 01:42 AM PDT - Come promesso eccovi un capitolo del mio nuovo libro "La guerra contro Gesù" (Rizzoli)
La storia di Alessandra (di Rudinì, nda) dimostra che infine dal pantano della cultura nichilista, che genera disperazione, non ci libera un'altra cultura, neanche cattolica, ma un incontro, dove si sperimenta che davvero Gesù è vivo, oggi e opera potentemente (e questa è la prova della sua resurrezione).
Così come i sofismi di certi antichi filosofi greci sull'impossibilità del movimento venivano spazzati via non da altri sofismi contrapposti, ma dalla concretezza di un uomo in movimento. Dal fatto che accade.
Anche i pregiudizi ideologici dell'esegesi razionalista (poiché un pregiudizio è impermeabile agli argomenti altrui) sono spazzati via di colpo solo da un fatto in cui ci si imbatte e che mostra tangibilmente Gesù esistente e vivo, quindi risorto, operante qui e ora.
E' quanto accadde – secondo Guitton – a uno dei più radicali fra gli esegeti razionalisti: Paul-Louis Couchoud.
Abbiamo già visto il suo pensiero espresso in "Le mystère de Jésus". Ecco le sue parole: "L'idea che Dio si sia incarnato… ci urta. E' una concezione prekantiana. Essa è stata accettata da grandi spiriti come sant'Agostino, san Tommaso, Pascal; però oggi è inammissibile"[1].
Couchoud esprimeva con perfetta lucidità il "pregiudizio" dei moderni.
Egli infatti eliminava "a priori" la possibilità dell'incarnazione perché "inconcepibile", pretesa tipica del razionalismo moderno secondo il quale ciò che supera le possibilità del raziocinio umano non esiste (come se l'Essere fosse stato partorito dagli uomini e quindi dovesse star "dentro" la loro mente, quando è evidente il contrario: gli uomini sono "contenuti" dentro l'Essere e la loro mente è piuttosto una finestra aperta sull'infinito che una scatola contenente il Tutto)[2].
Il suo pensiero si inseriva nel filone "mitico" dell'esegesi, quello che da David Strauss ritiene che Gesù sia stato "inventato", come Dio incarnato che soffre e redime, per dare concretezza a un pensiero, a un simbolo dell'immaginario collettivo.
Couchoud, filosofo, esegeta, medico, docente universitario, fondatore di un nota collana di libri "anticristiana", arrivava alle conclusioni estreme.
Jean Guitton, che fu suo amico e ha scritto molto su di lui e la sua parabola umana e intellettuale, sintetizza così il suo caso: "Egli era la persona più estranea al cristianesimo che vi sia stata al mondo (negava l'esistenza storica di Gesù)"[3].
Quella sua negazione a priori dell'esistenza storica di Gesù non aveva il supporto di veri argomenti storici, perché anzi i documenti dimostrano il contrario.
La sua era una paradossale conclusione filosofica ed esegetica che nasceva dal riconoscere che la riduzione di Gesù a semplice rabbi, fatta dagli esegeti alla Loisy e Renan, faceva sorgere un problema ancor più grande di quello che pretendeva di risolvere, perché così diventava assolutamente impossibile spiegare "la nascita del cristianesimo", che ai suoi occhi appariva "un'incredibile assurdità e il più bizzarro dei miracoli"[4].
Era dunque su posizioni radicalmente anticristiane.
Eppure anche Couchoud capovolge la sua posizione e si converte – secondo la testimonianza di Guitton[5], contestata da alcuni – perché un giorno si imbatte in un fatto, nella presenza evidente di Gesù vivo e operante nel XX secolo.
La clamorosa conversione di Couchoud si verifica grazie al suo incontro con Marthe Robin.
Marthe è una straordinaria mistica. Figlia della profonda Francia contadina, questa ragazza intelligentissima, dolce, semplice, di grande forza interiore, nata nel 1902 e morta il 6 febbraio 1981, dopo ripetuti gravi problemi, dal 1928 resta completamente paralizzata e perfino impossibilitata a deglutire.
Per 50 anni, nel suo villaggio tra il Rodano e le Alpi, vivrà inchiodata al suo letto, senza più poter dormire, senza più poter mangiare né bere alcunché, nutrendosi solo dell'eucaristia che inspiegabilmente poteva deglutire.
Non vedeva. Ogni venerdì riviveva le sofferenze della Passione di Gesù del quale portava le stimmate. Dal suo letto di dolore, tramite le persone che andavano da lei, ha fondato centinaia di centri di preghiera in tutto il mondo, i "Foyers di carità".
Il 15 ottobre 1925 aveva messo nero su bianco il suo atto di abbandono e offerta al Signore: "una vera e propria lettera d'amore. Ha ventitré anni, è il suo fidanzamento"[6].
Ecco le sue parole:
Signore, mio Dio, hai domandato tutto alla tua piccola serva. Prendi dunque e accogli tutto.
In questo giorno mi affido a Te senza riserve e senza nulla in cambio.
O mio amato, è solo Te che voglio…
E per amor tuo rinuncio a tutto…
O Dio d'amore prendi la mia memoria e tutti i suoi ricordi.
Prendi la mia intelligenza e fa' che sia a servizio solo della tua massima gloria…
Prendi tutta la mia volontà…
Prendi il mio corpo e tutti i suoi sensi, il mio spirito e tutte le sue facoltà, il mio cuore e tutti i suoi affetti.
Ricevi l'immolazione che ogni giorno e ogni ora io Ti offro in silenzio. Degnati di accoglierla e trasformarla in grazie e benedizioni per tutti coloro che amo, per la conversione dei peccatori e la santificazione delle anime…
Prendi e santifica tutte le mie parole, tutte le mie azioni, tutti i miei desideri.
Sii per l'anima mia il suo bene e il suo tutto. La dono e l'abbandono a Te.
Accetto con amore tutto ciò che viene da Te: dolore, sofferenze, gioia, consolazione, aridità, abbandono, rinuncia, disprezzo, umiliazione, lavoro, prove…
Dio mio, Tu conosci la mia fragilità e l'abisso infinito della mia grande debolezza. Se un giorno dovessi essere infedele alla Tua suprema volontà, se dovessi… disertare il Tuo cammino d'amore, oh!, te ne supplico, fammi la grazia di morire all'istante!
O Dio dell'anima mia, o sole divino, io Ti amo, Ti benedico, Ti lodo, mi abbandono tutta a Te. Mi rifugio in Te.
Nel Tuo seno… Prendimi con Te.
Non voglio vivere che in Te.
Riferisce Jean Guitton: "Mi accadde di parlare con de Gaulle di Marthe Robin e di sentirgli dire che la considerava forse la persona più eccezionale di questo secolo. Il cardinale Daniélou condivideva questa opinione"[7].
Il fatto curioso è che Guitton, importante filosofo cattolico, conobbe Marthe proprio su invito di Couchoud che con lei aveva intrecciato una grande amicizia: "un'amicizia che legava il più grande ateo dell'esegesi alla persona mistica più singolare del mondo"[8].
Guitton dà ancora qualche flash su Marthe: "Possedeva un carisma superiore a qualunque altra persona che io abbia mai conosciuto. Non so spiegarlo: quella donna era isolata da tutto; lottava continuamente contro il demonio. Non si poteva entrare nella sua stanza senza che tutti i mobili fossero scagliati a terra, non si sa come"[9].
Il vescovo di Valence incaricò due illustri medici di visitare Marthe ed esprimere il loro parere scientifico. Il dottor André Ricard, chirurgo degli Ospedali di Lione, e il dottor Jean de Chaume, professore alla Facoltà di medicina e primario della Clinica neuropsichiatrica di Lione, la visitarono per un'intera giornata e stilarono un rapporto medico in cui, sotto giuramento, scrissero:
"Non presenta turbe psichiche di rilievo, né segni di affezione clinica: escludiamo la frode, la simulazione e l'origine isterica delle manifestazioni (stigmate, inedia, visioni, estasi); siamo obbligati a riconoscere la nostra impotenza; dichiariamo la presenza di vere stigmate sanguinanti, al di fuori di ogni imbroglio e preferiamo riconoscere che non vediamo né la causa né il meccanismo in base alle nostre attuali conoscenze e le consideriamo di ordine soprannaturale"[10].
L'incontro e l'amicizia con Marthe Robin fu decisivo per Couchoud.
Il grande ateo, lo studioso razionalista, non poteva negare l'evidenza del Mistero, in quella presenza. Le scrisse: "Ignoro quello che ignori. Vorrei sapere quello che sai. Di quello che preghi, mi giunge il profumo. Non dimenticarti di me, o piena di vita!".
Jean Guitton, che ha conosciuto e seguito questa loro amicizia, testimonia la conversione finale di Couchoud nel libro "Ogni giorno che Dio manda in terra" [11].
Da Antonio Socci, La guerra contro Gesù, Rizzoli
[1] Cit in storia esegesi spadafora… p. 228
[2] Quello straordinario maestro di razionalità che è don Luigi Giussani osserva: "Se c'è un delitto che una religione può compiere è quello di dire 'io sono l'unica strada'. E' esattamente ciò che pretende il cristianesimo. Non è ingiusto sentirsi ripugnare di fronte a tale affermazione. Ingiusto sarebbe non domandarsi il motivo di tale pretesa" (All'origine della pretesa cristiana, p. 31). Quindi l'atteggiamento razionale, osserva Giussani, è quello di chi si chiede – davanti a simile pretesa – se sia vera oppure no, se sia accaduto oppure no, se Dio si è davvero fatto uomo o no. Perché "se fosse accaduto, questa strada sarebbe l'unica… perché l'avrebbe tracciata Dio" (p. 34).
[3] Guitton, Ritratto di Marthe Robin, p. 19.
[4] Cit. in Messori, Ipotesi su Gesù, p. 152
[5] Guitton, Ogni giorno che Dio manda in terra, cit. pp. 157-159
[6] Così scrive Raymond Peyret, in "Marthe Robin" (Massimo…), p. 24. Da questo libro riprendo anche il testo scritto da Marthe.
[7] Guitton, Ogni giorno che Dio manda in terra, p. 112
[8] Guitton, Ritratto di Marthe Robin, p. 25
[9] Guitton, Ogni giorno che Dio manda in terra, p. 112
[10] Guitton-Antier, Poteri misteriosi della fede, Piemme, p. 206
[11] Guitton riferisce i fatti in "Ogni giorno che Dio manda in terra", pp. 157-158
Ucciso Osama Bin Laden Il terrorismo è ancora vivo di Massimo Introvigne, 02-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Osama Bin Laden è stato ucciso da un commando americano in Pakistan: il presidente Usa Barack Obama lo ha annunciato in un discorso in diretta alla nazione. Il terrorista è stato ucciso vicino a Islamabad. Il corpo è stato recuperato ed è in mano alle forze Usa. Osama bin Laden ha opposto resistenza armata quando le forze speciali americane sono entrate nel suo rifugio, hanno riferito fonti del Pentagono. Nella sparatoria è stato ucciso ed il suo corpo è stato prelevato dai militari americani giunti in elicottero sul luogo dell'operazione. Il presidente Barack Obama ha detto che "giustizia è stata fatta". La popolazione americana ha accolto la notizia riversandosi in strada per festeggiare, una folla si è radunata festosa anche a Ground Zero.
Con la morte di Osama bin Laden (1957-2011) non muore l'organizzazione terroristica da lui fondata, al-Qa'ida, che negli ultimi giorni in Marocco ha dimostrato di sapere ancora colpire, ma molte cose sono destinate a cambiare sul piano simbolico e del carisma. L'uccisione del suo massimo dirigente muta probabilmente poco nell'operatività quotidiana di al-Qa'ida, già da tempo in mano ad altri, ma l'episodio – oltre a dare ragione a quella parte di studiosi che (come il sottoscritto) ha sempre pensato che non fosse morto – assesta un serio colpo al carisma dell'organizzazione, che ora comincerà a costruire una sua fase postcarismatica diffondendo rapidamente l'immagine e la leggenda del «martire» bin Laden.
Il «carisma» – una nozione già di per sé controversa fin dalla sua descrizione originaria a opera di Max Weber (1864-1920) – dei capi del terrorismo è stato spesso spiegato con la psico-patologia o con una tendenza alla frode e all'inganno tipica delle personalità criminali. Tuttavia queste spiegazioni sono inadeguate, e non rendono ragione del perché alcune forme di «carisma malato» abbiano successo e altre no. In realtà, anche le forme di leadership più estreme emergono dall'incontro fra una domanda di estremismo pre-esistente e una capacità di offerta e di organizzazione che fa rientrare i dirigenti in questione nella categoria di quelli che la sociologia chiama moral entrepreneurs, «imprenditori morali», seppure di un tipo – si scuserà il gioco di parole – «immorale».
La vicenda di Osama bin Laden è, da questo punto di vista, tristemente esemplare.
Durante l'insurrezione contro il governo filo-sovietico in Afghanistan, nel 1982 si trasferisce a Peshawar, la città del Pakistan più vicina alla frontiera afghana, Osama bin Laden, un miliardario saudita venticinquenne figlio del magnate delle costruzioni Muhammad bin Laden (1908-1967), che dal 1980 svolgeva attività di «corriere» trasportando in Pakistan donazioni di ricchi sauditi destinate a diverse fazioni della resistenza anti-sovietica afghana. All'università Re Abdu l-Aziz di Jeddah, in Arabia Saudita, Osama ha incontrato il suo maestro spirituale, lo shaykh palestinese Abdullah Azzam (1941-1989), con cui fonda una rete che riceverà e instraderà in Afghanistan nei dieci anni 1982-1992 trentacinquemila volontari di quarantacinque Paesi. Fra il 1988 e il 1989 da questa rete nasce al-Qa'ida: il nome significa «la Base» e indica sia un'ideale base militare sia una «base» o banca di dati creata da bin Laden per mantenersi in contatto con le migliaia di volontari che avevano combattuto nella «brigata internazionale islamica».
Il carisma di bin Laden si forma dunque nel contesto di una guerra, quella afghana, e nasce dal denaro e dalla religione. Bin Laden è il capo di al-Qa'ida anzitutto perché ne è il finanziatore: ma questo, di per sé, non sarebbe sufficiente. Sul giovane miliardario saudita scende il mantello dello shaykh Azzam, un rispettato dirigente del fondamentalismo islamico internazionale, che lo considera il suo migliore allievo e potenziale successore, non tanto perché gli riconosca speciali doti intellettuali ma perché ne ammira il coraggio e la decisione di rinunciare a una vita di agi e di lussi per rischiare la vita ogni giorno sulle montagne afghane. Come capita anche in altri contesti, l'ascetismo di chi viene dalla ricchezza genera consenso e carisma: nasce qui, insieme alla storia, anche la leggenda di bin Laden.
Deluso dalle lotte intestine fra i mujaheddin afghani, nel 1990 bin Laden ritorna in Arabia Saudita per occuparsi degli affari di famiglia, grazie ai quali sistema fra la Mecca e Medina quattromila veterani della brigata internazionale. Questo ambiente si lega a un fondamentalismo incline al terrorismo, che guarda come a un maestro allo shayk Omar Abdel-Rahman (1938-), lo «sceicco cieco» leader dell'organizzazione più radicale del fondamentalismo egiziano, al-Jama'a al-Islamiya («Gruppo Islamico»), uno scisma estremista dei Fratelli Musulmani, dal 1990 residente negli Stati Uniti. La svolta, per bin Laden, si verifica con la Guerra del Golfo del 1990. Osama – le cui relazioni con il dittatore dell'Iraq miglioreranno considerevolmente in seguito – disprezza Saddam Hussein che considera un nazionalista laicizzatore, e offre al governo saudita la mobilitazione dei reduci della brigata internazionale islamica per combattere le truppe irakene in Kuwait.
Non è preso sul serio: il governo preferisce affidarsi agli americani, e oltre cinquemila soldati occidentali sbarcano sul sacro suolo dell'Arabia Saudita. Per Osama si tratta insieme di uno smacco personale e di una profanazione religiosa. Reagisce violentemente, e la reazione si fa ancora più dura quando ventimila soldati americani rimangono in Arabia Saudita anche dopo la fine della guerra. La presenza di «crociati», come li chiama, nella «terra dei due Luoghi Santi» – la Mecca e Medina: l'Arabia Saudita – è un motivo ricorrente in tutta la produzione letteraria di bin Laden.
Le critiche al governo e al re escludono Osama dalle relazioni privilegiate di cui godeva con la dinastia regnante, e lo mettono in contrasto con la sua stessa famiglia. Così, nel 1991, bin Laden si trasferisce in Sudan dove è accolto dall'ideologo dei fondamentalisti musulmani locali, Hasan al-Turabi, oggi in disgrazia ma all'epoca impegnato a far trionfare nel paese gli ideali del fondamentalismo. Bin Laden fissa la sua residenza nel quartiere Riyadh di Khartoum, e i suoi contatti con il governo ispirato da al-Turabi lo trasformano nel più grande costruttore del paese, cui vanno fra l'altro gli appalti della superstrada Khartoum-Port Sudan e dell'aeroporto di Port Sudan. La sua fortuna personale – valutata in trecento milioni di dollari prima del trasferimento in Sudan – uscirà dall'avventura sudanese più che raddoppiata. Militanti formati e sostenuti da bin Laden hanno un ruolo anche nelle campagne terroristiche dell'islam radicale in Algeria.
Il 29 dicembre 1992 si verifica il primo attentato attribuito ad al-Qa'ida: bombe esplodono ad Aden, dove sono passate truppe americane dirette in Somalia, peraltro senza fare vittime. Il 3 e 4 ottobre 1993 diciotto militari americani sono uccisi a Mogadiscio: l'inchiesta rivela che alcuni dei terroristi sono stati addestrati in campi di al-Qa'ida in Sudan e in Afghanistan. Gli Stati Uniti cominciano a interessarsi più da vicino a bin Laden, soprattutto dopo l'attentato del 23 febbraio 1993 a New York, quando una bomba al World Trade Center uccide sei persone e ne ferisce più di mille. Per gli attentati sono incriminati discepoli dello shaykh Omar Abdel-Rahman e lo stesso «sceicco cieco», i cui legami con bin Laden iniziano a emergere.
Nel 1994 – di fronte alla crescente pressione americana – l'Arabia Saudita revoca la cittadinanza a Osama bin Laden; il più anziano fra i suoi numerosi fratelli, Bakr bin Laden, dichiara che la famiglia e il Gruppo bin Laden «denunciano e condannano» Osama. Questi reagisce con due attentati in Arabia Saudita, dove muoiono ventiquattro americani e due indiani. La pressione saudita, che si aggiunge a quella americana, è eccessiva anche per il Sudan, che nel 1996 espelle bin Laden.
Il terrorista torna in Afghanistan, dove è accolto dai talebani, puritani tradizionalisti poco interessati alla politica internazionale, che tuttavia rimangono affascinati dall'ultra-fondamentalismo e dalla leadership globale di bin Laden. Il nome di bin Laden rimane poco noto al grande pubblico internazionale fino agli attentati di al-Qa'ida del 7 agosto 1998 contro le ambasciate americane in Kenya e in Tanzania, condotti tramite autobomba, che lasciano sul terreno 234 morti, fra cui 12 americani. La reazione militare americana del 20 agosto 1998 contro basi situate in Afghanistan e contro uno stabilimento chimico in Sudan sospettato – probabilmente a torto – di fornire armi chimiche a bin Laden dà inizio a una stagione in cui la lotta contro il terrorista diventa una priorità della politica estera statunitense.
Il 7 luglio 1999 questa politica si traduce in un embargo economico contro il regime dei talebani. Ma il nome di bin Laden è associato regolarmente a nuovi attentati, in particolare a quello realizzato il 5 ottobre 2000 da un battello-bomba contro la nave statunitense Cole, all'ancora nel porto di Aden, che fa 17 morti e 39 feriti fra i marinai americani.
Si arriva così alla lunga preparazione e agli attentati dell'11 settembre 2001. Se ancora nell'inverno del 1998 i talebani avevano tentato di scambiare con gli Stati Uniti l'espulsione del terrorista dal paese con il riconoscimento del loro regime da parte del governo di Washington, nel 2001 è ormai troppo tardi per tutti: i giochi sono fatti e Osama e i talebani sono diventati, secondo un'espressione riportata in un documento del governo britannico, «due facce di una stessa medaglia». La prima conseguenza dell'11 settembre è così la guerra all'Afghanistan e la caduta del regime dei talebani.
Tuttavia, il modo di esercizio della leadership di bin Laden gli permette di continuare a funzionare anche dopo la distruzione della base afghana. L'obiettivo di bin Laden non era infatti quello di creare un movimento, ma un network capace di collegare fra loro – originariamente, sulla base di un'esperienza comune durante la resistenza anti-sovietica in Afghanistan – gruppi di storia e origine diversa.
Che cosa ricevevano, però, questi gruppi da al-Qa'ida? Com'è tipico dei network, non tanto una «tessera», una «iscrizione» o un «battesimo», ma un coordinamento rispetto all'attività di altri gruppi, e aiuti concreti. Il più piccolo gruppo islamico radicale nel Sud-Est asiatico o in qualche paese africano poteva rivolgersi ad al-Qa'ida perdendo, certo, una frazione della sua indipendenza, ma ricevendo in cambio addestramento militare nelle basi afghane, armi, denaro e suggerimenti. Sembra che non si trattasse sempre – e neppure nella maggioranza dei casi – di eseguire piani concepiti dalla «cupola» di al-Qa'ida. L'organizzazione al centro del network creato da Osama bin Laden operava piuttosto come un editore. Questi può certamente avere le sue idee su quali libri potrebbero avere successo, e commissionare specifici manoscritti. Ma, nella maggior parte dei casi, riceverà proposte da potenziali autori, le valuterà e le incoraggerà e finanzierà nel caso gli sembrino promettenti.
Così al-Qa'ida era normalmente avvicinata da gruppi radicali che avevano già un loro progetto di azione terroristica. Nella posizione dell'«editore» bin Laden ascoltava, accettava o rifiutava il progetto, e in caso affermativo dava suggerimenti, invitava i terroristi ad addestrarsi nei suoi campi, li riforniva di armi e di fondi. Per lo stesso 11 settembre 2001 circola fra gli studiosi una «tesi tedesca» secondo cui il principale esecutore materiale dell'attentato, Mohammed Atta (1968-2001), e i suoi amici – tutti frequentatori della stessa moschea radicale di Amburgo – avrebbero elaborato autonomamente un piano che avrebbero portato a bin Laden. Questi lo avrebbe incoraggiato, perfezionato e finanziato, ma non originariamente concepito. A questa «tesi tedesca» si contrappone una «tesi americana», secondo la quale bin Laden e la sua cerchia immediata avrebbero ideato il progetto dell'11 settembre 2001 e ne avrebbero poi cercato gli esecutori. Sembra certo che, in alcuni casi, al-Qa'ida operasse con le modalità della «tesi americana»: ma non si trattava del suo modus operandi tipico. Il modello della «tesi tedesca» corrisponde probabilmente di più agli attentati del 2004 a Madrid (191 morti) e del 2005 a Londra (52 morti).
Se però l'organizzazione – per molti versi unica e straordinaria – messa in piedi da bin Laden funzionava come un network e non come un movimento, ci si può chiedere come sia cambiata dopo la distruzione delle sue basi in Afghanistan. Per esistere nella realtà empirica, e non solo nella mente degli studiosi che lo descrivono, un network ha bisogno di una certa base fisica. In Sudan prima, in Afghanistan poi, gruppi radicali di tutto il mondo trovavano un vero e proprio supermercato del terrorismo gestito da bin Laden, dove potevano rifornirsi di addestramento, armi e denaro. Con la guerra in Afghanistan e la caduta del regime dei talebani il supermercato è stato chiuso. Ne sono rimaste filiali più piccole in zone impenetrabili del Pakistan – dove si era rifugiato lo stesso bin Laden – e di altri Paesi. Ma si tratta di micro-realtà, senza paragoni possibili con quello che un tempo è esistito su vasta scala in Afghanistan e che i bombardieri americani – dopo l'11 settembre 2001 – si incaricherebbero rapidamente di cancellare ove al-Qa'ida tentasse di ricostruirlo altrove. Dei numerosi «reparti» del supermarket di bin Laden è rimasto in piedi quello bancario, il meno legato a una presenza territoriale specifica. Ma anche questo ha subito qualche colpo, e altri ne subirà con la morte del superterrorista.
E tuttavia il network di bin Laden ha continuato a funzionare e funziona ancora, anche attraverso alleanze con ambienti iraniani per certi versi «contro natura», dal momento che al-Qa'ida è composta da sunniti ed è alleata dei talebani, molti dei cui dirigenti considerano gli sciiti eretici usciti dall'islam, nonché – e qui il connubio è ancora più sorprendente – con ambienti della malavita organizzata internazionale e con un terrorismo politico «anti-globalista», ma non islamico né religioso, anzi spesso marxista.
Non è escluso che il principale dirigente di al-Qa'ida in Iraq, Abu Musab al-Zarqawi (1966-2006), sia stato «tradito» proprio da bin Laden – il quale avrebbe fatto arrivare agli americani informazioni su dove trovarlo e ucciderlo – in quanto, fanaticamente anti-sciita, si opponeva alla collaborazione fra il terrorista saudita e gli sciiti iraniani. È certo, comunque, che la capacità del «centro» del network di comunicare con la sua periferia ha subito colpi molto duri, e altri potrebbe subirne dopo la morte del suo leader carismatico.
La teoria dei network insegna, tuttavia, che anche l'eventuale sparizione del centro del network non implica la sparizione delle sue componenti, che – proprio perché il network non è, tecnicamente, un movimento – devono aver sempre mantenuto un grado di autonomia sufficiente a farle funzionare, ove la necessità lo richieda, da sole. Molti movimenti terroristici che si sono collegati alla rete di al-Qa'ida esistevano prima di bin Laden, e verosimilmente continueranno a esistere dopo di lui.
Il colpo portato con l'uccisione di bin Laden alla capacità della «testa» di al-Qa'ida di comunicare con le sue gambe rappresenta un'importante vittoria nella lotta contro il terrorismo, e rende più difficili – non impossibili – attentati in grande stile, particolarmente negli Stati Uniti, come quello dell'11 settembre 2001. Per altri versi, «gambe» separate dalla «testa» possono continuare a scalciare, secondo la meccanica tipica di questo terrorismo, su scala più modesta, ma in modo assai più difficile da prevedere, rendendo ancora più arduo il compito di prevenzione.
Bin Laden, da questo punto di vista, resterà pericoloso da morto come lo era stato da vivo.
Il Papa che si riprese la speranza di Massimo Introvigne, 02-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Dopo la beatificazione di Giovanni XXIII (1881-1963), che convocò il Concilio Ecumenico Vaticano II, quella di Giovanni Paolo II (1920-2005) proclama per la prima volta beato uno dei padri conciliari che animarono le discussioni nell'aula dell'assise ecumenica. Nell'omelia per la Messa di beatificazione, Benedetto XVI ha voluto insistere su questo speciale legame fra il beato Giovanni Paolo II e il Concilio, leggendo all'immensa folla convenuta in Piazza San Pietro le parole del Testamento di Papa Wojtyla: «Desidero ancora una volta esprimere gratitudine allo Spirito Santo per il grande dono del Concilio Vaticano II, al quale insieme con l'intera Chiesa - e soprattutto con l'intero episcopato - mi sento debitore. Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito. Come vescovo che ha partecipato all'evento conciliare dal primo all'ultimo giorno, desidero affidare questo grande patrimonio a tutti coloro che sono e saranno in futuro chiamati a realizzarlo. Per parte mia ringrazio l'eterno Pastore che mi ha permesso di servire questa grandissima causa nel corso di tutti gli anni del mio pontificato».
Il beato Giovanni Paolo II volle essere - e di fatto fu - il Papa della «grandissima causa» della realizzazione del Concilio. Ma, esattamente, «qual è questa "causa"?», si è chiesto dopo aver letto le parole del Testamento Benedetto XVI. La risposta, infatti, non è ovvia. Realizzare il Concilio significa interpretarlo. «Esemplare figlio della Nazione polacca», secondo il suo successore «Karol Wojtyla salì al soglio di Pietro portando con sé la sua profonda riflessione sul confronto tra il marxismo e il cristianesimo». Qui sta la chiave di tutta l'esperienza del nuovo beato. Il postconcilio in Polonia fu diverso dal postconcilio nell'Europa Occidentale o negli Stati Uniti. In Polonia il problema non era tanto confrontarsi con la secolarizzazione quanto resistere alla pressione marxista, rivendicare per la Chiesa Cattolica quel ruolo centrale nell'annunciare la speranza agli uomini che le ideologie del XX secolo - soprattutto il comunismo - le avevano in qualche modo usurpato.
Questo è stato dunque, per Benedetto XVI, il modo d'interpretare e realizzare il Concilio del beato Giovanni Paolo II: «quella carica di speranza che era stata ceduta in qualche modo al marxismo e all'ideologia del progresso, egli l'ha legittimamente rivendicata al Cristianesimo». In Polonia il grande confronto fra cristianesimo e marxismo era «incentrato sull'uomo» e si giocava sulla questione della persona umana. Chi era in grado di portare agli uomini la vera liberazione, la vera libertà? Il messaggio del beato Giovanni Paolo II «è stato questo: l'uomo è la via della Chiesa, e Cristo è la via dell'uomo». Questo messaggio, nota Benedetto XVI, in senso proprio «è la grande eredità del Concilio Vaticano II e del suo "timoniere" il Servo di Dio Papa Paolo VI [1897-1978]». Ma per estrarlo, per così dire, dal Concilio e renderlo palese a tutta la Chiesa occorreva forse proprio l'esperienza polacca, il duro confronto con il marxismo: un'esperienza che il nuovo beato diventato vescovo di Roma ha reso universale, guidando «il Popolo di Dio a varcare la soglia del Terzo Millennio, che proprio grazie a Cristo egli ha potuto chiamare "soglia della speranza"». A nome della Chiesa il beato Giovanni Paolo II, percorrendo il mondo, si è ripreso le piazze: e si è ripreso la speranza, che le ideologie anticristiane avevano cercato di portare via alla Chiesa e di rivendicare abusivamente per se stesse.
Ma attenzione: per portare a buon fine questo grande progetto non fu sufficiente trarre dal Concilio l'insegnamento secondo cui «l'uomo è la via della Chiesa». Immediatamente occorreva aggiungere che «Cristo è la via dell'uomo». La prima affermazione, senza la seconda, degraderebbe la Chiesa a mera agenzia umanitaria. Unita alla seconda, invece, restaura «la fisionomia autentica della speranza, da vivere nella storia con uno spirito di "avvento", in un'esistenza personale e comunitaria orientata a Cristo, pienezza dell'uomo». Anche il coraggio di proclamare con forza che solo in Cristo si trova la verità sull'uomo era maturato nel nuovo beato attraverso l'esperienza polacca. Ed è in lingua polacca che Benedetto XVI ha voluto aggiungere che Papa Wojtyla imparò e insegnò a «non avere paura di dirsi cristiani, di appartenere alla Chiesa, di parlare del Vangelo», «a non avere paura della verità, perché la verità è garanzia della libertà». Di fronte a regimi politici che istituzionalizzavano la menzogna, il beato proclamò che solo la verità garantisce la libertà, e che la verità è Gesù Cristo.
Il beato Giovanni Paolo II era - ha ricordato non senza commozione Benedetto XVI - una persona speciale, dotata di una grande capacità di comunicazione e di non comuni doti intellettuali, così che anche chi, come il suo successore, lo frequentava quotidianamente rimaneva colpito dalla continua «ricchezza delle sue intuizioni». Ma questo non sarebbe stato sufficiente – in un momento difficilissimo per l'umanità e per la Chiesa – a perseguire con successo la «grandissima causa» della rivendicazione alla Chiesa della speranza attraverso la corretta realizzazione del Concilio. Karol Wojtyla era anzitutto un santo: e nulla di meno di un santo sarebbe stato sufficiente al grandioso compito che si era prefisso. Poco o nulla si capisce del beato Giovanni Paolo II se non si considerano la sua «profondità spirituale», «l'esempio della sua preghiera», la «sua profonda umiltà, radicata nell'intima unione con Cristo, [che] gli ha permesso di continuare a guidare la Chiesa e a dare al mondo un messaggio ancora più eloquente proprio nel tempo in cui le forze fisiche gli venivano meno».
Prendendo spunto dal Vangelo della domenica - quello dei dubbi dell'apostolo san Tommaso - Benedetto XVI ha ricordato che la speranza - un tema centrale della sua enciclica Spe salvi - non sta senza la fede. La speranza del beato Giovanni Paolo II veniva dalla sua fede granitica, tanto che - ha detto il Pontefice regnante - «la beatitudine eterna di Giovanni Paolo II, che oggi la Chiesa ha la gioia di proclamare, sta tutta dentro queste parole di Cristo: "Beato sei tu, Simone" e "Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!".
Ma la fede del beato Giovanni Paolo II aveva un carattere e un taglio particolare. Stava in rapporto continuo e costante con la «beatitudine, che nel Vangelo precede tutte le altre»: «quella della Vergine Maria, la Madre del Redentore». Molti hanno voluto interpretare il fatto che il Vaticano II abbia deciso di non dedicare un documento specifico alla Madonna come la vittoria di un fronte progressista che temeva di dispiacere ai protestanti parlando troppo di Maria. Benedetto XVI ci ha più volte assicurato che, al contrario, la scelta di trattare della Vergine Maria nell'ottavo capitolo della costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, nell'ambito - come recita il titolo di quel capitolo - del «mistero della Chiesa», si radica in una lunga e autorevole tradizione teologica, e del resto quel capitolo del documento conciliare costituisce il più importante ed esteso trattato sulla Madonna prodotto dal Magistero cattolico fino a quella data.
Nell'omelia per la beatificazione il Papa oggi ribadisce che «Karol Wojtyla, prima come Vescovo Ausiliare e poi come Arcivescovo di Cracovia, ha partecipato al Concilio Vaticano II e sapeva bene che dedicare a Maria l'ultimo capitolo del Documento sulla Chiesa significava porre la Madre del Redentore quale immagine e modello di santità per ogni cristiano e per la Chiesa intera. Questa visione teologica è quella che il beato Giovanni Paolo II ha scoperto da giovane e ha poi conservato e approfondito per tutta la vita». La scelta dei Padri conciliari, spiega Benedetto XVI, metteva in stretta relazione la Madonna come modello dei santi e la vocazione universale di tutti i cristiani, laici compresi, «alla misura alta della vita cristiana, alla santità», che certo non è stata inventata dal Concilio ma che la Lumen Gentium ha sottolineato in modo particolare. «Come afferma la Costituzione conciliare Lumen gentium sulla Chiesa [,] [t]utti i membri del Popolo di Dio - Vescovi, sacerdoti, diaconi, fedeli laici, religiosi, religiose - siamo in cammino verso la patria celeste, dove ci ha preceduto la Vergine Maria, associata in modo singolare e perfetto al mistero di Cristo e della Chiesa».
Ancora, il beato Giovanni Paolo II - tra i tanti modelli di spiritualità mariana - ne scelse uno, quello di san Luigi Maria Grignion de Montfort (1673-1716), che nel suo Trattato della vera devozione alla Santa Vergine proponeva l'ideale che chiamava della santa schiavitù alla Madonna, cioè della consacrazione totale di tutti i propri beni, anche spirituali e compresi i propri meriti, alla Vergine o, più precisamente, a Gesù Cristo per mezzo di Maria, riassunta nel motto «Totus tuus». Sia ai suoi tempi sia oggi, la spiritualità montfortana non ha mancato di trovare anche oppositori. Tanto più significativa è la sua franca rivendicazione come principio e fondamento della vita spirituale del beato Giovanni Paolo II da parte di Benedetto XVI. Essa, ha detto il Papa, «è riassunta nello stemma episcopale e poi papale di Karol Wojty?a: una croce d'oro, una "emme" in basso a destra, e il motto "Totus tuus", che corrisponde alla celebre espressione di san Luigi Maria Grignion de Montfort, nella quale Karol Wojty?a ha trovato un principio fondamentale per la sua vita: "Totus tutus ego sum et omnia mea tua sunt. Accipio Te in mea omnia. Praebe mihi cor tuum, Maria - Sono tutto tuo e tutto ciò che è mio è tuo. Ti prendo per ogni mio bene. Dammi il tuo cuore, o Maria" (Trattato della vera devozione alla Santa Vergine, n. 266)».
Qui, nel profondo del Trattato della vera devozione alla Santa Vergine, si trova il segreto del Beato Giovanni Paolo II, che molti - distratti da altri aspetti della sua vicenda straordinaria - rischiano di non cogliere. Diventato Papa, il beato Karol Wojtyla sapeva che la Madonna, «con la sua fede, sostenne la fede degli Apostoli, e continuamente sostiene la fede dei loro successori, specialmente di quelli che sono chiamati a sedere sulla cattedra di Pietro». Per chi invece ha compreso questo segreto, invocare insieme l'intercessione della Madonna e del nuovo beato diventa, com'è stato per Benedetto XVI alla fine dell'omelia, qualche cosa di naturale: « Beato te, amato Papa Giovanni Paolo II, perché hai creduto! Continua - ti preghiamo - a sostenere dal Cielo la fede del Popolo di Dio. Tante volte ci hai benedetto in questa Piazza dal Palazzo! Oggi, ti preghiamo: Santo Padre ci benedica!».
COMA, STATO VEGETATIVO E MINIMA COSCIENZA: DISTINZIONI IMPORTANTI - Pubblicato il 28 aprile 2011 da http://www.blogscienzaevita.org/
Il coma è caratterizzato dalla mancanza di vigilanza e consapevolezza, mentre lo stato vegetativo è connotato dalla conservazione della vigilanza (il paziente ha gli occhi aperti e presenta una certa conservazione del ritmo sonno-veglia) e dalla "non evidenza" della consapevolezza di sé e dell'ambiente (non essendo in grado di comunicare con l'esterno).
Esiste, poi, un quadro clinico intermedio fra il coma e lo SV sopra descritto (che oggi definiamo "persistente"), in cui il paziente è in grado di esprimere una qualche limitata consapevolezza di sé e dell'ambiente, presenta una certa verbalizzazione (con risposte verbali o posturali, tipo si/no) a stimoli esterni. Abbiamo definito questo quadro clinico "Stato di Minima Coscienza" (SMC), che può anche rappresentare uno stato temporaneo di evoluzione positiva dallo SV alla restituito ad integrum, più o meno completa.
Non è vero che lo SV è caratterizzato dalla "morte corticale" o – peggio – dalla "morte cerebrale", come qualcuno si è ostinato a dichiarare, con un'evidente superficialità anti-scientifica.
Sottoponendo persone in SV a protocolli di stimolazione passiva (acustica, visiva e dolorifica) abbiamo documentato che le cosiddette "aree cerebrali primarie" sensoriali (corticali e sottocorticali), bersaglio degli stimoli, sono attive ed attivate.
Per contro, le "aree secondarie" e le "aree associative" appaiono "spente", cioè non attivate.
La ricerca scientifica ed il progresso tecnologico ci consentono, oggi, di attestare che sono numerosi i casi documentati di "uscita" dallo SV verso uno stato di minima coscienza, così come molto numerosi sono i casi di errore di diagnosi fra SV e SMN. I protocolli di "multimodal brain imaging" ci hanno svelato che il margine d'errore di diagnosi differenziale fra SVP e SMC è variabile fra il 18% ed il 43%, anche presso centri specializzati".
Massimo Gandolfini, Direttore Dipartimento Neuroscienze e Primario Neurochirurgo – Fondazione Poliambulanza di Brescia
L'AUTODETERMINAZIONE ASSOLUTA IMPLICA NEGAZIONE DELLA LIBERTA' DELL'ALTRO - Pubblicato il 27 aprile 2011 da http://www.blogscienzaevita.org/
La libertà non può essere un atto meramente autoreferenziale: ogni essere umano vive inevitabilmente 'con' gli altri; l'alterità ci precede (nasciamo da altri) ed è la condizione costitutiva della nostra identità (viviamo nella famiglia, nella società). La libertà è chiamata a misurarsi con la libertà degli altri. E' in questo significato che la libertà si inserisce in una prospettiva universalistica che consente di comprendere il senso autentico della libertà: bisogna rinunciare a 'tutta' la libertà affinché la libertà sia di 'tutti'. La libertà come autodeterminazione assoluta implica inevitabilmente la negazione della libertà dell'altro: il significato autentico di libertà si delinea nel riconoscimento razionale e responsabile dell'altro come limite E' nell'ambito della antropologia relazionale che si comprende il senso autentico della 'autonomia', che non va confusa superficialmente con la autodeterminazione: l'autonomia non è arbitrio della decisione, ma è scelta razionale, consapevole, competente nel riconoscimento del bene oggettivo-soggettivo della vita e della salute.
Riconoscere l'altro come limite alla propria libertà non significa solo 'non danneggiare l'altro', ossia non interferire con l'altrui libertà. Riconoscere l'altro come limite significa rispettare, ontologicamente, anche chi non è in grado di esercitare la propria libertà, a causa della immaturità di sviluppo, del decadimento fisico, di patologie permanenti e transitorie. Ogni essere umano è chiamato a fare posto all'altro, limitando la sua libertà, di fronte a qualsiasi uomo, solo per il fatto che 'è' uomo: l'eventuale esclusione di chi non esercita la libertà (non ancora o non più) significherebbe disuguaglianza, discriminazione, dunque negazione dei diritti umani. Al diritto non interessa che l'uomo dia prova e dimostri di essere libero: la dignità è un 'dato naturale' da riconoscere intrinsecamente, non una qualificazione estrinseca da attribuire.
La libertà è responsabile rispetto agli altri e rispetto a se stessa. Anche la scelta di chi in modo lucido e competente dispone di sé, della propria vita e salute, è moralmente problematica: sia se richiede l'aiuto di altri (in quanto impone il proprio volere, non rispettando l'altrui libertà-responsabilità terapeutica), sia se non richiede l'aiuto di altri (in quanto introduce nella società una distinzione tra vite degne e non degne, ritenendo la propria non degna di essere vissuta).
Laura Palazzani, Ordinario di Filosofia del diritto, Lumsa
AUTONOMIA DEL PAZIENTE E LIBERTA' PROFESSIONALE DEL MEDICO - Pubblicato il 21 aprile 2011 da http://www.blogscienzaevita.org/
Si registra il rischio immanente che il parametro di riferimento per la valutazione della validità dell'atto medico s'identifichi in maniera sempre più inesorabile nel rispetto – non sempre ineccepibile sul piano dell'efficienza diagnostico-terapeutica – delle opzioni espresse dal paziente piuttosto che della vantaggiosità dei risultati prodotti o conseguibili, con netta prevalenza degli aspetti deontologici su quelli tecnico-scientifici, aspetti pur tra loro intimamente connessi nella realizzazione di un equilibrato rapporto medico-paziente.
Il medico che si lasci suggestionare da pressanti sollecitazioni del paziente, come può accadere, ad esempio, per talune prestazioni della pratica odontoiatrica o di chirurgia estetica, aderendovi anche in assenza di effettivi motivi di opportunità tecnico-scientifica, si assume totale responsabilità di tali scelte anche se richieste con particolare insistenza dal paziente, posto che la riconosciuta autonomia della sua professione gli consente (e talora lo obbliga) di rifiutare trattamenti contrari ai suoi convincimenti scientifici e alla sua sensibilità etico-religiosa.
Ma se è vero che l'indipendenza intellettiva e la libertà scientifica del medico rappresentano diritti per lui irrinunciabili sui quali si fonda la vera e più elevata essenza della sua professione, è altrettanto vero che tale indipendenza è di fatto temperata dagli stessi precetti etici della professione, che impongono al medico, in un rapporto umanamente paritario con il paziente, una costante vicinanza a lui che lo spinga, proprio per le intrinseche finalità filantropiche della medicina, a fare più sforzi conciliativi verso i suoi intendimenti e comportamenti, non sempre oggettivamente orientati verso il suo bene, di quanto sappia o voglia fare lo stesso paziente.
Tutto ciò non significa, però ed ovviamente, che il medico debba abdicare (in ciò irragionevolmente rinunciando al suo diritto-dovere di autonomia professionale), in un malinteso spirito di vicinanza al paziente e alle sue sofferenze, al proprio mandato di cura nella più ampia accezione di assistenza aderendo a richieste di soluzioni dannose o peggio ancora di cooperazione per la morte.
Claudio Buccelli, Ordinario di Medicina Legale, Università degli Studi di Napoli Federico II e Presidente della Federazione nazionale dei comitati di etica (Fnace)