Nella rassegna stampa di oggi:
- Il nuovo superuomo col destino nel sangue di Tommaso Scandroglio, 24-05-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/
- 24/05/2011 - COREA DEL NORD - Nel regime dei Kim "vivono ancora dei cristiani. E sono stimati" di Joseph Yun Li-sun
- Il mio incontro con Carlo Betocchi 2 - "Esiste soltanto il Vangelo, e vivere" - Autore: Tabanelli, Giorgio Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 24 maggio 2011
- Pillole e dintorni: la banalità che uccide la vita - Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 24 maggio 2011
- Giorgio Perlasca nel ricordo di suo figlio - Affinchè i giovani diventino uomini di FRANCO PERLASCA (©L'Osservatore Romano 25 maggio 2011)
- La "pillola dei 5 giorni dopo" per l'aborto domestico d'emergenza di Mario Palmaro, 25-05-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
- I puritani e la politica di Lorenzo Albacete, mercoledì 25 maggio 2011, il sussidiario.net
- THE TREE OF LIFE/ Quelle domande "ultime" di Malick che hanno trionfato a Cannes di Leonardo Locatelli - mercoledì 25 maggio 2011, il sussidiario.net
- C'è un'altra emergenza preti di Riccardo Cascioli, 25-05-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
- Bimbi con due padri, ecco perchè no di Antonio Giuliano, 25-05-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
- Avvenire.it, 24 maggio 2011 - LA STRAGE SILENZIOSA - India, aborti selettivi: mancano all'appello 12 milioni di bambine
- 25/05/2011 - IL CASO - Non facciamo figli e gli stranieri ci imitano - Rispetto al 2009 l'anno scorso sono nati 7 mila bambini in meno - L'Istat: nel 2010 il tasso di natalità più basso del decennio. "Adesso gli immigrati non bastano più a colmare il gap" di RAFFAELLO MASCI - http://www3.lastampa.it
- Se uno degli sposi è sieropositivo / L'amore coniugale ai tempi dell'Aids di Juan José Pérez-Soba (© L'Osservatore Romano 25 maggio 2011)
Il nuovo superuomo col destino nel sangue di Tommaso Scandroglio, 24-05-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/
Ce la portiamo dentro di noi la data della nostra morte. Sì è proprio così: è scritto nella nostra carne quanto dobbiamo durare su questa "aiuola che ci fa tanto feroci", per rubare una celebre espressione a Dante. Un pool di scienziati spagnoli ha messo a punto una particolare analisi del sangue grazie alla quale potremo capire quanto il nostro corpo velocemente invecchia. Ce lo dicono i telomeri, cioè le estremità del nostro cromosoma. Curioso: telos in greco vuole dire termine. Ecco perché telo-meri: cioè posti al termine del cromosoma. Ma l'accezione di "termine" oltre a quello spaziale rimanda anche a quello temporale: la fine, il traguardo ultimo. Telos altresì indica anche il fine. E allora misteriosamente i due significati si intrecciano: la fine della nostra vita deve avere un fine, uno scopo ultimo, un destino pieno di senso. La fine ci fa accedere al fine ultimo, a Dio che è infinto, cioè senza fine.
Per la fortuna di noi tutti, e soprattutto dei soggetti più ansiosi, il test ematico non potrà fornire l'indicazione precisa del giorno-mese-anno della nostra elezione tra la schiera dei più, però sarà in grado di mostrare quanto il nostro organismo si deperirà nel tempo. Quest'ultima scoperta scientifica apre ad alcuni scenari non proprio tranquillizzanti. Uno dei rischi maggiori sono le derive eugenetiche. Tale test potrà essere utilizzato dalle compagnie assicuratrici per aumentare i premi ai soggetti che hanno una data di scadenza sanguigna troppo precoce; dai datori di lavoro al fine di inserire nei motivi di giusta causa di licenziamento la prevedibile scarsa durata del rapporto di lavoro; per i colloqui di assunzione per privilegiare i più longevi; dagli ospedali in merito ai trattamenti sanitari: in stato di necessità si prediligerà chi il destino ha beneficiato con una manciata di anni in più; dalle fidanzate e fidanzati come elemento aggiuntivo da mettere nel paniere di giudizio sulle qualità del futuro coniuge.
Dietro questa scoperta si cela in realtà il solito mito del superuomo che tutto vuole conoscere per poter tutto dominare. L'apprendista stregone di Goethe oggi si è tecnologizzato ed ha trovato una nuova forma di manipolazione dell'uomo: tentare di prevedere quanti respiri ancora il destino gli concede, per ricattarlo, per spaventarlo, per indurlo a curarsi sempre più nel vano tentativo di fargli dimenticare che un giorno sarà cibo per i vermi.
Ma questa scoperta, d'altra parte, conferma una sensazione che il nostro buon senso aveva ben chiara da sempre: non siamo eterni. In noi, vergato a sangue, è inscritto un calendario che impietosamente sgrana i suoi giorni, minuti e secondi incessantemente, senza sosta. Un conto alla rovescia che nessun tecnica prodigiosa sarà mai in grado di arrestare. Come non ricordare a tale proposito le parole di Gesù: "Chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita?". Allora la scienza ci ha fornito una notizia vecchia quanto l'uomo, ma sempre scomoda: l'esistenza di ciascuno di noi su questa terra è a tempo determinato. L'aspetto interessante e nuovo sta nel fatto che il "momento del trapasso" è impresso nella nostra carne. La data di morte di ognuno di noi scorre nelle nostre vene, scorre come la sabbia in una clessidra. E' nel sangue che è nascosto il personalissimo timer della nostra esistenza. Proprio lui che è sempre stato in tutte le culture segno di vita. Ma a ben pensarci anche di morte. Nel cristianesimo questi due significati si uniscono: Cristo muore versando il suo sangue, e con questo stesso sangue noi accediamo alla vita eterna. Il sangue di ogni uomo scorre allora verso un destino mortale, ma se si innesta in quello salvifico di Cristo ci conduce all'immortalità, ad una vita non più finita, ma senza fine.
Però la chiosa è d'obbligo: fin quando siamo pellegrini quaggiù è forse bene non preoccuparsi troppo non solo di ciò che mangeremo e berremo e di cosa vestiremo, ma altresì di quando cadrà esattamente il nostro dies natalis in cielo. Preoccupiamoci solo di trovarci pronti a quel giorno, a quel compleanno che unicamente Dio conosce quando arriverà: «Vigilate dunque, perché non sapete quando il padrone di casa verrà: se a sera, o a mezzanotte, o al canto del gallo, o al mattino».
24/05/2011 - COREA DEL NORD - Nel regime dei Kim "vivono ancora dei cristiani. E sono stimati" di Joseph Yun Li-sun
Pastore protestante sudcoreano: "In Corea del Nord ci sono ancora circa 40mila cristiani: torturati e chiusi nei campi di lavoro, ma un esempio per tutti". La Chiesa cattolica non conferma queste cifre ma loda l'atteggiamento di chi riesce a fuggire, "missionario di speranza per tutti noi".
Seoul (AsiaNews) - In Corea del Nord "vivono ancora circa 40mila cristiani sotterranei. Inclusi quelli, e sono la maggioranza, che per la loro fede sono finiti in un campo di lavoro". Lo ha dichiarato il ministro protestante Lim Chang-ho nel corso di un'intervista al Daily NK. Secondo il pastore, "dato l'altissimo livello di repressione del regime nei confronti dei cristiani, loro si preservano nell'unico modo che hanno: si sposano fra loro e in segreto".
In Corea del Nord, i cittadini sono organizzati in 51 classi. Le prime tre sono basate sulla lealtà alla famiglia Kim e al culto della personalità che impone il "presidente eterno" e il "caro leader" suo figlio come uniche forme di divinità ammesse nel Paese. Ovviamente, chiunque professi una religione o venga trovato in possesso di materiale religioso è classificato come "ostile" e viene di fatto bandito dalla vita pubblica del Paese.
Secondo le testimonianze di coloro che riescono a fuggire dalle grinfie del regime, ai cristiani è riservato il trattamento peggiore. A questa situazione, la sparuta comunità reagisce nel migliore dei modi: "Il cristianesimo resiste in quel posto soltanto grazie all'atteggiamento dei fedeli, ammirevole e coraggiosissimo. Quando i vicini di casa vedono come si comporta un cristiano, vogliono imitarlo: non posso confermarlo, ma si parla persino di alcune conversioni".
In effetti, il pastore Lim ha esperienza diretta della comunità dato che – sostiene – ha portato beni di prima necessità nel Nord: "Se portiamo disinfettanti o antibiotici, sappiamo già da prima che i cristiani sotterranei non li useranno: aspettano che qualcuno sia grave e passano le medicine a lui. In alcuni villaggi sono le persone più stimate che ci siano".
Secondo gli ultimi dati in possesso dei cristiani del Sud, "nei campi di lavoro forzato dove vengono sbattutti tutti coloro che professano una religione vivono al momento circa 30mila cristiani. Una situazione terribile, ma sappiamo che ci sono circa 10mila nostri fratelli ancora in libertà". Alcuni ritengono però queste cifre esagerate. Fonti di AsiaNews parlano di "non più di 200 cattolici" ancora vivi in Corea del Nord, per la maggior parte persone molto anziane sopravvissute alla guerra civile e alla deportazione.
Tuttavia, la Chiesa cattolica del Sud compie un'opera molto importante con tutti i fuoriusciti e – spiega ad AsiaNews il vescovo di Daejon mons. Lazzaro You Heung-sik, che cura la pastorale degli immigrati – "spesso sono i migliori missionari. Noi non corriamo dietro alle conversioni, aspettiamo di vedere se un percorso naturale si perfeziona ed è sincero. Ma questo ogni tanto avviene, ed è un grande frutto di Dio".
Il mio incontro con Carlo Betocchi 2 - "Esiste soltanto il Vangelo, e vivere" - Autore: Tabanelli, Giorgio Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 24 maggio 2011
Sin dagli anni Trenta Betocchi è stato per tutti - per gli amici più prossimi, ma anche per gli scrittori lontani dalla sua orbita di frequentazione, come ad esempio Umberto Saba - un vero compagno di strada capace, con la sua umanità e schiettezza, di testimoniare con semplicità e umiltà la vita cristiana. Per questo era considerato dai tanti amici poeti e scrittori (ma anche da persone comuni) il "maestro di vita" da amare e da rispettare, la guida umana e spirituale di generazioni differenti per età ed estrazione culturale. Il poeta Giorgio Caproni in un incontro avuto successivamente, ha detto: "È un uomo di un'incredibile bontà d'animo, felice quando può rendere felice un altro. Un vero cristiano nel senso più proprio della parola. A me ha dedicato una delle sue più belle poesie: Per Pasqua: auguri a un poeta (pag. 77)".
Anche Mario Luzi, interrogato sulla particolare amicizia che esisteva tra Betocchi, Bo e lo stesso Luzi, ha confessato: "Sarebbe auspicabile che risultasse questo: che avessimo cioè lasciato lavorare in ciascuno di noi l'unità del messaggio, trovata proprio sul tema che lei dice, della carità. Anche Betocchi ha parlato attraverso la cognizione delle cose, la Realtà vince il sogno, come dice il suo primo libro: la realtà del vivente che è superiore perfino all'ambizione, al sogno, all'assolutezza che i poeti romantici avevano perseguito. È una risposta. Lui ha parlato attraverso le cose della realtà quotidiana; gli oggetti, la semplicità della vita. È stata una grande lezione."
Negli anni Cinquanta sulle pagine di due riviste "La Chimera" e "Officina", Betocchi, Pasolini e Luzi, si confrontano in un vivace e appassionato dibattito sul tema della "realtà" e del "realismo" ("la questione del secolo", secondo la definizione di Mario Luzi): "…Spero non mi abbiate preso per un cripto-comunista…O per un marxista, comunque (magari lo fossi!). La mia posizione è di chi vive un dramma. Sento in me svuotate le ragioni borghesi, e ridotto a puro irrazionale e amore cristiano" (P.P. Pasolini, 26 ottobre 1954).
E Betocchi, in risposta alle sollecitazioni di Pasolini, gli scriverà: "Io non ho cultura, Pasolini mio, io sono un uomo. Tutti i concetti sono cultura, ma con Cristo non esistono concetti. Esiste soltanto il Vangelo, e vivere. La cultura si iscrive nella vita cristiana come una sorella, non come una moglie; ci si salva anche con la cultura, ma per le ragioni della fraternità, non per quelle del diritto, né per quelle della forza. Comunisti e borghesi sono la stessissima cosa. (…) Non ci sono scelte da fare in nessun campo. C'è da essere cristiani nella piena libertà che sconfina da campo a campo. C'è da parlare da cristiani, rifiutando i termini della due parti in conflitto" (Betocchi, 14 novembre 1954).
Nel '95 Luzi, tornando su quelle vecchie diatribe, ha affermato: "Eravamo entrati in un territorio in cui un po' tutti ci trovavamo in crisi, perché nessuno aveva una dottrina, salvo Betocchi che allora era pienamente cattolico.(…) Avevamo colto la questione del secolo: quella di dare sostanza alla parola 'realtà'. Avevamo già presagito più o meno tutti che la realtà non è un dato, né marxista né cattolico. (…) La realtà è da inventare giorno per giorno (…) La risposta di Betocchi è la risposta di un cristiano convinto, di un vero seguace del Vangelo e mi pare che in questo senso sia in una posizione di privilegio rispetto a me e a Pasolini".
A partire dagli anni del "Frontespizio" Betocchi presenta al pubblico dei lettori le nuove rivelazioni della poesia. Ruolo cui sarà fedele nel corso dei vari decenni. Tra i giovani poeti è forse il caso di citare Giovanni Raboni, scoperto in un concorso di poesia. Sulla "Fiera Letteraria" (21 aprile 1957) Betocchi presenterà la sua prima raccolta poetica con queste parole: "Non ho nulla; proprio nulla da spartire con le poesie del giovane Giovanni Raboni. Eppure la sua poesia mi ha sempre sorpreso, e mi interessa più di tante altre. La cosa dura da quattro o cinque anni; da quando lo conobbi, vincitore del primo premio di poesia ai primissimi Incontri della Gioventù. Allora la grande intelligenza del suo manipolo di versi fu ammirata e premiata anche da Ungaretti." E conclude: "Una ferita, o che altro non so, gli ha iniettato nel cuore un senso sacro della storia che a volte sembra tradursi altrimenti: in un'alta e ironica malinconia."
Molti anni dopo, quel poeta, non più giovane, scriverà la prefazione a Tutte le poesie di Carlo Betocchi (Garzanti, 1996). Nelle 12 pagine di intensa e acuta analisi critica egli non indulge ad alcun falso sentimento o comprensibile debolezza: "Nel grandioso impasto di follia e di saggezza del Betocchi estremo (…) c'è ben di più del sospetto o sentore di 'qualcosa' di biblico, c'è il prodigio terrificante e magnifico di un'identità che solo una scrittura non profana (stavo per dire non umana) può contenere, l'identità fra il terrore, la raucedine, l'afonia del condannato e la voce tonante del giudice."
E a un certo punto, Raboni scrive: "Stava scomparendo, stava mutando campo e destino il più grande, forse l'unico grande poeta italiano di questo secolo…".
La sua conclusione, non lascia dubbi circa il suo giudizio critico (lucido e lapidario) che coincide perfettamente con quello di Carlo Bo (…questa cara figura di poeta, forse del poeta più poeta, del poeta più libero che mi sia stato dato di conoscere e di rispettare...") e di Mario Luzi (…mio solo umile maestro, o altro…): "Questa poesia grandissima è ancora largamente da scoprire; il posto che, mediamente, le viene assegnato nella gerarchia del Novecento italiano non corrisponde in nessun modo al suo valore."
Nei mesi in cui stavo lavorando all'antologia mi è giunta una telefonata dalla redazione della collana "I libri dello spirito cristiano" con la quale mi veniva segnalata da parte di Don Giussani una poesia di particolare bellezza e verità, a lui molto cara:
Come mi affliggo! come mi lamento!
Quasi che il mio fosse uno sperso esistere
E Lui non fosse, mentre invece, dentro,
brulico del suo disegno…Sì, ma lascia
che il Nemico ne avvolga la mite, casta
potenza, la cinga del suo vaneggiare
di gioie abbaglianti e presto dirute;
ne spenga in gola il grido celeste,
che si fa lamento. E la mia vita è come
un teatro quando si mutan le scene:
disordine, polvere, uno screanzato gridio,
cui segue un notturno silenzio.
Pillole e dintorni: la banalità che uccide la vita - Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 24 maggio 2011
Partiamo da alcuni fatti drammatici avvenuti in questi giorni in Europa per riportare all'attenzione di tutti quanto la vita umana sia messa in discussione dalla banalità dell'aborto chimico e da una cultura contraria alla vita che non si cura nemmeno della salute della donna.
Una ragazza portoghese di sedici anni è morta dopo un aborto con la Ru486, per shock settico da Clostridium Sordellii, in Francia all'ospedale Saint-Vincent-de-Paul di Lille un'ostetrica stagista ha sbagliato stanza, entrando in quella della paziente accanto e ha dato a quest'ultima, felicemente incinta di quattro mesi, il farmaco, delle compresse che avrebbero dovuto favorire l'espulsione del feto, per l'interruzione di gravidanza.
Potremmo supporre che in Italia non accadano certe cose, ma non è così purtroppo. In Italia sono state vendute 370 mila confezioni di pillola del giorno dopo, ed essa viene usata per il 55% da minorenni. Ci sono ospedali e pronto soccorso in cui i medici devono ormai essere precettati nei turni della domenica mattina perché troppi sono i casi di ragazzine che ad essi ricorrono dopo la notte del sabato sera, con emorragie o intimorite dalle conseguenze dell'uso di queste bombe chimiche che si vuol far passare come innocue. Qualcuno obbietterà che è solo un contraccettivo di emergenza ma non è così, il bugiardino del Norlevo e Levonelle, nomi commerciali della pillola del giorno dopo, parlano chiaro: "bloccando l'ovulazione o impedendo l'impianto dell'ovulo eventualmente fecondato" ci informa che l'azione del preparato è duplice: contraccettiva e abortiva. Lo stesso vale per il Levonelle che illustra l'efficacia della pillola "prevenendo l'ovulazione e la fecondazione e modificando la mucosa dell'utero rendendola inadatta all'impianto dell'ovulo fecondato" che altro non è che l'embrione, cioè una vita umana.
In merito alla RU486 purtroppo anche in Italia potrebbe accadere un fatto così tragico, essendone stata permessa la commercializzazione da poco più di un anno. Il medical director della Nordic Pharma, l'azienda distributrice del farmaco in Italia ha confermato che ''In questo primo anno le scatole vendute sono state 6066 mentre le procedure di aborto farmacologico che stimiamo siano state effettuate sono 6654". A livello regionale il primato per il numero di confezioni acquistate spetta al Piemonte, con 1624 scatole, seguito da Toscana (773) e Liguria (735). Ma in alcune Regioni per fortuna la sua diffusione è stata limitata anche da regole e procedure che hanno cercato di impedirne un uso dissennato e domestico: "Basti pensare che in Lombardia, dove gli aborti in un anno sono stati più di 5000, secondo i dati Istat, le confezioni acquistate di RU486 sono state 604, e nel Lazio, dove le interruzioni volontarie di gravidanza sono state oltre 3mila, solo 142 le scatole comprate''. (ANSA). Questo ovviamente non riduce i rischi per le donne, infatti in percentuale la mortalità dovuta ad un aborto chimico è notevolmente superiore come anche la probabilità di alcuni gravi effetti collaterali come sanguinamenti prolungati ed emorragie. In fondo lo si sapeva già prima della liberalizzazione nell'Aprile del 2010, infatti nel dicembre del 2005, in un editoriale del New England journal of medicine, una delle più prestigiose riviste mediche internazionali, abbiamo letto che la mortalità dell'aborto con la Ru486 è dieci volte maggiore di quella dell'aborto chirurgico. Le morti per aborto con Ru486 e prostaglandine sono più di 30 nel mondo. La pericolosità dell'RU486 è stata confermata recentemente da uno studio pubblicato in Australia, paese in cui l'uso della pillola è stato introdotto cinque anni fa. Da Sydney arriva infatti un dossier che prende in analisi quasi 7000 aborti eseguiti nel 2009 e nel 2010, pubblicato sulla rivista dei medici generici, Australian Family Physician. Quattro delle 947 donne che hanno avuto aborti chimici hanno sofferto emorragie gravi, con un tasso di una su 200 notevolmente superiore al tasso relativo ad aborti chirurgici (tasso di una su 3000). Tutto conferma insomma la pericolosità per la donna di questi farmaci. E la morte della giovanissima donna in Portogallo purtroppo ne è solo una tragica conferma. Bisogna ricordare che la stessa FDA (Federal Drug Administration) e anche importanti riviste come The Lancet hanno emesso dei "warning for mifepristone and misoprostol" gli elementi che costituiscono la base sia della pillola del giorno dopo che della RU486, anche se in dosi diverse ovviamente. La stessa causa virale della morte della donna portoghese, shock settico da Clostridium Sordellii, è già stata causa delle altre morti accertate per RU486 nel mondo occidentale (nulla si sa sulle morti in Africa o in Cina dove dopo un breve periodo senza spiegazione ne hanno impedito la somministrazione e diffusione). Questo virus è strettamente legato all'aborto. Il corpo della donna o meglio l'utero, avendo le difese immunitarie "abbassate" per poter accogliere la vita del nuovo bambino, è altamente ricettivo, quando quindi si procede all'aborto chirurgico proprio per evitare infezione e shock settico da Clostridium Sordellii si procede al raschiamento delle mucose dell'utero che fino a quel momento avevano accolta la vita. Nell'aborto chimico ciò non avviene e il rischio di infezioni è elevatissimo. Con la pillola RU486 si è quindi verificata la possibilità di contrarre un "nuovo virus" di cui poco si conosce, come poco diffuse sono le informazioni sulla pericolosità e le controindicazioni di questa pillola. Questo farmaco inoltre pone la donna in una condizione psicologica peggiore perché solo su di lei ricadrà la responsabilità dell'aborto, è un ridurre l'aborto ad un "fai da te", condizione aggravata quando, come succede in alcune strutture, la donna firma per uscire dall'ospedale dopo aver assunto la prima pillola e quindi prima dell'espulsione del feto.
Purtroppo siamo consapevoli che queste cose, già note, come non ne hanno impedito la commercializzazione, così non porteranno una nuova regolamentazione. Auspichiamo però che rilancino una sfida educativa nel vivere la propria sessualità responsabilmente e con un'apertura all'accoglienza della vita e possano rilanciare un impegno e un'azione politica che non si arrenda e agisca per difendere la vita e prevenire ogni tipo di abuso. Questi farmaci indeboliscono prima il tessuto culturale e le coscienze del nostro popolo e di conseguenza anche la tutela della salute dei soggetti più deboli, le donne, e la vita di quelli più indifesi, i bambini. Le sfide sono continue come dimostra la prossima probabile autorizzazione alla vendita in Italia della pillola Elleone o "dei 5 giorni dopo" che nonostante venga presentata come anticoncezionale d'emergenza è sicuramente abortiva perché dopo 5 giorni non si ferma la fecondazione ma si ferma l'annidamento dell'embrione nell'utero procurandone la sua espulsione. Tutte queste pillole spingono a considerare i rapporti sessuali soprattutto tra i giovanissimi come più "sicuri" e creano una banalizzazione e una deresponsabilizzazione della sessualità, sono così destinati ad aumentare la trasmissione di malattie sessualmente trasmissibili e contrariamente allo scopo prefissato non fanno diminuire né le gravidanze indesiderate né gli aborti come bene dimostrano i dati francesi ed inglesi.
Vogliamo per questo concludere con le bellissime parole pronunciate da Benedetto XVI all'incontro del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II il 13 maggio 2011: "Il corpo, ci ricorda la nostra generazione, che attinge, tramite i nostri genitori che ci hanno trasmesso la vita, a Dio Creatore. […] Il vero fascino della sessualità nasce dalla grandezza di questo orizzonte che schiude: la bellezza integrale, l'universo dell'altra persona e del "noi" che nasce nell'unione, la promessa di comunione che vi si nasconde, la fecondità nuova, il cammino che l'amore apre verso Dio, fonte dell'amore. L'unione in una sola carne si fa allora unione di tutta la vita, finché uomo e donna diventano anche un solo spirito. Si apre così un cammino in cui il corpo ci insegna il valore del tempo, della lenta maturazione nell'amore. In questa luce, la virtù della castità riceve nuovo senso".
Giorgio Perlasca nel ricordo di suo figlio - Affinchè i giovani diventino uomini di FRANCO PERLASCA (©L'Osservatore Romano 25 maggio 2011)
Anticipiamo uno degli articoli pubblicati sul numero in uscita di "Pagine Ebraiche" il mensile dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
Ho saputo cosa mio padre aveva fatto tanti anni prima solo nel 1988, quando venne ritrovato da alcune donne ebree ungheresi e precisamente quando la signora Lang e il marito si presentarono a casa sua. Telefonarono qualche giorno prima per fissare un appuntamento; avevano studiato un po' d'italiano apposta per il viaggio in Italia, ancora non semplice perché il muro di Berlino pur scricchiolante era ancora lì. Vennero in rappresentanza di decine di famiglie salvate a suo tempo da uno strano console spagnolo, Jorge Perlasca.
Raccontarono la loro storia umana e compresi che mio padre li aveva salvati; ma andarono avanti con il loro racconto e cominciai ad intravedere oltre a loro decine, centinaia, forse migliaia d'altre persone. E devo confessare che entrai in crisi chiedendomi se conoscevo realmente la persona con cui avevo vissuto per oltre trent'anni, la mia età di allora.
Ma un piccolo grande fatto mi aprì gli occhi, mi fece ragionare e pensare a quanto successo: la signora, assieme ad altri piccoli regali, portò tre pacchetti che aprì con grande attenzione ed emozione. All'interno un cucchiaino, una tazzina e un piccolo medaglione: gli unici oggetti, aggiunse, che la famiglia aveva salvato dal disastro della seconda guerra mondiale. Voleva darli a mio padre che però non li voleva prendere: "Signora, deve darli ai figli e poi i figli li daranno ai nipoti a ricordo della famiglia". La signora se ne uscì con una frase che ancora oggi mi emoziona: "Signor Perlasca, li deve tenere lei perché senza di lei non avremmo avuto né figli né nipoti".
Quei tre piccoli oggetti, è inutile dirlo, li conserviamo ancor oggi con un amore particolare per la sofferenza, il dolore e il sangue che vi stanno dietro. Prima nulla aveva raccontato, né in famiglia né fuori, salvo qualche singolo episodio che non dava di certo l'idea della vicenda nella sua interezza.
Al ritorno in Italia mai pensò di "vendere" la sua storia e ottenere qualcosa in cambio. Non ebbe undopoguerra semplice, aveva perso il lavoro e dovette ricominciare tutto daccapo.
Quando a inizio degli anni Ottanta andai da turista a Budapest, l'unico commento che fece si riferì al fatto che era una città che conosceva e in cui era vissuto. Quando la morte a causa di un ictus lo sfiorò ci indicò il suo memoriale affinché lo leggessimo, comprendendo che qualcosa di buono l'aveva fatto nel corso della vita.
Non ne avemmo il tempo o la voglia e quando si rimise in piedi una delle prime cose che fece fu di riprendersi quelle carte. La morale: pensava di morire e riteneva giusto che quantomeno i familiari sapessero. Comprendendo che l'appuntamento con la morte era rinviato a data da destinarsi, si riprese le carte nell'attesa d'eventi. Che arrivarono nel 1988. Il destino decise così.
Dopo non cambiò assolutamente; fu la stessa persona "semplice" di prima, nel senso più alto del termine, perché non riteneva d'aver fatto nulla di particolare ma solo il proprio dovere di uomo. Ai giornalisti che ripetutamente gli chiesero il perché del suo comportamento eroico rispondeva semplicemente: "Lei cosa avrebbe fatto al mio posto, vedendo donne, bambini e uomini massacrati e sterminati solo per un diverso credo religioso?".
A un giornalista che voleva fargli dire, suggerendogli la risposta, che aveva fatto il tutto perché cattolico rispose semplicemente ma seccamente: "No, l'ho fatto perché sono un uomo".
Il destino poi ha voluto che la storia di Giorgio Perlasca, nel dopoguerra, s'intrecciasse in maniera forte con la storia italiana stessa. Anni della completa dimenticanza anche se tante persone persino importanti sapevano chi era realmente Jorge Perlasca. Basta citare proprio dalle memorie di mio padre, ma è solo un esempio, il nunzio apostolico monsignor Angelo Rotta che tutto sapeva ma nulla mai disse. Da De Gasperi a Sanz Briz, il console spagnolo vero e tanti altri.
Quando fu riscoperto in Italia, senza due grandi giornalisti di allora e di oggi, Giovanni Minoli ed Enrico Deaglio, il silenzio sarebbe continuato. Lo stesso film ebbe una lunga e travagliata storia, oltre dieci anni d'incubazione, in quanto come ci riferirono alla fine del percorso all'interno della Rai, questa storia allora politicamente non corretta stentava a superare le barriere ideologiche del secolo scorso.
Ora le cose sono cambiate e la storia di Giorgio Perlasca ha accompagnato, favorito e stimolato questi cambiamenti. Giorgio Perlasca fu una persona assolutamente normale, uno di noi, un uomo con i suoi dubbi, le sue incertezze, i suoi difetti, ma fu soprattutto una persona che seppe mettere al primo posto la coscienza e la giustizia. Un Giusto nel senso più alto del termine.
La sua incredibile storia sta a dimostrare che chiunque tra noi può fare qualcosa se non rimane indifferente al dolore altrui, se vuol vedere quello che succede intorno e accetta di mettersi in gioco anche con rischi personali.
Cosa ha lasciato Giorgio Perlasca con questa sua incredibile storia ungherese e con i successivi 45 anni di silenzio? Un grande insegnamento, far del bene senza aspettarsi qualcosa in cambio. E un grande testamento spirituale, rappresentato dalle poche parole con cui rispose ad una domanda di Giovanni Minoli che nel corso della trasmissione Mixer del 1990 gli chiese: "Ma lei, signor Perlasca, perché vorrebbe che questa storia fosse ricordata?".
Mio padre rispose in maniera semplice, diretta, senza giri di parole: "Vorrei che questa vicenda fosse ricordata dai giovani perché, sapendo quanto è successo, sappiano anche opporsi a violenze del genere, se mai dovessero ripetersi". Un pensiero, una riflessione assolutamente attuale nella nostra società.
La "pillola dei 5 giorni dopo" per l'aborto domestico d'emergenza di Mario Palmaro, 25-05-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
È un'altra pillola per abortire, si chiama EllaOne e sta per arrivare in Italia. Provoca l'espulsione precocissima dell'embrione se assunta entro 120 ore da un rapporto sessuale che sia stato fertile, ed è già disponibile negli Stati Uniti e in altri Paesi europei. Il fronte abortista e le aziende che fanno business con l'aborto chimico premono perché sia presto diffusa anche in Italia.
Per ora, il cammino della "pillola dei 5 giorni dopo" ha incontrato un ostacolo nel Consiglio Superiore di Sanità: dal settembre dell'anno scorso l'organismo doveva fornire un parere decisivo, che per ora non è arrivato. Era stato il ministro Ferruccio Fazio a esigere un chiarimento, che spiegasse se la pillola funziona come contraccettivo o come abortivo, agendo dopo il concepimento. Se infatti di aborto si tratta, lascia intendere il ministero, occorrerà vedere se la pillola "rispetta" la legge 194 sull'aborto.
Inoltre, l'Agenzia Italiana del farmaco (Aifa) ha espresso «preoccupazione riguardo alle eventuali conseguenze di un uso ripetuto», riferendosi ai rischi per la salute della donna che assuma EllaOne. Secondo il farmacologo.
Ma il fronte abortista preme, classificando EllaOne, come il Norlevo, nella categoria dei contraccettivi d'emergenza. Per sostenere questa tesi, si gioca sull'inizio della gravidanza come criterio guida per poter parlare di aborto: se l'embrione viene espulso prima dell'annidamento in utero, allora si deve considerare la pillola un contraccettivo. Il ragionamento fa acqua da tutte le parti, perché il problema giuridico e morale è se venga o meno distrutta una vita umana che già esiste, a prescindere da dove essa si trovi.
Alla fine, però, questo trucco semantico potrebbe funzionare, ed è molto probabile che anche la "pillola dei cinque giorni dopo" andrà ad ampliare lo spettro di strumenti che la scienza moderna mette a disposizione della donna per abortire.
Anche di fronte a questa pillola, si va ripetendo il dibattito che ha già surriscaldato gli animi in occasione della legalizzazione della Ru 486: da una parte i fautori del diritto all'aborto, che si schierano a favore di ogni mezzo che renda più semplice e precoce l'aborto. Dall'altro, chi ha una posizione di sfavore all'aborto, e vuole limitarlo al tradizionale intervento chirurgico.
Fino ad oggi, nel mondo, il primo fronte ha sempre prevalso sul secondo. E la ragione è molto semplice: se una nazione legalizza l'aborto, e sancisce il principio di autodeterminazione della donna a decidere se e quando far nascere un figlio che c'è già, è del tutto logico che siano sperimentate e proposte strade nuove e più rapide per ottenere lo stesso risultato. Per intenderci: se togliere un molare è un atto lecito, scoprire il modo di farlo più in fretta e senza soffrire è un obiettivo più che naturale. Se abortire è un atto lecito, prima lo si fa e meglio è: così ragiona la diffusa cultura della morte.
Il tentativo di opporsi all'aborto chimico è lodevole, ma le ragioni con cui lo si fa sono perdenti: assomigliano al modulo tattico di una squadra di calcio che sta sempre in difesa, e pensa a non prendere altri gol anche se sta già perdendo.
Da un lato, infatti, si sostiene che la salute della donna sarebbe minacciata da EllaOne e dalla RU486. È molto probabile che vi siano controindicazioni, anche serie. Ma tali rischi sono impliciti in ogni farmaco e in ogni intervento chirurgico. Si può tentare un confronto statistico, e si può forse dimostrare che le pillole per abortire siano più pericolose dell'aborto chirurgico: ma è altrettanto vero che, a furia di sperimentare, i rischi verranno ridotti e forse perfino eliminati.
Dall'altro lato, si obietta anche che le pillole comportano una banalizzazione dell'aborto, perché lo rendono "invisibile". Ma, dal punto di vista di vuole abortire, facilitarlo è un bene. Oltretutto, l'aborto fai da te sposta ogni responsabilità d'azione sulla donna, e supera di slancio il problema dell'obiezione di coscienza dei medici, che in misura sempre più nutrita si rifiutano di uccidere il bambino non ancora nato.
Il vero nodo è un altro: e cioè che queste pillole sono dei veri e propri pesticidi umani - come le chiamava il genetista francese Jerome Lejeune - e che, se possono comportare un rischio incerto per la madre, rappresentano un rischio sicuro per il figlio, che verrà ucciso. Solo questa scomoda verità rende irragionevole l'arrivo di una nuova pillola per abortire in Italia: tacendola, la sconfitta è sicura.
I puritani e la politica di Lorenzo Albacete, mercoledì 25 maggio 2011, il sussidiario.net
Un amico italiano in visita a New York mi ha chiesto la scorsa settimana cosa pensano gli "americani" della campagna in corso per le elezioni presidenziali del 2012. Ho cercato di rispondere nel modo più preciso possibile, e la risposta è stata: niente.
Questo non vuol dire che media, guru della politica, esperti, commentatori, blogger e altra gente di questa specie (una "comunità" di cui anch'io faccio parte di tanto in tanto) non siano interessati. Al contrario. L'attenzione è soprattutto concentrata sul Partito Repubblicano, dove politici noti e ignoti entrano ed escono dalla corsa per la presidenza.
Tuttavia, almeno finora, nessuno di essi sembra capace di dire qualcosa di nuovo. Infatti, i dirigenti del partito stanno cercando qualcuno che possa correre senza scontentare nessuna delle fazioni che si fronteggiano al suo interno. Il problema è che la questione, posta in tal modo, sembra non poter produrre altro che una ricetta per la noia.
Altre storie hanno, perciò, catturato l'attenzione degli americani nel corso della settimana. Due in particolare hanno dominato la scena. Una è il tempo e specialmente la terribile tragedia del tornado che ha colpito la città di Joplin in Missouri, provocando a questo momento più di cento morti. L'altra storia riguarda le prodezze sessuali di Dominique Strauss-Kahn e le infedeltà di Arnold Schwarzenegger. Ci si può chiedere, in effetti, se queste storie non possano essere una delle ragioni per cui gli americani sembrano così poco "presi" dall'attuale scena politica.
Nell'articolo di copertina del Time magazine di questa settimana, Nancy Gibbs cita la politica tra le aree in cui chi ha potere comincia a considerarsi al di sopra delle regole etiche alle quali sono soggette le persone normali. La storia politica degli Stati Uniti è piena di esempi simili, specialmente riguardo ai comportamenti sessuali, caratterizzati da una netta separazione tra la vita privata e una vita pubblica di successo. Se questa era la situazione all'inizio della storia americana (vedi Thomas Jefferson), quando il puritanesimo era forte, possiamo immaginarci quale sia adesso.
Gibbs sostiene che qualunque sia il DNA lasciato dai primi puritani, esso si limita di fatto al nostro amore per le "ripartenze" dopo la caduta, che si inserisce perfettamente nella grande rappresentazione di peccato e riscatto che dà forma alla politica e alla vita americana. Abbiamo decisamente abbandonato la pruderie, almeno le sembra, ma manchiamo di prudenza.
Ma è vero che il puritanesimo americano è cosi in declino? Non la penso affatto così, perché il puritanesimo è ancora tra noi, forte come prima, se non ancora più forte. Il puritano e il potente lascivo sono le due facce di una stessa medaglia, sono le immagini del paradigma peccato-redenzione ereditato dall'originario puritanesimo. In mezzo non c'è nessuna alternativa, niente con cui possa identificarsi una persona normale.
Ciò che manca è l'esperienza cattolica della misericordia e del perdono divini e la cultura che su una simile esperienza si costruisce. Una cultura in cui le due storie della settimana, la tragedia di Joplin e la caduta di Strauss-Kahn e di Arnold Schwarzenegger sono il materiale di cui è fatto il vero dramma umano: una speranza nata dalla certezza della vittoria finale della Grazia.
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THE TREE OF LIFE/ Quelle domande "ultime" di Malick che hanno trionfato a Cannes di Leonardo Locatelli - mercoledì 25 maggio 2011, il sussidiario.net
Al suo quinto lungometraggio in 38 anni di carriera dietro la macchina da presa, Terrence Malick - accostandosi più ad Andrej Tarkovskij che a Stanley Kubrick - cerca di dare espressione all'indicibile, tentando di filmare l'irrappresentabile. Il risultato? Forse qualcosa che differisce dall'opera epocale da molti attesa, ma che si (im)pone fin dalla prima visione come un poema visivo e sonoro di proporzioni senza precedenti e attraversato da uno struggente lirismo; un'esperienza a suo modo "rivoluzionaria" in quanto personalissima, quindi unica e irripetibile, squadernata alla maniera di note e pagine dal diario di una grande anima caratterizzate da un immenso talento espressivo e da un'inattesa e sotterranea vena autobiografica. Quella di un uomo che non vuole certo rabbonire con filosofie new age o umanesimi a buon mercato, ma suggerire a quanti vengono raggiunti da queste nuove Confessioni in celluloide quella che è la conquista della conoscenza di sé e del mondo maturata nel corso di una vita: la propria.
Non una sterile speculazione fine a se stessa, ma una drammatica riflessione esistenziale su Vita, Grazia, Natura, Libertà, Male, Dolore, Perdono, Morte e Destino che vuole aprirsi (e aprire) a domande radicali piuttosto che "con-cludere" un discorso, registrando un poderoso dato di fatto: l'appartenenza di questa umana epopea - che ne reca l'impronta - a un Disegno tanto misterioso quanto buono. Annunciatissima e indiscutibile Palma d'oro al Festival di Cannes 2011.
Ci sia consentita una premessa di carattere personale: chi scrive non era ancora nato quando 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, 1968) usciva nelle sale portandovi la sua epica peregrinazione che andava da "L'alba dell'uomo" a "Giove e oltre l'infinito", mentre invece era solo un bimbo quando Blade Runner (1982) di Ridley Scott - denso di umori e atmosfere che avrebbero fatto epoca - vi arrivava con tutto il suo struggimento per le «lacrime nella pioggia» di un replicante «più umano dell'umano».
La passione per il cinema che si è molto più tardi prepotentemente accesa - sorta da altri (pochi) titoli - si era quindi dovuta accontentare, per entrare in contatto con le opere dei periodi citati e di quelli precedenti, dei soli strumenti a portata di mano, ovvero televisione, videocassette e dvd. Questo amore ha poi avuto ovviamente la possibilità di continuare e maturare anche in sala, dove si è d'un tratto scoperta la presenza di qualcuno riemerso chissà da dove che guardava le cose come non le avevamo ancora guardate o viste guardare.
Allora (era la fine degli anni Novanta) La sottile linea rossa (The Thin Red Line) ci investì come una potente rivelazione, di cui oggi - dopo l'immenso e indimenticabile The New World - Il nuovo mondo (The New World, 2005) -, The Tree of Life rappresenta una straordinaria conferma che lascia anche più ammirati e commossi, come appassionati e come uomini, quasi si trattasse di un regalo, di un cordiale e definitivo atto di amicizia da parte dell'autore, Terrence Malick.
Il primo "Albero della Vita" che ci è dato di contemplare non è nemmeno quello che ci attende nel buio della sala, ma ci è offerto dalla locandina internazionale del film, la prima a essere anticipata in rete nei mesi precedenti la sua uscita: sono le linee della minuscola pianta del piede sinistro del neonato che nel film presta le sue fattezze a Jack, il primogenito della famiglia O'Brien (i cui eventi familiari - uno tragico su tutti - sono il motore narrativo del film), un piede trattenuto tra due mani di adulto (con tutta probabilità quelle della madre).
Il poster italiano ci mostra invece una sorta di ideale semi-controcampo di quel fotogramma, ovvero gli occhi del padre che rimirano quel tanto minuto quanto glorioso spettacolo. In questa sorta di incipit - anche se esterno alla pellicola vera e propria - sta però già tutto l'atteggiamento di meraviglia e speranza che Malick vi ha riversato e che guida questa sua ultima fatica, a trentotto anni dal suo esordio dietro la macchina da presa con La rabbia giovane (Badlands, 1973). E grande è l'emozione di tornare a vedere per gran parte di quest'opera così altamente personale quelle «alleys and back ways» degli anni Cinquanta da dove aveva preso le mosse l'immaginario cinematografico dell'allora trentenne sceneggiatore e regista statunitense.
Iniziamo con il mettere nella giusta luce quanto di potenzialmente autobiografico - cosmogonia, dinosauri e visione finale a parte - nascondono le vicende familiari narrate estesamente nel film, a partire da alcuni dettagli ambientali fino alla particolarità di alcune corrispondenze che poco sembrano avere di casuale. Per quanto ci è dato di sapere sullo schivo regista, egli nasce a Waco in Texas - la stessa città della famiglia O'Brien - il 30 novembre 1943: il padre Emil è un geologo che lavora (forse come dirigente) nell'industria petrolifera mentre la madre è una casalinga di origine irlandese.
Terrence è il primo di tre fratelli, Chris e Larry, con i quali cresce tra l'Oklahoma e la città di Austin. Ma è un'altra tragica similitudine quella che in sala ci ha fatto letteralmente sobbalzare sulla poltrona: alla fine degli anni Sessanta il fratello Larry, mentre è in Spagna per studiare chitarra classica a Segovia, in un momento di depressione, dovuto al proprio sentirsi inadeguato, si frattura volontariamente entrambe le mani e poco dopo si suicida. Sembra che subito dopo la notizia dell'incidente alle mani, Malick sia stato invitato dal padre ad andare a riprendere Larry e che, al suo rifiuto, sia stato Emil a dover partire per la Spagna, tornando a casa - infine - con il cadavere del figlio.
Un fatto che, non appena accennata la ferita drammatica da cui prende le mosse il "cammino" familiare narrato nel film, non ha potuto fare a meno di segnare ai nostri occhi le profondissime origine, tensione e natura che animano un'esperienza totalizzante quale sono questi magnifici e lancinanti 138 minuti di Cinema, una personale riflessione sul Dolore (e quindi sull'Essere, sul Male e la loro origine) che si apre fino a diventare un inno alla Gloria della Vita.
Torniamo però all'atteggiamento di stupore di cui si diceva, perché il vero e proprio incipit della pellicola è rappresentato da una didascalia su fondo nero tratta dal capitolo 38 del Libro di Giobbe («Dov'eri tu quand'io ponevo le fondamenta della terra? […] Mentre giovano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio?»), questo poco prima che una forma luminosa di non meglio precisata origine - che tornerà a scandire le diverse sezioni del film - fenda il grande schermo, accolta dal voice-over di Jack adulto (Sean Penn) che afferma: «Fratello… Madre… sono stati loro a condurmi alla Tua porta».
E subito dopo, sulle inquadrature della propria madre ancora bambina e poi già circondata dai suoi figli, ecco un altro voice-over, questa volta di lei adulta (Jessica Chastain), quasi una sorta di "dichiarazione di intenti" iniziale sulle due vie possibili per percorrere il cammino della vita: la via della Grazia e la via della Natura. Scritto così potrebbe apparire qualcosa di sconnesso, ma - ci si creda o no - sulle prime si fa fatica a stare fermi al proprio posto in sala perché la combinazione di immagini e parole non lasciano certo indifferenti, toccando corde più profonde di quanto ci si potesse attendere.
E questo non è che il punto di avvio di un'opera dove queste due strade - man mano che ci si addentra nella pellicola - più che come opzioni esterne tra cui scegliere emergono come due possibilità radicate in modo inestirpabile dentro il cuore dei personaggi descritti, i cui gesti più quotidiani - per come sono raccolti dalla mobilissima macchina da presa e per l'andamento impresso al film - rivelano una bellezza loro connaturata, un "peso specifico" quasi avvertibile in sala e una risonanza eterna all'interno di un'epopea umana che si permette di associare senza alcun timore gli eventi della Creazione con i minimi eventi di una vita o - ad esempio - un enigmatico e a suo modo toccante incontro tra due dinosauri e quello tra due fratelli che la presenza di Libertà e Perdono possono invece riconciliare o - ancora - la domanda se anche nell'esperienza del Dolore e della Perdita (la figura di Giobbe torna non a caso all'interno del narrato) ci sia uno scopo che non è contro l'uomo e la riflessione sul Male («Può capitare a chiunque?» «Nessuno ne parla» «Perché essere buono se Tu non lo sei?»), che dapprima è mostrato come qualcosa da cui proteggere gli occhi dei più innocenti, per poi diventare un interrogativo sulle sue origine e natura e infine il realizzare che è una stortura che ci si porta addosso («Faccio le cose che odio») e che va confidata («Io sono cattivo quanto te. Sono più come te che come lei») e affidata per poter guardare - con ultima amicizia e prospettiva vera - persone e cose.
Da questo e da molto altro che ci è difficile ancora percepire siamo stati raggiunti nello svolgersi di questa ambiziosissima pellicola e, come al solito quando si ha a che fare con un qualsiasi opus malickiano, l'unico rammarico è per quanto (e abbiamo motivo di pensare sia parecchio) è certamente rimasto sul pavimento della sala di montaggio dopo più di un anno di lavoro in questo senso e cinque persone accreditate allo scopo nei titoli di coda. A ogni modo se Steven Spielberg con Schindler's List (1993) aveva riportato all'attenzione del mondo la tragedia della Shoah mentre in tempi più recenti Mel Gibson con La passione di Cristo (The Passion of The Christ, 2004) aveva risospinto lo scandalo della Croce sulla bocca di tutti, ora tocca registrare il fatto che il poeta-regista-filosofo Terrence Malick con le ricchissime ramificazioni del suo "albero della vita" è riuscito a riproporre sulle pagine dei giornali anche non specializzati le domande più radicali riferite allo struggimento per una grandezza piena e al "pre-sentimento" per un destino buono per i quali noi tutti siamo stati voluti.
L'augurio sincero che ci coglie alla fine della visione di quest'opera è che il suo cammino tra gli appassionati di cinema (ma non solo) - così come la strada che spinge a fare - siano realmente solo all'inizio, anzi, che rappresentino davvero un "nuovo inizio", una sfida e una proposta serie, solide e lanciate come quel ponte che la chiude, a tagliare l'inquadratura finale e a fare da passaggio tra un qui e ora e un oltre che si coglie e pronto ad attenderci, mentre un gabbiano si libra radente tra i suoi pilastri.
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C'è un'altra emergenza preti di Riccardo Cascioli, 25-05-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Quando si leggono interviste a sacerdoti come quella a don Paolo Farinella, pubblicata domenica scorsa su L'Unione Sarda, ci si chiede davvero se in Italia, parlando di preti, il problema più grave sia la pedofilia. Intendiamoci bene: quello degli abusi sui minori da parte di alcuni preti è davvero – come diceva il cardinale Bagnasco lunedì aprendo i lavori dell'Assemblea dei vescovi italiani – "un'infame emergenza non ancora superata, la quale causa danni incalcolabili a giovani vite e alle loro famiglie" e in nessun modo è lecito minimizzare o ridurre la portata e gravità della faccenda. Ma qui almeno la Chiesa è corsa ai ripari, sta agendo da anni per porre riparo ai danni provocati e prevenire quelli possibili. E abbiamo visto, numeri alla mano, che la cura Ratzinger funziona, anche se molto c'è ancora da fare.
Ma questo non ci deve portare a sottovalutare un altro grave "scandalo" che sta minando la credibilità della Chiesa italiana: quello dei preti in "libera uscita" che frequentano i salotti tv e riempiono pagine di giornali con le loro scempiaggini e creazioni teologiche, creando grave confusione anche tra i fedeli. E questo senza che ci sia almeno l'intervento chiarificatore di un vescovo, che spieghi almeno a che titolo parlano questi signori.
Dicevamo all'inizio di don Farinella, un prete della diocesi di Genova già noto per le sue sparate contro la Chiesa: nella lunga intervista citata, in cui si fa presenbtare come "fine biblista" e a cui viene dedicato un titolo in prima pagina contro la beatificazione di Giovanni Paolo II (definita "un'operazione di marketing"), fa delle affermazioni gravissime sia in materia sociale sia in materia di fede: oltre alle solite stupidaggini sull'Italia governata dal cardinale Bertone, segretario di Stato vaticano, e dal cardinale Bagnasco, presidente dei vescovi italiani ma anche suo arcivescovo, invita addirittura all'insurrezione contro Berlusconi citando la Populorum Progressio di Paolo VI, e attribuisce il dramma della pedofilia al celibato ecclesiastico, cosa che ben sappiamo essere smentita dai fatti. Poi accusa di smania di potere i suoi confratelli: "Se togliessero ai sacerdoti la gestione economica delle parrocchie, almeno due terzi abbandonerebbero l'abito talare". Quell'abito talare che lui ovviamente non porta: "Perché dovrei travestirmi da donna?". E siccome parla con il giornale di Cagliari si premura di riservare un pensierino anche al vescovo locale: "Se Gesù tornasse in terra sono sicuro che non andrebbe dal vostro vescovo, Giuseppe Mani che, nelle vesti di ordinario militare, è perfino generale di Corpo d'Armata". E infine, tralasciando altre amenità, si descrive così: "Dentro di me convive il credente e il miscredente. Sono relativista… Dio è relativo e non assoluto…".
Sicuramente è materia più per psicologi che non per teologi, però questo caso non è unico. Il suo confratello della diocesi di Genova, don Andrea Gallo, lanciato dal Maurizio Costanzo show è diventato una star, regolarmente presente in tv, radio e giornali. Ricordiamo anche le recenti polemiche per l'apparizione in tv di don Giorgio De Capitani che giustificava l'eliminazione fisica di Berlusconi. O il caso di don Vitaliano della Sala, attivista no global assieme a qualche missionario a cui non vogliamo fare altra pubblicità. Si potrebbe continuare ancora aggiungendo anche coloro – vescovi compresi - che, pur da posizioni ecclesiali ben diverse e sicuramente non eterodosse, non appena si trovano davanti un microfono sembrano perdere il lume della ragione e si lanciano in affermazioni di cui non si sente affatto la necessità.
Si dirà che si tratta comunque di pochi casi, che non rappresentano certo tutti i sacerdoti italiani. Ed è vero: ma la loro sovraesposizione nei media e la loro capacità di impatto, crea anch'essa "danni incalcolabili" all'immagine e alla credibilità della Chiesa, aumenta la già abbondante confusione sugli insegnamenti della Chiesa, rafforzati anche dalla totale assenza di chi avrebbe l'autorità per intervenire e non lo fa : "Se nessuno gli dice niente vuol dire che va bene", è il commento di buon senso della gente comune. E anche di altri sacerdoti che sono tentati di seguirne le orme.
Non è che siamo qui a invocare misure disciplinari, e ci rendiamo ben conto che la gestione di certi casi è difficile, ma fare finta di nulla è certamente la strada peggiore. E se proprio non si riesce a fare altro, invece di moltiplicare incontri e documenti sull'uso dei mezzi di comunicazione sociale, i vescovi italiani imparino da questo manipolo di preti come si fa a far passare efficacemente un messaggio. Così magari in un prossimo futuro, ascoltando un prete in tv, avremo la possibilità di sentirci confermati nel fatto che a salvarci è Gesù Cristo e non Nicki Vendola.
Bimbi con due padri, ecco perchè no di Antonio Giuliano, 25-05-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Per chi da anni denuncia la crisi della figura paterna suona quasi beffarda la grancassa mediatica e culturale di chi vorrebbe famiglie con due padri (come Repubblica del 23 maggio "I figli di due padri"). Ma lo psicanalista Claudio Risè ormai non si scompone più: «Nel nostro orizzonte culturale l'essere umano non viene più considerato come una persona con un suo corpo, ma solo come un oggetto prefabbricato. Qui si sta organizzando la produzione di bambini come adorabili oggetti di consumo». Sulla scia di sponsor del calibro di Elton John o Ricky Martin anche in Italia sarebbero un centinaio le coppie omosessuali che ricorrono all'estero (da noi è vietata) alla maternità "surrogata": in pratica nell'utero di una donatrice che offre a pagamento il proprio utero viene inserito un embrione formato dall'ovocita di una donatrice e il seme di uno dei due padri. E la campagna mediatica si rianima mentre è in corso in parlamento il dibattito sulla legge sull'omofobia.
Professore perché per un bimbo è importante avere un padre e una madre?
In assenza del genitore del proprio sesso, sarà molto difficile per quel bambino sviluppare la propria identità psicologica corrispondente. La psiche maschile e quella femminile sono molto diverse e l'identità complessiva si forma anche a partire dalla propria identità sessuale. Nel caso di maternità surrogata, lo sviluppo psicologico, affettivo, cognitivo di una bimba con due genitori di sesso maschile sarebbe in forte difficoltà: avrebbe problemi nel riconoscersi nel proprio sesso. Lo stesso accade al piccolo maschio.
Qualcuno le obietterebbe che uno dei due padri (o una delle madri nel caso di coppie lesbiche) potrebbe benissimo svolgere il ruolo della figura materna (o paterna nell'altro caso).
No. La vita umana è inscritta in due ordini: il dato naturale, biologico, e quello simbolico che il bambino ha iscritto nella propria psiche, conscia e inconscia. Entrambi presiedono allo sviluppo, alla manifestazione di una capacità progettuale, alla crescita di un'affettività equilibrata. Il padre è un individuo di genere maschile che ha scritto nel suo patrimonio genetico, antropologico, affettivo e simbolico la storia del proprio genere. Proprio perché è un maschio e non è una donna, non può avere né il sapere naturale profondo, né quello simbolico materno. I due codici simbolici, paterno e materno, sono molto diversi: la madre è colei che soddisfa i bisogni, il padre è colui che dà luogo al movimento e propone il limite: indica la direzione e stabilisce dove non si può andare. Nei paesi anglosassoni e del nordeuropea da tempo ci sono casi di coppie omosessuali con figli: studi sul campo hanno provato che la mancanza di genitori di sesso diverso è fonte di problemi, il più evidente dei quali (quando i genitori sono del sesso opposto al tuo), è la formazione delle tua immagine sessuale profonda.
Quali sono i rischi che corre un bambino/a che cresce senza un genitore di sesso femminile? Tanto più che nella fecondazione assistita eterologa padre e madre sono spesso sconosciuti…
L'esperienza del contatto fisico con la madre, nella cui pancia si è stati, è riconosciuta dalla psichiatria e dalle psiconalisi come fondativa della personalità, e della stessa corporeità…
Nei libri come Il padre l'assente inaccettabile o Il mestiere di padre (entrambi pubblicati dalla San Paolo) denunciava la scomparsa della figura paterna. Ora invece sembra a rischio la figura materna.
Anche quei libri sono stati scritti per dimostrare che servono entrambi i genitori, entrambi gli aspetti, quello maschile e quello femminile. La verità è che ormai non c'è solo una crisi della paternità. Ma dell'umanità in generale. L'essere umano, attraverso acquisti e affitti di parti del corpo e elementi generativi è diventato un "prodotto fabbricato", nel senso in cui ne parlava Michel Foucault. Siamo ormai all'interno di un modello culturale "materialista" (ma in realtà molto mentale, perché passa dalla negazione del corpo "naturale") fondato sulla soddisfazione narcisistica dei bisogni indotti dal sistema di consumo. Il bimbo "fabbricato" è uno di questi nuovi bisogni. È l'effetto del processo di secolarizzazione che ha tagliato anche i rapporti con il padre celeste, Dio: non c'è posto per l'Altro, tanto meno per la dimensione verticale. Ma negando l'ordine naturale e simbolico siamo costretti a negare anche la nostra corporeità (iscritta in essi) come spiego nel mio ultimo libro Guarda tocca vivi. Riscoprire i sensi per essere felici (Sperling & Kupfer, pp. 210, euro 16,50). Altro che superinvestimento nei sensi. L'ideologia consumista, le mode, i media dettano i nostri comportamenti, perfino nell'innamoramento: ci si incontra e ci si lascia in base ai suggerimenti della moda e delle "tendenze". La sapiente teologia dell'amore di Giovanni Paolo II è stata spazzata via da una sessualità staccata dalla sensualità della persona umana, e consumista. Non stupiamoci, allora, se sono sempre di più quelli che vogliono evadere dal proprio corpo: magari con le droghe o coi disturbi alimentari come l'anoressia. La sacralità del corpo del cristianesimo è stata negata, e i consumi divinizzati. Ma solo riappropriandoci della nostra corporeità potremo relazionarci con gli altri. E con Dio.
Avvenire.it, 24 maggio 2011 - LA STRAGE SILENZIOSA - India, aborti selettivi: mancano all'appello 12 milioni di bambine
In India mancano all'appello 12 milioni di bambine negli ultimi tre decenni a causa degli aborti "selettivi", praticati dalle famiglie che preferiscono avere un figlio maschio, soprattutto quando il primogenito è femmina. È la stima contenuta in uno studio della rivista scientifica Lancet dedicata alla "strage silenziosa" che sta scavando un solco sempre più profondo nella popolazione indiana. Secondo i dati del censimento 2011, lo squilibrio demografico è di 914 donne su 1000 uomini. Non era mai stato così basso dall'indipendenza. In particolare, nell'ultimo decennio sono "sparite" sei milioni di bambine.
Nonostante le campagne "rosa" del governo, le famiglie indiane, anche quelle benestanti, continuano a privilegiare l'erede maschio e a considerare le figlie femmine "un peso" economico per l'usanza della dote necessaria per garantire un buon matrimonio.
Il rapporto, basato su un campione di 250 mila nascite, mostra che gli aborti selettivi sono una pratica frequente tra il ceto urbano non solo dei popolosi stati settentrionali come Uttar Pradesh, Rajasthan e Haryana, ma anche nel sud dove lo squilibrio non era così grave in passato.
I dati appaiono ancora più allarmanti se si considera il "surplus" di 7,1 milioni di bambini maschi (nel 2001 era di 6 milioni e nel 1991 4,2 milioni). Per la popolazione adulta, invece, il divario è di circa 38 milioni (623,7 milioni di maschi e 586,5 milioni di femmine).
"Siccome la famiglia indiana si è ridotta negli anni, gli aborti selettivi sono sempre più praticati nel caso in cui il primo nato sia una femmina" spiegano gli autori dello studio realizzato dal Centre for Global Health dell'università di Toronto, in Canada.
Interessante è notare che, mentre la percentuale delle donne è salita nell'ultimo decennio grazie all'aumento dell'aspettativa di vita, il divario sessuale per i bambini da zero a sei anni è sceso a 913 femmine su 100 maschi (da 927 su 1000 nel 2001).
Le scioccanti cifre mostrano il fallimento delle politiche del governo e anche la mancanza di controlli sulle ecografie prenatali, vietate da una legge del 1996, ma facilmente effettuabili in diverse strutture clandestine.
Preoccupato dalle conseguenze di lungo termine, dopo la pubblicazione dei dati del censimento 2011, un leader politico dello stato mussulmano di Jammu e Kashmir e ora ministro delle Energie Rinnovabili, Faruq Abdullah, aveva ironizzato dicendo "che non è lontano il giorno in cui non ci saranno più ragazze da sposare e allora diventeremo tutti gay". Una battuta, non certo politicamente corretta, ma che nasconde le inquietudini della classe dirigente.
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25/05/2011 - IL CASO - Non facciamo figli e gli stranieri ci imitano - Rispetto al 2009 l'anno scorso sono nati 7 mila bambini in meno - L'Istat: nel 2010 il tasso di natalità più basso del decennio. "Adesso gli immigrati non bastano più a colmare il gap" di RAFFAELLO MASCI - http://www3.lastampa.it
Che le cicogne non frequentassero granché i cieli d'Italia, era noto. Ma mai come lo scorso anno - testimonia l'Istat nel suo Bilancio demografico nazionale - il crollo della natalità è stato così evidente, con un tasso del 9,3 per mille, il più basso del decennio (in numeri assoluti vuol dire 7 mila bambini in meno). Le italiane che facevano pochissimi figli (1,3 per donna) ne fanno adesso ancora meno (1,29) e le donne straniere che nello slancio della nuova patria volevano riprodursi hanno sedato questo entusiasmo, al punto che neppure i loro figli riescono a compensare il decremento dei nostri.
Ad abitare il patrio stivale nel 2010 eravamo comunque 60 milioni 626 mila 442 persone, 286 mila in più dell'anno precedente, pari a un incremento dello 0,5% - rileva l'Istat - tutto ascrivibile all'aumento degli immigrati stranieri, che si sono registrati nelle nostre anagrafi in ragione di 38 mila al mese, in media. Insomma: noi diminuiamo e facciamo sempre meno figli, gli stranieri che erano sempre di più anno dopo anno, continuano - loro sì - a crescere, ma di figli non ne fanno più tanti neppure loro. L'Istat non si sbilancia, ma fa capire che questa raggelata della natalità è strettamente connessa con la crisi economica.
In piena precarietà lavorativa, diventano precarie anche le famiglie, tant'è che diminuiscono i matrimoni e aumentano le convivenze in tutte le grandi città, ma soprattutto a Roma, Torino, Milano, Genova. Le famiglie più numerose - si fa per dire - sono quelle della Campania, della Puglia e della Calabria, dove il numero medio dei componenti è - rispettivamente - di 2,8, 2,7 e 2,6 membri. In fondo alla classifica la Liguria, con 2 membri di media, il che è leggibile come un aumento delle coppie senza figli, ma anche delle famiglie monogenitoriali.
Gli stranieri, che sono il 7,5% della popolazione, si concentrano da Roma in su: 10,3% della popolazione nel Nord-Est contro il 2,7% di quella delle Isole. Dove c'è più ricchezza ci sono più stranieri e dove ce n'è di meno, invece, emigrano anche i locali, tant'è che solo nel 2010, 400 mila italiani si sono spostati dal Sud al Nord (soprattutto in Toscana, Umbria, Emilia e Lombardia), giovani nella quasi totalità e spesso con un buon livello di istruzione.
A perdere abitanti - dice ancora l'Istituto di statistica - sono due categorie di centri abitati: alcune grandi città, e i piccoli borghi di montagna: Torino perde il 2,2% della popolazione, Genova il 3%, Napoli il 3,5% e Catania addirittura il 7,2%. Le altre - Milano, Roma, Bologna, Firenze - crescono ma al di sotto della media nazionale (0,3% contro lo 0,5%) e solo per effetto delle migrazioni. Continua, invece, lo spopolamento dei borghi piccolissimi, sotto i duemila abitanti, specialmente delle zone montane, che perdono quasi il 4% della popolazione già esigua. Gli italiani, semmai, preferiscono vivere nelle cittadine intorno ai 20-30 mila abitanti: piccole ma servite.
Se uno degli sposi è sieropositivo / L'amore coniugale ai tempi dell'Aids di Juan José Pérez-Soba (© L'Osservatore Romano 25 maggio 2011)
«Perciò l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e saranno una sola carne» (Genesi, 2, 24). Questa affermazione apre a un contenuto sorprendente circa la verità dell'amore sponsale, in quanto luce fondamentale per la vita degli uomini.
La rivelazione divina ci presenta l'amore umano in un modo nuovo poiché lo inserisce in un disegno di Dio, che si svela nelle esperienze umane più elementari. Il nuovo orizzonte che esse acquistano partendo da Dio, è il valore genuinamente personale di tali relazioni nelle quali si costituisce l'identità di ogni uomo. In particolare, si scopre così la dimensione del dono di sé tipica dell'amore coniugale, che spiega l'esigenza di lasciare «suo padre e sua madre» e il cui contenuto e scopo è quello di essere «una sola carne». Questa nuova condizione è un vincolo spirituale reale nella corporeità dei contraenti, poiché il corpo dello sposo non è più per lui stesso, ma per la sposa, e viceversa (I Corinzi, 7, 4). Inoltre, il contesto della Genesi intende l'«essere una sola carne» con un senso di fecondità che fa parte dell'immagine divina, giacché l'amore di Dio è fonte di ogni paternità (Efesini, 3, 15) e il significato si ricollega alla benedizione che i primi sposi ricevono da Dio (Genesi, 1, 28).
Questo contesto dell'amore indica il significato profondo della sessualità. L'uomo isolato non è fecondo («Non è bene che l'uomo sia solo», Genesi, 2, 18), necessita dell'unione con la donna per esserlo. L'unione nella carne è segno della fecondità per mezzo di un dono di sé nell'ambito di un amore coniugale, che comprende la dimensione della differenza intrinseca alla sessualità. La verità dell'amore personale appare dunque in una dinamica di unità nella differenza che comporta una promessa di fecondità. Questo dinamismo amoroso trova la sua espressione archetipica nell'amore coniugale. È qui che si crea il luogo nel quale Dio stesso può intervenire con il dono del novum, ovvero di una nuova persona unica e irripetibile, con un destino eterno. Tale possibilità non si riduce a un mero fatto biologico: è una vocazione di Dio che richiede una risposta adeguata da parte dell'uomo.
Il valore dell'essere «una sola carne» mediante un dono di sé costituisce il fondamento di quella verità normativa che Paolo VI afferma con autorità in Humanae vitae (n. 12): «(la) connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l'uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell'atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo». È la «carne» che unisce il dono degli sposi con la promessa di fecondità. Se l'uomo priva l'unione sessuale dei suoi significati unitivo e procreativo, attenta contro il vero amore.
L'amore coniugale è dunque una luce specifica della verità dell'uomo che consente di scoprire il senso della vita, in quanto nasce come dono ed è vissuto in riferimento al dono di sé. Pertanto, possiede un senso morale pieno. Non si tratta di una semplice relazione di contiguità accidentale, ma è l'espressione autentica di un senso che coinvolge l'atto coniugale in quanto tale. La sessualità umana chiede di essere configurata mediante l'amore sponsale e, in esso, raggiunge il valore di una pienezza di vita che gli sposi non possono falsificare. In questo senso, la norma così poco compresa della Humanae vitae (n. 11) secondo cui «qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto alla trasmissione della vita» è estremamente chiarificatrice. La definizione dell'intenzione contraccettiva si basa sulla differenza tra il «rendere infecondo un atto» e il «realizzare un atto non fecondo». Nel primo caso, la non fecondità appartiene all'intenzione della persona che la impone all'atto, mentre nel secondo, si tratta di una caratteristica biologica dell'atto sessuale. Soltanto la prima, in realtà, è ricercata intenzionalmente e possiede quindi un rilievo morale. Lo si può vedere, peraltro, adottando una prospettiva più ampia dell'essere «una sola carne», laddove il rifiuto di una donazione corporea completa presuppone anche una rottura del significato unitivo, che è ben più di una semplice unione fisica. Si tratta di una considerazione molto lontana dal fisicismo, che sacralizza indebitamente la biologia, ma che esprime il carattere personale dell'amore nella carne. Così si può evitare il rischio di un teleologismo che vede nel sesso soltanto un materiale plasmabile secondo la propria volontà.
Questa è una luce potente sull'amore coniugale da cui gli sposi debbono lasciarsi illuminare per rispondere alle varie situazioni che si presentano nella loro vita matrimoniale, e che talvolta sono grandi prove. Nel consenso del matrimonio, essi si promettono di essere fedeli «nella buona e cattiva sorte, nella salute e nella malattia» grazie a un amore che non dipende da circostanze esterne, ma che sa esprimere la fedeltà in maniera creativa nelle vicende dell'esistenza umana.
Una situazione d'attualità è legata alla proliferazione delle infezioni a trasmissione sessuale che colpisce la vita intima dei coniugi; nella fattispecie, per estensione e gravità, l'Aids risveglia drammatici quesiti. Per combattere questa malattia, negli ambiti sanitari e politici, è stato insistentemente raccomandato l'uso preventivo del profilattico. Da qui nasce la domanda etica circa la liceità del suo eventuale uso nel caso di una coppia in cui uno dei coniugi fosse infetto.
Per rispondere al problema, è necessario che vi sia una corretta informazione circa la situazione sanitaria rispetto a questa terribile malattia, al fine di esercitare una concreta responsabilità dinanzi a una situazione che contiene una minaccia di morte. La medicina ha compiuto progressi enormi e la malattia, per coloro che possono avere accesso ai farmaci, è stata fortemente controllata. L'aspettativa di vita degli ammalati è sensibilmente aumentata e il loro stato di salute generale è decisamente migliorato. Si è addirittura affievolita la possibilità di contagio e, soprattutto, le nuove tecniche hanno fatto sì che nella maggior parte dei casi, i bambini nati da mamme infette possano venire al mondo sani. È necessario prestare la dovuta attenzione a questi dati per valutare con esattezza gli effetti che un eventuale contagio comporta sulla salute umana.
In questo senso, è bene ricordare che sebbene l'uso del preservativo in un singolo atto possa avere una certa efficacia nella prevenzione del contagio dell'Aids, questo non è comunque in grado di garantire una sicurezza assoluta neanche nell'atto in questione e, meno ancora, nell'ambito dell'intera vita sessuale di una coppia. È quindi improprio indicarne l'uso come un mezzo efficace per evitare il contagio. Le numerose campagne che invitano a utilizzarlo indiscriminatamente hanno mostrato piuttosto il contrario; alimentando una falsa credenza secondo cui non vi sarebbe alcun pericolo, hanno aumentato la possibilità di infezione. Presentare il preservativo come una soluzione al problema è un grave errore; sceglierlo semplicemente come pratica abituale è una mancanza di responsabilità nei confronti dell'altra persona.
Ma veniamo ora alla prospettiva propriamente etica. La luce dell'amore coniugale rifiuta di percorrere le vie che lo corrompono. È a partire da qui che si evidenzia la falsità della cosiddetta soluzione tecnica del preservativo. Un atto sessuale realizzato con il preservativo non può essere considerato un atto pienamente coniugale nella misura in cui è stato volontariamente privato dei suoi significati intrinseci. Il profilattico, con il suo effetto barriera, deforma in qualche modo la realizzazione stessa dell'atto sessuale e lo priva non soltanto del suo significato procreativo, ponendo un impedimento alla fecondazione, ma spezza anche il significato dell'essere «una sola carne» nel senso della totalità del dono in un'unione sponsale. Non è veramente unitivo un rapporto che, impedendo intenzionalmente la comunicazione dello sperma, esclude la possibilità della sua accoglienza nel dono reciproco dei corpi dei coniugi. In definitiva, dal punto di vista morale si tratta di un atto non pienamente coniugale. Questo è il giudizio etico generale nei riguardi di questo atto, senza entrare ancora nella considerazione prudenziale circa il rischio di infezione che si corre.
A partire da questo giudizio, la luce dell'amore coniugale consente ai coniugi di affrontare la situazione impegnativa che vivono e che chiede risposte all'altezza delle gravi difficoltà che si presentano loro. Pertanto, dinanzi alla possibilità insuperabile del contagio, possono di comune accordo adottare la decisione di astenersi dall'avere rapporti sessuali per ragioni di salute, come avviene con altre patologie. La loro promessa sponsale contiene l'impegno di rispondere con generosità: in questa difficile situazione, debbono trarre dall'impegno che hanno preso, la forza necessaria per vivere la verità della loro vocazione, fidandosi della grazia di Dio e cercando l'accompagnamento della Chiesa che li assiste lungo il loro cammino.
La luce specifica del disegno di Dio serve affinché l'amore coniugale degli sposi trovi sempre una risposta adeguata che deve essere vissuta responsabilmente, anche e soprattutto nei momenti di grande prova. È un'affermazione convinta del valore della vita umana, alla luce di un amore che chiede di essere vissuto in totale pienezza.
Juan José Pérez-Soba, docente di teologia morale presso la facoltà di teologia San Dámaso di Madrid e presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia.