1) Cattolici in politica, non solo princìpi non negoziabili - di Andrea Tornielli, 10-05-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
2) Un business miliardario sulla pelle dei bambini di di Danilo Quinto, 09-05-2011, da http://notiziedibioetica.blogspot.com/
3) Baby Kaputt, l'aborto a casa tua di Tommaso Scandroglio, 09-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
4) Bimbo curato con il "fratello su misura", é polemica - Charlie è stato dichiarato guarito. In Gran Bretagna si riapre il caso dell'intervento sull'embrione del donatore - Avvenire, 9 maggio 2011
5) I SOCIAL NETWORK NUOVI MEDIATORI NEL RAPPORTO MEDICO PAZIENTE - Corriere Della Sera, 9 maggio 2011, di Adriana Bazzi
6) Pazienti 2.0 - Sociel network e blog stanno rivoluzionando il rapporto fra malati, malattia e medici - Internet - Come l'evoluzione del web cambia la vita di chi ha un problema di salute - Reti sociali e blogterapia - Cosi la medicina sta diventando «2.0» di Adriana Bazzi, Corriere della Sera, 8 maggio 2011
7) BRASILE: “UNIONE OMOAFFETTIVA”? LA FAMIGLIA È UN'ALTRA REALTÀ - La Chiesa non farà “una crociata” sulla questione, dice un presule
8) "Gesù, cosa ho fatto?". Rock star sconvolto dall'aborto di suo figlio di Raffaella Frullone10-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
9) Tortura ok per catturare Bin Laden? di Giacomo Samek Lodovici, 10-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
10) LETTURE/ Solo i "limoni" di Montale e Tolkien possono guarirci dalla Facebook-mania di Monica Mondo, martedì 10 maggio 2011, il sussidiario.net
11) CRONACA - IL CASO/ Quei bambini "post-datati" che mandano in bancarotta le famiglie di Carlo Bellieni, martedì 10 maggio 2011, il sussidiario.net
12) LA CHIESA COPTA ALLA MERCÉ DEI SALAFITI - Almeno 12 copti rimasti uccisi questo sabato a Il Cairo di Paul De Maeyer
13) Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - Da “Libero”, 8 maggio 2011 - Come difendersi dal deserto che avanza - Posted: 09 May 2011 08:50 AM PDT
14) NEUROSCIENZE/ Quello sguardo che funziona meglio di una risonanza magnetica di Nadia Correale, martedì 10 maggio 2011, il sussidiario.net
15) IL MALATO IN PRIMO PIANO PER SCONFIGGERE IL DOLORE - DI VENTURI MANUEL Brescia Oggi di martedì 10 maggio 2011
16) «La soluzione per conciliare lavoro e famiglia? Copiamo da Parma il baby sitter sharing» di Manila Alfano - articolo di martedì 10 maggio 2011 - © IL GIORNALE ON LINE S.R.L.
17) Sposini tra miracolo e accanimento - Quello che Sposini pensava del coma, da http://www.libero-news.it , 10 maggio 2011
Cattolici in politica, non solo princìpi non negoziabili - di Andrea Tornielli, 10-05-2011, , http://www.labussolaquotidiana.it
Sabato scorso, da Aquileia, culla dell’evangelizzazione del Nordest, Benedetto XVI è tornato a ripetere il suo invito all’impegno dei cristiani in politica.
Queste le sue parole: «Come attesta la lunga tradizione del cattolicesimo in queste regioni, continuate con energia a testimoniare l’amore di Dio anche con la promozione del “bene comune”: il bene di tutti e di ciascuno. Le vostre comunità ecclesiali hanno in genere un rapporto positivo con la società civile e con le diverse istituzioni. Continuate ad offrire il vostro contributo per umanizzare gli spazi della convivenza civile. Da ultimo, raccomando anche a voi, come alle altre Chiese che sono in Italia, l’impegno a suscitare una nuova generazione di uomini e donne capaci di assumersi responsabilità dirette nei vari ambiti del sociale, in modo particolare in quello politico. Esso ha più che mai bisogno di vedere persone, soprattutto giovani, capaci di edificare una “vita buona” a favore e al servizio di tutti. A questo impegno infatti non possono sottrarsi i cristiani, che sono pellegrini verso il cielo, ma che già vivono quaggiù un anticipo di eternità».
Vale la pena soffermarsi su questo invito. E chiedersi, anzitutto, perché il successore di Pietro continui a rivolgere questo pressante invito ai cattolici del nostro Paese. L’invito a impegnarsi nel sociale ma anche «in modo particolare» nella politica. Quella politica che il servo di Dio Paolo VI definì «la più alta forma di carità». Se un Papa teologo e non italiano qual è Ratzinger, insiste nell’appellarsi ai cristiani, soprattutto ai giovani, perché scelgano di impegnarsi in politica, ciò significa che la Chiesa ritiene insufficiente la presenza dei cattolici in questo ambito.
Dopo la fine della Democrazia cristiana, che i vescovi avevano cercato di tenere in vita fino all’ultimo, i cattolici si sono divisi e sono oggi presenti in più partiti nei due schieramenti. Sono passati nove anni dalla pubblicazione della Nota dottrinale «circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica», approvata da Giovanni Paolo II e firmata dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, un documento nel quale si affermava: «Se il cristiano è tenuto ad “ammettere la legittima molteplicità e diversità delle opzioni temporali”, egli è ugualmente chiamato a dissentire da una concezione del pluralismo in chiave di relativismo morale, nociva per la stessa vita democratica, la quale ha bisogno di fondamenti veri e solidi, vale a dire, di principi etici che per la loro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita sociale non sono “negoziabili”».
Il tema dei principi «non negoziabili» è stato ripreso più volte, dal Papa e dai vescovi italiani. Ed è diventato, sovente, terreno di scontro politico e in qualche caso di dibattito acceso anche tra gli stessi cattolici.
L’invito pressante di Benedetto XVI all’impegno in politica, però, sembra andare oltre. Il Papa infatti invita i giovani a edificare «una “vita buona” a favore e al servizio di tutti». Se i principi non negoziabili sono la base di partenza, sarebbe miope ridurre l’impegno dei cattolici esclusivamente alla difesa e alla promozione di quei principi. I cattolici sono infatti portatori di una cultura, di una visione dell’uomo e delle relazioni sociali, che non può facilmente essere ridotta o appiattita su certi modelli che oggi vanno per la maggiore in talune formazioni politiche.
C’è da riscoprire, insomma, la politica come servizio al bene comune: le emergenze etiche – come insegna Benedetto XVI nella Caritas in Veritate – sono anche emergenze sociali, ma l’impegno dei cristiani deve tornare a essere a 360 gradi, e ritrovare quell’ispirazione che ha reso i cattolici protagonisti di molte cruciali fasi della vita del nostro Paese.
Un business miliardario sulla pelle dei bambini di di Danilo Quinto, 09-05-2011, da http://notiziedibioetica.blogspot.com/
Tra gli aspetti di quell’edonismo globalizzante in cui è immersa la società occidentale, ve n’è uno – atroce, di cui si parla di rado – che coinvolge la dignità e la vita dei bambini. E’ lo sfruttamento sessuale commerciale dei minori. Un fenomeno differente dalla pedofilia – che è la tendenza a preferire i bambini come partner sessuali - e dagli abusi, che di solito avvengono nel contesto familiare o amicale del bambino, senza scambio di beni o denaro. La Dichiarazione di Stoccolma del 1996 definisce lo sfruttamento sessuale commerciale dei minori come "... una violazione fondamentale dei diritti dei bambini. Comprende l'abuso sessuale da parte di un adulto
e una retribuzione in natura e/o in denaro corrisposta al bambino da terze persone".
Il bambino viene trattato sia come oggetto sessuale sia come oggetto commerciale e rappresenta una forma di coercizione e violenza esercitata nei loro confronti ed equivalente ai lavori forzati ed a una forma di schiavitù contemporanea, favorita dagli interessi economici dei gruppi locali che lo gestiscono, che si alimenta e sfrutta la lotta per la sopravvivenza di strati consistenti della popolazione in molti paesi ed in alcuni di questi riveste caratteristiche di massa. Gli occidentali cercano quei luoghi dove pensano di poter praticare comportamenti criminali gravissimi garantendosi l’impunità, sapendo che troveranno bambine e bambini e adolescenti disposti – innanzitutto per necessità e gestiti dalle organizzazioni criminali facenti capo al traffico degli esseri umani – a fare mercimonio del proprio corpo.
In base ai dati diffusi da ECPAT - una rete internazionale di organizzazioni, presenti in 78 paesi, che opera per eliminare la prostituzione e la pornografia infantili e il traffico di minori a scopo sessuale – il turismo sessuale conosce una dimensione globale, interna ad un problema ancora più grande, che è quello della prostituzione infantile e della tratta di esseri umani, nonostante che gli Stati abbiano il dovere di proteggere i minori dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali. Principio che viene ribadito in molti strumenti internazionali e raccomandazioni, come ad esempio nell'art. 34 della Convenzione sui diritti dell'infanzia, che stabilisce: "Gli Stati si impegnano a proteggere il fanciullo contro ogni forma di sfruttamento sessuale e violenza sessuale.."; nell'art. 35, l'impegno degli Stati viene esteso ad impedire il rapimento, la vendita e la tratta per qualunque fine e sotto qualsiasi forma.
Impegni reiterati – ma rimasti sostanzialmente disattesi - nel Protocollo Opzionale alla Convenzione sulla vendita dei fanciulli, prostituzione infantile e pornografia infantile, del giugno 2000.
Le destinazioni prevalenti del turista sessuale sono numerosi paesi dell’Asia (Thailandia, Vietnam, Laos, Cambogia, Filippine, Nepal, Pakistan, Russia, Taiwan, Cina, Sri Lanka, India, Indonesia) e dell’America Latina (Brasile, Repubblica Dominicana, Colombia, Messico, Venezuela, Cuba). In Africa, la meta preferita è il Kenya, dove un rapporto UNICEF rileva che il 38% dei clienti dei minori fatti prostituire sono locali, seguiti dagli occidentali: italiani 18%; tedeschi 14%; svizzeri 12%; francesi 8%. I turisti sessuali - sostiene la ricerca di Ecpat - nel 90-95% dei casi, sono maschi tra i 20 e i 40 anni di età, appartenenti a classi sociali diverse. Vengono stimati nel numero di ottantamila gli italiani – con una età media di 27 anni - che praticano nel mondo la compravendita di sesso. Dai dati diffusi da Ecpat si rileva che le bambine che vengono abusate sessualmente hanno un’età tra gli 11 e i 15 anni, mentre i bambini vanno dai 13 ai 18 e che gli incontri spesso vengono filmati e immessi nella rete. Il turismo sessuale femminile, invece, si rivolge, oltre che in Kenya, in Gambia e Senegal oltre che a Cuba, in Brasile, in Colombia.
Stime internazionali autorevoli rilevano da un lato che questo fenomeno coinvolge oltre due milioni di bambini nel mondo e dall’altro che il giro d’affari fa concorrenza a quello della droga. Tutto questo senza che vengano prese misure serie ed efficaci al fine di operare due forme di dissuasione: quella relativa a coloro che perseguono questa volgare e turpe compravendita del sesso e quella che concerne le società dei paesi del sottosviluppo, per molte delle quali è quasi “naturale” offrire all’intrattenimento anche i corpi dei bambini.
Baby Kaputt, l'aborto a casa tua di Tommaso Scandroglio, 09-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Si chiama Baby kaputt. Sì, è proprio questo il nome non propriamente scientifico dell’ultimo preparato chimico che permette di ricorrere all’aborto senza passare da nessuna clinica. La pillolina, di origine cinese e non testata in alcun modo, sta impazzando in Siberia, contribuendo così a diffondere le pratiche abortive soprattutto tra le giovanissime, una delle categorie che più ricorrono a questa pratica in Russia. Infatti nel 2009 le under 19 hanno praticato 90.000 aborti in questa nazione.
Il primato del fiocco nero. La piaga dell’aborto sul suolo russo è antica. Nel 1920 la Russia fu il primo paese al mondo a legalizzare l’aborto. Nel ’36 fu vietato quasi totalmente da Stalin, il quale si accorse che tale pratica stava falcidiando la futura popolazione russa, ma poi nel ‘55 fu reintrodotto legalmente e nel 1964 l’allora URSS batté un record purtroppo storico: 5,6 milioni di aborti in un solo anno. Pavel Astakhov, Delegato per i diritti dell’infanzia presso la Presidenza russa, ha affermato che durante questo periodo le donne “praticavano, in media, almeno 5 aborti allo stadio iniziale della gravidanza”.
Un trend falsamente positivo. I dati del Ministero della Sanità illustrano in termini assoluti un decremento dei numeri aborti: nel 1990 ci furono 3,92 milioni di aborti, nel’95 si registrarono 2,57 milioni di aborti, 1,96 milioni nel 2000, 1,78 milioni nel 2002, 1,4 milioni nel 2006, 1,23 nel 2008 ed infine 1,2 l’anno scorso. C’è da rimanere dunque soddisfatti di questo trend? No per tre motivi. Il primo sta nel fatto che non stiamo parlando del numero di alberi che mancano all’appello in una foresta, bensì di persone: piccoli uomini e donne volutamente soppressi nel grembo materno. Anche l’uccisione di un solo nascituro dovrebbe provocare la nostra indignazione. In secondo luogo non c’è da stare contenti affatto perché ogni anno le cifre degli aborti sono da capogiro: più di un milione come abbiamo visto. Infine il numero di aborti diminuisce anche perché parallelamente diminuiscono i concepimenti. Secondo Marina Tarasova, vice capo dell'Istituto di Ricerca per Ginecologia e Ostetricia a San Pietroburgo, tra il 2003 e il 2008 “l'infertilità femminile è cresciuta del 14% in Russia e più di 1,5 milioni di russe devono ricorrere a un'avanzata tecnologia medica [leggi fecondazione artificiale] per rimanere incinte”. La sterilità e l’infertilità ovviamente non solo provocano un decremento di nascite, ma anche un decremento di aborti. Se nel 2010, come appena ricordato, si sono effettuati 1,2 milioni di aborti, le nascite li superano di poco: 1,7 milioni. Ciò a dimostrazione che in termini percentuali riferiti alle nascite gli aborti sono quasi il 50%.
La steppa demografica. Le pratiche abortive, la contraccezione diffusa - il 23,6% dei 38 milioni di donne in età fertile utilizzano un contraccettivo – e la sterilità e l’infertilità stanno mettendo al bando milioni di fiocchi azzurri e rosa nella patria di Tolstoj e Dostoevskij. Infatti la popolazione russa è scesa da quasi 149 milioni nel 1991 a meno di 142 milioni nel 2010. Circa il 20% delle coppie russe non hanno figli. Nel 2005 Vladimir Putin non usa mezzi termini per definire questo inverno siberiano demografico e parla di vera e propria “crisi nazionale”.
I rimedi. A questo punto, prendendo a prestito il titolo di un celebre libro di Lenin, viene da domandarsi: che fare? L’11 agosto del 2003 il governo cerca di correre ai ripari promulgando un decreto che riduce il numero delle cosiddette “indicazioni sociali”, cioè i requisiti per accedere all’aborto dopo la 12° settimana, da 13 a 4. Ma ciò ovviamente non basta. Sempre Putin nel 2007 promuove un programma di aiuti economici per le famiglie per incentivare la natalità. Risultato: nel 2008 sono state registrate 1,714 milioni di nascite contro 1,234 milioni di aborti. Il 21 aprile l’ex agente del KGB ha promesso una crescita demografica entro il 2015 del 25-30% sbloccando 37,5 miliardi di euro. E’ di questi giorni poi la notizia che Elena Mizulina, presidente della Commissione per la famiglia, le donne e l'infanzia alla Duma, sta preparando una modifica più restrittiva della legge sull’aborto, prevedendo altresì maggiori incentivi per le donne che aspettano un bambino. Ma il fronte economico e giuridico non è il solo su cui insistere secondo la Mizulina, la quale spiega che giornali, tv e internet sono pieni di pubblicità di cliniche abortive e aggiunge: “Ci sono voluti due anni di battaglie per un divieto parziale, ossia nei luoghi dove ci sono bambini, come le scuole, nelle prime e ultime pagine dei giornali, in televisione”.
La Chiesa ortodossa non sta a guardare. Anche la Chiesa ortodossa fa la sua parte. Nel gennaio di quest’anno il patriarca di Mosca Kyrill ha consegnato alla direzione dello Stato russo una serie di proposte in tema di aborto. Primo: le spese delle pratiche abortive non devono più ricadere sulle spalle dei contribuenti. Secondo: obbligo d’informazione alla donna che vuole abortire degli effetti negativi di un simile intervento sulla sua salute soprattutto a livello psicologico. Terzo: introduzione di un congruo tempo di riflessione prima di accedere all’aborto. Quarto: istituzione presso tutti i centri ospedalieri di un “centro di crisi” dove si possano illustrare alla donna altre soluzioni oltre a quella abortiva.
Bimbo curato con il "fratello su misura", é polemica - Charlie è stato dichiarato guarito. In Gran Bretagna si riapre il caso dell'intervento sull'embrione del donatore - Avvenire, 9 maggio 2011
LONDRA. Curato da un fratellino su «misura». II protagonista della complicata vicenda é Charlie Whicaken il cui fracello Jamie é stato concepito in provetta per ottenere cellule staminali in grado di guarire la sua grave malattia genetica. Il caso all'epoca scatenò furibonde polemiche perché |’embrione era stato geneticamente selezionato. Una
pratica vietata in Gran Bretagna, così i genitori, nel 2002, decisero di andare a Chicago per effettuarla.
Jamie, alla nascita. nel 2003, era una copia genetica quasi perfetta del fratello maggiore l medici avevano prelevato Ie cellule necessarie dal suc cordone ombelicale e una volta verificato che non aveva la stessa malattia del fratellino,
avevano daco luce verde al trapianto. Charlie, che all'epoca aveva 4 anni, soffriva di una rarissima forma di anemia che gli impediva di produrre sufficienti globuli rossi. La vicenda di Charlie rappresenta,anche per il fronte laico, un «caso limite» che pone «una complessa questione etica».
Ad affermarlo é Paolo De Coppi, primario di Chirurgia pediatrica al Great Ormond Street Hospital di Londra ed esperto in ricerca sulle cellule staminali, «La malattia di Charlie si presenta in forma ereditaria nel 45 per cento dei casi, ma negli altri casi non è ereditata dai genitori ed è quindi definita sporadica», ha detto De Coppi.
Questo, precisa l'esperto, «sembrerebbe essere il caso di Charlie, ed é proprio da qui che nasce il dibattito etico sullla vicenda: la diagnosi preimpianto sugli embrioni concepiti per "salvare" Charlie, infatti, é stata fatta non per escludere che gli embrioni fossero a loro volta affetti dalla patologia, poiché i genitori non erano portatori, bensì per verificare quale tra gli embrioni fosse il maggiormente compatibile con Charlie ai fini di un tmpianto di staminali». La selezione degli embrioni, cioé, non era, chiarisce lo specialista, «tra un embrione malato ed uno sano, poiché il nuovo concepito non aveva il rischio di contrarre la malattia la malactia, ma tra un embrione meno o più compatibile con il fratello».
Sicuramente — commenta De Coppi - si é trattato per i genitori di una scelra estremameme difficile dal punto di vista etico.
I SOCIAL NETWORK NUOVI MEDIATORI NEL RAPPORTO MEDICO PAZIENTE - Corriere Della Sera, 9 maggio 2011, di Adriana Bazzi
C`era una volta il medico di fiducia. E non parliamo del medico «romantico» alla Archibald Cronin che si prende a cuore la salute dei minatori del Galles (nel romanzo La cittadella) e nemmeno del dottore, uscito dal pennello del
pittore e disegnatore americano Norman Rockwell, che visita anche la bambola di una sua piccola paziente (il quadro si chiama Doctor and Doll). Parliamo dei medici d’oggi, finora unici depositari dell'informazione sanitaria e indiscussi intermediari di quest’ultima con il paziente. Tipologie di dottori che (forse) si stanno avviando sul viale del tramonto, rimpiazzati da Internet e dagli strumenti del web 2.0, social network (come Facebook o Twitter) in testa.
Oggi i pazienti che discutono online delle loro malattie, attraverso blog e forum, e danno persino i voti a ospedali e
medici, sono in costante aumento (come dimostra il dossier del Corriere Salute di ieri . E qualcuno comincia a parlare di «disintermediazione» della medicina. Chi fornisce informazioni su salute e malattie non è più soltanto il medico (il mediatore tradizionale), ma é Internet e sono i social network che assumono così il ruolo di «apomediatori»: guidano il paziente, ma se ne stanno da parte e non forniscono il «servizio», come fa, invece, il medico.
Questa nuova situazione pone una serie di problemi. Eccone almeno quattro.
Primo: il cambiamento del rapporto medico-paziente. Il medico, oggi, deve affrontare un paziente molto più informato e deve imparare a gestire questa nuova realtà. Un piccolo esempio: é opportuno o no che conceda l‘«amicizia» su Facebook a un assistito? Secondo: la scelta (e il modo) di dire la verità al malato, soprattutto di fronte a condizioni gravi, deve fare i conti con quello che Internet può sbattere in faccia, senza mezzi termini. Terzo: i giudizi su medici e ospedali che cominciano a circolare sul web (un po` come succede per gli hotel con "Trip/Advisor) sono attendibili?
Ultimo: la manipolazione dell'informazione é dietro l’angolo, il marketing informatico é una realtà e gli interessi in gioco sono enormi. Come difendersi? Domande che dovranno trovare risposte in un dibattito tutto da costruire.
Pazienti 2.0 - Sociel network e blog stanno rivoluzionando il rapporto fra malati, malattia e medici - Internet - Come l'evoluzione del web cambia la vita di chi ha un problema di salute - Reti sociali e blogterapia - Cosi la medicina sta diventando «2.0» di Adriana Bazzi, Corriere della Sera, 8 maggio 2011
Addio Hercy! scrive Mamiga e continua: «L’ultimo Hercy è la fine delle terapie in infusione per il tumore. É un capitolo che si chiude, prima che se ne apra un altro, quello dei controlli periodici».
Hercy é l’Herceptin, uno dei farmaci più usati nella cura del cancro al seno. Mamiga é una mamma di due bambini
che racconta un anno di convivenza con la sua malattia nel blog oltreilcancro.it, insieme ad altre (per lo più) giovani malate. Con lei c’é Innoallavita che ci dice: «Vogliamo parlare delle nostre difficoltà e angosce quotidiane. La blogterapia é una grande risorsa per patologie come la nostra».
Blogterapia, anche il web può aiutare i pazienti: olireilcancro.it è un esempio, ma ce ne sono molti altri.
Ma perché le persone parlano online dei loro mali?
«Il sentirsi protagonisti aiuta a uscire meglio dalla malattia - commenta Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di Neuroscienze all'Ospedale Fatebenefratelli di Milano. — Quest'ultima costringe all’impotenza e alla solitudine, mentre il rapporto con gli altri, attraverso i social network, può aiutare a ricreare la stima di sé». Uno dei blog più famosi, negli Usa, e CarePages,com: pazienti ricoverati in ospedale, ad esempio, aggiornano familiari e amici sulle loro condizioni.
Blog, forum e social network (come Facebook, Twitter o YouTube), tutti strumenti del «web 2.0», stanno rivoluzionando la vita dei pazienti, il la-oro dei medici, l'attività di ricerca scientifica, il rapporto medico-paziente, l’informazione in sanità.
Tutto é cominciato nel 2006 negli Stati Uniti e, da noi, più o meno l‘anno scorso, con il passaggio dal web tradizionale (il «web 1.0») al web 2.0.
Se il web 1.0 era qualcosa di statico e il flusso dell’informazione era unidirezionale, con il web 2.0 le cose cambiano: l'utente viene messo al centro dei servizi e può interagire con altri.
«I blog sono stati i primi a partire — spiega Eugenio Santoro responsabile del Laboratorio di Informatica Medica all' Istituto Mario Negri di Milano —. Sono spesso gestiti da pazienti e consentono, sostanzialmente, uno scambio di storie e di esperienze. Offrono un supporto che i medici difficilmente garantiscono dopo le dimissioni all’ospedale».
Uno degli svantaggi del blog é che gli spunti di discussione nascono da chi lo gestisce. I social network (reti sociali), sono piu democratici: chiunque può lanciare uno spunto che diventa argomento di discussione della "community".
«Quando si parla di social network — continua Santoro che ha appena pubblicato il libro «Facebook, Twitter e la
Medicina» (Pensiero Scientifico Editore) — si pensa subito a quelli generalisti tipo Facebook, ma i social network in
ambito medico non sono questi; sono realizzati su piattaforme più controllate (per esempio Ning) e mettono a disposizione strumenti capaci di facilitare l'interazione di varie persone con uno stesso problema».
Persone che, in genere, sono affette da qualche malattia, spesso cronica, come il diabete, come l’asma. Un esempio per tutti: Pazienti.org, nato sulla falsariga dell’inglese PatientOpinion.org.
Ma non ci sono solo siti che aggregano pazienti. Ci sono anche quelli come Mammeonline.net che parlano di gravidanze e neonati, come Traineo.com o FatSecret.com o Diettv.com che suggeriscono diete a chi vuole perdere peso.
In Italia stanno cominciando a nascere, negli Stati Uniti sono già una realtà consolidata. Uno dei social network americani più famosi é PatientsLikeMe.com che raccoglie quasi 100 mila pazienti.
«I social network sono l’evoluzione dei forum (gestiti da qualcuno che risponde a delle domande ndr)» puntualizza Santoro. Questi ultimi sono rigidi, permettono di partecipare a una discussione, ma non consentono una interazione fra pari al contrario dei social network, che, inoltre, sono più flessibili: permettono di linkare un video di YouTube, un’immagine di Flickr, una serie di diapositive di SlideShare, di rilanciare un articolo letto su una rivista scientifica, sempre attraverso un link. La novità del web 2.0 é, dunque, la condivisione dell'informazione attraverso strumenti altamente tecnologici.
Anche Facebook ospita pagine mediche (una si chiama "cellula cancerosa") che sono pubbliche: possono, cioè, essere viste da tutti e non richiedono l"‘amicizia" (per accedere, invece, a una pagina "personale" del tizio X o del gruppo Y, occorre chiedere la possibilità di accesso, cioè l’amicizia, al tizio X o a Y). E Facebook ha un grande impatto in termini di informazione sanitaria. Ai tempi dell’influenza H1N1, questo social network, in Italia, ha contribuito al flop della vaccinazione (nella discussione è prevalsa la paura degli effetti collaterali da vaccino).
Oggi, però — continua Santoro — Facebook e Twitter sono più utilizzati come social media, cioè come strumenti di propagazione dell`informazione, anche medico-sanitaria, che ha origine da altri media, compresi quelli tradizionali, come giornali e canali TV (che infatti hanno aperto pagine su Facebook per diffondere i propri contenuti ndr)»,
«L'informazione rimbalza attraverso le reti di amicizia — spiega Santoro —. Ecco perché chi fa informazione sanitaria ha interesse ad aprire un canale Facebook o Twitter».
Twitter funziona come Facebook, ma con due vantaggi: i suoi canali sono pubblici (non si deve chiedere l"’amicizia") e i messaggi sono al massimo di 140 caratteri per questo possono viaggiare sotto forma di Sms anche attraverso i cellulari di vecchia generazione.
Le associazioni di pazienti, per esempio, usano molto Facebook e Twitter per cercare nuovi adepti o per farsi conoscere. E anche per la raccolta fondi: il sistema funziona.
BRASILE: “UNIONE OMOAFFETTIVA”? LA FAMIGLIA È UN'ALTRA REALTÀ - La Chiesa non farà “una crociata” sulla questione, dice un presule
APARECIDA, lunedì, 9 maggio 2011 (ZENIT.org).- Giovedì 5 maggio, il Supremo Tribunale Federale (STF) del Brasile ha approvato l'unione stabile tra persone dello stesso sesso, chiamata unione omoaffettiva.
In questo contesto, monsignor João Carlos Petrini, membro della Commissione della Conferenza dei Vescovi cattolici del Brasile (CNBB) per la Vita e la Famiglia, ha ribadito in occasione della 49ma assemblea generale dell'episcopato, ad Aparecida, la posizione della Chiesa circa il significato della famiglia.
“La Chiesa non farà una crociata sulla questione”, ha affermato, “ma approfondiremo sempre più la sua proposta, che è quella di rimanere fedeli a ciò che è riconosciuto come un disegno di Dio sulla persona e la famiglia”.
“L'origine e la differenza dei sessi è all'inizio della Bibbia, nel libro della Genesi, nei primi versetti. Non è un'elaborazione posteriore da parte delle culture umane”, ha segnalato.
“Forse non valutiamo l'importanza del cambiamento che viene introdotto in questi giorni, che non è un dettaglio. Si tratta di un'alterazione nella storia, che è multimillenaria e non è esclusività della Chiesa e del cristianesimo”, ha aggiunto.
Monsignor Petrini ha affermato che la Chiesa rispetta la decisione degli organi del Governo brasiliano, ma ha sottolineato che la definizione “famiglia” per le unioni omoaffettive non rispetta il vero significato della famiglia.
“La famiglia è un'altra realtà, ha un'altra base, si muove in un altro orizzonte, e speriamo che questa distinzione venga mantenuta; così come sarebbe strano se una persona che usa un camice bianco venisse chiamata medico, ma non lo è perché non ha certi attributi per poter esercitare la medicina, allo stesso modo è strano anche chiamare qualsiasi tipo di unione matrimonio solo perché due persone hanno deciso di abitare sotto lo stesso tetto”.
“Chi vuole potrà accogliere o rifiutare la posizione della Chiesa”, ha concluso. “Non inizieremo alcuna crociata, ma cercheremo di difendere quella che da Adamo ed Eva e fino a ieri è stata sempre una caratteristica tipica della vita delle nostre società”.
"Gesù, cosa ho fatto?". Rock star sconvolto dall'aborto di suo figlio di Raffaella Frullone10-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
“Gesù, che cosa ho fatto?”. Disperate, angosciate, terrorizzate, sono le uniche cinque parole che giravano vorticosamente in testa ad un padre l’attimo dopo aver assistito all’aborto del figlio. Non un padre qualunque, non un inesperto adolescente, non un uomo timido e insicuro alle prese con una situazione che non sapeva gestire, non un cattolico fervente la cui donna aveva deciso per due, no. Il grido silenzioso di rimorso è quello di Steve Tyler, rock star di fama internazionale nonché leader degli Aerosmith.
Era il 1975 , anno dei primi travolgenti successi per il gruppo, esploso, anche sotto il profilo commerciale, con Toys in the attic, che ha venduto circa 8 milioni di copie, Sweet Emotion e Walk this way. Tyler , allora 27enne, si era trasferito a Boston ed aveva voluto con sé la giovanissima fidanzata Julia Holcomb. La ragazza allora aveva solo 14 anni e per consentire la convivenza tra i due, i genitori di Julia avevano firmato un permesso per affidare a Tyler la custodia legale della figlia.
A distanza di 35 anni, la vicenda viene a galla dalle pagine dell’autobiografia del gruppo, “Walk in this way”, curata da Stephen Davis e da poco disponibile nelle librerie americane. Secondo quanto riportato nelle pagine del libro, Julia rimase incinta e l’enturage degli Arosmith convinse Tyler a prendere l’unica strada ragionevolmente possibile: quella dell’aborto. Un’esperienza di cui Tyler stesso parla proprio nel volume: «Ero davvero in crisi. Per me era un momento importante, stavo costruendo un progetto di vita con una donna, ma ci convinsero che non avrebbe mai funzionato e che avrebbe rovinato le nostre vite». Tyler e Julia si lasciano convincere ed è proprio la rock star a descrivere con poche, crude parole il momento che davvero segna la reale rovina delle loro vite. « E’ semplice. Vai dal medico, si mette un ago nel ventre della mamma, e viene iniettato il veleno. Tu resti lì, a guardare. Poi tirano fuori il bambino, morto. Pochi minuti. Ero devastato, nella mia testa continuavo a ripetere “Gesù, cosa ho fatto?” ».
A descrivere lo stato d’animo di Tyler dopo l’aborto del figlio è anche l’amico Ray Tabano, chitarrista del gruppo che ha vissuto di riflesso il dramma del cantante «Tyler uscì stravolto da quell’esperienza. Era solo un ragazzo e il fatto di aver visto tutto, di avere vissuto tutto, lo distrusse».
Sebbene negli anni dell’adolescenza Tyler avesse già avuto esperienze con alcool e marjuana, è l’aborto della sua fidanzata a segnare lo spartiacque più importante della sua vita, che degenera in maniera irreversibile. Pur continuando a vedere Julia, piombata in una crisi depressiva che la porterà a tentare più volte il suicidio, inizia una relazione con una modella di Playboy, Bebe Buell, che lo accompagna in un tour Europeo. La modella è la prima diretta testimone del baratro in cui cade Tyler: “Era pazzo, sempre completamente ubriaco, più volte è stato capace di distruggere il camerino che gli assegnavano. Tornati a Boston le cose non sono migliorate, un giorno tornando a casa l’ho trovato disteso in bagno completamente imbottito di droga. Era distrutto dal dolore». La situazione degenera a tal punto che la Buell, quando rimane incinta della figlia Lyv, nata nel 1977, realizza che è impossibile crescere un figlio con un uomo completamente fuori controllo al suo fianco e torna con il suo ex fidanzato, il produttore Todd Rundgren, che crescerà Lyv come fosse sua figlia.
Sebbene la vita disordinata di Tyler possa essere vista come la conseguenza del successo misto all’animo rock, gli esperti riconoscono in questo tipo di atteggiamento i tratti tipici di uno stress seguito ad un grosso trauma: assumere droghe infatti non è che il tentativo di rimuovere ricordi e sensazioni. La rabbia inoltre, specialmente per un uomo è spesso espressione di un grosso senso di colpa che ha bisogno di essere espresso.
Di come la sua vita sia stata rovinata dalla droga, Tyler parla anche nella sua stessa autobiografia: «Mi sono sniffato la mia Porsche, il mio aereo e la mia casa. Ho buttato via 20 milioni di dollari per colpa della droga. Nonostante negli anni 80 fossi uno dei cantanti più celebri e pagati al mondo, ero sempre senza soldi per via degli stupefacenti».
Il libro è presentato dal cantante come «il racconto della sua discesa agli inferi»: «Salivo spesso sul palco con una cassetta piena di droga – scrive il cantante –Sono fortunato di essere ancora vivo». A nulla è valsa la sua permanenza in diversi centri di riabilitazione per disintossicarsi: «Se non fossi stato aiutato dagli altri, probabilmente sarei morto diverse volte» ha dichiarato «Ecco che cosa ho avuto dalla droga. Mi ha fatto allontanare dai figli, ha segnato in negativo la mia band, ha distrutto i miei matrimoni e spesso mi ha messo in ginocchio».
Una storia triste. Squallida se pensiamo che stiamo parlando di un talentuoso rocker che nella vita ha avuto possibilità straordinarie di successo oltre che di guadagno. Una storia che Tyler ha messo per iscritto in un libro che probabilmente è specchio del suo stato d’animo oggi “Does the noise in my haed bother you?” ovvero “Ti dà fastidio il chiasso nella mia testa?”. No, non ci dà fastidio Tyler, e forse il chiasso è figlio di quella frase che come un vortice ti girava in testa in quella spoglia stanza d’ospedale “Gesù, che cosa ho fatto?”
Tortura ok per catturare Bin Laden? di Giacomo Samek Lodovici, 10-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
A quanto dichiarato è abbastanza probabile che la localizzazione di Osama bin Laden sia divenuta possibile anche grazie alle informazioni ottenute torturando alcuni terroristi nella base di Guantanamo.
Ora, questa localizzazione è certamente un risultato molto importante e lodevole (mentre non lo è il modo in cui è stata condotta l’operazione). Ma questo risultato rende moralmente accettabile e legittima la tortura?
Il discorso è delicatissimo e poco studiato, per cui possiamo provare a individuare alcuni criteri senza avere alcuna pretesa di definitività. Il punto principale è che nemmeno nel corso di una guerra è moralmente lecito compiere qualsiasi atto, nemmeno nel corso della guerra al terrorismo. Infatti, un fine buono non giustifica un mezzo (cioè l’atto che lo consegue) malvagio, sebbene ne attenui la gravità (talvolta anche di molto).
Questo argomento vale contro il machiavellismo (che cosa abbia detto davvero Machiavelli invece è un altro discorso), ma non contro il consequenzialismo, cioè quella concezione che dice non già che il fine giustifica l’azione-mezzo che lo consegue, bensì che il fine qualifica moralmente l’azione-mezzo. Infatti, per il machiavellismo l’azione umana ha già in sé una sua qualità morale prima di conseguire il fine; invece, per il consequenzialismo l’azione in sé è moralmente indifferente ed è il fine conseguito che le attribuisce, di volta in volta, una qualità morale. Di volta in volta, a seconda del fine raggiunto, può essere buono/malvagio torturare, schiavizzare, commettere atti pedofili, ecc.
Ora, il consequenzialismo non coglie che la bontà/malvagità degli atti umani dipende dalla loro identità e non dai loro risultati (è il punto decisivo, ma non è qui possibile dimostrarlo: a tal proposito sono costretto a rinviare al mio L’utilità del bene. Jeremy Bentham, l’utilitarismo e il consequenzialismo, Vita e Pensiero, 2004). È così anche se a volte (come nel caso della tortura al fine di evitare attentati) sembra decisamente antintuitivo.
Così, ci sono degli atti che, per la loro stessa identità, sono sempre malvagi, mai accettabili, intrinsecamente malvagi. Per esempio, appunto, torturare, assassinare (che è diverso da uccidere per legittima difesa o in guerra), suicidarsi, schiavizzare, commettere atti pedofili, ecc.
Sono sempre malvagi gli atti che ledono la dignità umana, cioè quella preziosità incommensurabile che innalza l’uomo al di sopra di tutte le cose, piante e animali. Chi compie questi atti offende l’uomo e, inoltre, quasi sempre, lo tratta come mezzo, quando invece l’uomo dev’essere trattato come fine in sé (e solo le sue prestazioni possono, a volte, essere lecitamente usate come mezzo). Chi sputa in faccia ad un uomo lo offende come persona, e parimenti lo offende e lo tratta come mezzo chi lo tortura.
Infatti, la tortura è una forma di violenza fisica o psicologica (che cosa, in concreto, sia violenza – che non è il mero uso della forza – e dunque tortura è un altro discorso, molto complesso, che inoltre va applicato appunto in concreto, talvolta caso per caso), solitamente inflitta con il fine di estorcere delle informazioni, oppure di punire, oppure di ottenere piacere (sadismo). La tortura offende la dignità umana anzitutto in quanto è appunto una violenza, la quale ovviamente non onora bensì calpesta la dignità umana.
In questo senso, anche il Catechismo della Chiesa cattolica afferma (al punto 2297): «La tortura, che si serve della violenza fisica o morale per strappare confessioni, per punire i colpevoli, per spaventare gli oppositori, per soddisfare l'odio, è contraria al rispetto della persona e della dignità umana».
È vero che il malvagio (l’assassino, il terrorista) è indegno. Però egli ha leso la sua dignità morale, non quella ontologica, che è inerente al suo stesso esserci, alla sua natura razionale (ho delucidato divulgativamente questa tesi in Eutanasia e suicidio: che giudizio dare?, «il Timone», 80/2009, pp. 36-38). E questa dignità ontologica è quella che viene calpestata dagli atti intrinsecamente malvagi.
Quanto alla tortura inflitta per estorcere informazioni, essa vìola la coscienza, quel sacrario che non si dovrebbe mai violare, vuole che una persona abdichi dalla sua libertà interiore, cerca di ottenere che un uomo cessi di essere padrone di sé. Come ha scritto Robert Spaemann, la tortura rende l’uomo strumento privo di volontà nelle mani di altri uomini e vìola direttamente quella sacralità della coscienza di cui parla già Socrate prima del cristianesimo.
D’altra parte, se la pena in forma di tortura è sempre gravemente malvagia, non è però malvagia ogni pena. Anche a questo riguardo bisognerebbe indugiare a lungo, a partire dalla delucidazione dei fini della pena.
Limitandoci alla funzione rieducativa della pena, ciò che si può perlomeno dire è che una pena non violenta è diversa dalla tortura perché non offende la dignità del reo, bensì anzi la riconosce. Essa, infatti, riconosce che l’uomo è un essere responsabile e libero e proprio per questo vuole che egli sia punito (per il male che ha commesso) affinché si penta interiormente e recuperi la dignità morale che ha leso. Non vuole togliere la libertà interiore al reo, non vuole che cessi di essere padrone di sé, bensì spera che egli usi tale libertà per un atto moralmente alto come il pentimento, vuole che egli con la sua coscienza riconosca e detesti interiormente il male che ha compiuto.
LETTURE/ Solo i "limoni" di Montale e Tolkien possono guarirci dalla Facebook-mania di Monica Mondo, martedì 10 maggio 2011, il sussidiario.net
Che c’entrano i limoni con le nuove tecnologie? Quando si mostra un segno della bellezza da toccare, odorare, gustare, ci rendiamo conto che è della realtà che abbiamo bisogno, che il virtuale può essere utile, non sostitutivo. Jonah Lynch, sacerdote, missionario della Fraternità San Carlo Borromeo, è un divoratore di libri e una mente “filosofica”. Ciò che legge, vede, osserva diventa domanda e ricerca, metro di paragone e giudizio. Per questo parte dalla splendida poesia di Montale per ragionare sulle tecnologie che sempre più accompagnano e determinano le nostre giornate.
La questione è urgente soprattutto se si ha una responsabilità educativa: lo sanno i padri e le madri, lo sa bene chi, vicerettore di un seminario, si trova a far maturare una libertà orientata al bene in giovani “nativi digitali”. Abituati a convivere con Facebook, Google, cellulari, a scaricare film e ingozzarsi di notizie solo apparentemente non filtrate. L’abbondanza, l’infinità possibilità ci riempie di ebbrezza, il multitasking ci illude di risparmiare tempo, posso fare più cose insieme, l’istantaneità domina i nostri atti e i nostri pensieri. Compro, guardo, parlo, scrivo, contemporaneamente se voglio, con una tastiera e uno schermo davanti. Ma quanto perdiamo in profondità, in capacità di assimilazione, in memoria a lungo termine? E la possibilità di non avere intermediari, di fare tutto da soli, ci fa ricordare il nostro limite, il bisogno di fidarsi di qualcuno?
Avere un profilo facebook permette contatti lontani, dibattiti allargati, libera da timidezze ed esitazioni. Perché rende finti, insinceri. Quanto paghiamo questa vanità, quanto incide sulla concezione di sé? Eppure per vivere i rapporti umani abbiamo bisogno di carne, non di schermi. Lynch, che è un fisico, e ha vissuto una giovinezza americana e ipertecnologica, non ha rigurgiti neoluddisti, non demonizza la téchne (e soprattutto non la isola, non la contrappone all’arte), non fa prediche. Solo una proposta più affascinante è in grado di spostare il baricentro dell’essere.
Tutto è buono, se è strumento, a servizio dell’uomo e del bene. Però, la tecnologia non è neutrale, ci spiega, porta con sé un mutamento radicale nel rapporto col mondo. Si citano fisici, psichiatri, filosofi, il rischio di un cambiamento antropologico è reale, e non è affatto detto che sia positivo.
Per il giovane sacerdote americano, che suona il violino e ama la poesia, è stato possibile rendersi conto che il tempo e il suo trascorrere sono qualcosa di positivo, che lo stare su una parola, una frase aiuta il pensiero, stimola connessioni neuronali, che una birra con gli amici è insostituibile e l’affetto ha bisogno di sguardi e di strette di mano. L’incontro con il Cristianesimo, il suo amore scandaloso per la carne, per la materia offre la risposta per educare i ragazzi di un seminario, per mostrare la strada a chi legge.
Per “vagliare tutto, e trattenere il valore”, ci vuole una libertà adulta, consapevole, educata. Anche esercitando il sacrificio del distacco, il digiuno, sapienti e potenti mezzi pedagogici della tradizione della Chiesa. Essa ha una novità da offrire che supera ogni progresso e che da duemila anni si trasmette per contagio, da uomo a uomo. Come ci insegna Tolkien, gli anelli più potenti e magici non si lasciano usare, usano chi li porta, fino a dominarlo. Mentre nulla può ordinare la vita, neppure la tecnica, semmai dev’essere il contrario.
Jonah Lynch, Il profumo dei limoni. Tecnologie e rapporti umani nell’era di facebook. Prefazione di Aldo Cazzullo. Lindau, pp.136, 11 euro
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CRONACA - IL CASO/ Quei bambini "post-datati" che mandano in bancarotta le famiglie di Carlo Bellieni, martedì 10 maggio 2011, il sussidiario.net
A margine del “matrimonio del secolo” dei reali inglesi nessuno si è stupito di un fatto, cioè che Kate Middelton si sia sposata a quasi 30 anni contro i 20 della defunta suocera. Già, cosa c’è da stupirsi? In apparenza niente, perché è così che va il mondo. Ma davvero nessuno trova strano che ci si sposi a 30 anni? Penso che chi legge starà pensando: “Certo, poteva aspettare ancora un po’ e vivere la giovinezza”… ed è proprio qui il punto: oggi sposarsi a 30 anni sembra “troppo presto”; pochi anni fa era “troppo tardi”. Tanto che Diana Spencer si sposò nel 1980 a 20 anni, e nessuno ci trovava niente di strano. Oggi la prenderebbero per matta! Progresso o regresso?
Rimandare la maternità (e le nozze) è la norma; e non ci vengano a dire che dipende dal lavoro o dalla scuola, perché non ci sono i soldi: Kate Middleton e quelle come lei non sono impiegate part-time, eppure rimandano nozze e figli proprio come chi ancora cerca impiego. Rimandare la maternità fa male: genera sterilità, genera rischi di malformazioni, di danni alla madre, di aborti spontanei. Ma questo nessuno lo dice.
Oggi fare un figlio da giovane sembra una stravaganza, tanto che sta montando una protesta delle giovanissime che ogni anno in numero maggiore aspettano un figlio da teenagers. E tutti a guardarle male, moralisticamente additandole come immorali, e non - come sarebbe successo anni fa- perché hanno fatto sesso, ma perché hanno fatto un figlio! È uno shift pauroso, quello accaduto negli ultimi 50 anni, con la procrastinazione della maternità che non è legata a motivi economici, ma culturali: figli rimandati all’infinito e, per carità, uno solo!
Nei secoli scorsi non era immorale o stravagante e vergognoso sviluppare una voglia di famiglia da giovani, quando l’orologio biologico ci dà i segnali che è ora: d’altronde la Giulietta di Shakespeare sposava Romeo (e moriva d’amore) a 14 anni! E nessuno ci trovava da ridire sull’età. E 14 anni aveva la bella Esmeralda di Victor Hugo, e nessuno si stupiva della sua indipendenza, mista a forza e pudore.
Il 5 maggio, al congresso “Reproductive ageing: a basic and clinical update” promosso da Serono Symposia International Foundation (Ssif), Antonio Pellicer, ginecologo ed esperto di fertilità dell’Università di Valencia spiegava che l’aumento dell’aspettativa di vita si accompagna oggi a un notevole mutamento nella posizione sociale e professionale della donna che ha portato, come conseguenza, alla scelta di ritardare il momento del concepimento: “Il 50% delle pazienti che ricorrono a trattamenti per l’infertilità deve affrontare le conseguenze dell’invecchiamento: il risultato è che oggi l’età della donna è la prima causa di infertilità”.
Non voglio invitare nessuno a progettare un figlio a 16 anni; ma domandiamoci perché oggi chi fa un figlio a 40 anni è normale e chi lo fa a 20 (come Lady Diana, cioè quando ovaie e ormoni sono al massimo) è matto? È una cultura che ci strappa 10-20 anni di capacità riproduttiva, e ci propone un ideale di realizzazione solo in certi termini di carriera e soldi. Certo, per le donne prima la realizzazione erano solo i figli, ora è solo la carriera: ma non sarebbe bello trovare un sano equilibrio, che sta nel dare a chi vuol fare la mamma tutti gli strumenti per farlo al momento giusto (e soprattutto quelli di una cultura che non la prenda per matta) e altrettanto a chi vuol far carriera?
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CRONACA - IL CASO/ Quei bambini "post-datati" che mandano in bancarotta le famiglie di Carlo Bellieni, martedì 10 maggio 2011, il sussidiario.net
A margine del “matrimonio del secolo” dei reali inglesi nessuno si è stupito di un fatto, cioè che Kate Middelton si sia sposata a quasi 30 anni contro i 20 della defunta suocera. Già, cosa c’è da stupirsi? In apparenza niente, perché è così che va il mondo. Ma davvero nessuno trova strano che ci si sposi a 30 anni? Penso che chi legge starà pensando: “Certo, poteva aspettare ancora un po’ e vivere la giovinezza”… ed è proprio qui il punto: oggi sposarsi a 30 anni sembra “troppo presto”; pochi anni fa era “troppo tardi”. Tanto che Diana Spencer si sposò nel 1980 a 20 anni, e nessuno ci trovava niente di strano. Oggi la prenderebbero per matta! Progresso o regresso?
Rimandare la maternità (e le nozze) è la norma; e non ci vengano a dire che dipende dal lavoro o dalla scuola, perché non ci sono i soldi: Kate Middleton e quelle come lei non sono impiegate part-time, eppure rimandano nozze e figli proprio come chi ancora cerca impiego. Rimandare la maternità fa male: genera sterilità, genera rischi di malformazioni, di danni alla madre, di aborti spontanei. Ma questo nessuno lo dice.
Oggi fare un figlio da giovane sembra una stravaganza, tanto che sta montando una protesta delle giovanissime che ogni anno in numero maggiore aspettano un figlio da teenagers. E tutti a guardarle male, moralisticamente additandole come immorali, e non - come sarebbe successo anni fa- perché hanno fatto sesso, ma perché hanno fatto un figlio! È uno shift pauroso, quello accaduto negli ultimi 50 anni, con la procrastinazione della maternità che non è legata a motivi economici, ma culturali: figli rimandati all’infinito e, per carità, uno solo!
Nei secoli scorsi non era immorale o stravagante e vergognoso sviluppare una voglia di famiglia da giovani, quando l’orologio biologico ci dà i segnali che è ora: d’altronde la Giulietta di Shakespeare sposava Romeo (e moriva d’amore) a 14 anni! E nessuno ci trovava da ridire sull’età. E 14 anni aveva la bella Esmeralda di Victor Hugo, e nessuno si stupiva della sua indipendenza, mista a forza e pudore.
Il 5 maggio, al congresso “Reproductive ageing: a basic and clinical update” promosso da Serono Symposia International Foundation (Ssif), Antonio Pellicer, ginecologo ed esperto di fertilità dell’Università di Valencia spiegava che l’aumento dell’aspettativa di vita si accompagna oggi a un notevole mutamento nella posizione sociale e professionale della donna che ha portato, come conseguenza, alla scelta di ritardare il momento del concepimento: “Il 50% delle pazienti che ricorrono a trattamenti per l’infertilità deve affrontare le conseguenze dell’invecchiamento: il risultato è che oggi l’età della donna è la prima causa di infertilità”.
Non voglio invitare nessuno a progettare un figlio a 16 anni; ma domandiamoci perché oggi chi fa un figlio a 40 anni è normale e chi lo fa a 20 (come Lady Diana, cioè quando ovaie e ormoni sono al massimo) è matto? È una cultura che ci strappa 10-20 anni di capacità riproduttiva, e ci propone un ideale di realizzazione solo in certi termini di carriera e soldi. Certo, per le donne prima la realizzazione erano solo i figli, ora è solo la carriera: ma non sarebbe bello trovare un sano equilibrio, che sta nel dare a chi vuol fare la mamma tutti gli strumenti per farlo al momento giusto (e soprattutto quelli di una cultura che non la prenda per matta) e altrettanto a chi vuol far carriera?
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LA CHIESA COPTA ALLA MERCÉ DEI SALAFITI - Almeno 12 copti rimasti uccisi questo sabato a Il Cairo di Paul De Maeyer
ROMA, lunedì, 9 maggio 2011 (ZENIT.org).- Una nuova ondata di violenza interreligiosa in Egitto si è conclusa con un drammatico bilancio di sangue. Secondo l'agenzia AINA (Assyrian International News Agency, 8 maggio), almeno 12 copti sono morti ed altri 232 sono rimasti feriti nell'assalto sferrato nel tardo pomeriggio di sabato 7 maggio da alcune centinaia di manifestanti salafiti - una corrente musulmana fondamentalista - contro la chiesa copta di San Mina, situata nel quartiere di Imbaba, nella periferia nordoccidentale della capitale Il Cairo.
I dimostranti musulmani avevano chiesto a gran voce la liberazione di una presunta convertita all'islam - una giovane ragazza chiamata Abir, così rivela AINA -, che secondo loro sarebbe tenuta prigioniera nel complesso della chiesa, un fatto negato d'altronde dallo stesso governatore della provincia di Giza e da padre Yohanna Mansour, della diocesi copta di Giza. Dopo le iniziali aggressioni verbali, la situazione è velocemente precipitata e sono iniziate a volare pietre e bottiglie incendiarie. Alla fine sono state impiegate anche armi da fuoco. Nell'attacco sono state danneggiate e date alle fiamme anche alcune case e due altre chiese nel quartiere, fra cui anche una cattolica, come riferisce l'agenzia Fides (9 maggio). "Un gruppo di salafiti è entrato sparando nella chiesa ed ha ucciso il padre di un nostro postulante, che si trova in Uganda", così ha raccontato a Fides padre Luciano Verdoscia, missionario comboniano.
Secondo quanto riportato dal quotidiano egiziano Al-Ahram (8 maggio), gli incidenti si sono prodotti solo poche ore dopo l'apparizione su un canale televisivo cristiano con sede a Cipro - Hayat Christian TV - di un'altra nota presunta convertita all'islam, Camelia Shehata Zakher. La donna, moglie di un sacerdote copto, che assieme con un'altra nota "convertita", Wafa' Costantine, è da mesi al centro di un'aspra polemica fra la comunità musulmana e quella copta, ha respinto le voci su una sua conversione all'islam. In una videoregistrazione disponibile su YouTube [1], la venticinquenne sostiene di appartenere alla Chiesa copta e nega inoltre di essere stata torturata, come sostenevano certi gruppi musulmani. "Sono cristiana per una scelta mia personale", così ha ribadito la donna, che si è dichiarata inoltre "affezionata alla Chiesa".
Ciononostante, la storia della "conversione" di Shehata e Wafa' Constantine - dichiarata "completamente falsa" da vari esponenti cristiani, fra cui l'islamologo e gesuita Samir Khalil Samir (AsiaNews, 3 gennaio) - continua ad avvelenare i rapporti tra le due comunità e ad essere la causa di spargimento di sangue. Basta pensare all'attacco terroristico contro la cattedrale siro-cattolica di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso nella capitale irachena Bagdad, in cui il 31 ottobre 2010 sono morte più di 50 persone, e all'attentato suicida del 1° gennaio scorso ad Alessandria d'Egitto, che ha provocato più di 20 vittime cristiane.
Nel tentativo di farsi strada nell'Egitto "post-Mubarak", il movimento conservatore dei salafiti cerca di trarre il maggior profitto possibile dalla questione dei presunti convertiti. Mentre prima infatti si sentiva parlare poco dei salafiti, è dopo la caduta del presidente Hosni Mubarak, avvenuta l'11 febbraio scorso, che sono diventati "molto attivi". Come ricorda Al-Ahram, il gruppo fondamentalista ha cercato ad esempio di prendere il controllo di una delle moschee più grandi della capitale, la Moschea Nour (o Noor). Ad impedirlo sono stati i militari, che hanno provveduto a ristabilire l'ordine.
E mentre nelle scorse settimane gruppi o elementi salafiti hanno sferrato vari attacchi contro chiese copte, mercoledì 30 marzo durante un "sit-in" davanti agli uffici del Consiglio di Stato nel cuore del Cairo è stata lanciata anche un'alleanza a sostegno dei "nuovi musulmani", la Coalition for the Support New Muslims. Secondo i responsabili, sarebbero quasi 70 i convertiti all'islam tenuti sequestrati dai copti (ZENIT, 14 aprile 2011).
In perfetto tempismo con la Pasqua cristiana, i salafiti hanno annunciato il loro "programma" in dieci punti o "richieste" nei confronti della Chiesa copta durante una manifestazione svoltasi domenica 25 aprile davanti alla moschea El Kayed Ibrahim di Alessandria. Tra le varie richieste c'è "il processo a Papa Shenouda", "il rilascio di Shehata e Wafa' Constantine" e "l'ispezione dei monasteri e delle chiese per cercare donne musulmane tenute prigioniere dalla Chiesa" (AINA, 30 aprile).
Alcuni testimoni hanno raccontato che nell'attacco di questo sabato alcuni salafiti erano vestiti secondo lo stile talebano. Secondo un residente del quartiere di Imbaba, Saber Loutfi, che ha parlato con Coptic Free Voice, i responsabili appartengono "ai 3mila jihadisti ritornati di recente dall'Afghanistan" (AINA, 8 maggio). Ad alimentare l'estremismo è anche la povertà, come ha spiegato sempre a Fides padre Verdoscia. "Il quartiere di Imbaba è un'area povera e il fanatismo prospera dove regnano l'ignoranza e la povertà", ha detto. "I salafiti sono un gruppo che non è maggioritario, ma che si fa sentire, anche con azioni violente".
Il bagno di sangue nel quartiere di Imbaba ha messo in allerta il governo del primo ministro Essam Sharaf, il quale ha rimandato una visita nel Bahrein e negli Emirati Arabi Uniti ed ha convocato una riunione di emergenza del suo gabinetto per discutere la situazione. Dal canto suo, il ministro della Giustizia, Abdel Aziz al-Gindi, ha avvertito che il governo utilizzerà il "pugno di ferro" contro chi minaccia la sicurezza del Paese (BBC, 9 maggio). Anche i militari sembrano decisi a non lasciar correre. "Il Supremo Consiglio Militare - così si legge sulla pagina di Facebook dell'organismo - ha deciso di rinviare tutte le persone arrestate dopo gli eventi di ieri (sabato), cioè 190, alla Suprema Corte Militare" (BBC, 8 maggio).
Anche il Gran Mufti d'Egitto, il professor Ali Gomaa, è intervenuto esortando tutti gli egiziani a "stare fianco a fianco per prevenire gli scontri" (Reuters, 8 maggio). Netta è stata inoltre la reazione di Essam El-Erian. "Servirebbe un giro di vite contro questa violenza, non dovremmo permettere a questa gente di rovinare quello che abbiamo realizzato nella Rivoluzione di gennaio", ha detto il portavoce dei Fratelli Musulmani (Al-Ahram). "L'incidente di Imbaba dimostra chiaramente che alcune persone continuano ad agire dietro le quinte per infiammare i conflitti settari", ha dichiarato El-Erian, alludendo al partito dell'ex uomo forte dell'Egitto, il National Democratic Party (NDP). Secondo i media egiziani, sarebbe in atto una "controrivoluzione", organizzata da rimasugli della formazione politica disciolta ufficialmente dalla giustizia egiziana il 16 aprile scorso.
Neppure il vescovo di Giza, Anba Theodosius, ha dubbi. "Queste cose sono pianificate", ha dichiarato con amarezza (AINA, 8 maggio). "Non abbiamo legge né sicurezza, siamo in una giungla. Siamo in uno stato di caos. Una diceria brucia tutta l'area. Ogni giorno è una catastrofe", ha continuato il presule, che non tende però minimamente a cedere agli estremisti. "Non lasceremo mai il nostro paese", ha detto seccamente.
Per padre Verdoscia, urge un ripensamento nell'islam. "A mio avviso - ha detto a Fides - è l'islam che deve evolversi. Spero che i musulmani moderati possano distanziarsi da determinate letture dell'islam". Secondo il comboniano, da anni attivo in Egitto, "questi omicidi avvengono perché nell'islam quando una categoria di persone sono dichiarate 'kuffar' (infedeli), queste possono essere uccise e private di tutte le loro proprietà. Le interpretazioni di questo tipo devono essere riviste dagli stessi islamici".
1.
Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - Da “Libero”, 8 maggio 2011 - Come difendersi dal deserto che avanza - Posted: 09 May 2011 08:50 AM PDT
Uno tsunami di chiacchiere, un’alluvione di sciocchezze e pure idiozie, una tracimazione di banali o ridicoli “secondo me” che pretenziosi sentenziano su tutto e tutti…
Come difendersi da questo assordante assedio di tv, internet e altri media che ci fanno perdere di vista la realtà e perfino la cognizione di noi stessi (e che forse proprio per far perdere la cognizione del dolore vengono fatti dilagare)?
Queste formidabili armi di “distrazione” di massa riescono a far credere ad alcuni miliardi di abitanti del pianeta, per giorni, che il matrimonio di due bamboccioni di buona famiglia a Londra sia “la” notizia da diffondere in mondovisione per ore e che debba elettrizzare l’umanità, che sia la notizia importante per la nostra vita.
Assai più delle tragedie del mondo (perlopiù oscurate) e pure della nostra esistenza concreta, delle nostre difficoltà, delle nostre intime e brucianti domande, della nostra personale ricerca del senso della vita.
“Tutto cospira a tacere di noi/ un po’ come si tace un’onta,/ forse po’ come si tace/ una speranza ineffabile” (Rilke).
Tutto cospira a cancellare la domanda “per cosa vale la pena vivere?” o “chi sono io?”, tutti si rassegnano al pensiero dominante, a ripetere quel che “si dice”, a vivere all’esterno di se stessi.
E così “tutti quelli che mi hanno incontrato è come se non m’avessero veduto” (Rimbaud).
Così ci lasciamo convincere addirittura che è bene non essere se stessi, che l’inautentico è un’opportunità, che tante maschere possano sostituire un volto assente.
Lo proclama un personaggio di Philip Roth nel romanzo ‘La controvita’:
“Tutto ciò che posso dirti con certezza è che io, per esempio, non ho un io, e che non voglio o non posso assoggettarmi alla buffonata di un io.
Quella che ho al posto dell’io è una varietà di interpretazioni in cui posso produrmi, e non solo di me stesso: un’intera troupe di attori che ho interiorizzato, una compagnia stabile alla quale posso rivolgermi quando ho bisogno di un io, uno stock in continua evoluzione di copioni e di parti che formano il mio repertorio.
Ma sicuramente non possiedo un io indipendente dai miei ingannevoli tentativi artistici di averne uno. E non lo vorrei. Sono un teatro e nient’altro che un teatro”.
Così siamo divenuti una dimora disabitata, estranea a noi stessi. Per questo la nostra generazione trova così arduo accompagnare i propri figli in quella fondamentale avventura che è la conoscenza di sé e l’esplorazione del mistero dell’esistenza.
E siccome però esplode da ogni fibra del nostro essere il bisogno di ritrovarci, di scoprire la nostra anima, siccome non possiamo sfuggire alla “nostalgia del totalmente altro”, allora l’industria delle parole ci rifila sui suoi scaffali i “prodotti spirituali”, i Mancuso, i Galimberti e perfino gli Scalfari…
Come se si potesse mai placare l’atavica sete di acqua fresca di un morente nel deserto, con un diluvio di confuse chiacchiere sull’acqua.
Converrebbe piuttosto scoprire guide autentiche, per farci accompagnare alla decifrazione della nostra condizione umana e verso sorgenti di acqua zampillante…
Ci sono due testimoni, due grandi anime, apparentemente molto diverse e lontane: Franz Kafka e santa Teresa d’Avila. Cos’hanno in comune lo scrittore praghese e la mistica spagnola?
Intanto nascono entrambi nella storia e nella sensibilità ebraica e poi hanno scritto due libri – a distanza di tre secoli e mezzo – con un titolo quasi identico: “Il Castello”, nel caso di Kafka e “Il castello interiore” nel caso di Teresa d’Avila.
Per entrambi il “castello” è la metafora della misteriosa fortezza dell’anima, dell’autenticità. E’ stato Antonio Sicari ad accostare, in un suo piccolo volume – “Fortezze accessibili” (edizioni Ocd) – questi due grandi e i loro due libri.
Il “Castello” di Kafka racconta – secondo la sintesi di Sicari – di “un impiegato che giunge nel villaggio situato ai piedi del Castello da cui è stato ufficialmente convocato per assumervi il posto di agrimensore (geometra)”.
Quella “convocazione” del protagonista, identificato come “K.”, è la chiamata ad esistere (dal nulla) e al grande compito della vita.
“Ma nel Castello egli non riesce ad entrare a causa di mille difficoltà e mille intralci burocratici.. Il suo contratto d’assunzione è regolare e non può essere sciolto, ma è stato fatto nell’epoca in cui al Castello c’era veramente bisogno di un geometra, poi la pratica è andata smarrita per anni, quando finalmente è stata ritrovata e spedita già non c’era più bisogno di lui”.
Lo “spaesamento” del protagonista, ci avverte Sicari, è quello dell’uomo moderno: “gettato in un mondo dove non è atteso, dove è di troppo, dove nessuno ha bisogno di lui”.
Infatti l’ostessa del villaggio dice a K. : “lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla”.
A dire il vero c’è stata un’occasione in cui K. poteva entrare finalmente nel Castello: “di fatto c’è un istante notturno in cui sembra che gli venga offerta una qualche possibilità, ma, proprio in quel momento, K. è intontito dal sonno e non ha la forza di rendersene conto”.
Quante volte un avvenimento, un incontro, un fatto, un volto ti fa intuire o ti spalanca la possibilità di ritrovare te stesso, ma poi quella possibilità di una vita diversa non fiorisce, non diventa una storia, viene perduta nella distrazione, a causa del nostro torpore, sprecata dalla nostra mancata adesione, dalle nebbie della sonnolenta esistenza “fuori” di noi.
Cosa ci sia dentro il Castello, cioè cosa si perde a starne fuori, lo racconta Il Castello interiore: “Anche Teresa” spiega Sicari “parla di un uomo ‘estraneo’ al Castello e ne parla in termini ancora più radicali (dato che, nella sua opera, l’uomo esiliato diventa sempre più simile alle bestie), ma ella ha anche insegnato la possibilità, e perfino il dovere, di ‘entrare’ nel Castello, di ‘abbellire e abitare’ progressivamente tutte le sue dimore e perfino di raggiungere l’appartamento regale dove si è amorevolmente attesi”.
Dal tempo di Teresa all’epoca moderna cosa è accaduto? E’ diventato più difficile incontrare delle “guide” che aprano le porte del Castello e ti accompagnino a gustarne le delizie.
Infatti K. non trova intermediari, non trova chi lo aiuti: “è alla spasmodica ricerca di un qualche amico, anche miserabile” nota Sicari, ma “non c’è mediatore alcuno, non c’è Messia”.
Il nostro è il tempo della povertà, quello in cui è più difficile incontrare i santi, gli amici del Salvatore, è più difficile riconoscerli e seguirli.
Eppure Dio ci raggiunge comunque attraverso il “divino drappello” dei suoi santi che è la Chiesa.
E’ proprio la “detestata” (dal mondo) Chiesa che può accompagnare l’uomo nel Castello in cui è stato chiamato a regnare.
Un po’ come lo “stalker” dell’omonimo film di Tarkovskij (un ex detenuto del lager, uno che a un certo punto mette sulla testa una corona di spine) accompagna chi lo chiede nella “zona” dove si trova la misteriosa “stanza dei desideri”.
Scrive Wittgenstein “Questo tendere all’assoluto, che fa sembrare troppo meschina qualsiasi felicità terrena… mi sembra stupendo, sublime, ma io fisso il mio sguardo nelle cose terrene: a meno che ‘Dio’ non mi visiti”.
Il Re dei Cieli ci visita e noi non ce ne accorgiamo, pieni di sonno, storditi dalle chiacchiere e dal frastuono della vita esteriore (fuori dal Castello) che non ci fa accorgere della sua voce che ci chiama.
Cosicché Eliot poteva scrivere: “Conoscenza del linguaggio, ma non del silenzio/ Conoscenza delle parole e ignoranza del Verbo/…/ Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo?/ Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?”.
NEUROSCIENZE/ Quello sguardo che funziona meglio di una risonanza magnetica di Nadia Correale, martedì 10 maggio 2011, il sussidiario.net
Di fronte alla seguente domanda: “Se il vostro cervello fosse estratto dal vostro corpo e fosse messo in una vasca omeostatica, continuerebbe a funzionare normalmente?” che cosa vi verrebbe in mente di rispondere? Per quanto la situazione descritta sia del tutto paradossale, un neurologo dei nostri giorni, in base a una tendenza molto diffusa in questo ambito di studi, risponderebbe di sì, in quanto la mente umana - comprendente quella fitta rete di pensieri, sentimenti e pulsioni istintive integrate in modo altamente complesso che costituisce il nostro stato di coscienza - e il cervello - ovvero l’organo principale del sistema nervoso centrale, formato da 100 miliardi di cellule perenni non sostituibili collegate tra loro da miliardi di miliardi di sinapsi - coincidono, sono sostanzialmente la stessa cosa.
Prova ne sarebbero gli studi eseguiti adottando la risonanza magnetica funzionale per poter conoscere quali aree del cervello vengano attivate in diverse situazioni a cui corrispondono diversi stati mentali. Grazie a questa tecnica è possibile infatti registrare, mediante applicazione di un campo magnetico, le variazioni di tipo elettrochimico di flusso sanguigno nell’encefalo. Da qui prende le mosse la diffusione di notizie sensazionalistiche sulla presunta scoperta dell’area dell’altruismo piuttosto che dell’egoismo.
Non è di questo parere il neurologo Mauro Ceroni, Docente presso l’Università di Pavia, il quale intervenendo il 4 maggio scorso al primo incontro del ciclo “Neuroscienze, determinismo o libertà” organizzato dal Centro Culturale di Milano in collaborazione con Medicina & Persona, ha esplicitato il fatto che per conoscere noi stessi non possiamo avvalerci esclusivamente di un metodo scientifico, concependolo erroneamente come l’unico in grado di fornirci certezze. Abbiamo necessariamente bisogno di partire dalla nostra esperienza. In base a essa possiamo constatare di essere costituiti non solo di materialità, ovvero di quegli aspetti osservabili e misurabili scientificamente, ma anche di spiritualità, vale a dire di razionalità e giudizi di valore.
Ma queste due dimensioni vanno concepite come inscindibili e completamente integrate, altrimenti, se commettiamo l’errore di giustapporle, come è accaduto nel corso della storia a partire dal filosofo Cartesio, siamo inevitabilmente destinati nel tempo ad assumere concezioni deterministiche e riduzionistiche del tutto fuorvianti, come quella oggi predominante in cui vige l’assunto indiscusso prima ricordato circa la coincidenza di mente e cervello. Una delle conseguenze più aberranti di questa impostazione di pensiero è la negazione della libertà e responsabilità della persona. Oltretutto, ha precisato Ceroni, siamo solo agli inizi di questo tipo di ricerche.
Ceroni ha parlato delle scoperte più importanti relative al funzionamento del cervello avvenute a partire dal 1860 mediante lo studio di malattie neurologiche come la sclerosi laterale amiotrofica (Sla), il morbo di Parkinson o di Alzheimer. Ha poi accennato ad altre situazioni di pazienti in stato di coma neurovegetativo persistente o con handicap neuropsichiatrici, sostenendo che in questi casi non sono sottovalutabili i giudizi espressi dalle persone che si prendono cura di questi malati in quanto esse sono le uniche in grado di cogliere e interpretare anche le più piccole sfumature di tipo gestuale ed espressive del volto che nessun metodo clinico potrà mai sostituire. Inoltre, ha riferito che alcuni studi con la risonanza magnetica hanno anche accertato la presenza di attività cerebrale in persone in stato di coma neurovegetativo.
Nella stessa serata il tema è stato ampliato da Roberto Cavallaro, responsabile del “Centro disturbi psicotici” presso la Fondazione San Raffaele, che ha descritto i disturbi da cui è affetto in particolare il paziente schizofrenico, in cui si riscontra un “delirio” strutturale, ovvero un’introduzione illogica e quindi alterata di significati attribuiti alla realtà. Alcune conseguenze di ciò sono la tendenza a isolare dal contesto ambientale le informazioni rilevate o l’incapacità di integrare informazioni che si aggiungono. Interessante osservare come a tale malattia corrispondano anche caratteristiche encefaliche evidenti, sempre a riprova del fatto che corpo e anima sono intimamente connesse.
Sarà interessante ora seguire lo sviluppo di questo ciclo di incontri dedicati alle neuroscienze, in particolare i prossimi due appuntamenti che approfondiranno l’aspetto estetico (23 maggio) e quello linguistico (15 giugno).
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IL MALATO IN PRIMO PIANO PER SCONFIGGERE IL DOLORE - DI VENTURI MANUEL Brescia Oggi di martedì 10 maggio 2011
IL CONVEGNO. Per iniziativa della Fondazione Poliambulanza Il malato in primo piano per sconfiggere il dolore L'oncologo Zaniboni: «Se è cronico, va affrontato necessariamente in modo multidisciplinare» Manuel Venturi Sedare il dolore è un'opera divina: questa frase, attribuita da alcuni a Ippocrate e da altri aGaleno, è sintomatica del fatto che già nell'antichità la componente-sofferenza della malattia eratenuta in grande considerazione.
UN GROSSO SFORZO caratterizza oggi enti, ospedali e professioni sanitarie nellalottaal dolore, che non è più considerato solo un semplice sintomo, ma parte integrante del percorso terapeutico del malato, che interessa la qualità della sua vita e la sua dignità. Il convegno «Il dolore: affrontarlo a più mani per sollevare l'ammalato», organizzato dalla Fondazione Poliambulanza, ha messo a confronto tutte le figure professionali che ruotano intorno al mondo dell'ospedale, per trovare strategie comuni che permettano di affrontare il dolore dei pazienti in modo realmente efficace. Partendo da una considerazione: in Italia l'utilizzo di farmaci oppiacei - il parametro su cui l'Organizzazione mondiale della sanità valuta il trattamento del dolore nei vari Paesi del mondo - è ancora molto basso, e il nostro Paese si trova agli ultimi posti. La causa è da ricercare soprattutto nel pregiudizio culturale che interessa questo tipo di farmaci; la situazione sta però migliorando negli ultimi anni, come dimostra l'aumento del 18 per cento registrato dal 2009 al 2010. «C'è una nuova attenzione nei confronti del dolore - ha spiegato la dottoressa Maria Corsini, della Fondazione Poliambulanza -: combatterlo comporta la salvaguardia fisica e intellettuale dell'ammalato. Bisogna accentrare l'attenzione sulla persona, non sulla malattia: purtroppo nella nostra realtà si deve fare ancora molto».
I DATI DEL MINISTERO della Salute indicano che ogni anno in Italia sono 250 mila i malati terminali che necessitano di cure palliative, di cui 160 mila oncologici e 90 con altre patologie, ma meno dell'i per cento dei malati non oncologici è oggi inserito in un trattamento del dolore e solo il 40 per cento dei malati neoplastici può essere assistito in maniera continuativa. L'attenzione alla problematica del dolore, oltre a evidenti questioni etiche, porta anche a un risparmio in termini economici, poiché riduce le complicanze postoperatorie, il consumo di farmaci e i giorni di degenza. «Il dolore è il sintomo più temuto, e colpisce la qualità della vita più della malattia stessa - ha sottolineato l'oncologo Alberto Zaniboni -. Il dolore cronico deve essere affrontato necessariamente in maniera multidisciplinare, perché colpisce a livello fisico, psicologico e sociale, ma anche spirituale». Per questo gli ospedali si stanno attrezzando, come racconta Achille Bernardini, anestesista della Poliambulanza: «Dal 2005 abbiamo adottato pompe elastimetriche che somministrano farmaci in modo continuo e a velocità controllata. Inoltre raccogliamo i dati relativi all'efficacia di queste cure e dal 2006 abbiamo inserito nella cartella clinica dei pazienti di ogni reparto unata bella perla rilevazione del dolore, nata dalla collaborazione di tutte le figure professionali». L'obiettivo è creare un ospedale senza dolore, che sta prendendo forma anche a livello normativo, come testimonia la legge 38 del 2010: l'intento è garantire la qualità completa dell'assistenza ai malati perla salvaguardia della dignità di ogni persona.
«La soluzione per conciliare lavoro e famiglia? Copiamo da Parma il baby sitter sharing» di Manila Alfano - articolo di martedì 10 maggio 2011 - © IL GIORNALE ON LINE S.R.L.
L’idea è arrivata così, ascoltando 130 mamme a un convegno l’anno scorso sul tema della conciliazione tra lavoro e famiglia. «Più parlavo con loro e più mi rendevo conto che il problema era sentito da tutte, dalle madri che potevano contare sui nonni e da quelle che invece dovevano cavarsela con gli asili. È proprio durante quell’incontro che ho capito che una città come Milano poteva dare molto di più alle famiglie con figli. La Lombardia, che è una delle cinque Regioni motori d’Europa, può diventare l’esempio per tutta l’Italia». Silvia Maltoni, classe 1975, parla quasi senza prendere fiato, scende dal motorino e ti saluta subito con un abbraccio. Mancano pochi giorni alle votazioni, e lei è candidata per il Pdl al consiglio comunale. La corsa Silvia la sta facendo per le mamme e per i papà, per i bambini, «Un progetto che vuole aiutare in modo concreto le famiglie milanesi».
Nel programma ci sono i voucher per asili nido, per la nascita, quello per il pediatra e laboratori pedagogici. «Sono tutti servizi che aiuterebbero tantissimo i genitori». Ma il fiore all’occhiello per Silvia Maltoni resta l’idea del baby sitter sharing, che si ispira proprio alla condivisione. «C’è il bike sharing, i milanesi lo hanno adorato fin dall’inizio, non vedo perché non possa esistere lo steso concetto per la baby sitter». Per capire davvero di cosa si tratta bisogna partire dale sue origini romagnole. «Mi sono ispirata a Parma, dove il servizio c’è già e funziona benissimo. Lo stesso può succedere a Milano, dove ci sono tantissimi studenti ma anche tanti nonni che hanno necessità e voglia di lavorare». Con la collaborazione del Comune i bambini starebbero in strutture già esistenti e già adibite a scuole quando sono chiuse. Insomma un’idea semplice anche da realizzare, con costi ridotti. «Pagare una baby sitter in gruppo è molto meglio che pagarla da soli. Ma non solo: verrebbe organizzato un corso per istruire i candidati baby sitter. Insomma una garanzia e un risparmio per la famiglia». Il problema di dove mettere i bambini si fa sentire soprattutto durante i periodi estivi. È così che a risolvere il problema ci penserebbe ancora una volta il baby sitter sharing. Oggi, alle 19.30, incontro i cittadini interessati in Via Beroldo 2 al Fun&Fun, Città dei Bambini.
Sposini tra miracolo e accanimento - Quello che Sposini pensava del coma, da http://www.libero-news.it, 10 maggio 2011
Beffardo il destino con lui. Lamberto Sposini che conduceva ogni pomeriggio “La Vita in Diretta”, programma cult di Rai 1 che presenta e analizza in tempo reale gli avvenimenti più belli e più brutti della vita di tutti i giorni, è stato colpito due settimane fa da un’emorragia cerebrale proprio poco prima della diretta dei due eventi internazionali straordinari, come il matrimonio britannico di William e Kate e la beatificazione in Vaticano di Giovanni Paolo II, due eventi che mettere a paragone è quasi blasfemo, ma che la storia ha calendarizzato a solo due giorni di distanza uno dall’altro.
Lui era preparato a farlo, ma non ne ha potuto commentare nemmeno un’immagine, perché è stato trascinato in diretta in un coma improvviso e profondo causato da un accidente vascolare cerebrale, che ha provocato dolore e sconcerto generale.
Lamberto Sposini mi aveva invitato più volte nella sua trasmissione, come medico e come deputato, a parlare di vita e di morte, a proposito della legge sul testamento biologico, in queste settimane arrivata in Aula a Montecitorio. Io ripetevo in maniera monotona che noi medici siamo addestrati e abilitati a proteggere e salvare la vita, anche quando sembra perduta, e non ad indurre la morte, e lui che mai avrebbe voluto sopravvivere senza coscienza, pensava che ognuno è libero di scegliere come e quando morire, rifiutando interferenze religiose, scientifiche e politiche. Ma queste sono cose che si dicono da sani. Quando ci si ritrova sdraiati e inerti su un letto di rianimazione, intubati e incoscienti, pieni di fili, di monitor, di flebo e di elettrodi,con l’anima sospesa tra essere e non essere e con figli che ti aspettano a casa, le cose cambiano e tutte le nostre certezze, che avevamo appunto da sani, iniziano a vacillare.
“Sono intervenuto su un paziente gravissimo, con un GCS (Glasgow Coma Scale) di grado 3,il più alto, quello per cui si considera il paziente quasi perso” mi dice il Prof Giulio Maira, il neurochirurgo che lo ha operato al cervello, arrestando con coraggio un’emorragia di oltre 7cm espansa nell’emisfero sinistro, e che divorava ossigeno all’encefalo.
Lamberto Sposini è da allora ricoverato in un letto del reparto di rianimazione del Policlinico Gemelli di Roma, è stato tenuto in coma farmacologico per qualche giorno,ed ora è in fase di risveglio, non è ancora cosciente ma risponde agli stimoli dolorosi sia con gli arti superiori che con quelli inferiori, che ritrae con forza, un ottimo segno che allontana il pericolo di temute paralisi. Il Prof. Maira esclude che sotto il coma ci sia in agguato uno stato vegetativo e lavora sul paziente con i colleghi rianimatori per sollecitare il risveglio definitivo, e facilitare quindi il ritorno della coscienza.
Già, risveglio, coscienza … Rifletto che se non ci fosse da mesi il dibattito sul fine vita, quel primario non sarebbe mai così preciso e attento nella scelta delle parole per azzardare una prognosi. Anzi, molti potrebbero definire il suo intervento chirurgico tentato su Sposini come “accanimento terapeutico” visto che il paziente è arrivato moribondo in sala operatoria e con un elevato rischio, una volta rianimato, di scivolare davvero in uno stato vegetativo persistente, a causa della prolungata ipossia (carenza di ossigeno) cerebrale sofferta nell’attesa dell’operazione. Questo il chirurgo lo ha pensato,temuto e valutato, ma l’istinto e il compito del medico è quello di salvare la vita umana, anche con un intervento estremo, ad alto rischio, com’è stato quello effettuato sul famoso giornalista. E se questo gli salverà la vita come dovremmo definirlo? Accanimento o intervento terapeutico? E quando Sposini tornerà autonomo e cosciente, come ci auguriamo, cosa si dirà? Un miracolo, la potenza della scienza, o la determinazione di un medico?
E Lamberto, soprattutto, nella sua vita da sano avrebbe mai dato l’autorizzazione alla sua rianimazione forzata o avrebbe scritto di lasciarlo morire secondo natura? E da giornalista come avrebbe commentato che il momento della sua morte è stato comunque, in virtù dell’abilità di un chirurgo, rinviato a data da destinarsi?
Leggo sul mio cellulare i messaggi di Sabina, madre della sua figlia più piccola, che il primo giorno si dispera per lui che “è stato un grande amore” e per la loro bambina che “non avrà mai più il padre che aveva” temendo conseguenze neurologiche irreversibili e cercando rassicurazioni, ma che col passare dei giorni acquista fiducia e intravede una ripresa, anche se lenta.
"Oggi ha aperto gli occhi” mi dice l’altro ieri “ma è come imbambolato. Non mi riconosce, ma se gli stringo la mano me la stringe anche lui e gli si alza la pressione. Lo dice il monitor che ormai ho imparato a leggere. Ma Lamberto non parla, non mi riconosce, lui non c’è, è assente, non è cosciente. Ma io da un po’ non mi dispero più e sai cosa ti dico, che spero nel miracolo!”. Il miracolo è che sia vivo, penso dentro di me mentre ascolto.
Quella che Sabina cerca e non ritrova nel padre di sua figlia è l’anima, quella che dà vita al corpo,e che è unica per ognuno di noi, quella stessa anima che il Santo Padre Benedetto XVI assicura che rimane dentro il malato in coma, ma che con il coma si spegne. Ma poi,come per incanto, molte volte, più o meno lentamente,quell’anima che si credeva perduta all’improvviso ritorna, il corpo si muove, lo sguardo perde la fissità, ritorna la parola, i sentimenti e i ricordi, ritorna cioè la vita intera e lo si capisce immediatamente. Tutto dipende dalla profondità del trauma, dice la scienza. Tutto dipende dalla grazia di Dio che si riceve, dice la fede cattolica. Tutto dipende dalla fortuna, dice la persona laica. Ma il ritorno della coscienza è sempre un evento che, quando post-traumatico, sorprende anche gli specialisti rianimatori.
Da deputato, che a breve si troverà a votare la legge sul testamento biologico, rifletto su questa storia che conferma che anche nel frangente più drammatico di un caso clinico acuto, c’è sempre una speranza, ed è solo il medico che ha il compito, il dovere e la responsabilità di decidere, e non una rigida legge, qualunque essa sia.
Da medico rifletto che la vita di tutti noi e la sua fine naturale di cui tanto oggi si parla, ha comunque necessità di linee guida su alcuni punti indiscutibili, scientificamente provati, certi ed evidenti, per evitare poi che siano i tribunali a decidere e a determinare il giorno e l’ora della nostra morte, come è già successo per Eluana Englaro.