domenica 29 maggio 2011

Nella rassegna stampa di oggi:

  1. La mia salute riguarda tutti. Lo dice la Costituzione di Emanuela Vinai - La vita di ciascuno è interesse della collettività: basta leggere (senza omissioni) l'articolo 32 della nostra Carta fondamentale per capire che non c'è spazio nella legislazione italiana per autorizzare l'autodeterminazione assoluta. Perché nessuna azione ha conseguenze solo per chi la compie E la difesa del più debole trascende sempre il singolo - Avvenire, 26 maggio 2011
  2. Se lo straniero non è un'idea – Redazione - venerdì 27 maggio 2011 – il sussidiario.net
  3. 26/05/2011 – PAKISTAN - Faisalabad, violenze anticristiane: tombe profanate, giovane violentata dal branco - Proprietari terrieri musulmani hanno utilizzato trattori per arare un terreno su cui sorge un cimitero cristiano. L'obiettivo è la confisca illegale. Madre 29enne narcotizzata e violentata da sei persone. In entrambi i casi la polizia copre i criminali. Sacerdote a Faisalabad: il governo deve intervenire.
  4. Il secondo libro su Gesù di Nazaret di Benedetto XVI - In dialogo guardando la stessa verità - Giorgio Israel - 27 maggio 2011, da http://www.osservatoreromano.va
  5. Avvenire.it, 27 maggio 2011 - LA VITA FRAGILE - Aborto, la ferita nascosta delle minorenni di Antonio Maria Mira
  6. «Time» e la Chimica dell' Ottimismo se la Felicità diventa una Scienza di Paolo Di Stefano, Corriere della Sera, 27 maggio 2011
  7. Autore: Tabanelli, Giorgio Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 27 maggio 2011
  8. "INCHIESTA SUL DARWINISMO" Di Enzo Pennetta - 29/05/2011 - Darwinismo – da http://www.libertaepersona.org/
  9. Zapatero contestato? Blasfemia! - May 28th, 2011, da http://carlobellieni.com/
  10. Il cristianesimo fiabesco di Oscar Wilde di Antonio Giuliano, 28-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
  11. Quei poeti così moderni, così mariani di Giovanni Fighera, 28-05-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/


 

LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DEL REGINA CÆLI, 29.05.2011


 

Alle ore 12 di oggi, il Santo Padre Benedetto XVI si affaccia alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare il Regina Cæli con i fedeli ed i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro.

Queste le parole del Papa nell'introdurre la preghiera mariana del tempo pasquale:


 

PRIMA DEL REGINA CÆLI


 

Cari fratelli e sorelle!


 

Nel libro degli Atti degli Apostoli si riferisce che, dopo una prima violenta persecuzione, la comunità cristiana di Gerusalemme, eccettuati gli apostoli, si disperse nelle regioni circostanti e Filippo, uno dei diaconi, raggiunse una città della Samaria.


 

Là predicò Cristo risorto, e il suo annuncio fu accompagnato da numerose guarigioni, così che la conclusione dell'episodio è molto significativa: "E vi fu grande gioia in quella città" (At 8,8). Ogni volta ci colpisce questa espressione, che nella sua essenzialità ci comunica un senso di speranza; come dicesse: è possibile!


 

E' possibile che l'umanità conosca la vera gioia, perché là dove arriva il Vangelo, fiorisce la vita; come un terreno arido che, irrigato dalla pioggia, subito rinverdisce. Filippo e gli altri discepoli, con la forza dello Spirito Santo, fecero nei villaggi della Palestina ciò che aveva fatto Gesù: predicarono la Buona Notizia e operarono segni prodigiosi. Era il Signore che agiva per mezzo loro. Come Gesù annunciava la venuta del Regno di Dio, così i discepoli annunciarono Gesù risorto, professando che Egli è il Cristo, il Figlio di Dio, battezzando nel suo nome e scacciando ogni malattia del corpo e dello spirito.


 

"E vi fu grande gioia in quella città". Leggendo questo brano, viene spontaneo pensare alla forza risanatrice del Vangelo, che nel corso dei secoli ha "irrigato", come fiume benefico, tante popolazioni. Alcuni grandi Santi e Sante hanno portato speranza e pace ad intere città – pensiamo a san Carlo Borromeo a Milano, al tempo della peste; alla beata Madre Teresa a Calcutta; e a tanti missionari, il cui nome è noto a Dio, che hanno dato la vita per portare l'annuncio di Cristo e far fiorire tra gli uomini la gioia profonda. Mentre i potenti di questo mondo cercavano di conquistare nuovi territori per interessi politici ed economici, i messaggeri di Cristo andavano dappertutto con lo scopo di portare Cristo agli uomini e gli uomini a Cristo, sapendo che solo Lui può dare la vera libertà e la vita eterna. Anche oggi la vocazione della Chiesa è l'evangelizzazione: sia verso le popolazioni che non sono state ancora "irrigate" dall'acqua viva del Vangelo; sia verso quelle che, pur avendo antiche radici cristiane, hanno bisogno di nuova linfa per portare nuovi frutti, e riscoprire la bellezza e la gioia della fede.


 

Cari amici, il beato Giovanni Paolo II è stato un grande missionario, come documenta anche una mostra allestita in questo periodo a Roma. Egli ha rilanciato la missione ad gentes e, al tempo stesso, ha promosso la nuova evangelizzazione. Affidiamo l'una e l'altra all'intercessione di Maria Santissima. La Madre di Cristo accompagni sempre e dovunque l'annuncio del Vangelo, affinché si moltiplichino e si allarghino nel mondo gli spazi in cui gli uomini ritrovano la gioia di vivere come figli di Dio.


 

DOPO IL REGINA CÆLI


 

Cari fratelli e sorelle, ieri, a Cerreto Sannita, è stata proclamata Beata Suor Maria Serafina del Sacro Cuore di Gesù, al secolo Clotilde Micheli. Originaria del Trentino, fondò in Campania l'Istituto delle Suore della Carità degli Angeli. Mentre ricordiamo il centenario della sua nascita al Cielo, ci rallegriamo con le sue figlie spirituali e con tutti i suoi devoti.


 


 

Il Papa affida l'Italia alla Madonna di Massimo Introvigne, 27-05-2011, http://www.labussolaquotidiana.it


 

Giovedì 26 maggio Benedetto XVI ha rinnovato l'affidamento dell'Italia alla Vergine Maria nella Basilica papale di Santa Maria Maggiore a Roma, recitando il Rosario insieme ai vescovi italiani riuniti in Assemblea generale. In un momento di forti tensioni politiche, e di contrapposizioni sul significato dell'unità politica dell'Italia, il Papa ha richiamato tutti a uno sguardo che contempli la Madonna come Mater unitatis: Madre, anche, dell'unità degli italiani che prima di ogni percorso politico sono uniti dalle comuni radici cattoliche e da una storia che nei suoi momenti lieti e tristi è sempre stata accompagnata, in mille modi, dalla Vergine Maria. Qui - nel riconoscimento delle radici mariane del Paese - sta la vera unità degli italiani. Come ha detto salutando il Papa il cardinale Angelo Bagnasco «l'attaccamento alla Madre del Redentore è nostra» è il «dato storico che sempre unisce gli italiani». Ed è significativo che a un momento difficile la Chiesa risponda, anzitutto, affidando l'Italia a Maria.


 

Il luogo scelto per il solenne gesto, ha detto il Papa, è significativo: la «splendida Basilica» di Santa Maria Maggiore è un luogo - e non è l'unico in Italia o a Roma - «nel quale spiritualità e arte si fondono in un connubio secolare», una viva memoria delle radici mariane. Come il luogo, così il tempo scelto per l'evento non è casuale: «a centocinquant'anni dall'unità politica del Paese» il Pontefice ha voluto nuovamente «affidare alla protezione materna di Maria, Mater unitatis, l'intero popolo italiano». Così come, ha aggiunto Benedetto XVI, «è significativo che questa iniziativa sia stata preparata da analoghi incontri nelle diocesi»: anche in questo modo si esprime «la premura della Chiesa nel farsi prossima alle sorti di questa amata Nazione».


 

Il tempo grande - il centocinquantenario - richiama il tempo piccolo, il mese di maggio: il tema delle radici, di cui Santa Maria Maggiore è icona, torna quando il Papa ricorda che in Italia per fortuna è ancora «viva la tradizione che dedica il mese di maggio alla devozione mariana». Anche un viaggiatore distratto, venendo in Italia, si renderebbe conto delle radici mariane del Paese e di una tradizione di fedeltà alla Madonna che «trova espressione in tanti segni: santuari, chiesette, opere d'arte e, soprattutto, nella preghiera del Santo Rosario, con cui il Popolo di Dio ringrazia per il bene che incessantemente riceve dal Signore, attraverso l'intercessione di Maria Santissima, e lo supplica per le sue molteplici necessità».


 

Questa lungo cammino della nazione italiana con Maria non è una semplice memoria nel passato. Continua ai nostri giorni, e il Papa ha voluto rivendicare la tradizione vivente nella Chiesa che ispira ancora la liturgia di oggi e il Rosario di oggi, con i misteri della Luce voluti dal beato Giovanni Paolo II (1920-2005). La preghiera, ogni preghiera ha detto Benedetto XVI «ha il suo vertice nella liturgia, la cui forma è custodita dalla vivente tradizione della Chiesa». E con i misteri della Luce, di cui il Papa ha guidato la recita, «alla scuola di Maria siamo stati invitati a condividere i passi di Gesù: a scendere con Lui al fiume Giordano, perché lo Spirito confermi in noi la grazia del Battesimo; a sederci al banchetto di Cana, per ricevere da Lui il "vino buono" della festa; ad entrare nella sinagoga di Nazaret, come poveri ai quali è rivolto il lieto messaggio del Regno di Dio; ancora, a salire sul Monte Tabor, per vivere la croce nella luce pasquale; e, infine, a partecipare nel Cenacolo al nuovo ed eterno sacrificio, che, anticipando i cieli nuovi e la terra nuova, rigenera tutta la creazione».


 

Storie antichissime, storie relativamente recenti: la Chiesa non cambia, la Tradizione vivente non smentisce se stessa. Con emozione il Papa ricorda che Santa Maria Maggiore è la chiesa «prima in Occidente dedicata alla Vergine Madre di Dio». Ma questa memoria antica ne richiama una più recente: «nell'entrarvi, il mio pensiero è tornato al primo giorno dell'anno 2000, quando il Beato Giovanni Paolo II ne aprì la Porta Santa, affidando l'Anno giubilare a Maria, perché vegliasse sul cammino di quanti si riconoscevano pellegrini di grazia e di misericordia».


 

Del beato Giovanni Paolo II il suo successore ha voluto riprendere un insegnamento centrale: «in quanto Figlio di Dio, Cristo è forma dell'uomo: ne è la verità più profonda, la linfa che feconda una storia altrimenti irrimediabilmente compromessa. La preghiera ci aiuta a riconoscere in Lui il centro della nostra vita, a rimanere alla sua presenza, a conformare la nostra volontà alla sua, a fare "qualsiasi cosa ci dica" (Gv 2,5), certi della sua fedeltà». «Questo – ha aggiunto il Papa – è il compito essenziale della Chiesa, da Lui incoronata quale mistica sposa, come la contempliamo nello splendore del catino absidale. Maria ne costituisce il modello: è colei che ci porge lo specchio, in cui siamo invitati a riconoscere la nostra identità. La sua vita è un appello a ricondurre ciò che siamo all'ascolto e all'accoglienza della Parola, giungendo nella fede a magnificare il Signore, davanti al quale l'unica nostra possibile grandezza è quella che si esprime nell'obbedienza filiale». Papa Wojtyla ci ha insegnato che solo Cristo è la verità sull'uomo, e che la sola via a questa verità è Maria. Dei semplici gesti di Maria consegnati nei Vangeli, ha affermato Benedetto XVI, «si nutre la Chiesa, consapevole che esprimono ciò che Dio attende da lei».


 

Santa Maria Maggiore è collegata a un evento cruciale nella storia della riflessione della Chiesa su Maria, il Concilio di Efeso. «Sul bronzo della Porta Santa di questa Basilica - ha voluto ricordare il Papa - è incisa la raffigurazione del Concilio di Efeso. L'edificio stesso, risalente nel nucleo originario al V secolo, è legato a quell'assise ecumenica, celebrata nell'anno 431. A Efeso la Chiesa unita difese e confermò per Maria il titolo di Theotókos, Madre di Dio: titolo dal contenuto cristologico, che rinvia al mistero dell'incarnazione ed esprime nel Figlio l'unità della natura umana con quella divina».


 

Non si tratta di sottili questioni teologiche, ha insistito il Pontefice, ma dell'essenza della nostra fede. Guardando Maria come Madre di Dio «si coglie in filigrana il disegno unitario che intreccia i due Testamenti. Nella sua vicenda personale c'è la sintesi della storia di un intero popolo, che pone la Chiesa in continuità con l'antico Israele. All'interno di questa prospettiva ricevono senso le singole storie, a partire da quelle delle grandi donne dell'Antica Alleanza, nella cui vita è rappresentato un popolo umiliato, sconfitto e deportato. Sono anche le stesse, però, che ne impersonano la speranza; sono il "resto santo", segno che il progetto di Dio non rimane un'idea astratta, ma trova corrispondenza in una risposta pura, in una libertà che si dona senza nulla trattenere, in un sì che è accoglienza piena e dono perfetto. Maria ne è l'espressione più alta».


 

L'avventura unica nella storia del mondo della Vergine di Nazaret entra, cambiandola, nella vita dell'umanità, compresa la sua dimensione sociale e politica. «Maria genera il Figlio, presenza del Dio che viene ad abitare la storia e la apre a un nuovo e definitivo inizio, che è possibilità per ogni uomo di rinascere dall'alto, di vivere nella volontà di Dio e quindi di realizzarsi pienamente».


 

Sbaglierebbe, ha detto il Papa, chi non cogliesse il significato anche sociale di questo evento. «La fede, infatti, non è alienazione: sono altre le esperienze che inquinano la dignità dell'uomo e la qualità della convivenza sociale! In ogni stagione storica l'incontro con la parola sempre nuova del Vangelo è stato sorgente di civiltà, ha costruito ponti fra i popoli e ha arricchito il tessuto delle nostre città, esprimendosi nella cultura, nelle arti e, non da ultimo, nelle mille forme della carità».


 

Dunque la presenza di Maria ha molto a che fare anche con l'Italia, nazione mariana per eccellenza, con la sua storia, con la sua realtà politica e sociale che è legata in modo indissolubile all'opera della Chiesa Cattolica. «A ragione l'Italia - ha aggiunto il Papa -, celebrando i centocinquant'anni della sua unità politica, può essere orgogliosa della presenza e dell'azione della Chiesa». La Chiesa «non intende sostituirsi alle responsabilità delle istituzioni politiche» ed è «rispettosa della legittima laicità dello Stato», ma non può rinunciare a «sostenere i diritti fondamentali dell'uomo» che derivano dalla legge naturale, la quale s'impone a ogni persona dotata di ragione, sia o meno credente.


 

Fra questi diritti, ha affermato il Papa, «vi sono anzitutto le istanze etiche e quindi l'apertura alla trascendenza, che costituiscono valori previi a qualsiasi giurisdizione statale, in quanto inscritti nella natura stessa della persona umana». Lo Stato non crea i diritti fondamentali – che il Papa chiama spesso non negoziabili – : piuttosto, è chiamato a prenderne atto e a difenderli, e se viene meno a questo compito perde la sua legittimità in quanto smarrisce il suo ordinamento al bene comune.


 

La Chiesa, che in Italia è «forte di una riflessione collegiale e dell'esperienza diretta sul territorio», chiama dunque incessantemente «alla costruzione del bene comune», che in quanto fondato sulla legge naturale s'impone come tale a chi crede e a chi non crede, «richiamando ciascuno al dovere di promuovere e tutelare la vita umana in tutte le sue fasi e di sostenere fattivamente la famiglia; questa rimane, infatti, la prima realtà nella quale possono crescere persone libere e responsabili, formate a quei valori profondi che aprono alla fraternità e che consentono di affrontare anche le avversità della vita». Vita e famiglia sono la base necessaria e imprescindibile perché possano essere apprezzati e perseguiti anche altri valori oggi al centro dell'attenzione di molti, come la giusta aspirazione a una «piena e dignitosa occupazione», che non può essere soddisfatta dal «diffuso precariato lavorativo, che nei giovani compromette la serenità di un progetto di vita familiare, con grave danno per uno sviluppo autentico e armonico della società».


 

«L'anniversario dell'evento fondativo dello Stato unitario», ha detto il Papa, non ha trovato impreparati i vescovi italiani, che sono stati «puntuali nel richiamare i tasselli di una memoria condivisa e sensibili nell'additare gli elementi di una prospettiva futura». E tuttavia il momento è difficile, e suscita in molti la tentazione di allontanarsi dalla politica come luogo della frustrazione e della delusione. Il Papa chiede dunque ai vescovi - ed è un tema su cui è tornato diverse volte nei suoi viaggi in Italia - di stimolare «i fedeli laici a vincere ogni spirito di chiusura, distrazione e indifferenza, e a partecipare in prima persona alla vita pubblica. Incoraggiate le iniziative di formazione ispirate alla dottrina sociale della Chiesa». Il cardinale Bagnasco ha ricordato, nel suo saluto, le parole del venerabile e prossimo beato Giuseppe Toniolo (1845-1918), un grande pioniere della dottrina sociale della Chiesa: «Noi credenti sentiamo, nel fondo dell'anima, che chi definitivamente recherà a salvamento la società presente non sarà un diplomatico, un dotto, un eroe, bensì un santo, anzi, una società di santi».


 

Tornando sul problema dei rapporti fra Settentrione e Meridione in Italia, il Papa ha suggerito ai vescovi di aiutare «il Nord a recuperare le motivazioni originarie di quel vasto movimento cooperativistico di ispirazione cristiana che è stato animatore di una cultura della solidarietà e dello sviluppo economico», e nello stesso tempo di «provocare il Sud a mettere in circolo, a beneficio di tutti, le risorse e le qualità di cui dispone e quei tratti di accoglienza e di ospitalità che lo caratterizzano».


 

Una «sincera e leale collaborazione con lo Stato», ha detto il Papa, in Italia «è benefica tanto per la Chiesa quanto per il Paese intero». Certo, talora è difficile tradurre questa collaborazione in progetti culturali e sociali concreti, nella grande «complessità che caratterizza il tempo presente». «In una stagione, nella quale emerge con sempre maggior forza la richiesta di solidi riferimenti spirituali - ha chiesto il Papa ai vescovi -, sappiate porgere a tutti ciò che è peculiare dell'esperienza cristiana: la vittoria di Dio sul male e sulla morte, quale orizzonte che getta una luce di speranza sul presente», «assumendo l'educazione come filo conduttore dell'impegno pastorale».


 

Il Papa affida l'Italia alla Madonna, Mater unitatis. Non offre soluzioni politiche immediate - né è questo il compito della dottrina sociale della Chiesa - ma vola più in alto, e prega il Signore perché aiuti pure «le forze politiche a vivere anche l'anniversario dell'Unità come occasione per rinsaldare il vincolo nazionale e superare ogni pregiudiziale contrapposizione: le diverse e legittime sensibilità, esperienze e prospettive possano ricomporsi in un quadro più ampio per cercare insieme ciò che veramente giova al bene del Paese. L'esempio di Maria apra la via a una società più giusta, matura e responsabile, capace di riscoprire i valori profondi del cuore umano. La Madre di Dio incoraggi i giovani, sostenga le famiglie, conforti gli ammalati, implori su ciascuno una rinnovata effusione dello Spirito, aiutandoci a riconoscere e a seguire anche in questo tempo il Signore, che è il vero bene della vita, perché è la vita stessa».


 


 

Terrorista peruviano si converte grazie a una lettera di Wojtyla di Raffaella Frullone, 27-05-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/


 

Il "chiedete e vi sarà dato" spesso ci sembra troppo bello per essere vero, invece non solo siamo chiamati a chiedere, ma anche ad osare, e chiedere una cosa tanto grande da sembrare impossibile. Ecco che allora può accadere che un terrorista peruviano legato al Sendero Luminoso, rinchiuso in isolamento nel carcere Penal Castro Castro di Lima, riceva una lettera di Giovanni Paolo II destinata a cambiargli la vita prima dentro poi fuori le mura del carcere.


 

Carlos Turrin Villanueva nasce nel 1958 a Lima e trascorre l'infanzia e la giovinezza in uno dei quartieri più poveri della città e presto si lascia affascinare dagli ideali del Sendero Luminoso: «Dicevano che lottavano contro le ingiustizie, che applicavano la dittatura del proletariato contro quella della borghesia e ho iniziato prima a condividere i loro ideali, poi ad appoggiarli».


 

Nato tra il 1969 e il 1970, Sendero Luminoso (Partido Comunista del Perú - Sendero Luminoso, PCP-SL) era un'organizzazione rivoluzionaria peruviana che si proponeva di sovvertire il sistema politico peruviano e instaurare il socialismo attraverso la lotta armata. Di ispirazione maoista, l'organizzazione, guidata dal pluriergastolano Abimael Guzmán Reynoso , fece quasi 70mila morti in 20 anni come riporta il bilancio stilato dalla Commissione della verità e della riconciliazione peruviana nel 2003.


 

Carlos Turrin Villanueva viene arrestato nel 1989 in Plaza San Martìn nel corso di un comizio di seguaci del Sendero e condotto in carcere con l'accusa di apologia e attività terroristica. Rimane in carcere per 10 anni, detenuto nel padiglione 4 B, destinato ai senderisti: «La vita dietro le sbarre è dura , ho vissuto molti anni in regime di isolamento e potevo avere contatti soltanto con una monaca, che nel tempo divenne la mia ancora di salvezza e il mio mezzo per riavvicinarmi alla fede». Nello stesso periodo si manifestano anche i primi segni di delusione nei confronti del Sendero Luminoso: «In carcere mi resi conto che non praticavano gli ideali che predicavano e che la lotta armata era anche contro chi si opponeva ai loro metodi, non certo migliori di quelli della dittatura. Col tempo i rapporti con Suor Maria Pedro si fecero più assidui e, una volta uscito dall'isolamento, cominciai a riunirmi con altri carcerati per pregare e parlare di Dio. Prima eravamo soltanto 10, poi 30, 50. Imparammo ad usare la clandestinità senderista per pregare, per nasconderci, o anche per ricevere la Comunione grazie alla complicità di Suor Maria, che ci portava l'Eucarestia di nascosto poiché in carcere era proibito riunirsi per manifestare il proprio credo».


 

Negli anni dell'isolamento Villanueva instaura un rapporto epistolare con il cardinale Augusto Vargas Alzamora, arcivescovo di Lima, al quale confida le grosse difficoltà della vita in carcere, nonostante l'ormai avviato cammino di conversione. Da quelle lettere nasce una maggiore consapevolezza del cammino di fede da parte di Villanueva, ma neanche quello sembra sufficiente a placare il suo tormento interiore. Ecco che allora l'ex terrorista decide di rivolgersi direttamente al Santo Padre, Giovanni Paolo II con una missiva, scritta in un momento di particolare sconforto, uno sfogo: «Poche righe, in cui chiedevo perdono per i miei peccati e una benedizione. Mai immaginavo che mi avrebbe risposto, con tutti gli impegni e le preoccupazioni che aveva, mai pensavo che potesse dedicare attenzione ad un terrorista peruviano».


 

Invece Giovanni Paolo II risponde e fa recapitare a Villanueva una breve risposta: poche parole di vicinanza e la desiderata benedizione: «Chiedo al Signore, per intercessione della Vergine Maria, che fortifichi la Sua fede e Le conceda pace e prosperità». E la lettera dà un impulso straordinario alla conversione di Villanueva: «E' in quel momento che iniziò la mia attività pastorale nel carcere. Fondammo comunità cristiane in tutti i padiglioni, inclusi quelli in cui stavano i prigionieri politici e comuni, organizzavamo incontri con religiose e sacerdoti, accanto a concorsi di preghiere, poesie, iniziative culturali. La mia cella era diventata un laboratorio di promozione umana».


 

La pastorale per i carcerati prenderà sempre più spazio nella vita di Villanueva tanto che, una volta in libertà, l'ex terrorista vi dedicherà la vita: «Abbandonato il mio lavoro al ministero dell'istruzione, ho deciso di dedicarmi soltanto a questa grande opera di evangelizzazione. Oggi lavoro nei diversi carceri di Lima per portare la parola del Signore a chi si sente solo, abbandonato e dimentica to. Non solo, mi occupo della formazione di volontari per la pastorale carceraria e abbiamo fondato una casa per accompagnare chi esce dal carcere ed è privo di legami sociali. Confesso che senza l'aiuto della Provvidenza questo non sarebbe possibile».


 

E il rapporto coi senderisti in carcere? «E' strano perché la mia vicinanza all'organizzazione inaspettatamente oggi è una grande grazia, sono l'unico peruviano infatti cui è concesso l'ingresso nella base naval del Callao per incontrare quelli che sono stati i leader della rivoluzione e portar loro la Parola. Al momento ci sono tre senderisti molto vicini alla conversione, si tratta di Victor Alfredo Polay Campos, uno dei più spietati membri dell'organizzazione, e Ramirez Duran, capo di una delle fazioni principali del Sendero, e Elena Iparraguirre, compagna del fondatore Abimael Guzman, condannata all'ergastolo per atti di terrorismo". Conversioni che non sarebbero esistite senza quella di Villanueva, anime che probabilmente sarebbero rimaste perdute se non fosse per una lettera, mandata in un momento di disperazione, alla quale non si osava aspettare una risposta.


 


 

La mia salute riguarda tutti. Lo dice la Costituzione di Emanuela Vinai - La vita di ciascuno è interesse della collettività: basta leggere (senza omissioni) l'articolo 32 della nostra Carta fondamentale per capire che non c'è spazio nella legislazione italiana per autorizzare l'autodeterminazione assoluta. Perché nessuna azione ha conseguenze solo per chi la compie E la difesa del più debole trascende sempre il singolo - Avvenire, 26 maggio 2011


 

Qual è il rapporto tra il diritto dell'individuo e l'interesse della collettività? Come si pone la tutela del valore della vita nei confronti dell'autodeterminazione del singolo, specie nel momento della sua massima fragilità? In attesa che riprenda la discussione alla Camera della legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat), e alla luce di quanto ricordato lunedì dal cardinale Angelo Bagnasco nella prolusione all'assemblea della Cei, è opportuno evidenziare alcuni punti essenziali del dibattito. Il tema è di complessa definizione; per dipanarlo al meglio abbiamo interpellato un giurista, un medico e una bioeticista: tre diverse prospettive per focalizzare un'indagine a tutto campo.

Partiamo da una premessa necessaria: il rilievo della vita come fatto non solo privato, ma di interesse collettivo, così come delineato nell'articolo 32 della nostra Costituzione, non trae le sue radici dalla concezione della vita del singolo propria dei regimi totalitari, ma, anzi, da un contesto di carattere solidaristico. Lo spiega Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale all'Università Cattolica di Milano: «Il rispetto della vita costituisce il presidio del mutuo riconoscimento tra gli individui umani come uguali – spiega –. I diritti umani fondamentali non sono una concessione dello Stato. Non sono attribuiti, ma riconosciuti, perché connaturati all'esistenza umana». Da questo presupposto discende il fatto che «la tutela della vita e della salute è un bene di interesse generale, perché soltanto nel momento in cui l'organizzazione giuridica garantisce il soggetto, la vita è tutelata».

La vita di ciascuno quindi è interesse di tutti, e la tutela del più debole e del più fragile è tutela di un valore più generale che trascende il singolo. Nessuna azione, pertanto, ha conseguenze solo per chi la compie. «Non c'è autonomia dell'individuo se non in relazione con l'altro – riflette dal canto suo Marianna Gensabella, professore straordinario di Filosofia morale all'Università di Messina e componente del Comitato nazionale per la bioetica –. L'autonomia va sempre intesa come autonomia relazionale. Tutto quello che faccio e decido ricade non solo su di me e sulle persone che sono a me legate ma anche sulla collettività. Se io considero la mia vita come non più degna di essere vissuta, formulo contestualmente anche un giudizio su quel tipo di vita, giudizio che non può non riverberarsi su tutti coloro che versano nelle mie condizioni».

Nessun uomo è un'isola. Siamo parte di una società – continua la Gensabella – : se apriamo la breccia all'eutanasia del singolo, se ammettiamo questo anche per una sola persona, poi questa breccia ricadrà anche su altri considerati non degni». Concorda Franco Balzaretti, segretario nazionale dell'Associazione medici cattolici (Amci): «Ci sono momenti in cui la fragilità della persona la porterebbe a scegliere contro se stessa e contro la collettività di cui non si sente più parte. Una società in cui viene legalizzata l'eutanasia, però, va verso l'autodistruzione non solo fisica ma anche morale perché sovverte la piramide dei valori subordinando la vita umana al benessere, all'economia, al profitto, all'utilitarismo».

Ecco perché la tutela della salute deve essere tanto più forte quanto più è debole il soggetto. «La difesa della salute è dovere dell'individuo nell'ambito della solidarietà sociale – rammenta Luciano Eusebi – perché c'è un valore nel mio pormi nelle condizioni migliori per poter dare il mio contributo agli altri.

L'altro ha un'aspettativa nei miei confronti.

Quando parliamo di diritto alla vita come dovere civile c'è una logica solidaristica: sono responsabile della mia vita perché sono significativo nei rapporti con gli altri». Quindi è necessaria una legge come quella sul fine vita? Per Balzaretti «la legge deve essere approvata al più presto per evitare che il magistrato si sostituisca al medico, interrompendo la sua relazione col paziente senza la quale non ci può essere la necessaria alleanza terapeutica». Non solo: è in gioco la nostra stessa visione dell'uomo: «Non ci possiamo arrendere – spiega la Gensabella – a un'antropologia riduttivistica, dove la vita vale solo in base alle sue funzioni».


 


 

Se lo straniero non è un'idea – Redazione - venerdì 27 maggio 2011 – il sussidiario.net


 

Portofranco, Onlus per l'aiuto allo studio aperta a tutti gli studenti delle scuole superiori, è presente a Milano dal 2000 e conta oggi 1.300 iscritti, e in media 130 presenze giornaliere di studenti aiutati gratuitamente da 50 volontari al giorno ( di cui 35/40 universitari e 10/15 adulti). Se è già conosciuta la sua attività originale di aiuto allo studio per tutti i ragazzi, è importante sottolineare che è divenuto un luogo di integrazione sociale nel percorso educativo della persona.

In collaborazione con il Comune della città, prima sotto il mandato Albertini poi durante quello successivo del sindaco Moratti, si è attuato e ancora si attua un progetto di accoglienza e di aiuto allo studio rivolto agli studenti migranti, che ci impegna tutti i giorni della settimana e sta aiutando circa 200 ragazzi, provenienti da Egitto, Sri Lanka, Marocco, Tunisia, Filippine ed altri paesi. Spesso, quando approdano a Portofranco, questi ragazzi non sanno nemmeno una parola di italiano e, siccome la scuola statale li inserisce semplicemente nella classe corrispondente alla loro età, senza tenere minimamente conto del livello di apprendimento della lingua e della loro conseguente difficoltà primaria di comprensione e di espressione, la prima sfida è quella di insegnare loro l'italiano. Nello stesso tempo è importante aiutarli nell'approccio alle rispettive materie, perché la scuola non fornisce loro un'adeguata preparazione, oltre che linguistica, in termini di conoscenza e confronto con la nostra cultura. Insegnare ai ragazzi stranieri l'italiano e offrire loro un metodo di affronto dello studio è una grande possibilità per questi ragazzi, che manifestano tutti un reale desiderio di integrarsi nella nostra società e di relazionarsi agli altri. Tra l'altro a Portofranco, oltre al rapporto del ragazzo con il professore, nasce anche il rapporto tra i ragazzi, e questo contribuisce a costruire una socialità, fondata sul rispetto reciproco, su un dialogo costante tra loro e di loro stessi con noi, insomma si realizza una reale integrazione.

Ad esempio fra i nostri volontari c'è una suora salesiana, che ha sempre insegnato italiano per stranieri, e che insegna l'italiano agli studenti stranieri a partire dall'Abc.

Per il lavoro con i ragazzi italiani e stranieri siamo accreditati presso la Regione Lombardia come Associazione Portofranco Milano; il Comune di Milano nel 2001 ha firmato con noi una convenzione, l'ha poi trasformata in accreditamento legato allo sviluppo di singoli progetti e oggi ci riconosce come Centro di Aggregazione Giovanile (CAG). Per finanziarci, oltre a ricorrere al fund raising, partecipiamo a bandi comunali o regionali inerenti non solo attività di tutoring verso i ragazzi ma anche progetti educativi rivolti agli stranieri.

Lo scorso 3 marzo abbiamo inaugurato la nuova sede e per quella occasione abbiamo invitato tutte le autorità politiche e civili a partecipare all'evento. È stato un gesto significativo, perché abbiamo potuto raccontare i nostri primi dieci anni di esperienza; lo stesso sindaco, intervenendo, ha dimostrato un vivo e personale interesse per la nostra attività, soprattutto quella riguardante gli stranieri.

Durante la campagna elettorale per le elezioni primarie del Pd, anche l'architetto Boeri ci aveva chiesto di poter venire ad incontrarci, avevamo fissato un appuntamento che poi per suoi impegni è saltato; se ce lo avesse chiesto l'avvocato Pisapia avremmo incontrato anche lui.

Mentre si parla tanto, e spesso a sproposito, degli extra comunitari a Milano, partire dai fatti è un buon criterio per capire di cosa ha realmente bisogno la nostra città.

(Alberto Bonfanti, presidente Portofranco)


 

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26/05/2011 – PAKISTAN - Faisalabad, violenze anticristiane: tombe profanate, giovane violentata dal branco - Proprietari terrieri musulmani hanno utilizzato trattori per arare un terreno su cui sorge un cimitero cristiano. L'obiettivo è la confisca illegale. Madre 29enne narcotizzata e violentata da sei persone. In entrambi i casi la polizia copre i criminali. Sacerdote a Faisalabad: il governo deve intervenire.


 

Faisalabad (AsiaNews) – Un gruppo di tombe profanate e una giovane costretta a subire gli abusi sessuali di gruppo per tutta una notte. E in entrambi i casi le forze di polizia non accolgono le denunce e permettono ai colpevoli di restare impuniti. Sono ormai episodi di cronaca quotidiana, le violenze anti-cristiane che si ripetono contro la minoranza religiosa in Pakistan. Che si tratti di azioni atte a impossessarsi di terreni e proprietà rimanendo impuniti o attacchi mirati contro singoli indifesi, per le vittime non vi è la possibilità di ottenere giustizia. La progressiva "islamizzazione" del Paese è un dato sempre più evidente, in particolare nella popolosa provincia del Punjab.


 

Il Pakistan Christian Post (Pcp) riferisce che un gruppo di proprietari terrieri musulmani ha profanato e distrutto alcune tombe in un cimitero cristiano, arando il terreno su cui si trovavano con trattori. Hanno colpito a una profondità tale da scoperchiare le bare e far emergere ossa umane. Il fatto è avvenuto ieri a Chak Jhumra, Faisalabad, nella provincia del Punjab. La polizia non ha voluto aprire un'inchiesta; i proprietari terrieri musulmani, nel frattempo, hanno minacciato i cristiani, intimando loro di ritirare le denunce.


 

Della vicenda si occupa la sezione di Faisalabad della Commissione nazionale di Giustizia e Pace della Chiesa cattolica pakistana (Ncjp). Gli attivisti hanno visitato le tombe profanate e raccolto le prove. Intanto un musulmano ha avviato un'azione legale, rivendicando il possesso dei terreni. La prima udienza è il programma il 13 giugno.


 

P. Joseph Jamil, sacerdote a Faisalabad, condanna con forza le violenze ai danni dei cristiani e conferma che "la Chiesa segue da vicino la vicenda". Egli sottolinea ad AsiaNews che "i proprietari terrieri e gli estremisti sono molto attivi nel colpire la minoranza cristiana nel Punjab"; proprio "nella parte centrale della provincia si registrano il maggior numero di attacchi". Il sacerdote punta il dito contro il governo, che "deve farsi carico della situazione" e difendere la minoranza.


 

A conferma del clima di violenze, a Faisalabad emerge solo ora il dramma di una 29enne cristiana sequestrata da un collega di lavoro musulmano, malmenata, narcotizzata e costretta a subire violenza sessuale di gruppo. Afshan Sabir lavorava come operaia ed è madre di tre figli. I ripetuti abusi si sono verificati la notte del 27 marzo, in una zona non identificata di Gojra. Al risveglio la donna, in stato di semi-incoscienza, ha chiesto aiuto e ha tentato di sporgere denuncia alle forze dell'ordine. Tuttavia, la polizia non ha voluto aprire un'inchiesta e ha complottato con gli stupratori per insabbiare il caso.


 

Anche in questo caso è intervenuta la sezione locale di Ncjp, che segue la vicenda e presta assistenza legale alla giovane madre cristiana.


 

(Ha collaborato Jibran Khan)


 


 

Il secondo libro su Gesù di Nazaret di Benedetto XVI - In dialogo guardando la stessa verità - Giorgio Israel - 27 maggio 2011, da http://www.osservatoreromano.va


 

Il modo più ovvio con cui un lettore ebreo può leggere il secondo libro di Benedetto XVI su Gesù di Nazaret è di cercarvi un'immagine dello stato dei rapporti ebraico-cristiani. È una lettura legittima, ma troppo limitata. È stato detto, con qualche malizia, che, dopo le grandi lodi rivolte alla Nostra aetate, nulla potesse riceverne di più grandi. Non è così. La Nostra aetate è stato un documento fondamentale perché, dopo secoli drammatici ha posto le basi di un dialogo fondato sul rispetto e sul riconoscimento di comuni e inalienabili radici. Non poteva non avere il limite di essere il primo passo, prevalentemente metodologico. Poi sono venuti atti decisivi sul piano dei rapporti umani, seguiti da altri passi che hanno affrontato le questioni di merito.

Tra questi secondi passi — come ho avuto occasione di sottolineare su queste pagine — un ruolo fondamentale ha avuto il documento della Pontificia Commissione Biblica su Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana (2001), la cui esegesi mirava a togliere dal cammino del dialogo i macigni più pesanti, ovvero i pregiudizi antiebraici derivanti da una lettura superficiale dei Vangeli e che hanno alimentato il cosiddetto «insegnamento del disprezzo». Quel documento stabilì chiaramente l'indissolubilità del rapporto tra i due Testamenti con l'affermazione forte che un «congedo dei cristiani dall'Antico Testamento» implicherebbe la «dissoluzione» del cristianesimo.

Il nuovo libro di Benedetto XVI completa l'opera, togliendo dal sentiero del dialogo l'ultima pietra, quando chiarisce definitivamente che la responsabilità nel processo e nella condanna di Gesù è imputabile solo a un gruppo ristretto di ebrei e non può in alcun modo essere fatta ricadere sul popolo intero, ancor meno a tutte le sue successive generazioni. Tolto dal cammino questo ostacolo, il dialogo entra nella sostanza: «Dopo secoli di contrapposizione, riconosciamo come nostro compito il far sì che questi due modi della nuova lettura degli scritti biblici — quella cristiana e quella giudaica — entrino in dialogo tra loro per comprendere rettamente la volontà e la parola di Dio».

È un dialogo che è già iniziato, per esempio, con il contributo del rabbino Jacob Neusner (A Rabbi talk with Jesus) lasciando le sue tracce nel primo volume di Benedetto XVI su Gesù di Nazaret.

È evidente che il dialogo incontra subito il tema centrale di divergenza: la divinità di Gesù, la natura della sua missione, il suo senso nella storia e nel processo della redenzione, e quindi la concezione stessa della redenzione. Al riguardo, è naturale e legittimo che Benedetto XVI indichi la specificità della visione cristiana nell'idea che il Tempio è finito «nel senso storico-salvifico», che «al suo posto ora sta la vivente arca dell'alleanza del Cristo crocifisso e risorto». L'inizio di un tempo dei gentili «durante il quale il Vangelo deve essere portato in tutto il mondo e a tutti gli uomini» è compatibile con il fatto che «nel frattempo Israele conservi la propria missione», e chiarisce così una questione che ha generato nei secoli «malintesi gravidi di conseguenze». Tanto più è legittima la rivendicazione di ciò che si ritiene radicalmente nuovo nel cristianesimo, in quanto viene rimossa un'altra fonte di incomprensioni, e non di metodo ma di sostanza.

Non vi è una sola pagina del libro in cui riaffiori la vecchia e infondata contrapposizione tra Antico Testamento come libro in cui parla un Dio solo di giustizia e mai di amore, anzi un Dio di vendetta, e i Vangeli come messaggio di carità e di amore, nonché la contrapposizione tra particolarismo ebraico e universalismo cristiano. Certo, lo abbiamo appena ricordato, la specificità del messaggio cristiano viene identificata nell'aver travolto il confine del Tempio per fare della crocifissione il Tempio per la redenzione dell'intera umanità; ma questa specificità non viene contrapposta al messaggio dell'Antico Testamento, anzi le sue radici vengono trovate proprio in esso.

La vocazione di Israele non è di per sé particolaristica: «Da una parte, il popolo è segregato da tutti gli altri popoli, ma dall'altra, lo è proprio per svolgere un incarico per tutti i popoli, per tutto il mondo. È ciò che s'intende con la qualifica di Israele come "popolo santo"». È proprio il messaggio universalistico di Isaia: «È poco (...) ristabilire le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele! Ti porrò così a luce per le genti, onde porti la salvezza sino all'estremità della terra». È fondamentale l'aver stabilito un legame diretto tra la corrente del profetismo e il messaggio di Gesù che «col suo agire intendeva dare compimento alla Legge e ai Profeti» (Isaia, 49, 6).

Questo legame viene ribadito continuamente nel libro, collocando il messaggio di Gesù «entro la grande linea degli araldi di Dio nella precedente storia della salvezza». Al riguardo, va sottolineato che anche il conflitto che Gesù apre con «l'ordine disposto dall'aristocrazia del tempio» e con il rispetto esclusivo delle prescrizioni s'iscrive in una tendenza largamente presente del profetismo. Ricordiamo ancora Isaia «A che mi servono tanti vostri sacrifici? dice il Signore. Sono sazio d'olocausti di montoni e del grasso dei giovenchi. (...) Cessate dal presentare vuote offerte (...) Novilunio, sabato, sacra adunanza, non le sopporto più, né digiuno né solennità. (...) Smettete dal fare il male, imparate a fare il bene. Ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso. Rendete giustizia all'orfano, difendete la vedova» (Isaia, 1, 11-17).

In realtà, si può andar oltre. La critica della riduzione della religione al rispetto legalistico dei precetti non appartiene solo alla tradizione del profetismo biblico, ma percorre tutta la storia dell'ebraismo, sia nella letteratura talmudica che in quella kabbalistica. Per esempio, il rabbino Adin Steinsaltz ha ricordato un passaggio del Talmud in cui, interrogandosi sul perché il Secondo Tempio fu distrutto proprio mentre il popolo osservava in modo irreprensibile i precetti e studiava intensamente la Torah, si nota che «Gerusalemme fu distrutta unicamente perché vi si seguiva scrupolosamente la legge della Torah». Steinsaltz osserva che «questa formula imbarazzante è complessa: il popolo di Gerusalemme è stato punito perché non giudicava altro che in stretta conformità con le leggi della Torah e non praticava l'indulgenza. Il che significa che, sebbene le leggi esistenti gravino su ciascuno, vi sono ragioni di attenuare, in certi casi, il loro rigore applicando la misericordia. Se coloro che hanno il potere di pronunziare dei giudizi non agiscono con misura, il loro comportamento annunzia l'avvicinarsi della distruzione».

Mi sono soffermato su questo punto, tralasciando i tanti altri che solleva il libro di Benedetto XVI, non soltanto per ragioni di spazio ma perché esso interpella la riflessione ebraica su un nodo centrale. Se è vero che, dopo il 70 nasce una lettura rabbinica della Torah che legge «il canone degli scritti biblici come rivelazione di Dio senza il mondo concreto del culto del tempio», ed è questa che si presenta come interlocutrice del cristianesimo, non credo che si possa dire che dopo Gesù dell'ebraismo «è sopravvissuto solo il fariseismo».

La vitalità dell'ebraismo, prima e dopo la caduta del Tempio, si è costantemente alimentata della dialettica tra la lettura legalistica della Torah e l'esplorazione del tema della redenzione in termini universalistici, ovvero il riproporsi della tematica caratteristica del profetismo. La fine di questa dialettica segnerebbe un drammatico isterilimento dell'ebraismo e lo smarrimento del senso della sua missione. È con questo ebraismo vivo che il dialogo può dare frutti.

Leggendo il libro di Benedetto XVI torna alla mente il ricordo di coloro che avevano già individuato nelle comuni radici teologiche e spirituali la via per superare secoli di incomprensioni. Così, viene da ripensare a un libro pubblicato cinquant'anni fa da un intellettuale ebreo francese, Robert Aron (fratello di Raymond), dal titolo Les années obscures de Jésus, in cui l'autore esplorava gli anni di Gesù lasciati in ombra dal racconto evangelico. Aron ricercava nella spiritualità della preghiera ebraica che Gesù aveva conosciuto fin dall'infanzia le radici del messaggio di cui si sarebbe fatto portatore: «È mai possibile che ogni giorno, ancor oggi, degli ebrei pronuncino delle preghiere che hanno segnato l'inizio del movimento religioso più esteso del mondo? È possibile che un gran numero di ebrei e la quasi totalità dei cristiani ignorino questa permanenza e non abbiano meditato su di essa? Come mai i credenti, quale che sia la loro religione, non hanno la mente ossessionata da un simile mistero che persiste dopo tanti altri misteri?».

Di grande stimolo fu per Aron la visita alla sinagoga di Livorno in cui gli si era profilata l'immagine di un grande rabbino kabbalista, intriso di universalismo profetico, Elia Benamozegh. Bisognerebbe rileggere il libro Israele e l'umanità di Benamozegh per rendersi conto di quanta fiducia si potesse avere nel dialogo già un secolo fa: «Non vi è un ebreo degno di questo nome che non si rallegri della grande trasformazione operata dal cristianesimo in un mondo che un tempo era macchiato da tanti errori e miserie morali. Quanto a noi non ci è mai accaduto di sentire sulle labbra di un prete i salmi di David senza provare simili sentimenti. Mai ci ha lasciato freddi la lettura di certi passaggi dei Vangeli: la semplicità, la grandezza, la tenerezza infinita che respirano queste pagine ci commuovevano fino al fondo dell'anima. Abbiamo coscienza di essere tanto più ebrei quanto più rendiamo giustizia al cristianesimo».

È una fiducia che può essere contagiosa, come testimonia un documento che ho ritrovato nelle carte di mio padre Saul, che fu amico di Aron: la copia di una lettera che Charles De Gaulle inviò all'autore nel 1960, dopo aver letto il libro. Egli scriveva: Voilà qui est profond, humain et religieux! Voilà qui montre comment et pourquoi ce que l'on pourrait croire si différent et si éloigné est, au fond, très semblable et très proche! Voilà qui fait voir et sentir qu'il n'y a qu'un Dieu, partout où est Dieu!

Purtroppo il cammino è reso difficile dal fatto che oggi le religioni fronteggiano una minacciosa rinascita dell'idolatria di cui già Aron indicava gli enormi rischi: «Fino a che ci si immaginerà, da un lato o dall'altro, che i cristiani e gli ebrei, e forse anche dei non credenti, non sono parimenti minacciati dalla rinascente idolatria e dalla profanazione del mondo (...) fino a che la guerra tra le religioni rivelate, e forse anche tra gli umanesimi laici, avrà la meglio sulla lotta da condurre congiuntamente contro il nemico di sempre e di ora, Gesù resterà in croce e Israele resterà minacciato dalle nazioni».

È una minaccia che oggi ha molti volti, tra cui quello di un riduzionismo scientista che svilisce la ricchezza della ragione umana. È questo un tema centrale nel pensiero di Benedetto XVI che riappare con forza in un passaggio particolarmente pregnante del suo libro. È quando l'autore si riferisce alla credenza che il codice genetico permetta di decifrare il segreto della creazione, il linguaggio di Dio, e commenta: «Ma purtroppo non il linguaggio intero. La verità funzionale sull'uomo è diventata visibile. Ma la verità su lui stesso — su chi egli sia, di dove venga, per quale scopo esista, che cosa sia il bene o il male — quella, purtroppo, non si può leggere in tal modo. Con la crescente conoscenza della verità funzionale sembra piuttosto andare di pari passo una crescente cecità per "la verità" stessa, per la domanda su ciò che è la nostra vera realtà e ciò che è il nostro vero scopo».

Ho voluto chiudere con questa citazione, perché anche questo è un tema che può unire ebrei e cristiani. Difatti, come diceva un grande pensatore ebreo, Gershom Scholem, «un ebraismo vivo, quale che sia la sua concezione di Dio, non può non opporsi risolutamente al naturalismo».


 


 

Avvenire.it, 27 maggio 2011 - LA VITA FRAGILE - Aborto, la ferita nascosta delle minorenni di Antonio Maria Mira


 

L'aborto delle minorenni è un fenomeno «sempre di preoccupanti dimensioni». Ma anche quello clandestino è tutt'altro che scomparso. Malgrado i pochi casi scoperti. Anzi, come segnalano vari procuratori, «l'esiguo numero di procedimenti non rifletterebbe la reale portata del fenomeno, che si presume invece essere diffuso e praticato anche in strutture sanitarie private, e riguarderebbe in misura sempre maggiore donne extra-comunitarie». È il doppio allarme lanciato dal Ministero della Giustizia nell'annuale «Relazione al Parlamento» che affronta i fenomeni degli aborti clandestini e di quelli delle minorenni autorizzati dal giudice.


 

Ma vediamo i numeri. I procedimenti penali aperti presso le Procure nel 2010 per violazione della legge 194 sono stati 199 e le persone indagate 293. Il dato più alto dal 1995 dopo i 208 procedimenti del 2009. Il 46,7% dei casi è stato al Nord, il 20,1 al Centro, il 21,6 al Sud e l'11,6 nelle Isole. Secondo una tendenza di questi anni, come segnala il Ministero, è «marcata l'incidenza degli stranieri».


 

Lo scorso anno «la percentuale sul totale delle persone iscritte presso le Procure è stata del 33,9%; tale incidenza risulta essere piuttosto elevata, soprattutto se si pensa che la popolazione straniera residente al 1° gennaio 2010 costituisce solo il 7% circa dell'intera popolazione». Ma se si restringe l'analisi alle sole persone che hanno commesso delitti di tipo esclusivamente doloso (il vero e proprio aborto clandestino), l'incidenza sale addirittura al 55,2%.


 

Passando al tema delle minorenni, troviamo che sempre nel 2010 sono state 1.233 le richieste di autorizzazione all'aborto da parte di donne al di sotto dei 18 anni, il 47% al Nord, il 25 al Centro, il 22 al Sud e il 7 nelle Isole. Numeri che non accennano a diminuire. Erano state infatti 1.186 nel 2009. Come segnala il Ministero (sono queste le «preoccupanti dimensioni»), siamo di fronte quindi a una media dal 1989 a oggi di circa 1.300 richieste all'anno. E queste – lo ricordiamo – sono solo una parte degli aborti delle minorenni, quelli per i quali la ragazza si rivolge al giudice in mancanza dell'assenso dei genitori. Se, infatti, consideriamo invece anche i casi che vedono i genitori consenzienti arriviamo a più di 4.000.


 

Ma torniamo agli aborti illegali e, soprattutto, alla crescente presenza delle immigrate. Due i motivi. «Secondo alcuni procuratori una parte degli stranieri coinvolti non è a conoscenza dei meccanismi socio-amministrativo-sanitari e penali della legge. Per ovviare almeno in parte a questa carenza informativa, essi propongono di adeguare i consultori pubblici in relazione al loro attuale bacino di utenza, ormai cambiato dal '75 anche a causa del rilevante fenomeno dell'immigrazione». Ma poi c'è quella parte di stranieri «operante in ambienti di per sé malavitosi» che «violerebbe intenzionalmente la legge penale, istigando e favorendo l'aborto clandestino.


 

Questo si verificherebbe in prevalenza nell'ambiente della prostituzione per eliminare gravidanze indesiderate, e le investigazioni, anche a causa delle condizioni di assoggettamento e di omertà proprie di questo tipo di ambiente, risultano spesso difficoltose». Ma altri procuratori denunciano come molti fatti «rimangano nascosti, anche perché gran parte delle forze di Pubblica sicurezza viene impegnata su altri fronti investigativi, quale ad esempio quello della criminalità organizzata, soprattutto al Sud».


 

Particolarmente gravi le analisi del Ministero sul fenomeno degli aborti delle ragazze: «L'ambiente in cui si trovano le minorenni che maturano la terribile decisione è in genere abbastanza desolante, essendo spesso caratterizzato da gravi disagi all'interno della famiglia, soprattutto di tipo sociale (genitori separati, o in conflitto tra loro o con la stessa figlia) oltre che economico, dalla mancanza di dialogo e, a volte, anche dalla salute precaria di uno dei due genitori».


 

Non basta: anche «i rapporti con il padre del concepito sono quasi sempre molto labili e a volte del tutto occasionali». Tutto ciò, denuncia il Ministero, «fa sì che la minorenne, anch'essa quasi sempre senza lavoro, non riesca a trovare in definitiva un sostegno morale né materiale». Dunque aborto come frutto del degrado sociale? Non solo. «Vi sono anche casi – si legge ancora – in cui la minorenne vive in un contesto socio-familiare positivo, caratterizzato anche da buoni rapporti con i genitori.


 

Malgrado ciò, la ragazza non adduce espressamente nessun motivo particolare per voler abortire se non quello di rifiutare categoricamente il figlio avvertendolo semplicemente come un peso. Anche la possibilità di poterlo disconoscere sembra venire rifiutata a priori, quasi intendendo voler cancellare in modo radicale il problema senza nessuna possibilità di riesaminarlo per trovare una qualche soluzione». Situazione senza uscita? No. «Queste minorenni appaiono ferme e decise nel loro triste proposito ma, considerato il contesto positivo in cui vivono, sembrerebbe che un consiglio da parte dei genitori potrebbe forse aiutarle a ponderare maggiormente il problema».


 

Ed è proprio quello che manca. Più del 60% delle ragazze non consulta nessuno prima delle decisione, il 37 solo la madre, e meno dell'1 entrambi i genitori. Il motivo? Soprattutto «timore» ma anche «mancanza di dialogo» e «conflitti tra gli stessi genitori».


 


 

«Time» e la Chimica dell' Ottimismo se la Felicità diventa una Scienza di Paolo Di Stefano, Corriere della Sera, 27 maggio 2011


 

Lo scrittore francese Georges Bernanos (che per di più era un fervente cattolico) diceva che l' ottimismo «è una falsa speranza a uso dei vili e degli imbecilli». Ora una copertina di Time ne fa un oggetto della scienza: «La scienza dell' ottimismo, un tempo disprezzata come una provincia sospetta di retorica, sta aprendo una nuova finestra sul funzionamento della coscienza umana». In realtà, il nostro cervello non sarebbe solo modellato proustianamente sul tempo passato e sulla memoria, ma sulle aspettative per l' avvenire. Dunque se riusciamo ad attivare quella piccola area cerebrale che stimola il pensiero positivo verso il futuro, allora siamo a cavallo: la scienza ci salverà da ogni sorta di depressione, malinconia, prostrazione e raggiungeremo un livello di speranza che ci permetterà di tirare avanti senza cadere nei buchi neri che ci riserva quotidianamente la vita. «Studi recenti - dice l' articolo di Tali Sharot - dimostrano che un malato di cancro pessimista ha più probabilità di morire entro otto mesi rispetto a uno ottimista». Gli scienziati ci avevano già rassicurati, qualche anno fa, sulla non coincidenza tra denaro e benessere psichico: i soldi non danno la felicità, del resto, lo dicevano già le nostre nonne. Gli americani e i giapponesi non vivono più contenti degli africani: anzi, il consumo non produce altro che insoddisfazione. Il quoziente intellettivo, l' educazione, la cultura non procurano effetti diversi. L' età? Tantomeno. Quanti sono i ventenni infelici? Non certo meno dei settantenni. Il lavoro sicuro? La fama? Neppure per sogno. E allora? Allora forse, come suggerisce uno scienziato forse più ragionevole anche se altrettanto prestigioso, Jonathan Haidt, sarebbe meglio abbassare l' asticella e accontentarsi di un equo benessere: che non può abitare solo nel cervello, ma nelle relazioni con gli altri, con il mondo, oltre che con le proprie attività e aspirazioni. Un equilibrio che certamente la nostra società (quella del capitalismo cinico, con i suoi dislivelli scandalosi, e della pubblicità che promette senza mantenere) non favorisce. E poi, se avesse ragione il grande scrittore Kurt Vonnegut nel sostenere (lo ricordava Goffredo Fofi in una recente intervista) che i maggiori ottimisti del Novecento sono stati Hitler e Stalin?


 


 

Il mio incontro con Carlo Betocchi 3 - "Un passo, un altro passo"


 

Autore: Tabanelli, Giorgio Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 27 maggio 2011


 

Credo sia superfluo motivare le ragioni della devozione dei tanti personaggi citati nei confronti di Carlo Betocchi. Vale a dire, dell'attingere continuo alla sua poesia per ritrovare le ragioni sacre del vivere quotidiano, immersi come siamo nel "disordine", nella "polvere" e nello "screanzato gridio". Posso aggiungere che l'incontro con lui e la frequentazione assidua negli ultimi anni della sua esistenza (difficile, penosa, per le condizioni di salute precarie, e triste, per lo stato di solitudine e abbandono in cui ha vissuto) sono stati, almeno per me, vitali in quanto egli ha rivelato a me stesso le ragioni prime dell'umanità e della fraternità che attendevano di essere non solo dichiarate ma anche provocate e smosse. Direi anzi che Betocchi è stato in modo singolare (non soltanto per chi scrive ma anche per moltissime altre persone), una sorta di incarnazione, vivente e presente, della carità cristiana e forse la persona più libera che si potesse conoscere a quel tempo.

Negli ultimi anni, rileggendo la sua opera, che registra fedelmente, come un vero e proprio diario, i passi del suo cammino ("un passo, un altro passo"), ho potuto cogliere con maggiore chiarezza e lucidità il nucleo vivo e pregnante della sua poetica cristiana, la segreta trama drammatica della sua poesia. E' come se fosse emersa con più forte contrasto di luce quella intensa e profonda linea drammaturgica che connota la sua riflessione poetica scaturita dalla sofferenza: la perdita della bellezza, la decadenza fisica, la vicenda di solitudine, la perdita della compagna di vita, il colloquio con Dio.

Pur nella sofferenza, il poeta accetta il suo destino fino a parlare di "obbedienza alla realtà" alludendo non soltanto alla paziente attenzione al vivere quotidiano ma alle indicazioni provenienti dalla stessa realtà, cui siamo tenuti ad obbedire (…"un passo, un altro passo,/e inciampicando nel divino esistere/io giungo a riconoscermi nel sasso/che sospira all'eterno, in alto e in basso." ).

Credo che il migliore ritratto di sé e della sua umanità l'abbia tracciato lo stesso poeta come un dono e una ricchezza, una traccia utile per il nostro cammino:


 

Io fui. Fui come fu il grano

delle battiture; ma non finii

nei sacchi; non mi feci pane,

e non ricchezza: fuor della spiga

io fui come quel dì d'estate

nell'aia, fui il sole, l'aria,

e quella pula del grano battuto:

io non fui che quell'ora, quel

momento, quel sole e la sua danza

nei campi generosi, lievitanti,

e nel lavoro felice dell'uomo.


 


 

"INCHIESTA SUL DARWINISMO" Di Enzo Pennetta - 29/05/2011 - Darwinismo – da http://www.libertaepersona.org/


 

"Un libro che gli organizzatori dei Darwin Days non vorrebbero farti leggere".

Questo slogan potrebbe forse essere il più ad effetto per il libro in uscita nei prossimi giorni e che sarà presentato in anteprima martedì 31 maggio a Palazzo Valentini, presso la sede della Provincia di Roma.

Ma, andando oltre gli slogan, possiamo dire che questo nuovo libro è un lavoro di indagine storica, un testo ricco di preziose informazioni e significativi documenti che gettano una nuova luce su quel fenomeno che genericamente va sotto il nome di "darwinismo". Documenti che nessuno propone e che, proprio per il loro essere "politically uncorrect", la "intellighenzia" probabilmente tenderà ad ignorare per lasciarli in quella desiderabile "damnatio memoriae" in cui sono stati relegati. È la cosa più facile ed efficace.


 

Ma nel caso in cui dovesse invece verificarsi una sufficiente diffusione, una risonanza tale da rendere inevitabile una certa attenzione, è facile prevedere che questa pubblicazione raccoglierà la sua parte di veleno, e probabilmente, una piccola o grande messe di insulti: è questo quello che accade a chi vuole mostrare una faccia nascosta del pensiero dominante.


 

"Mostrare" è un termine consapevolmente scelto perché indica un'operazione che non si basa su un'opinione personale, che non si affida a dei ragionamenti pro o contro qualcosa, ma che si riferisce ad una raccolta di documenti, fatti e testimonianze la maggior parte dei quali da tutti facilmente verificabili sulle fonti originali. "Mostrare" è un termine che pone l'attenzione prevalentemente sui risultati di un'inchiesta e non sull'opinione dell'autore che da parte sua lascia parlare documenti e protagonisti.


 

Per capire cosa sia veramente quello che, con una insufficiente semplificazione, viene indicato col termine "darwinismo", bisogna uscire dai limiti del puro dibattito scientifico, bisogna studiarne la fenomenologia in relazione al contesto ambientale, culturale e, soprattutto politico, nel quale la teoria venne formulata e si affermò.


 

Dalla quarta di copertina:

La cronaca e l'attualità mostrano che nel mondo contemporaneo la scienza ha assunto la funzione di legittimare il potere, molte delle scelte più importanti non possono infatti essere compiute senza il sostegno di questa autorità, l'unica in grado di generare un consenso unanime. Questo stato di cose ebbe inizio nel '600 quando in Inghilterra si fece strada l'idea di uno Stato legittimato da una classe di scienziati: fu Francis Bacon a proporlo nella Nuova Atlantide. Da quell'idea nacque la Royal Society, la "casta sacerdotale" di scienziati che avrebbe supportato l'Impero Britannico. Tuttavia fu ben presto evidente che quella casta aveva bisogno di un testo di riferimento, di una nuova "Bibbia" capace di offrire una nuova visione del mondo: l'occasione buona sarebbe giunta nel 1859 quando Charles Darwin pubblicò l'Origine delle specie. Era una teoria che si prestava a divenire una sorta di seducente mito della creazione moderno, un mito basato sulle idee classiste dell'economista Thomas Robert Malthus; da allora quelle idee si sono affermate come verità di natura, giungendo ad orientare le politiche degli stati occidentali e delle Organizzazioni Internazionali non esclusa l'ONU.

Una vicenda di cui questo libro vuole essere il racconto.


 

Enzo Pennetta

INCHIESTA SUL DARWINISMO

Come si costruisce una teoria

Scienza e potere dall'imperialismo britannico alle politiche ONU

Ed. CANTAGALLI - € 15,50


 

Sito di Enzo Pennetta: www.enzopennetta.it


 

P.S. Catone il censore avrebbe detto: Ceterum censeo Carthaginem esse delendam,

allo stesso modo mi permetto di insistere sull'opportunità di una presa di distanza da parte del mondo della cultura dalle posizioni antidemocratiche e intolleranti dello scienziato Richard Dawkins: Ceterum censeo….

http://www.libertaepersona.org/dblog/articolo.asp?articolo=2224


 


 

Zapatero contestato? Blasfemia! - May 28th, 2011, da http://carlobellieni.com/


 

Il partito socialista spagnolo di Zapatero è contestato in piazza dalla gente; e lo riportano anche sull'Unità, tanto da non lasciar dubbi sul fatto che non è vero che "lui è buono, ma è circondato da cattivoni"; Zapatero, ben noto e ben santificato in Italia per le sue leggi sull'aborto, sul divorzio facile, sulla fecondazione in vitro, sugli embrioni, viene contestato? Eresia!! Invece no. E in Italia ancora si santifica il premier spagnolo, mentre gli spagnoli sono in piazza a dire che non gli va proprio più di tenerselo al governo (nel segreto delle urne lo hanno ben dimostrato),anzi ieri sono stati cacciati via dalla piazza, ma sono ritornati più di prima. Ma come: uno che "ha fatto così tanto bene al mondo come paladino dei diritti civili e-non-vi-azzardate-a-smentirli"?? Si sbagliano gli spagnoli a voltargli le spalle o si sbagliano i nostri Zapateristi (gli hanno anche dedicato un film!, ricordate?) in lutto per la fine di un mito per il quale combatteranno fino all'ultimo sangue, e che sui loro giornali scrivono che in piazza scende il popolo contro il potere, ma si guarda bene dal dire la parola Zapatero???


 


 

Il cristianesimo fiabesco di Oscar Wilde di Antonio Giuliano, 28-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it


 

Per dirla con uno dei suoi graffianti e paradossali aforismi: «L'unico modo per liberarsi da una tentazione è concedersi ad essa». Allora lasciatevi pure vincere dalla tentazione di rileggere le fiabe di Oscar Wilde (1854-1900), perché soprattutto due fra esse, Il gigante egoista e Il principe felice, sono parabole autentiche sull'amore e sul dolore.


 

Tanto più ora che le Edizioni Angolo Manzoni le hanno pubblicate in una veste grafica accattivante all'interno di una lodevole collana per ragazzi pensata per i dislessici o gli stranieri alle prese con una nuova lingua: carattere studiato ad hoc per garantire la massima leggibilità e testo inglese a fronte. A dare il via all'iniziativa è stato un altro celebre racconto di Wilde Il fantasma di Canterville, seguito dalle Fiabe dei fratelli Grimm e da La Bella e la Bestia di J.M. Leprince de Beaumont. Ora è la volta de Il gigante egoista e Il principe felice (pp. 116, euro 19,50), due piccoli gioielli che contribuiscono a svelare l'altro volto dell'eccentrico scrittore irlandese (nacque a Dublino nel 1854, ma fu presto di casa nei salotti londinesi), esponente di spicco del dandysmo e del decadentismo estetizzante grazie anche alla sua opera più nota Il ritratto di Dorian Gray.


 

Una vita segnata da un esagerato culto di sé, da un'etica votata al piacere e da comportamenti anticonformisti volti anche a sbeffeggiare i costumi severi dell'Inghilterra vittoriana. E tuttavia prima della discussa relazione con il suo amico (probabilmente amante) Alfred Douglas, e della condanna nel 1895 a due anni di carcere con l'accusa di omosessualità e condotta immorale, Oscar Wilde fu un marito felice. Sua moglie Costance gli aveva dato due figli, Cyril e Viyvyan, per i quali lo scrittore stravedeva. Per loro Oscar scrisse queste fiabe tenerissime, che in realtà parlano anche agli adulti di una Bellezza e una Bontà diversa, del tutto insospettabile se ci si attiene alla figura dello scrittore che ci è stata tramandata.


 

Da dove infatti spunta fuori quel Dio che chiude Il principe felice? Quella statua che piange perché in vita non si è accorto delle miserie umane è ora tutta protesa nella missione di far felice il prossimo. E la volontà di spogliarsi di tutti i gioielli con l'aiuto della rondine sembra richiamare il sacrificio innocente del Cristo fatto da san Paolo («Spogliò se stesso assumendo la condizione di servo divenendo simile agli uomini» Fil, 2, 6-7). Lo stesso Gesù che riecheggia anche nell'altro racconto Il gigante egoista, apologo sull'amore capace di cambiare anche il cuore più ostinato. Chi altro era altrimenti quel bambino con ferite sulle mani e nei piedi i segni di lunghi chiodi? Dinanzi a lui il gigante si intimorisce e si sente rivolgere una strana raccomandazione: «Una volta mi hai permesso di giocare nel tuo giardino, oggi verrai con me nel mio di giardino, che è il paradiso». Sin troppo facile ricordare la promessa di salvezza fatta da Cristo sulla croce al buon ladrone.


 

In realtà non capiremmo Oscar Wilde se ci attenessimo solo all'immagine di uomo dalle passioni disordinate e amorali, alfiere del "peter-panismo", del mito dell'eterna giovinezza (come ne Il ritratto di Dorian Gray). Dietro la maschera di cantore di frivolezze si è infatti sempre nascosto un ricercatore di verità più profonde, di un Dio che alla fine non aveva mai smesso di tormentarlo. In fondo è stato sempre sottaciuto il suo lungo e difficile cammino di conversione al cattolicesimo, come spiega anche un saggio scorrevole e controcorrente Il ritratto di Oscar Wilde di Paolo Gulisano (Ancora, 2009, pp. 193, euro 14).


 

Del resto Wilde fu buon profeta di se stesso. «Il cattolicesimo è la sola religione in cui morirei» aveva detto probabilmente provocatoriamente in gioventù. Ma da allora aveva sempre schivato l'argomento. Anche perché come confidò più tardi, gli fu anche proibito. Lo rivelò durante la prigionia che segnò il culmine della sua conversione: «Buona parte della mia perversione morale è dovuta al fatto che mio padre non mi permise di diventare cattolico. L'aspetto artistico della Chiesa e la fragranza dei suoi insegnamenti mi avrebbero guarito dalle mie degenerazioni. Ho intenzione di esservi accolto al più presto». Il padre difendeva l'onorabilità della famiglia, perché in quel tempo diventare cattolico avrebbe significato retrocedere nella scala sociale. Rimase a lungo anglicano, ma senza alcun entusiasmo. Era attratto da una Chiesa di persone dal cuore passionale e non da tiepidi borghesi. Lo ribadì anche in uno dei suoi più pungenti aforismi: «La Chiesa cattolica è soltanto per i santi e i peccatori. Per le persone rispettabili va benissimo quella anglicana». Senza dire che nel 1877 fu folgorato da Pio IX, il Pontefice del Sillabo, dipinto come nemico del progresso. Grazie a un amico, Wilde fu ricevuto in udienza e ne rimase profondamente commosso al punto che dedicò al papa e a Roma una poesia "Urbs Sacra Aeterna".


 

Decisive però furono le letture durante il carcere: Agostino, Dante e Newman. E il primo atto che fece da uomo libero fu una richiesta ai gesuiti di Londra per sei mesi di ritiro presso di loro. Prima di morire entrò nella Chiesa cattolica ricevendo il battesimo e gli ultimi sacramenti. Aveva fatto soffrire terribilmente la moglie Costance, ipercomprensiva e pronta a riaccoglierlo sempre, anche dopo la detenzione. Nonostante il marito finito in bancarotta, l'avesse costretta a lasciare l'Inghilterra per l'Italia con i figli e a cambiare persino il cognome. Ma la torbida passione con Douglas e la morte di Costance impedirono il ricongiungimento.


 

Wilde ai figli, che aveva comunque amato paternamente, lasciò però una raccomandazione: «La ricerca della bellezza è il vero segreto della vita». E suo figlio Vyvyan, ricordando la felice vita familiare d'un tempo, dirà: «Giocava spesso con noi (…e) quand'era stanco di giocare ci teneva tranquilli raccontandoci fiabe, o storie avventurose, di cui possedeva una riserva inesauribile. Ciryl una volta gli chiese perché aveva le lacrime agli occhi mentre ci raccontava la storia del gigante egoista, e lui rispose che le cose veramente belle lo facevano sempre piangere».


 


 

Quei poeti così moderni, così mariani di Giovanni Fighera, 28-05-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/


 

In età moderna pochi letterati hanno cantato la grandezza di Maria. Chi ha provato a decantarne la bellezza è stato, spesso, non capito e accusato di essere troppo incline ad un tono retorico. I suoi versi sono stati, così, declassati al rango di poesia melensa e poco sentita.


 

È il destino riservato agli Inni sacri dello scrittore lombardo A. Manzoni (1785-1873) in cui la Madre di Dio, in perfetta sintonia con la tradizione, è partecipe della missione di Gesù, fino ai piedi della croce, e, nel contempo, presente nella storia della Chiesa, fino alla fine dei tempi, vicino a noi tutti figli suoi. Lì, nella grotta, «la mira Madre in poveri/ panni il Figliol compose,/ e nell'umil presepio/ soavemente il pose». Come profetizzato, però, un dolore atroce Le trafiggerà il cuore: ai piedi della croce rimarranno solo Maria e Giovanni, il discepolo prediletto. Ecco perché a Lei, che ha conosciuto il dolore estremo, noi tutti possiamo rivolgerci con le parole di Manzoni: «E tu, Madre, che immota vedesti/un tal Figlio morir sulla croce,/per noi prega, o regina de' mesti,/che il possiamo in sua gloria veder;/che i dolori, onde il secolo atroce/fa de' boni più tristo esiglio,/misti al santo patir del tuo Figlio,/ci sian pegno d'eterno goder». A «Il nome di Maria», che la tradizione cristiana declama nelle preghiere («Salve Regina», «Rosario», …), il Poeta lombardo riserva un intero inno sacro (1812-1813), forse il più bello, ma «stranamente» anche poco conosciuto. Sentiamo alcuni versi in cui Manzoni attesta che la profezia «Tutte le genti» la «chiameranno beata» si è adempiuta: «E detto salve a lei, che in reverenti/accoglienze onorò l'inaspettata,/Dio lodando, esclamò: Tutte le genti/mi chiameran beata». Noi, oggi, siamo senz'altro «testimoni che alla tua parola/obbediente l'avvenir rispose,/[…] Noi sappiamo, o Maria, ch'Ei solo attenne/l'alta promessa che da Te s'udìa,/ei che in cor la ti pose: a noi solenne/è il nome tuo, Maria». Ogni popolo ha conosciuto la grandezza della Madonna, la «Vergine, […] Signora, […] Tuttasanta». A Lei ricorrono il bambino, nelle «paure della veglia bruna», a Lei «ricorre il navigante». A lei «la femminetta … della sua immortale/ alma gli affanni espone».


 

La Madonna ascolta le nostre suppliche e le nostre preghiere «non come suole il mondo». A Lei ogni popolo canti: «Salve, o degnata del secondo nome,/o Rosa, o Stella, ai periglianti scampo,/inclita come il sol, terribile come/oste schierata in campo». Solo una vera e profonda devozione mariana potrebbe partorire versi di tale bellezza e di tale forza espressiva!


 

Nel contempo, soltanto un lettore devoto e grato alla Madonna avverte la verità di questa poesia, non certo «retorica», ma solenne, come si addice alla «Madre di tutti i viventi».


 

Pochi anni più tardi, tra il novembre e il dicembre del 1816, G. Leopardi scrive un componimento intitolato L'appressamento della morte, composto in terzine dantesche. Il richiamo a Dante è non solo nell'uso della forma metrica. In maniera sorprendente, infatti, il testo si conclude come la Commedia dantesca con un'invocazione alla Madonna. Scrive il Recanatese: «O Vergin Diva, se prosteso mai/ Caddi in membrarti, a questo mondo basso, / Se mai ti dissi Madre e se t'amai,/ Deh tu soccorri lo spirito lasso/ Quando de l'ore udrà l'ultimo suono, / Deh tu m'aita ne l'orrendo passo». Leopardi invoca la Madonna perché possa soccorrerlo nell'ora della morte. Così, Leopardi può rivolgersi al Padre Redentore con la sicurezza di un figlio che ha riposto bene la sua fiducia: «Se 'l mondo cangiar co' premi tuoi/ Deggio morendo e con tua santa schiera, / Giunga il sospir di morte». Una perlustrazione integrale dell'intera opera leopardiana, in prosa e in poesia, darà poi esiti impensati, perché il poeta più volte esalta la figura della Madonna e la invoca. Inoltre, Leopardi strinse rapporti stretti con i Gesuiti negli anni della permanenza a Napoli dal 1833 al 1837, anno della sua morte. Secondo la testimonianza scritta del gesuita F. Scarpa Leopardi «si confessò e si riconciliò con Dio per mezzo del Sacramento della Penitenza». La richiesta alla Madonna fatta in giovinezza di stargli vicino «all'appressamento della morte» si è dunque compiuta.


 

Quasi un secolo più tardi lo scrittore cattolico Charles Peguy, curiosamente nato l'anno della morte del Manzoni (1873-1914), dedica pagine bellissime alla Madonna.


 

Chi è padre o madre non può non avvertire la preoccupazione per i propri cari figliuoli e, nel contempo, la consapevolezza dell'insufficienza di ogni premura a felicitare i nostri piccoli. Ci sono situazioni – noi tutti, credo, le abbiamo sperimentate – in cui avvertiamo chiaramente il limite umano, la precarietà e la labilità della vita e faremmo di tutto per confortare i nostri figli, per fornire loro qualcosa di importante e di bello, ma ci dimentichiamo magari di svolgere il compito più semplice.


 

Lo dice con limpidità espressiva e con monolitica chiarezza Charles Peguy ne Il portico del Mistero della II virtù (1911). Ivi, il grande scrittore cattolico francese racconta una storia tenerissima e commovente. Un padre guarda stupito i propri figli, pieno del desiderio che essi possano essere felici. Allora, ripensa a quei giorni in cui li ha posti «particolarmente sotto la protezione della Santa Vergine». «Un giorno che erano ammalati. /E che lui ha avuto gran paura […] /Soltanto all'idea che erano ammalati». Quello di Peguy è uno stile franto, essenziale, senza fronzoli, che non ha paura di ripetere pur di scavare in profondità la pura e semplice verità così che i semplici dettagli si stampino nella mente del lettore. «Lo stile di Pèguy […] ci offre sempre un testo che cresce su se stesso, in una tensione di perfezionamento che va in direzione della larghezza e della profondità, quasi bramando e acquistando forza di persuasione». Con delicatezza lo Scrittore ci invita a seguire i gesti di quest'uomo che, con grande umiltà, affida i figli nelle mani della Santa Vergine. Scrive Pèguy: «Bisogna dire che lui era stato bellamente ardito e che era stato un colpo ardito./E tutti i cristiani possono fare altrettanto». Lui, il padre, «con la preghiera aveva messi» i figli nelle braccia amorose di «colei che è carica di tutti i dolori del mondo/[…] Perché il Figlio ha preso tutti i peccati./Ma la madre ha preso tutti i dolori». Come è liberante la preghiera recitata da quel padre di famiglia nella quale si rivolge alla Madonna dicendole: «Io non capisco più niente. Ne ho fin sopra la testa./Non ne voglio più sapere…/Prendeteli. Io ve li lascio. Fatene quel che volete. Io ne ho abbastanza./Colei che è stata la madre di Gesù Cristo può anche essere bene la madre di questi due bambini e di questa bambina./Che sono i fratelli di Gesù Cristo./E per i quali Gesù Cristo è venuto al mondo./[… ]Voi li vedete. Io ve li affido».


 

Da allora, da quell'affettuosa e intima preghiera con la Madonna, tutto cambia e tutto inizia ad andare bene, perché il padre di famiglia ha messo i suoi figli nelle mani della Santa Vergine e «se n'è andato a mani vuote». Il padre è tornato ad essere «l'affittuario dei suoi bambini./ Non ne ha che l'usufrutto./Ed è il buon Dio che ne ha la nuda (e la piena) proprietà./Ma è un buon proprietario il buon Dio».


 

Quale saggezza ha mostrato quest'uomo, quale coraggio di riconoscere una semplice evidenza : «Tutta la creazione non è forse nelle mani di Dio. / Tutta la creazione non è forse la proprietà di Dio». Come è stato semplice per quest'uomo riconoscere il Mistero che fa tutte le cose, com'è stato liberante farsi abbracciare da Lui!