giovedì 26 maggio 2011

Nella rassegna stampa di oggi:

  1. L'abuso dei diritti umani di Roberto Fontolan, giovedì 26 maggio 2011, il sussidiario.net
  2. LETTURE/ Se il Diavolo su una panchina a Mosca parla di Gesù... di Martino Sartori, il sussidiario.net - giovedì 26 maggio 2011
  3. Pedofili salesiani, e fieri di esserlo - Di Rassegna Stampa - 25/05/2011 - Attualità – da http://www.libertaepersona.org
  4. Prevenzione, cura e assistenza pastorale delle vittime dell'Aids - L'uomo malato via speciale della Chiesa di RENATO SALVATORE Superiore generale dei Chierici Regolari Ministri degli Infermi (©L'Osservatore Romano 26 maggio 2011)
  5. LA RIFONDAZIONE DELL'EUROPA COMINCIA DALL'UNGHERIA? di Élizabeth Montfort*
  6. Augias, Pisapia e l'eutanasia di Tommaso Scandroglio, 26-05-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
  7. Laicità oggi, tra interessi e principi di Vittorio Possenti, Corriere della Sera 26.5.11


 

CATECHESI DI BENEDETTO XVI SULLA FIGURA DI GIACOBBE


 

CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 25 maggio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo della catechesi che Papa Benedetto XVI ha pronunciato questo mercoledì in occasione dell'Udienza generale in Piazza San Pietro in Vaticano, iniziando un percorso biblico sulla preghiera e dedicando il primo intervento ad Abramo.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sulla preghiera, ha incentrato la sua meditazione sulla figura di Giacobbe, nel Libro della Genesi.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

Oggi vorrei riflettere con voi su un testo del Libro della Genesi che narra un episodio abbastanza particolare della storia del Patriarca Giacobbe. È un brano di non facile interpretazione, ma importante per la nostra vita di fede e di preghiera; si tratta del racconto della lotta con Dio al guado dello Yabboq, del quale abbiamo sentito un brano.

Come ricorderete, Giacobbe aveva sottratto al suo gemello Esaù la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie e aveva poi carpito con l'inganno la benedizione del padre Isacco, ormai molto anziano, approfittando della sua cecità. Sfuggito all'ira di Esaù, si era rifugiato presso un parente, Labano; si era sposato, si era arricchito e ora stava tornando nella terra natale, pronto ad affrontare il fratello dopo aver messo in opera alcuni prudenti accorgimenti. Ma quando è tutto pronto per questo incontro, dopo aver fatto attraversare a coloro che erano con lui il guado del torrente che delimitava il territorio di Esaù, Giacobbe, rimasto solo, viene aggredito improvvisamente da uno sconosciuto con il quale lotta per tutta una notte. Proprio questo combattimento corpo a corpo - che troviamo nel capitolo 32 del Libro della Genesi - diventa per lui una singolare esperienza di Dio.

La notte è il tempo favorevole per agire nel nascondimento, il tempo, dunque, migliore per Giacobbe, per entrare nel territorio del fratello senza essere visto e forse con l'illusione di prendere Esaù alla sprovvista. Ma è invece lui che viene sorpreso da un attacco imprevisto, per il quale non era preparato. Aveva usato la sua astuzia per tentare di sottrarsi a una situazione pericolosa, pensava di riuscire ad avere tutto sotto controllo, e invece si trova ora ad affrontare una lotta misteriosa che lo coglie nella solitudine e senza dargli la possibilità di organizzare una difesa adeguata. Inerme, nella notte, il Patriarca Giacobbe combatte con qualcuno. Il testo non specifica l'identità dell'aggressore; usa un termine ebraico che indica "un uomo" in modo generico, "uno, qualcuno"; si tratta, quindi, di una definizione vaga, indeterminata, che volutamente mantiene l'assalitore nel mistero. È buio, Giacobbe non riesce a vedere distintamente il suo contendente e anche per il lettore, per noi, esso rimane ignoto; qualcuno sta opponendosi al Patriarca, è questo l'unico dato certo fornito dal narratore. Solo alla fine, quando la lotta sarà ormai terminata e quel "qualcuno" sarà sparito, solo allora Giacobbe lo nominerà e potrà dire di aver lottato con Dio.

L'episodio si svolge dunque nell'oscurità ed è difficile percepire non solo l'identità dell'assalitore di Giacobbe, ma anche quale sia l'andamento della lotta. Leggendo il brano, risulta difficoltoso stabilire chi dei due contendenti riesca ad avere la meglio; i verbi utilizzati sono spesso senza soggetto esplicito, e le azioni si svolgono in modo quasi contraddittorio, così che quando si pensa che sia uno dei due a prevalere, l'azione successiva subito smentisce e presenta l'altro come vincitore. All'inizio, infatti, Giacobbe sembra essere il più forte, e l'avversario – dice il testo – «non riusciva a vincerlo» (v. 26); eppure colpisce Giacobbe all'articolazione del femore, provocandone la slogatura. Si dovrebbe allora pensare che Giacobbe debba soccombere, ma invece è l'altro a chiedergli di lasciarlo andare; e il Patriarca rifiuta, ponendo una condizione: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto» (v. 27). Colui che con l'inganno aveva defraudato il fratello della benedizione del primogenito, ora la pretende dallo sconosciuto, di cui forse comincia a intravedere i connotati divini, ma senza poterlo ancora veramente riconoscere.

Il rivale, che sembra trattenuto e dunque sconfitto da Giacobbe, invece di piegarsi alla richiesta del Patriarca, gli chiede il nome: "Come ti chiami?". E il Patriarca risponde: "Giacobbe" (v. 28). Qui la lotta subisce una svolta importante. Conoscere il nome di qualcuno, infatti, implica una sorta di potere sulla persona, perché il nome, nella mentalità biblica, contiene la realtà più profonda dell'individuo, ne svela il segreto e il destino. Conoscere il nome vuol dire allora conoscere la verità dell'altro e questo consente di poterlo dominare. Quando dunque, alla richiesta dello sconosciuto, Giacobbe rivela il proprio nome, si sta mettendo nelle mani del suo oppositore, è una forma di resa, di consegna totale di sé all'altro.

Ma in questo gesto di arrendersi anche Giacobbe paradossalmente risulta vincitore, perché riceve un nome nuovo, insieme al riconoscimento di vittoria da parte dell'avversario, che gli dice: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto» (v. 29). "Giacobbe" era un nome che richiamava l'origine problematica del Patriarca; in ebraico, infatti, ricorda il termine "calcagno", e rimanda il lettore al momento della nascita di Giacobbe, quando, uscendo dal grembo materno, teneva con la mano il calcagno del fratello gemello (cfr Gen 25,26), quasi prefigurando lo scavalcamento ai danni del fratello che avrebbe consumato in età adulta; ma il nome Giacobbe richiama anche il verbo "ingannare, soppiantare". Ebbene, ora, nella lotta, il Patriarca rivela al suo oppositore, in un gesto di consegna e di resa, la propria realtà di ingannatore, di soppiantatore; ma l'altro, che è Dio, trasforma questa realtà negativa in positiva: Giacobbe l'ingannatore diventa Israele, gli viene dato un nome nuovo che segna una nuova identità. Ma anche qui, il racconto mantiene la sua voluta duplicità, perché il significato più probabile del nome Israele è "Dio è forte, Dio vince".

Dunque Giacobbe ha prevalso, ha vinto - è l'avversario stesso ad affermarlo - ma la sua nuova identità, ricevuta dallo stesso avversario, afferma e testimonia la vittoria di Dio. E quando Giacobbe chiederà a sua volta il nome al suo contendente, questi rifiuterà di dirlo, ma si rivelerà in un gesto inequivocabile, donando la benedizione. Quella benedizione che il Patriarca aveva chiesto all'inizio della lotta gli viene ora concessa. E non è la benedizione ghermita con inganno, ma quella gratuitamente donata da Dio, che Giacobbe può ricevere perché ormai solo, senza protezione, senza astuzie e raggiri, si consegna inerme, accetta di arrendersi e confessa la verità su se stesso. Così, al termine della lotta, ricevuta la benedizione, il Patriarca può finalmente riconoscere l'altro, il Dio della benedizione: «Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva» (v. 31), e può ora attraversare il guado, portatore di un nome nuovo ma "vinto" da Dio e segnato per sempre, zoppicante per la ferita ricevuta.

Le spiegazioni che l'esegesi biblica può dare riguardo a questo brano sono molteplici; in particolare, gli studiosi riconoscono in esso intenti e componenti letterari di vario genere, come pure riferimenti a qualche racconto popolare. Ma quando questi elementi vengono assunti dagli autori sacri e inglobati nel racconto biblico, essi cambiano di significato e il testo si apre a dimensioni più ampie. L'episodio della lotta allo Yabboq si offre così al credente come testo paradigmatico in cui il popolo di Israele parla della propria origine e delinea i tratti di una particolare relazione tra Dio e l'uomo. Per questo, come affermato anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica, «la tradizione spirituale della Chiesa ha visto in questo racconto il simbolo della preghiera come combattimento della fede e vittoria della perseveranza» (n. 2573). Il testo biblico ci parla della lunga notte della ricerca di Dio, della lotta per conoscerne il nome e vederne il volto; è la notte della preghiera che con tenacia e perseveranza chiede a Dio la benedizione e un nome nuovo, una nuova realtà frutto di conversione e di perdono.

La notte di Giacobbe al guado dello Yabboq diventa così per il credente un punto di riferimento per capire la relazione con Dio che nella preghiera trova la sua massima espressione. La preghiera richiede fiducia, vicinanza, quasi in un corpo a corpo simbolico non con un Dio nemico, avversario, ma con un Signore benedicente che rimane sempre misterioso, che appare irraggiungibile. Per questo l'autore sacro utilizza il simbolo della lotta, che implica forza d'animo, perseveranza, tenacia nel raggiungere ciò che si desidera. E se l'oggetto del desiderio è il rapporto con Dio, la sua benedizione e il suo amore, allora la lotta non potrà che culminare nel dono di se stessi a Dio, nel riconoscere la propria debolezza, che vince proprio quando giunge a consegnarsi nelle mani misericordiose di Dio.

Cari fratelli e sorelle, tutta la nostra vita è come questa lunga notte di lotta e di preghiera, da consumare nel desiderio e nella richiesta di una benedizione di Dio che non può essere strappata o vinta contando sulle nostre forze, ma deve essere ricevuta con umiltà da Lui, come dono gratuito che permette, infine, di riconoscere il volto del Signore. E quando questo avviene, tutta la nostra realtà cambia, riceviamo un nome nuovo e la benedizione di Dio. E ancora di più: Giacobbe, che riceve un nome nuovo, diventa Israele, dà un nome nuovo anche al luogo in cui ha lottato con Dio, lo ha pregato; lo rinomina Penuel, che significa "Volto di Dio". Con questo nome riconosce quel luogo colmo della presenza del Signore, rende sacra quella terra imprimendovi quasi la memoria di quel misterioso incontro con Dio. Colui che si lascia benedire da Dio, si abbandona a Lui, si lascia trasformare da Lui, rende benedetto il mondo. Che il Signore ci aiuti a combattere la buona battaglia della fede (cfr 1Tm 6,12; 2Tm 4,7) e a chiedere, nella nostra preghiera, la sua benedizione, perché ci rinnovi nell'attesa di vedere il suo Volto. Grazie.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i rappresentanti dell'associazione "L'Ora di Gesù" della diocesi di Taranto, accompagnati dal loro Pastore Mons. Benigno Luigi Papa, e li incoraggio a proseguire con gioia nel loro cammino di fede, diventando sempre più testimoni coraggiosi al servizio della vita e della dignità umana. Saluto gli esponenti della comunità "Regina Pacis" di Verona, che celebrano il 25° anniversario di fondazione, e faccio voti che da questa fausta ricorrenza scaturisca un rinnovato ardore apostolico. Saluto i fedeli della parrocchia di San Pietro in Carolei e auspico che questo incontro possa apportare ricchi frutti spirituali alla comunità parrocchiale.

Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Ieri abbiamo celebrato la festa della Madonna venerata con il titolo di Maria Ausiliatrice. Maria aiuti voi, cari giovani, specialmente voi alunni della Scuola S. Vincenzo de' Paoli di Reggio Calabria, a rinsaldare ogni giorno la vostra fedeltà a Cristo. Ottenga conforto e serenità per voi, cari ammalati. Incoraggi voi, cari sposi novelli, a tradurre nella vita quotidiana il comandamento dell'amore.

[© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana]


 


 

Giacobbe, una notte di lotta e di preghiera di Massimo Introvigne, 25-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it


 

Il 25 maggio, continuando la sua «scuola della preghiera» del mercoledì, Benedetto XVI ha presentato - dopo quello della settimana scorsa di Abramo che tenta d'intercedere per Sodoma - un nuovo «brano di non facile interpretazione» nella storia dei modi di pregare dell'Antico Testamento. Ma, spiega il Papa, sono proprio i brani difficili a introdurci nel mistero della preghiera.


 

Il brano è quello del Libro della Genesi che narra la lotta di Giacobbe con Dio al guado dello Yabboq. L'antefatto è forse più noto: Giacobbe, figlio di Isacco, si fa cedere dal fratello gemello Esaù la primogenitura per un piatto di lenticchie e si fa poi benedire dal padre, vecchio e cieco, con un sotterfugio. Per sottrarsi all'ira di Esaù, Giacobbe si rifugia presso il parente Labano: lì si sposa e diventa ricco. Sentendosi infine abbastanza forte, torna nella terra natale pronto ad affrontare il fratello. Ma, dopo avere fatto guadare ai suoi il torrente che segna il confine del territorio di Esaù, è aggredito da uno sconosciuto, con cui deve lottare tutta la notte.


 

«Proprio questo combattimento corpo a corpo - che troviamo nel capitolo 32 del Libro della Genesi - diventa per lui una singolare esperienza di Dio». «La notte - commenta il Papa - è il tempo favorevole per agire nel nascondimento, il tempo, dunque, migliore per Giacobbe, per entrare nel territorio del fratello senza essere visto e forse con l'illusione di prendere Esaù alla sprovvista. Ma è invece lui che viene sorpreso da un attacco imprevisto, per il quale non era preparato. Aveva usato la sua astuzia per tentare di sottrarsi a una situazione pericolosa, pensava di riuscire ad avere tutto sotto controllo, e invece si trova ora ad affrontare una lotta misteriosa che lo coglie nella solitudine e senza dargli la possibilità di organizzare una difesa adeguata. Inerme, nella notte, il Patriarca Giacobbe combatte con qualcuno».


 

Dopo avere così apprezzato la qualità anche letteraria del brano biblico, il Pontefice precisa che «il testo non specifica l'identità dell'aggressore; usa un termine ebraico che indica "un uomo" in modo generico, "uno, qualcuno"; si tratta, quindi, di una definizione vaga, indeterminata, che volutamente mantiene l'assalitore nel mistero. È buio, Giacobbe non riesce a vedere distintamente il suo contendente e anche per il lettore, per noi, esso rimane ignoto; qualcuno sta opponendosi al Patriarca, è questo l'unico dato certo fornito dal narratore. Solo alla fine, quando la lotta sarà ormai terminata e quel "qualcuno" sarà sparito, solo allora Giacobbe lo nominerà e potrà dire di aver lottato con Dio».


 

Per il lettore «l'episodio si svolge dunque nell'oscurità ed è difficile percepire non solo l'identità dell'assalitore di Giacobbe, ma anche quale sia l'andamento della lotta. Leggendo il brano, risulta difficoltoso stabilire chi dei due contendenti riesca ad avere la meglio; i verbi utilizzati sono spesso senza soggetto esplicito, e le azioni si svolgono in modo quasi contraddittorio, così che quando si pensa che sia uno dei due a prevalere, l'azione successiva subito smentisce e presenta l'altro come vincitore». Quando è Giacobbe a mostrarsi più forte, chiede all'avversario una benedizione: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto» (v. 27). Giacobbe, nota Benedetto XVI, «che con l'inganno aveva defraudato il fratello della benedizione del primogenito, ora la pretende dallo sconosciuto, di cui forse comincia a intravedere i connotati divini, ma senza poterlo ancora veramente riconoscere».


 

Ma come risponde lo sconosciuto? In modo apparentemente singolare, cambia discorso e chiede a Giacobbe di dire il suo nome. Ma proprio qui «la lotta subisce una svolta importante. Conoscere il nome di qualcuno, infatti, implica una sorta di potere sulla persona, perché il nome, nella mentalità biblica, contiene la realtà più profonda dell'individuo, ne svela il segreto e il destino. Conoscere il nome vuol dire allora conoscere la verità dell'altro e questo consente di poterlo dominare». Quando dunque, acconsentendo alla richiesta dello sconosciuto, Giacobbe pronuncia il proprio nome, mentre sembra che stia vincendo in realtà «si sta mettendo nelle mani del suo oppositore, è una forma di resa, di consegna totale di sé all'altro».


 

Ma le cose sono più complicate: «in questo gesto di arrendersi anche Giacobbe paradossalmente risulta vincitore, perché riceve un nome nuovo, insieme al riconoscimento di vittoria da parte dell'avversario, che gli dice: "Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto" (v. 29)». Le questioni di nomi nella cultura ebraica sono sempre molto importanti. «"Giacobbe" era un nome che richiamava l'origine problematica del Patriarca; in ebraico, infatti, ricorda il termine "calcagno", e rimanda il lettore al momento della nascita di Giacobbe, quando, uscendo dal grembo materno, teneva con la mano il calcagno del fratello gemello (cfr Gen 25,26), quasi prefigurando lo scavalcamento ai danni del fratello che avrebbe consumato in età adulta; ma il nome Giacobbe richiama anche il verbo "ingannare, soppiantare". Ebbene, ora, nella lotta, il Patriarca rivela al suo oppositore, in un gesto di consegna e di resa, la propria realtà di ingannatore, di soppiantatore; ma l'altro, che è Dio, trasforma questa realtà negativa in positiva: Giacobbe l'ingannatore diventa Israele, gli viene dato un nome nuovo che segna una nuova identità».


 

Non dobbiamo credere, naturalmente, che Giacobbe vincendo abbia sconfitto Dio. Al contrario «il racconto mantiene la sua voluta duplicità, perché il significato più probabile del nome Israele è "Dio è forte, Dio vince"». Dunque «Giacobbe ha prevalso, ha vinto - è l'avversario stesso ad affermarlo - ma la sua nuova identità, ricevuta dallo stesso avversario, afferma e testimonia la vittoria di Dio».

Quando Giacobbe chiede a sua volta il nome al suo contendente, questi rifiuta di dirlo, ma alla fine «si rivelerà in un gesto inequivocabile, donando la benedizione. Quella benedizione che il Patriarca aveva chiesto all'inizio della lotta gli viene ora concessa. E non è la benedizione ghermita con inganno, ma quella gratuitamente donata da Dio, che Giacobbe può ricevere perché ormai solo, senza protezione, senza astuzie e raggiri, si consegna inerme, accetta di arrendersi e confessa la verità su se stesso».


 

Così, al termine della notte, dopo avere ricevuto la benedizione, Giacobbe «può finalmente riconoscere l'altro, il Dio della benedizione: "Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva" (v. 31), e può ora attraversare il guado, portatore di un nome nuovo ma "vinto" da Dio e segnato per sempre, zoppicante per la ferita ricevuta».


 

Sappiamo che questo brano è molto importante per gli Ebrei: di qui inizia la storia e il nome stesso d'Israele, e «l'episodio della lotta allo Yabboq si offre così al credente come testo paradigmatico in cui il popolo di Israele parla della propria origine». Ma che cosa insegna a dei cristiani che vogliono percorrere con il Papa l'itinerario di una «scuola della preghiera»? Un'analisi meramente scientifica, ci dice Benedetto XVI, per quanto utile non è sufficiente. «Le spiegazioni che l'esegesi biblica può dare riguardo a questo brano sono molteplici; in particolare, gli studiosi riconoscono in esso intenti e componenti letterari di vario genere, come pure riferimenti a qualche racconto popolare. Ma quando questi elementi vengono assunti dagli autori sacri e inglobati nel racconto biblico, essi cambiano di significato e il testo si apre a dimensioni più ampie».


 

È importante notare che anche il Catechismo della Chiesa Cattolica si occupa specificamente di questo brano, affermando che «la tradizione spirituale della Chiesa ha visto in questo racconto il simbolo della preghiera come combattimento della fede e vittoria della perseveranza» (n. 2573). «Il testo biblico - aggiunge Benedetto XVI - ci parla della lunga notte della ricerca di Dio, della lotta per conoscerne il nome e vederne il volto; è la notte della preghiera che con tenacia e perseveranza chiede a Dio la benedizione e un nome nuovo, una nuova realtà frutto di conversione e di perdono».

La misteriosa avventura notturna di Giacobbe «diventa così per il credente un punto di riferimento per capire la relazione con Dio che nella preghiera trova la sua massima espressione. La preghiera richiede fiducia, vicinanza, quasi in un corpo a corpo simbolico non con un Dio nemico, avversario, ma con un Signore benedicente che rimane sempre misterioso, che appare irraggiungibile.


 

Per questo l'autore sacro utilizza il simbolo della lotta, che implica forza d'animo, perseveranza, tenacia nel raggiungere ciò che si desidera. E se l'oggetto del desiderio è il rapporto con Dio, la sua benedizione e il suo amore, allora la lotta non potrà che culminare nel dono di se stessi a Dio, nel riconoscere la propria debolezza, che vince proprio quando giunge a consegnarsi nelle mani misericordiose di Dio».


 

Nella sua interpretazione ultima, la notte di Giacobbe altro non è che la vita del credente. Afferma il Papa che «tutta la nostra vita è come questa lunga notte di lotta e di preghiera, da consumare nel desiderio e nella richiesta di una benedizione di Dio che non può essere strappata o vinta contando sulle nostre forze, ma deve essere ricevuta con umiltà da Lui, come dono gratuito che permette, infine, di riconoscere il volto del Signore. E quando questo avviene, tutta la nostra realtà cambia, riceviamo un nome nuovo e la benedizione di Dio».


 

Nel brano biblico c'è però anche un altro elemento, c'è «ancora di più: Giacobbe, che riceve un nome nuovo, diventa Israele, dà un nome nuovo anche al luogo in cui ha lottato con Dio, lo ha pregato; lo rinomina Penuel, che significa "Volto di Dio". Con questo nome riconosce quel luogo colmo della presenza del Signore, rende sacra quella terra imprimendovi quasi la memoria di quel misterioso incontro con Dio». Come l'avventura di Giacobbe, così anche la preghiera non è mai solo un'esperienza individuale, ma è implicitamente anche sociale e perfino politica. «Colui che si lascia benedire da Dio, si abbandona a Lui, si lascia trasformare da Lui, rende benedetto il mondo».


 


 

Il bimbo che si sceglierà il sesso da solo di Rino Cammilleri, 26-05-2011, http://www.labussolaquotidiana.it


 

La notizia è questa: una coppia di Toronto ha avuto un terzo figlio e, viste le tendenze degli altri due, ha deciso di non dichiararne il sesso. Anzi, di non farlo sapere nemmeno all'interessato, il quale sceglierà da sé se essere maschio o femmina o altro.


 

Leggo su BlitzQuotidiano che, stando ai genitori, i «preconcetti» potrebbero «solo turbarlo». Per la cronaca: i due parents si chiamano Kathy e David, il pargolo Storm [nella foto]. Che significa «temporale». Già la scelta del nome è indicativa della fantasia familiare. Ma c'è da capirli, Kathy e David: hanno già due figli, Jazz e Kio (la fantasia al potere!), che hanno avuto l'intempestività di dichiarare maschi. Solo che i due, rispettivamente 5 e 2 anni, mostrano di amare il rosa, le bambole e le gonne di mammà. Così, il terzo farà da sé. I genitori, stufi di stare un apprensione, hanno deciso di far decidere lui, quando sarà «pronto».


 

D'altra parte, siamo in tempi politicamente corretti di dittatura del relativismo. E ogni dittatura è come Baal, vuole il sacrificio dei neonati («Il cielo, svuotato di Dio, torna a riempirsi di idoli», diceva Gilbert K. Chesterton). Quanti bambini sono stati chiamati Uliano o Adolfo? Ogni dittatura ha i suoi komsomol e hitlerjugend, guardie rosse e pionieri. Oggi la tolleranza per i diversi è diventata, come regolarmente previsto, promozione della diversità. E fosse davvero diversità! Invece è piattume conformistico. Tutti uguali, tutti unisex. E per forza pure.


 

Ma il povero Storm è stato fregato. Già, perché quel nome non l'ha mica scelto lui. Nemmeno ha scelto i suoi genitori e i suoi fratelli. Non ha nemmeno scelto di nascere in Canada e ai nostri giorni. Forse da grande formerà con i fratelli/sorelle un trio, tipo le nostre Sorelle Bandiera: «Jazz, Storm e Kio», che avrà un avvenire assicurato nei locali per drag-queen. O forse, cresciuto, manderà al diavolo quelli che lo hanno messo al mondo senza prima consultarlo.


 

L'anno scorso l'American College of Pediatricians (ACP) ha diffuso i risultati di studi che hanno determinato inconfutabilmente che il desiderio dei preadolescenti di essere del sesso opposto è uno stadio del tutto normale e temporaneo. Già, ma i coniugi Stocker forse non leggono questo tipo di studi. Forse guardano solo la televisione. E non sanno nemmeno che proprio un loro connazionale, Marshall McLuhan, raccomandava di «staccare la spina». No, non lo sanno. E figurarsi se conoscono il mito di Achille. Lo ricordiamo ai nostri lettori: Achille era figlio di Peleo e della ninfa Teti, la quale previde come sarebbe morto. Peleo, per sicurezza, affidò il piccolo a un re suo amico che aveva solo figlie femmine e lo pregò di allevarlo come loro. Achille, dunque, crebbe vestito da femmina e tra i giochi femminili. Quando fu ora di reclutare guerrieri per la guerra di Troia, il furbo Ulisse si presentò con un baule di doni. Tutti femminili. Tranne una spada, che era sul fondo. Poi aspettò di vedere quale tra le «fanciulle» sarebbe stata attratta dall'arma. Fu così che scovò Achille.


 

Morale: «Anche i bambini con un Disordine di Identità di Genere (quando un bambino vorrebbe essere del sesso opposto) perderanno questo desiderio con la pubertà, se il comportamento non viene rafforzato». Così dice l'ACP. Qualcuno spedisca a quei genitori canadesi un'edizione illustrata dell'Iliade. Prima che di loro si impadroniscano i talkshow (perché è a questo che, con tutta evidenza, mirano)


 


 

L'abuso dei diritti umani di Roberto Fontolan, giovedì 26 maggio 2011, il sussidiario.net


 

Diritti umani. Quando si tirano in ballo i diritti umani ogni discussione si spegne. E anche analisi serene paiono impossibili. Chi vuole essere considerato un nemico dell'umanità? Qualcuno pensa che non sia il caso di difendere la salute delle donne o di proteggere i bambini? Fino ad ora solo alcuni avveduti studiosi hanno osato rompere la superficie della convinzione generale e generica per scandagliare il sottosuolo e scoprire infine verità sconosciute o occultate o semplicemente ignorate.


 

Ad esempio, in moltissimi programmi delle agenzie internazionali il concetto di salute delle donne "contiene" il controllo delle nascite che a sua volta prevede l'interruzione della gravidanza. Beninteso non si tratta solo di questo, poiché molte delle azioni previste sono serissime, ma anche di questo. I vari aspetti sono però intrecciati e dunque è quasi impossibile separare gli uni dagli altri, come ben sanno coloro che lavorano nei grandi organismi mondiali.


 

Qualcuno ha analizzato quello che implica il cambiamento del lessico: individuo ha sostituito persona, varie combinazioni ("insieme di affetti") hanno preso il posto di famiglia, non si parla più di sesso ma di genere e così via. Non sono cambiamenti innocui. E tutti operati in nome dei diritti umani. Un principio multiuso, brandito per bombardare la Libia (non la Siria, però), protestare contro la persecuzione dei cristiani in Oriente, criticare l'Italia per la politica dei respingimenti dei clandestini (praticamente cancellata dagli effetti delle rivoluzioni nordafricane). Serve a tutto, sicuramente a troppo. Ora però anche un'autorevole tribuna internazionale, il settimanale britannico-globale Economist, diffonde un sospetto: non è che stiamo impazzendo per eccesso di diritti umani?


 

In loro nome in Francia vengono "ignorate" pratiche poligamiche e di mutilazione genitale presenti in certe comunità di immigrati. Dal punto di vista della persona sarebbero reati, ma dal punto di vista del gruppo e della sua cultura le idee sono meno chiare, e dunque anche la giustizia è più confusa. In Gran Bretagna si accetta che in alcuni ambiti della vita comunitaria islamica si giudichi secondo la sharia. E in Canada si è arrivati a un vero paradosso: i pescatori appartenenti alle tribù indiane native possono godere di una serie di privilegi che hanno portato i pescatori "individuali" bianchi a fare causa allo Stato non solo per concorrenza sleale, ma anche per normative "razziste". Ormai creano più problemi che vantaggi anche le normative diffuse, soprattutto negli Stati Uniti, sotto il nome di Affirmative Action, nate per tutelare i neri e oggi diventate per molti uno strumento di privilegi, con i loro programmi di reclutamento mirato, quote e trattamenti preferenziali.


 

Per non parlare del caos prodotto in Spagna dal corpus legislativo in campo "morale" imposto da Zapatero (e che ispira parti del programma dei candidati sindaci Pisapia e De Magistris). Il giornale guarda con preoccupazione al fenomeno di gruppi e comunità di ogni genere e di ogni scopo che assediano le corti di giustizia e i parlamenti di ogni Paese occidentale (e tutte le sedi di organismi mondiali) per chiedere, reclamare, ottenere e sempre agitando la bandiera dei diritti umani. Difficile districare la questione, perché certamente la libertà religiosa da assicurare ai cristiani in certi Paesi è parte integrante e fondamentale della nozione dei diritti umani. Ma per quel che riguarda i sistemi occidentali stiamo correndo il rischio di sgretolare il pilastro della nostra vita civile: l'uguaglianza del singolo davanti alla legge. Lobby, associazioni e congreghe esigono di essere "più uguali" del cittadino comune. E non devono nemmeno sforzarsi di argomentarlo, basta pronunciare le parole magiche.

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LETTURE/ Se il Diavolo su una panchina a Mosca parla di Gesù...

Martino Sartori


 


 

giovedì 26 maggio 2011


 

Molti libri hanno trame e storie avvincenti da seguire tutto d'un fiato. Se lo scrittore in più è russo ci si aspetta che la storia sia magari più lunga del solito, piena di dettagli. Per questo una volta iniziato Il maestro e Margherita di Bulgakov si rimane in un primo tempo spiazzati, cercando di capire perché il Diavolo incarnato stia cercando di convincere su una panchina nella Mosca degli anni venti due distinti uomini di cultura dell'esistenza di Gesù. E perché il secondo capitolo tratti di Ponzio Pilato protagonista del romanzo scritto dal Maestro, uomo di cui la bellissima Margherita è innamorata. Se si cerca una connessione tranquillamente logica alle tre storie intrecciate si rimane delusi.

Ma dietro la patina carnevalesca e illogica si celano tematiche forti, infatti verrà pubblicato postumo. Prima fra tutte la critica al regime stalinista e alla burocrazia russa, sempre messa sotto sopra dal diavolo Woland. Bulgakov ha ben presente l'imprevedibilità dell'essere umano, del suo destino ultimo mentre l'ideologia del regime in cui vive vuole e crede nell'opposto. Nel libro si vede per esempio quando dopo aver ricordato l'avvento storico di Gesù il diavolo preannuncia la morte al poeta ateo Berlioz, poco dopo schiacciato dal tram, per fargli capire che non decide lui della sua vita. Neanche cosa avrebbe fatto la sera stessa.

Nel romanzo si intrecciano due piani : quello della Russia contemporanea, sconvolta dall'avvento del Male, e quello di Gerusalemme ai tempi di Pilato, la prima con i suoi diavoli, la seconda con Gesù e la crocifissione. Ma cosa resta dopo l'intricato e bellissimo arabesco tessuto da Bulgakov? Emerge in questi fili che gli esseri viventi sono una misteriosa unità, una compenetrazione, incontro di tempi e spazi diversi che lo scrittore sembra sfumare fino a far coincidere. Così che nulla di quello che avviene sulla terra è mai separato da quello che avviene fra le stelle.

Quello che più stupisce di questo libro è che nell'unirsi e mischiarsi di elementi fantastici e realtà storiche Bulgakov riesce a far affiorare prepotentemente la dinamica umana che ritiene più importante: il desiderio. Infatti è l'amore che spinge Margherita a diventare strega. Ed è sempre la voglia di andare oltre che emerge nella scena conclusiva del romanzo: "Sono quasi due millenni che sta qua su questa spianata e dorme, ma quando vede la luna piena, come vede, l'insonnia lo strazia. (...) Cosa sta dicendo? chiese Margherita e il suo volto completamente tranquillo si coprì di un velo di compassione. Dice che anche con la luna per lui non c'è pace e che brutto è il suo mestiere. Così dice sempre quando dorme, e quando dorme vede una cosa sola: una strada illuminata dalla luna, ed egli vuole percorrerla per parlare con l'arrestato Ha-Nozri perché, afferma, c'è qualcosa che non ha finito di dire allora, tanto tempo fa, il quattordici primaverile del mese di Nisan".

Buona lettura.

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LETTURE/ Se il Diavolo su una panchina a Mosca parla di Gesù... di Martino Sartori, il sussidiario.net - giovedì 26 maggio 2011


 

Molti libri hanno trame e storie avvincenti da seguire tutto d'un fiato. Se lo scrittore in più è russo ci si aspetta che la storia sia magari più lunga del solito, piena di dettagli. Per questo una volta iniziato Il maestro e Margherita di Bulgakov si rimane in un primo tempo spiazzati, cercando di capire perché il Diavolo incarnato stia cercando di convincere su una panchina nella Mosca degli anni venti due distinti uomini di cultura dell'esistenza di Gesù. E perché il secondo capitolo tratti di Ponzio Pilato protagonista del romanzo scritto dal Maestro, uomo di cui la bellissima Margherita è innamorata. Se si cerca una connessione tranquillamente logica alle tre storie intrecciate si rimane delusi.

Ma dietro la patina carnevalesca e illogica si celano tematiche forti, infatti verrà pubblicato postumo. Prima fra tutte la critica al regime stalinista e alla burocrazia russa, sempre messa sotto sopra dal diavolo Woland. Bulgakov ha ben presente l'imprevedibilità dell'essere umano, del suo destino ultimo mentre l'ideologia del regime in cui vive vuole e crede nell'opposto. Nel libro si vede per esempio quando dopo aver ricordato l'avvento storico di Gesù il diavolo preannuncia la morte al poeta ateo Berlioz, poco dopo schiacciato dal tram, per fargli capire che non decide lui della sua vita. Neanche cosa avrebbe fatto la sera stessa.

Nel romanzo si intrecciano due piani : quello della Russia contemporanea, sconvolta dall'avvento del Male, e quello di Gerusalemme ai tempi di Pilato, la prima con i suoi diavoli, la seconda con Gesù e la crocifissione. Ma cosa resta dopo l'intricato e bellissimo arabesco tessuto da Bulgakov? Emerge in questi fili che gli esseri viventi sono una misteriosa unità, una compenetrazione, incontro di tempi e spazi diversi che lo scrittore sembra sfumare fino a far coincidere. Così che nulla di quello che avviene sulla terra è mai separato da quello che avviene fra le stelle.

Quello che più stupisce di questo libro è che nell'unirsi e mischiarsi di elementi fantastici e realtà storiche Bulgakov riesce a far affiorare prepotentemente la dinamica umana che ritiene più importante: il desiderio. Infatti è l'amore che spinge Margherita a diventare strega. Ed è sempre la voglia di andare oltre che emerge nella scena conclusiva del romanzo: "Sono quasi due millenni che sta qua su questa spianata e dorme, ma quando vede la luna piena, come vede, l'insonnia lo strazia. (...) Cosa sta dicendo? chiese Margherita e il suo volto completamente tranquillo si coprì di un velo di compassione. Dice che anche con la luna per lui non c'è pace e che brutto è il suo mestiere. Così dice sempre quando dorme, e quando dorme vede una cosa sola: una strada illuminata dalla luna, ed egli vuole percorrerla per parlare con l'arrestato Ha-Nozri perché, afferma, c'è qualcosa che non ha finito di dire allora, tanto tempo fa, il quattordici primaverile del mese di Nisan".

Buona lettura.

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Pedofili salesiani, e fieri di esserlo - Di Rassegna Stampa - 25/05/2011 - Attualità – da http://www.libertaepersona.org


 

Dopo il caso di don Seppia di Sestri Ponente accusato (in ordine crescente, ai nostri occhi, di gravità delle colpe), di spaccio di cocaina, pedofilia e satanismo, pensavamo di non poterci più stupire di nulla. E invece, dall'Olanda ci arriva fresca fresca la notizia, (via il Daily Mail) che un salesiano di 73 anni, del quale sono trapelate solo le iniziali (Padre van B.) è membro attivo e militante di un'associazione che propugna la liberalizzazione della pedofilia e la depenalizzazione dei rapporti sessuali con minorenni, di qualunque (bassa) età. Da noi i membri di una simile associazione finirebbero incriminati per apologia di reato; ma l'Olanda, si sa, è liberale e gli appartenenti a consimili associazioni possono tranquillamente fare lobbying e propaganda affinché il crimine che a loro piace tanto sia accettato dalla società, senza ostacoli legali. E in fondo, la cosa non è del tutto velleitaria: se ci sono riusciti con l'aborto, perché non con la pedofilia, che quanto meno non sopprime (di solito...) vite umane?


 

Così, il nostro Padre van B. non corre alcun rischio legale a stare nel consiglio direttivo dell'associazione pro-pedofilia; almeno finché non sia scoperto mettere in pratica il comportamento per la cui liceità si batte; incidente, per inciso, capitato al presidente della medesima associazione, finito nei guai per detenzione di materiale pedopornografico. E anche il Padre van B. ha avuto problemi giudiziari, per due volte, per atti osceni. Ma fin qui, abbiamo null'altro (si fa per dire!) che un nuovo caso di abiezione clericale. Ma la cosa che davvero lascia di princisbecco è la reazione del Salesiano-capo per l'Olanda (a quanto comprendiamo, Delegato per l'Olanda dal Provinciale che sta in Belgio), Padre Herman Spronck, che vedete raffigurato nella foto qui sopra, scattata il giorno del suo 40° giubileo sacerdotale.


 

In un'intervista rilasciata l'altroieri a rtl.nl, dapprima P. Spronck ammette di essere da tempo a conoscenza del fatto che il confratello van B. era membro dell'associazione filo-pedofila, come pure sapeva bene che aveva subito due condanne per atti osceni; ma aggiunge che, come Superiore, non ha ritenuto affatto che ciò dovesse portare alla sua espulsione dall'Ordine, non trattandosi di atti gravi come, ad esempio, uno stupro. Nemmeno, aggiunge, aveva ritenuto, almeno fino all'ultimo incidente nel 2007, che ciò fosse motivo per escluderlo dall'apostolato a contatto con i più giovani... Ma se questo non vi basta ancora, ecco la parte clou dell'intervista, che traduciamo:


 

- Che cosa pensa delle relazioni sessuali tra adulti e bambini [sic: "kinderen"], andrebbero consentite?


 

P. Spronck: Ci sono naturalmente alcune norme sociali alle quali tutti dovrebbero attenersi. Ma ci si può chiedere se esse non siano troppo strette. Formalmente [sic: "formeel"] dirò sempre che ognuno deve rispettare la legge. Ma simili relazioni non sono necessariamente dannose.


 

- Lei pensa che relazioni tra adulti e bambini non sono necessariamente dannose? P. Spronck: Le faccio un esempio di ciò. Sono stato una volta avvicinato da un ragazzo di 14 anni che aveva una relazione con un religioso più anziano. La cosa non era più consentita e il ragazzo ne era davvero scosso, persino ferito. Diceva: "Padre Herman, ma perché volete proibirlo?". Bene, che cosa diresti a un ragazzo così?


 

- Dunque, queste relazioni tra adulti e bambini dovrebbero essere consentite?


 

Personalmente, non condanno a priori ["per definitie"] le relazioni tra adulti e bambini. Conosce Foucault? E' un filosofo. Conosce i suoi scritti? No? Forse dovrebbe leggerli, specialmente l'introduzione alla Parte Quarta. Dipende dal bambino. Non dovremmo considerare l'età così rigidamente. Non si dovrebbe mai violare la sfera personale di un bambino se il bambino non lo desidera, ma quello ha a che fare col bambino stesso. Ci sono anche bambini che, loro stessi, indicano che si può fare. Il contatto sessuale è allora possibile.


 

Nei giorni scorsi è stato pubblicato sul New York Times un rapporto statistico che ricollega gli abusi sessuali nella Chiesa al clima di rilassatezza morale e al permissivismo (e, aggiungiamo noi, alla "medicina della misericordia" che vietava di ricorrere a sanzioni canoniche), tipici degli anni Sessanta e Settanta, e poi in seguito decrescente. Ricorderete anche il molto ufficiale catechismo edito negli anni Novanta dalla conferenza episcopale belga (card. Danneels in testa), con l'immagine della bambinetta nuda che dice: "Stimolarmi la patatina mi fa sentire bene"; "Mi piace togliermi le mutande con gli amici"; "Voglio restare nella camera quando mamma e papà fanno sesso":


 

E allora lo voglio proprio dire chiaro e forte, acceso come sono di disgusto e indignazione alla lettura di questa intervista ad un alto papavero, tuttora in carica, dell'Ordine che fu di don Bosco: j'accuse il Concilio Vaticano II, e tutto lo schifo che ne è seguito, se la Chiesa è una barca che fa acqua da tutte le parti, popolata da tristi figuri come questi indegni religiosi. Perché anche ammesso che specifici fatti accadessero pure prima, l'ambiente generale nei conventi non era certo così marcio e il colpevole mai avrebbe potuto pensare di trovare la complicità e la connivenza dei superiori. Ora invece sì, e questo olandese non è il primo caso che rivela come certe province religiose fossero poco più che associazioni per delinquere a scopo di abuso sessuale. E me ne strafrego se sia colpa del Concilio, del Postconcilio, dell'Ermeneutica sbagliata e così via: è ovvio che i Padri conciliari, il beato Giovanni XXIII e Paolo VI sarebbero inorriditi vedendo dove saremmo arrivati. Ma è proprio a questo che essi ci hanno, seppur involontariamente, portato! Enrico (fonte: blog.messainlatino.it)


 


 

Prevenzione, cura e assistenza pastorale delle vittime dell'Aids - L'uomo malato via speciale della Chiesa di RENATO SALVATORE Superiore generale dei Chierici Regolari Ministri degli Infermi (©L'Osservatore Romano 26 maggio 2011)


 

Le pagine dei Vangeli ci mostrano la tenera misericordia di Gesù verso le persone "malate" nel corpo, nello spirito, nelle relazioni sociali. Per costoro ha parole e atteggiamenti che esprimono compassione, comprensione, perdono, accoglienza e si trasformano, frequentemente, in "segni" potenti. Lui, visibile manifestazione dell'infinito amore del Padre, non è venuto solo per salvare le "anime" ma a offrire a ogni persona la "vita piena", in tutte le sue dimensioni (spirituale, psicologica, fisica, relazionale). Ha congiunto così in modo inscindibile non solo i concetti, ma la stessa vera e definitiva realizzazione della salute e della salvezza: in Lui ci viene donata una "salvezza salutare" e una "salute salvifica". La Chiesa cattolica, per non tradire il mandato di Gesù Cristo, deve prendersi cura dei malati, affetti da qualsiasi malattia e senza alcuna discriminazione; l'unica particolarità è una speciale attenzione per i più poveri. Inoltre, in quanto corpo mistico di Cristo e quale comunità da Lui sanata, diviene a sua volta sanante, ossia strumento di salvezza e di salute.

La non separazione dell'annuncio del Vangelo dalla cura dei malati si fonda sia sull'esempio di Gesù che sul comando del Risorto di andare in tutto il mondo a predicare il Vangelo e a curare i malati. La certezza che Gesù continua a essere presente nei malati ha sollecitato, nella lunga storia della Chiesa, tantissimi cristiani a scrivere meravigliose - e non poche volte eroiche - pagine di carità verso i malati. La fattiva e costante attività della Chiesa, nei secoli, in favore dei malati non è da interpretare soltanto o primariamente come la risposta a bisogni sociali, ma come fedeltà al mandato di Cristo: "E strada facendo predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni" (Matteo, 10, 8).

"Il concilio Vaticano II raccomanda ai vescovi di circondare "di una carità paterna gli ammalati" (Christus Dominus, n. 30); ai sacerdoti di avere "cura dei malati e dei moribondi, visitandoli e confortandoli nel Signore" (Presbyterorum ordinis, n. 6); ai religiosi di esercitare "al massimo grado" il ministero de'lla riconciliazione in loro favore e di mantenere la fedeltà al carisma della misericordia verso gli ammalati (cfr. Presbyterorum ordinis, n. 10); ai laici di "praticare la misericordia verso i poveri e gli infermi", ricordando che la carità cristiana deve cercarli e trovarli, consolarli con premurosa cura e sollevarli porgendo loro aiuto (cfr. Apostolicam actuositatem, n. 8). Nella comunità cristiana, pertanto, tutti sono invitati a sentirsi veri protagonisti, anche il malato, che non è considerato soltanto "come termine dell'amore e del servizio della Chiesa, bensì come soggetto attivo e responsabile"" (Christifideles laici, n. 54).

In questi ultimi tempi, a testimonianza della premura della Chiesa per il mondo della malattia e della sofferenza, va segnalata in particolare la Lettera apostolica Salvifici doloris (11 febbraio 1984), che costituisce un testo fondamentale per interpretare il problema della sofferenza e del suo senso salvifico. Inoltre, l'istituzione da parte di Giovanni Paolo II del Pontificio Consiglio per la pastorale degli operatori sanitari (11 febbraio 1985) costituisce lo strumento per la Chiesa per operare a livello mondiale un coordinamento di tutte le istituzioni cattoliche impegnate nella pastorale dei malati e degli operatori sanitari. Non meno significativa, la "Giornata mondiale del malato", istituita il 13 maggio 1992 e da celebrarsi l'11 febbraio con "lo scopo manifesto di sensibilizzare il popolo di Dio e, di conseguenza, le molteplici istituzioni sanitarie cattoliche e la stessa società civile".

Numerosi, poi, sono i documenti che riaffermano la convinzione secondo la quale "l'uomo sofferente è via della Chiesa perché egli è, anzitutto, via di Cristo stesso, il buon samaritano che "non passa oltre", ma "ne ha compassione, si fa vicino (...), gli fascia le ferite (...), si prende cura di lui" (Christifideles laici, n. 53). Ci si può comunque domandare quale incidenza hanno avuto questi insegnamenti sulla vita della Chiesa e, in concreto, sul comportamento dei cristiani verso i malati di Hiv/Aids.

La Chiesa si è attivata prontamente sin dal sorgere dell'epidemia e, in questi decenni, ha saputo corrispondere positivamente alla sua evoluzione. Si può riassumere l'attività della Chiesa in favore dei malati di Hiv/Aids in tre grandi ambiti: la prevenzione, la cura e l'assistenza pastorale. La gravità di questa malattia e l'attuale impossibilità di una vaccinazione spingono a investire in modo notevole sulla sua prevenzione. Non è facile trovare un accordo sugli ambiti da ritenere strategici: molto dipende dalla visione della persona e dalla profondità nella quale si desidera incidere nella lotta contro le cause dell'espansione dell'epidemia. La Chiesa pone in campo iniziative in consonanza con la sua visione dell'uomo. In verità, chi meglio conosce l'uomo è nelle condizioni per dare le "indicazioni" ottimali per il raggiungimento delle finalità umane più profonde. Gesù Cristo, rivelandoci il Padre e se stesso, rivela agli uomini la loro identità e i modi per potervi corrispondere secondo l'incomparabile dignità a essi riconosciuta.

Un ruolo di primaria importanza svolge, pertanto, la formazione delle persone, in particolare nella valorizzazione della corporeità come elemento espressivo dell'uomo e quindi anche nell'educazione al vero amore e all'uso in tal senso della sessualità, riaffermando conseguentemente il ruolo essenziale del matrimonio e della famiglia. Se si vuole attuare una vera ed efficace prevenzione occorre pertanto educare le persone a modificare il loro atteggiamento sessuale, che costituisce uno dei principali fattori responsabili della diffusione dell'infezione. Non si può negare che un'educazione all'amore e alle sue diverse espressioni anche sessuali comporta, come uno dei suoi cardini fondamentali, la valorizzazione della fedeltà; non solo come elemento proprio dell'amore coniugale, ma anche per il bene della prole, che in gran parte porta il peso innocente di distorti esercizi della sessualità.

Insieme a questi ambiti, molteplici sono i fattori che possono favorire l'insorgere, la diffusione del virus oppure rendere difficile la lotta contro di esso. Fra questi meritano di essere attentamente considerati il contesto sociale, economico e politico. Una credibile prevenzione, che non si ferma ai livelli epidemiologici, deve spingersi fino a questi livelli dove è possibile rinvenire alcune serie problematiche che affliggono molte popolazioni (povertà, analfabetismo, disoccupazione, guerre civili, emarginazione, discriminazione). In quest'aerea la Chiesa si prodiga molto con una capillare opera di sensibilizzazione affinché tutti si assumano la loro parte di responsabilità: dai governanti, agli amministratori, fino ai malati stessi. Tutto ciò, sia erogando servizi con strutture proprie sia mediante la lotta per una maggiore giustizia e solidarietà: i dati confermano che sono i Paesi più poveri ad avere maggiori difficoltà sia per la prevenzione che per la cura di questa pandemia; l'Hiv/Aids è divenuta sempre più la malattia dei più poveri.

Fondamentale risulta la formazione delle persone sulla loro dignità e sui diritti-doveri conseguenti a essa; come pure l'impegno, a volte pagando con la vita, per il riconoscimento, la difesa e la promozione dei diritti umani fondamentali (accesso ai farmaci), a livello nazionale e internazionale.

La cura è la cosa più visibile e più apprezzata dell'azione della Chiesa in quest'ambito. Il suo coinvolgimento è molto significativo sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Innanzitutto, si prende cura di una grande percentuale di malati di Hiv/Aids insieme ai familiari, agli operatori sanitari e pastorali, avvalendosi di molti tipi di strutture e con risorse umane molto diversificate (dai consacrati ai volontari). Più del 65 per cento dei sieropositivi del mondo sono nella zona subsahariana. Per capire quanto sia importante il ruolo svolto dalla Chiesa è sufficiente prendere visione delle sue innumerevoli attività svolte in questo territorio: la Chiesa costituisce il primo partner dello Stato sia in campo sociale che in quello sanitario.

Dal punto di vista qualitativo, è da sottolineare che la Chiesa si prende cura delle persone malate secondo l'antropologia cristiana nel quadro della dottrina sociale; quindi, nel rispetto della dignità della persona, con la promozione e difesa dei diritti, una visione olistica della persona e dei suoi bisogni. C'è un proprium che qualifica ogni membro della Chiesa nel suo rapportarsi con ogni persona: l'amore. Gesù ha chiesto: "Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi", ossia con una vita che si fa dono "totale" per gli altri sull'esempio di Lui che ha dato la sua vita per tutti. L'imperativo per ogni discepolo di Gesù Cristo di amare gli altri come Cristo ha amato noi e la consapevolezza di fede di ravvisare nel malato (di Hiv/Aids) lo stesso Signore ("io ero malato") offrono a tutti gli operatori cristiani del mondo della salute una motivazione e una forza per un approccio del tutto speciale.

Il cristiano è chiamato non solo a donare qualcosa, ma a "donarsi" poiché non è sufficiente il servizio professionale, ma occorre il coinvolgimento umano, l'amore.

Da quanto finora detto, appare chiaro che la maggior parte delle persone colpite da questa malattia vivono in una condizione di "vulnerabilità" sia prima che dopo essere state infettate. La povertà economico-culturale, i contesti sociali e familiari degradati e altri fattori concorrono a creare i presupposti per comportamenti a rischio che, non poche volte, conducono a infettarsi e a infettare altri. Da qui l'esigenza e la rilevanza dell'azione pastorale rivolta, da una parte, alla persona, familiari e operatori sanitari; dall'altra, ad agire sulle cause "predisponenti" la diffusione del virus o che rendono difficile la cura dei malati.

Questa malattia, pertanto, è un appello alla Chiesa affinché alzi la voce per denunciare le tante ingiustizie perpetrate a danno dei più deboli e per sollecitare le istituzioni e le persone di buona volontà a promuovere la solidarietà a tutti i livelli e con tutte le possibili iniziative.

Con pari sollecitudine, occorre ricorrere alla potenza del Vangelo al fine di sostenere la vita sconvolta del malato di Hiv/Aids e "rigenerare" il suo mondo valoriale affinché il malato possa trovare un significato appagante alla sua malattia e alla sua vita. La vicinanza umana dell'operatore pastorale e dell'intera comunità cristiana e la sua testimonianza dell'amore misericordioso di Dio verso tutti rappresentano una valida premessa per un incontro del malato con Gesù Cristo. Non esiste alcun intervento più "terapeutico" che l'accoglienza fiduciosa del Signore Gesù Cristo nella propria vita: solo Lui è in grado di ottenerci la guarigione più vera e profonda; soltanto Lui può offrirci la gioia piena.

L'accento sull'interiorità del malato viene posto nel quadro di una visione olistica. Affinché il malato possa sentirsi "bene" occorre che ritrovi il suo "equilibrio" al di sopra di sé, cioè Dio, oltre che in se stesso e intorno a sé. E sarà un equilibrio, una "salute" mai conquistata per sempre a motivo della sua connaturale e dinamica instabilità. La Chiesa continuerà, in tutti i modi, a impegnare i suoi membri e a sollecitare la società civile per un di più nella qualità e nella quantità degli interventi a favore di milioni di persone la cui vita è stata sconvolta da questo virus e, molto spesso, dall'indifferenza o dallo stigma e dall'emarginazione. È questione di fedeltà a Dio e all'uomo!


 


 

LA RIFONDAZIONE DELL'EUROPA COMINCIA DALL'UNGHERIA? di Élizabeth Montfort*


 

ROMA, mercoledì, 25 maggio 2011 (ZENIT.org).- Una rondine non fa primavera, ma uno Stato europeo, e non dei minori, che si dà una Costituzione eurocompatibile che rispetta sia la Carta europea dei diritti fondamentali sia la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo è un esempio da seguire.

Lunedì 18 aprile 2011, in conformità con gli impegni presi dal primo ministro Viktor Orban quando nell'aprile 2010 vinse in modo eclatante le elezioni politiche (2/3 dei seggi alla Camera dei deputati), la Costituzione ungherese è stata modificata nello spirito e nella lettera. Il testo del 1990, adottato subito dopo la caduta del Muro di Berlino, è stato giudicato troppo liberale e ancora caratterizzato da residui comunisti.

Il potere è stato ripartito tra i tre principali partiti: La Fidesz, partito di centro destra, i cui rappresentanti nel Parlamento europeo fanno parte del Partito Popolare Europeo; I Socialisti, completamente screditati dopo la gesione disastrosa del Primo ministro Ferenc Gyurcsany che aveva mentito sull'entità del deficit del blancio dello Stato, cosa che nel 2008 lo aveva spinto a chiedere al fondo Monetario Internazionale un aiuto di 20 miliardi di euro per salvare il Paese dalla bancarotta; Il partito Jobbik, di estrema destra, che ha come obiettivo la difesa dei valori e dell'identà dell'Ungheria.

La nuova Costituzione proposta dal Premier e dalla Fidesz è stata approvata con 262 voti contro 44 e una astensione. Il testo è stato approvato dal Presidente della Repubblica ungherese, Pal Schmitt, il 25 aprile scorso ed entrerà in vigore il 1 gennaio 2012. Durante il dibattito in aula l'opposizione non ha espresso alcun intervento. Il che non le ha impedito finora di sostenere gli oppositori a questa nuova legge fondamentale.

Quali sono i cambiamenti della Costituzione :

1- Il primo riguarda il riferimento alle radici cristiane dell'Ungheria. Il Preambolo dice infatti che «La Costituzione si inscrive nella continuità della Santa Corona» e ricorda «il ruolo del cristianesimo» nella «sua storia millenaria ».

Ci si stupisce delle reazioni negative a questo testo, dato che al momento della redazione del Trattato costituzionale dell'Unione Europea, tutti i paesi membri hanno approvato il riferimento alla nostra eredità cristiana, tranne la Francia. La petizione europea, promossa dalla Fondation de Service politique con quzalche deputato europeo avea ottenuto nel 2004 1,4 millioni di firme ed era stata sostenuta da circa 60 associazioni in rappresentanza di 50 milioni di aderenti. Un primato nella storia europea. Questa petizione era stata registrata dalla Commissione sulle petizioni, ma la Commissione europea non si è degnata di darle corso come avviene di solito quando le petizioni vengono registrate.

Il riferimento alle radici cristiane non è una questione di opinione, ma una verità storica. Bisogna ricordare che la nazione ungherese si è organizzata a partire dal battesimo di Santo Stefano, incoronato re di Ungheria, al punto che chi detiene la sua corona detiene anche il potere. E' questo il motivo per cui la Corona di Santo Stefano si trova oggi al Parlamento ungherese, il che gli dà la legittimità di fare le leggi.

2- La seconda modifica riguarda l'unione tra due persone: «La Costituzione protegge l'istituzione del matrimonio, considerato come l'unione naturale tra un maschio e una femmina e come il fondamento della famiglia».

Questo riferimento riprende, nel suo spirito, la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo che, nonostante le pressioni per introdurre l'unione tra due persone dello stesso sesso, rimane un testo di riferimento per tutti gli Stati. La nuova Costituzione ungherese non rimette in questione l'unione tra persone dello stesso sesso e non le considera equivalenti al matrimonio.

3- La terza modifica riguarda la vita di tutti gli esseri umani prima della nascita: «Dal momento del concepimento, la vita merita di essere protetta come un diritto umano fondamentale» e «la vita e la dignità sono inviolabili », riprendendo in un certo modo il primo articolo della Carta europea dei diritti fondamentali: «la dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e protetta».


 

Alcuni si sono indignati di questo ritorno all'ordine morale. Dobbiamo dedurne che l'ordine umano è un ordine amorale? La nuova Costituzione ungherese è eurocompatibile? si chiedono gli oppositori. Se non lo fosse, allora vorrebbe dire che tutti i testi di riferimento sono lettera morta, considerato che l'Unione europea si è costruita a partire dal rispetto dei diritti dell'uomo la cui universalità è espressa nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948, riconosciuta come patrimonio comune dell'umanità, e non sui diritti astratti e soggettivi rivendicati senza riferimento ad un patrimonio comune.

Certo, la decisione appartiene ai legislatori. Ma questi votano in nostro nome. Tacere sarebbe da parte nostra un atto di irresponsabilità. Le leggi ci riguardano tutti. E' nostro dovere incontrare i nostri deputati e senatori per dire loro che teniamo al rispetto dei nostri principi fondamentali.

[Fonte:www.libertepolitique.com.Traduzione e riduzione di Benedetta Cortese dell'Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan]


 

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*Élizabeth Montfort, già Deputata al Parlamento Europeo, è portavoce dellaFondation de Service Politique (Paris)


 


 

Augias, Pisapia e l'eutanasia di Tommaso Scandroglio, 26-05-2011, http://www.labussolaquotidiana.it


 

Repubblica, 22 maggio: un lettore infuriato si scaglia contro l'onorevole Maurizio Lupi reo di aver detto che la Cassazione sul caso Englaro si è arrogata il diritto di decidere quali siano le vite degne di essere vissute e quali no. Il sofisticato Augias risponde domandandosi retoricamente quali delle seguenti due posizioni sia vera: "La vita è mia e la gestisco io", oppure "la vita è un dono di Dio"? Possiamo vantare una "proprietà della vita", oppure questa esistenza appartiene ad un Altro? Il sempre garbato Augias non ha dubbi: "che ognuno sia libero di fare della propria vita ciò che vuole è un dato di fatto; che si tratti di un dono andrebbe dimostrato, il che è impossibile". Ergo noi abbiamo un vero e proprio diritto di proprietà sulla nostra esistenza.


 

La risposta al lettore non è polemica, ma augianamente melliflua, pacata. Una risposta con la cravatta insomma. Pare quasi di scorgere nel giudizio del giornalista un certo cavalleresco disinteresse per la vita (la battuta è rubata a James Bond), la quale quando inizia a dar fastidio, come una cara amica con cui si è litigato, allora è bene prenderne le distanze. Augias è comunque coerente con le sue idee: qualche anno fa infatti disse che se qui in Italia l'eutanasia non sarà ancora permessa quando il dì fatale anche per lui si avvicinerà, allora si recherà nei Paesi Bassi per acquistare il kit della buona morte, liberamente in vendita dietro prescrizione medica.


 


 

La risposta di Augias fa venire in mente il contenuto di una proposta di legge di Giuliano Pisapia del 2001 intitolata "Disposizioni in materia di interruzione della sopravvivenza" (ricorda curiosamente la legge sull'aborto: "Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza"). Il candidato sindaco di Milano, unico proponente di quel progetto di legge, si rende ben conto che la materia è complessa e delicata ed infatti ci dedica tre, ben tre articoli. Seppur breve il testo del progetto di legge è però ricco di perle preziose. All'art. 1 Pisapia afferma che "ogni persona […] ha il diritto di scegliere di interrompere volontariamente la propria sopravvivenza nel caso di malattia con prognosi infausta e pervenuta alla fase terminale".


 

Il verbo "interrompere" qui davvero stona. La mentalità del sindacalismo più deteriore fa breccia anche sui temi di bioetica: Pisapia tratta la vita come se fosse un pubblico servizio che si può interrompere, come un treno che, se i cobas della propria coscienza decidessero di fermare, non ci sarebbe legge alcuna che potrebbe farlo ripartire. E poi anche il termine "sopravvivenza" è poco appropriato. Evoca infatti scenari in cui l'esistenza, seppur minata dal dolore, pare che sia una nostra acerrima nemica, a cui sfuggire, a cui appunto sopravvivere. Inoltre associare la parola "sopravvivenza" ai malati terminali, come fa Pisapia, fa quasi intendere che le vite di questi pazienti siano vite di serie B, sub-esistenze. Non vite pienamente degne di essere vissute, ma esistenze da scialuppa di salvataggio da mettere in mare, dopo che si è abbandonata la nave madre, cioè la vita vera, per tentare di sopravvivere.


 

All'articolo 2 si prosegue sostenendo che la decisione di uscire di scena "deve risultare da una dichiarazione scritta". La chiosa all'art. 3 è doverosa: "Non è punibile per i delitti previsti dagli articoli 579 e 580 del codice penale chi attua le disposizioni contenute nella dichiarazione". Detto in soldoni: depenalizzazione dell'eutanasia. Insomma anche per Pisapia noi vantiamo un dominio assoluto sulla nostra vita e lo Stato deve permettere al medico di soddisfare le nostre volontà eutanasiche.


 

La reificazione della vita? Hanno davvero ragione Augias e Pisapia? Se la vita è mia perché non posso farci quello che voglio? Cerchiamo di dare qualche risposta. Il diritto di proprietà è predicabile solo sui beni mobili o immobili, sulle cose. La vita di contro non è una cosa, come un'auto, una pianta o un cane. Il diritto di proprietà significa avere un dominio totale sulla res. Se vanto un diritto di proprietà su un orologio potrò allora venderlo, smontarlo, manipolarlo e persino distruggerlo. Ma io posso vendere la mia vita (vedi prostituzione), smontarla e manipolarla (vedi sperimentazione sugli embrioni), e distruggerla (vedi eutanasia)?


 

No è la risposta. Infatti, e in merito al tema che qui stiamo trattando, per il diritto la vita è bene indisponibile: altrimenti perché decidere di punire chi mi ha aiutato a togliermi la vita? Se ci fosse un diritto a morire perché sanzionare chi ha collaborato nel tutelare quel diritto? Allora il legame che esiste tra titolare del diritto alla vita e bene vita non deve fare riferimento ad un supposto diritto di proprietà bensì ad un dovere di tutela, di custodia.


 

C'è chi obietta: eccome se c'è il diritto a morire. Due sono le prove. La prima: il nostro ordinamento giuridico non punisce il tentato suicidio. Quindi ciò che non è vietato è sicuramente un diritto. Secondo: l'art. 32 della Costituzione prevede un vero e proprio diritto al rifiuto delle cure, anche quelle salva-vita. In merito alla prima obiezione la legge non sanziona il tentato suicidio non perché lo ritenga una condotta lecita, bensì perché è consapevole che una eventuale pena non potrebbe soddisfare la finalità rieducativa, una delle tre funzioni che qualsiasi sanzione deve possedere. In parole povere non servirebbe a nulla sbattere in galera il tentato suicida. Il nostro ordinamento invece tollera il tentato suicidio considerandolo non un diritto, ma una mera facoltà di fatto. Prova ne è che se il signor Rossi vuole buttarsi da un cornicione e un poliziotto lo strappa a forza dallo stesso, l'agente verrà salutato come un eroe e non verrà di certo incriminato per violenza privata, dato che non ha leso nessun diritto.


 

Riguardo poi al rifiuto delle cure tutelato dall'art. 32 della Costituzione occorre precisare che quell'articolo non fonda nessun diritto soggettivo. Se ci fosse un diritto al rifiuto delle cure ci sarebbe allora un diritto alla malattia. Ma nella nostra Costituzione sono presenti solo diritti che arricchiscono la persona, solo principi di valore e non di disvalore. Nella Costituzione viene sancito unicamente il diritto alla cura e non il suo opposto.


 

Allora alla luce di queste considerazioni come interpretare correttamente l'art. 32? Questo articolo stabilisce un limite alle cure obbligatorie, impone allo Stato il divieto di coazione in merito ai trattamenti sanitari, anche nel caso in cui questi fossero salvavita, eccetto i casi previsti dalla legge (vaccinazioni obbligatorie, trattamenti sanitari obbligarori, etc.). Insomma è obbligo dello Stato non mettere le mani sui pazienti se questi non vogliono. Non attribuisce alcun diritto ai cittadini, ma impone un dovere di astensione da parte delle strutture pubbliche e private. Si tratta in buona sostanza di uno "Stop" alla volontà di tutelare la salute dei cittadini, al fine di rispettare la libertà della persona. Da ciò quindi si evince che chi non vuole essere curato non esprime con questo suo rifiuto nessun diritto bensì, come prima accennato, solo una pura facoltà di fatto.


 


 

Laicità oggi, tra interessi e principi di Vittorio Possenti, Corriere della Sera 26.5.11


 

E' bene dibattere di laicità in Italia, come del resto accade abbondantemente; ma è anche difficile per motivi che vanno oltre quelli addotti sul Corriere da Tullio Gregory e Massimo Teodori. Habermas ha iniziato a cogliere la portata del problema quando ha spronato verso un dialogo tra credenti e «laici» rivolto ad un reciproco apprendimento, che sarebbe indispensabile. In ogni caso la laicità dovrebbe essere intesa come esercizio della ragione. Le difficoltà della laicità provengono dal fatto che l'entità dei problemi è cresciuta a dismisura. Il quadro è mutato in quanto molte questioni che oggi vengono dibattute sotto il cappello della laicità oltrepassano l'antico e consunto schema dei rapporti tra Stato e Chiesa, intesi come istituzioni sovrane che si fronteggiano e patteggiano. Un'alta quota di problemi non rientrano in tale schema, poiché chiamano in causa l'essere umano e il cittadino coi suoi diritti e doveri. La questione che dovunque accende gli animi è quella antropologica: uomo chi sei? Non pochi la lasciano da parte preferendo rimanere sul terreno strabattuto dei confini tra Stato e Chiesa, invitando con Kelsen a risolvere il conflitto con un compromesso democratico che tenga conto degli interessi di entrambe le parti. Sarebbe questa secondo Teodori un'ottima definizione di laicità. Ciò è vero in misura modesta, e la risposta sta nel termine stesso impiegato da Kelsen: interessi. Questi infatti hanno un prezzo, si prestano alla trattativa ed alla mediazione in quanto per loro natura ammettono punti medi. Differentemente dagli interessi, i principi non hanno prezzo ma dignità (è Kant che parla) e non ammettono punto medio: non vi è alcun punto medio tra uccidere e non uccidere. È giusto invitare al compromesso sugli interessi, ma chiedere allo Stato di essere neutrale sui principi fondamentali è autodistruttivo. I difensori di un certo tipo di laicità, che in Francia si chiamerebbe de combat, raramente si avvedono della differenza tra i due casi e finiscono per attribuire le difficoltà alla cattiva volontà altrui: un equivoco che, insistendo su vecchie dicotomie, non si confronta con la durezza dei problemi morali e antropologici presenti. Se consideriamo il tema dell'embrione umano, sollevato un po' frettolosamente da Gregory in quanto si limita a considerare solo le cellule staminali di provenienza embrionale e non quelle adulte riprogrammabili, non c'è altra strada che quella di fondarsi sulle migliori argomentazioni filosofiche e scientifiche (filosofiche e scientifiche, non religiose) per mostrare che l'embrione è un essere umano, meritevole di pieno rispetto. È dunque violare il principio di eguaglianza e di dignità sceglierne uno e rifiutarne un altro (eugenetica), così come è violazione del suo sacrosanto diritto naturale allo sviluppo congelarlo, impedendogli di crescere. È una strana laicità quella che vuole buttare la questione in religione. Ma non si tratta del diritto alla vita? Durante la preparazione della Dichiarazione universale del 1948 si pose su proposta di alcune delegazioni il problema di definire il diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale (art. 3), anche se poi l'integrazione non passò. In merito, importante è la sentenza 35/1997 della nostra Corte costituzionale. Quanto alla legge sul fine-vita vi è spazio per un miglioramento, in specie sul problema dell'indisponibilità della propria vita. Il carattere anelastico dei principi indica che lo Stato può rimanere neutrale su varie cose, non sulle scelte di fondo e i valori base, codificati nella nostra Carta. Dobbiamo muovere verso una società postliberale, in cui i diritti di libertà non abbiano sempre e comunque il predominio (il diritto alla vita non è un diritto di libertà), e il bilanciamento tra diritti e doveri sia più rigoroso che nell'individualismo liberale. Sarebbe una bella laicità quella in cui mere pretese non vestissero i panni dei diritti, e forse avremmo meno querimonie sulle presunte prevaricazioni di una parte sull'altra.