Nella rassegna stampa di oggi:
- BENEDETTO XVI INIZIA UN NUOVO PERCORSO BIBLICO SULLA PREGHIERA - Intervento in occasione dell'Udienza generale
- Abramo, Sodoma e i castighi di Dio di Massimo Introvigne, 18-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
- Salvato dalla Chiesa di Angelo Busetto, 18-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
- Dat o biotestamento, la confusione sta all'origine di Riccardo Cascioli, 18-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
- Pillola data per errore, ostetrica provoca aborto di Raffaella Frullone, 17-05-2011, da da http://www.labussolaquotidiana.it
- Ue o Santa Sede? Di Robi Ronza, mercoledì 18 maggio 2011, il sussidiario.net
- CANNES 2011/ 30 anni di "Momenti di Gloria": se neanche la vittoria dà un senso alla vita di Leonardo Locatelli, mercoledì 18 maggio 2011, il sussidiario.net
- INCHIESTA/ La civile Svizzera prova a sedurre l'Italia col "turismo della morte" di Marina Marinetti, mercoledì 18 maggio 2011, il sussidiario.net
- I giovani? Una specie in via d'estinzione di Manila Alfano - © IL GIORNALE ON LINE S.R.L.
- Avvenire.it, 18 maggio 2011 - L'ANALISI - Scola: salvare l'uomo, prima ecologia di S.E. Card. Angelo Scola
- La verità sull'Olio di Lorenzo - Il padre racconta la battaglia per una cura impossibile: "Sono solo, ma il ricordo vivrà" - CARLA RESCHIA - GAMALERO (Alessandria) - http://www3.lastampa.it/
BENEDETTO XVI INIZIA UN NUOVO PERCORSO BIBLICO SULLA PREGHIERA - Intervento in occasione dell'Udienza generale
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 18 maggio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo della catechesi che Papa Benedetto XVI ha pronunciato questo mercoledì in occasione dell'Udienza generale in Piazza San Pietro in Vaticano, iniziando un percorso biblico sulla preghiera e dedicando il primo intervento ad Abramo.
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Cari fratelli e sorelle,
nelle due scorse catechesi abbiamo riflettuto sulla preghiera come fenomeno universale, che - pur in forme diverse - è presente nelle culture di tutti i tempi. Oggi, invece, vorrei iniziare un percorso biblico su questo tema, che ci guiderà ad approfondire il dialogo di alleanza tra Dio e l'uomo che anima la storia della salvezza, fino al culmine, alla parola definitiva che è Gesù Cristo. Questo cammino ci porterà a soffermarci su alcuni importanti testi e figure paradigmatiche dell'Antico e del Nuovo Testamento. Sarà Abramo, il grande Patriarca, padre di tutti i credenti (cfr Rm 4,11-12.16-17), ad offrirci un primo esempio di preghiera, nell'episodio dell'intercessione per le città di Sodoma e Gomorra. E vorrei anche invitarvi ad approfittare del percorso che faremo nelle prossime catechesi per imparare a conoscere di più la Bibbia, che spero abbiate nelle vostre case, e, durante la settimana, soffermarsi a leggerla e meditarla nella preghiera, per conoscere la meravigliosa storia del rapporto tra Dio e l'uomo, tra Dio che si comunica a noi e l'uomo che risponde, che prega.
Il primo testo su cui vogliamo riflettere si trova nel capitolo 18 del Libro della Genesi; si narra che la malvagità degli abitanti di Sodoma e Gomorra era giunta al culmine, tanto da rendere necessario un intervento di Dio per compiere un atto di giustizia e per fermare il male distruggendo quelle città. È qui che si inserisce Abramo con la sua preghiera di intercessione. Dio decide di rivelargli ciò che sta per accadere e gli fa conoscere la gravità del male e le sue terribili conseguenze, perché Abramo è il suo eletto, scelto per diventare un grande popolo e far giungere la benedizione divina a tutto il mondo. La sua è una missione di salvezza, che deve rispondere al peccato che ha invaso la realtà dell'uomo; attraverso di lui il Signore vuole riportare l'umanità alla fede, all'obbedienza, alla giustizia. E ora, questo amico di Dio si apre alla realtà e al bisogno del mondo, prega per coloro che stanno per essere puniti e chiede che siano salvati.
Abramo imposta subito il problema in tutta la sua gravità, e dice al Signore: «Davvero sterminerai il giusto con l'empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l'empio, così che il giusto sia trattato come l'empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?» (vv. 23-25). Con queste parole, con grande coraggio, Abramo mette davanti a Dio la necessità di evitare una giustizia sommaria: se la città è colpevole, è giusto condannare il suo reato e infliggere la pena, ma – afferma il grande Patriarca – sarebbe ingiusto punire in modo indiscriminato tutti gli abitanti. Se nella città ci sono degli innocenti, questi non possono essere trattati come i colpevoli. Dio, che è un giudice giusto, non può agire così, dice Abramo giustamente a Dio.
Se leggiamo, però, più attentamente il testo, ci rendiamo conto che la richiesta di Abramo è ancora più seria e più profonda, perché non si limita a domandare la salvezza per gli innocenti. Abramo chiede il perdono per tutta la città e lo fa appellandosi alla giustizia di Dio; dice, infatti, al Signore: «E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?» (v. 24b). Così facendo, mette in gioco una nuova idea di giustizia: non quella che si limita a punire i colpevoli, come fanno gli uomini, ma una giustizia diversa, divina, che cerca il bene e lo crea attraverso il perdono che trasforma il peccatore, lo converte e lo salva. Con la sua preghiera, dunque, Abramo non invoca una giustizia meramente retributiva, ma un intervento di salvezza che, tenendo conto degli innocenti, liberi dalla colpa anche gli empi, perdonandoli. Il pensiero di Abramo, che sembra quasi paradossale, si potrebbe sintetizzare così: ovviamente non si possono trattare gli innocenti come i colpevoli, questo sarebbe ingiusto, bisogna invece trattare i colpevoli come gli innocenti, mettendo in atto una giustizia "superiore", offrendo loro una possibilità di salvezza, perché se i malfattori accettano il perdono di Dio e confessano la colpa lasciandosi salvare, non continueranno più a fare il male, diventeranno anch'essi giusti, senza più necessità di essere puniti.
È questa la richiesta di giustizia che Abramo esprime nella sua intercessione, una richiesta che si basa sulla certezza che il Signore è misericordioso. Abramo non chiede a Dio una cosa contraria alla sua essenza, bussa alla porta del cuore di Dio conoscendone la vera volontà. Certo Sodoma è una grande città, cinquanta giusti sembrano poca cosa, ma la giustizia di Dio e il suo perdono non sono forse la manifestazione della forza del bene, anche se sembra più piccolo e più debole del male? La distruzione di Sodoma doveva fermare il male presente nella città, ma Abramo sa che Dio ha altri modi e altri mezzi per mettere argini alla diffusione del male. È il perdono che interrompe la spirale del peccato, e Abramo, nel suo dialogo con Dio, si appella esattamente a questo. E quando il Signore accetta di perdonare la città se vi troverà i cinquanta giusti, la sua preghiera di intercessione comincia a scendere verso gli abissi della misericordia divina. Abramo - come ricordiamo - fa diminuire progressivamente il numero degli innocenti necessari per la salvezza: se non saranno cinquanta, potrebbero bastare quarantacinque, e poi sempre più giù fino a dieci, continuando con la sua supplica, che si fa quasi ardita nell'insistenza: «forse là se ne troveranno quaranta … trenta … venti … dieci» (cfr vv. 29.30.31.32). E più piccolo diventa il numero, più grande si svela e si manifesta la misericordia di Dio, che ascolta con pazienza la preghiera, l'accoglie e ripete ad ogni supplica: «perdonerò, … non distruggerò, … non farò» (cfr vv. 26.28.29.30.31.32).
Così, per l'intercessione di Abramo, Sodoma potrà essere salva, se in essa si troveranno anche solamente dieci innocenti. È questa la potenza della preghiera. Perché attraverso l'intercessione, la preghiera a Dio per la salvezza degli altri, si manifesta e si esprime il desiderio di salvezza che Dio nutre sempre verso l'uomo peccatore. Il male, infatti, non può essere accettato, deve essere segnalato e distrutto attraverso la punizione: la distruzione di Sodoma aveva appunto questa funzione. Ma il Signore non vuole la morte del malvagio, ma che si converta e viva (cfr Ez 18,23; 33,11); il suo desiderio è sempre quello di perdonare, salvare, dare vita, trasformare il male in bene. Ebbene, è proprio questo desiderio divino che, nella preghiera, diventa desiderio dell'uomo e si esprime attraverso le parole dell'intercessione. Con la sua supplica, Abramo sta prestando la propria voce, ma anche il proprio cuore, alla volontà divina: il desiderio di Dio è misericordia, amore e volontà di salvezza, e questo desiderio di Dio ha trovato in Abramo e nella sua preghiera la possibilità di manifestarsi in modo concreto all'interno della storia degli uomini, per essere presente dove c'è bisogno di grazia. Con la voce della sua preghiera, Abramo sta dando voce al desiderio di Dio, che non è quello di distruggere, ma di salvare Sodoma, di dare vita al peccatore convertito.
E' questo che il Signore vuole, e il suo dialogo con Abramo è una prolungata e inequivocabile manifestazione del suo amore misericordioso. La necessità di trovare uomini giusti all'interno della città diventa sempre meno esigente e alla fine ne basteranno dieci per salvare la totalità della popolazione. Per quale motivo Abramo si fermi a dieci, non è detto nel testo. Forse è un numero che indica un nucleo comunitario minimo (ancora oggi, dieci persone sono il quorum necessario per la preghiera pubblica ebraica). Comunque, si tratta di un numero esiguo, una piccola particella di bene da cui partire per salvare un grande male. Ma neppure dieci giusti si trovavano in Sodoma e Gomorra, e le città vennero distrutte. Una distruzione paradossalmente testimoniata come necessaria proprio dalla preghiera d'intercessione di Abramo. Perché proprio quella preghiera ha rivelato la volontà salvifica di Dio: il Signore era disposto a perdonare, desiderava farlo, ma le città erano chiuse in un male totalizzante e paralizzante, senza neppure pochi innocenti da cui partire per trasformare il male in bene. Perché è proprio questo il cammino della salvezza che anche Abramo chiedeva: essere salvati non vuol dire semplicemente sfuggire alla punizione, ma essere liberati dal male che ci abita. Non è il castigo che deve essere eliminato, ma il peccato, quel rifiuto di Dio e dell'amore che porta già in sé il castigo. Dirà il profeta Geremia al popolo ribelle: «La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio» (Ger 2,19). È da questa tristezza e amarezza che il Signore vuole salvare l'uomo liberandolo dal peccato. Ma serve dunque una trasformazione dall'interno, un qualche appiglio di bene, un inizio da cui partire per tramutare il male in bene, l'odio in amore, la vendetta in perdono. Per questo i giusti devono essere dentro la città, e Abramo continuamente ripete: «forse là se ne troveranno …». «Là»: è dentro la realtà malata che deve esserci quel germe di bene che può risanare e ridare la vita. E' una parola rivolta anche a noi: che nelle nostre città si trovi il germe di bene; che facciamo di tutto perché siano non solo dieci i giusti, per far realmente vivere e sopravvivere le nostre città e per salvarci da questa amarezza interiore che è l'assenza di Dio. E nella realtà malata di Sodoma e Gomorra quel germe di bene non si trovava.
Ma la misericordia di Dio nella storia del suo popolo si allarga ulteriormente. Se per salvare Sodoma servivano dieci giusti, il profeta Geremia dirà, a nome dell'Onnipotente, che basta un solo giusto per salvare Gerusalemme: «Percorrete le vie di Gerusalemme, osservate bene e informatevi, cercate nelle sue piazze se c'è un uomo che pratichi il diritto, e cerchi la fedeltà, e io la perdonerò» (5,1). Il numero è sceso ancora, la bontà di Dio si mostra ancora più grande. Eppure questo ancora non basta, la sovrabbondante misericordia di Dio non trova la risposta di bene che cerca, e Gerusalemme cade sotto l'assedio del nemico. Bisognerà che Dio stesso diventi quel giusto. E questo è il mistero dell'Incarnazione: per garantire un giusto Egli stesso si fa uomo. Il giusto ci sarà sempre perché è Lui: bisogna però che Dio stesso diventi quel giusto. L'infinito e sorprendente amore divino sarà pienamente manifestato quando il Figlio di Dio si farà uomo, il Giusto definitivo, il perfetto Innocente, che porterà la salvezza al mondo intero morendo sulla croce, perdonando e intercedendo per coloro che «non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Allora la preghiera di ogni uomo troverà la sua risposta, allora ogni nostra intercessione sarà pienamente esaudita.
Cari fratelli e sorelle, la supplica di Abramo, nostro padre nella fede, ci insegni ad aprire sempre di più il cuore alla misericordia sovrabbondante di Dio, perché nella preghiera quotidiana sappiamo desiderare la salvezza dell'umanità e chiederla con perseveranza e con fiducia al Signore che è grande nell'amore. Grazie.
[© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana]
Abramo, Sodoma e i castighi di Dio di Massimo Introvigne, 18-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Nel terzo intervento del suo ciclo di udienze del mercoledì che costituiscono una «scuola della preghiera», Benedetto XVI ha illustrato il 18 maggio l'episodio biblico di Abramo e della sua preghiera d'intercessione per le città malvagie di Sodoma e Gomorra. Il Papa ha così avuto l'occasione d'intervenire sul tema, oggi controverso, dei castighi di Dio.
In questo capitolo della «meravigliosa storia del rapporto tra Dio e l'uomo», presentato nel capitolo 18 del Libro della Genesi, «si narra – ha detto il Papa – che la malvagità degli abitanti di Sodoma e Gomorra era giunta al culmine, tanto da rendere necessario un intervento di Dio per compiere un atto di giustizia e per fermare il male distruggendo quelle città». La distruzione delle città – il castigo – è dunque «necessario». Ma è precisamente «qui che si inserisce Abramo con la sua preghiera di intercessione. Dio decide di rivelargli ciò che sta per accadere e gli fa conoscere la gravità del male e le sue terribili conseguenze, perché Abramo è il suo eletto, scelto per diventare un grande popolo e far giungere la benedizione divina a tutto il mondo. La sua è una missione di salvezza, che deve rispondere al peccato che ha invaso la realtà dell'uomo; attraverso di lui il Signore vuole riportare l'umanità alla fede, all'obbedienza, alla giustizia. E ora, questo amico di Dio si apre alla realtà e al bisogno del mondo, prega per coloro che stanno per essere puniti e chiede che siano salvati».
Abramo non mette in discussione il nesso causale fra la «gravità del male» di Sodoma e Gomorra, e le sue «terribili conseguenze», cioè il castigo di Dio. Considera «il problema in tutta la sua gravità», ma lo affronta da un altro punto di vista: «Davvero sterminerai il giusto con l'empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l'empio, così che il giusto sia trattato come l'empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?» (Gen 23-25). Di fronte alla «città colpevole», nota Benedetto XVI, Abramo non nega che sia «giusto condannare il suo reato e infliggere la pena», ma afferma che «sarebbe ingiusto punire in modo indiscriminato tutti gli abitanti. Se nella città ci sono degli innocenti, questi non possono essere trattati come i colpevoli. Dio, che è un giudice giusto, non può agire così, dice Abramo giustamente a Dio».
Tutto questo è quasi ovvio, ma il Papa ci invita a leggere «più attentamente il testo», che contiene una grande novità rispetto alla mentalità dell'epoca. Abramo, infatti, non si limita a domandare la salvezza per i soli pochi innocenti, ma «chiede il perdono per tutta la città e lo fa appellandosi alla giustizia di Dio; dice, infatti, al Signore: "E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?" (v. 24b). Così facendo, mette in gioco una nuova idea di giustizia: non quella che si limita a punire i colpevoli, come fanno gli uomini, ma una giustizia diversa, divina, che cerca il bene e lo crea attraverso il perdono che trasforma il peccatore, lo converte e lo salva. Con la sua preghiera, dunque, Abramo non invoca una giustizia meramente retributiva, ma un intervento di salvezza che, tenendo conto degli innocenti, liberi dalla colpa anche gli empi, perdonandoli. Il pensiero di Abramo, che sembra quasi paradossale, si potrebbe sintetizzare così: ovviamente non si possono trattare gli innocenti come i colpevoli, questo sarebbe ingiusto, bisogna invece trattare i colpevoli come gli innocenti, mettendo in atto una giustizia "superiore", offrendo loro una possibilità di salvezza, perché se i malfattori accettano il perdono di Dio e confessano la colpa lasciandosi salvare, non continueranno più a fare il male, diventeranno anch'essi giusti, senza più necessità di essere puniti».
Il castigo per gli innocenti sarebbe ingiusto. Il castigo per i colpevoli è giusto, ma non è inevitabile, perché il Signore è misericordioso. Chiedendogli di risparmiare non solo gli innocenti ma anche i colpevoli, «Abramo non chiede a Dio una cosa contraria alla sua essenza, bussa alla porta del cuore di Dio conoscendone la vera volontà». La distruzione di Sodoma che Dio minaccia ha uno scopo giusto, «fermare il male presente nella città»: ma «Abramo sa che Dio ha altri modi e altri mezzi per mettere argini alla diffusione del male». «Il male, infatti, non può essere accettato, deve essere segnalato e distrutto attraverso la punizione: la distruzione di Sodoma aveva appunto questa funzione. Ma il Signore non vuole la morte del malvagio, ma che si converta e viva». Così la preghiera d'intercessione di Abramo «comincia a scendere verso gli abissi della misericordia divina», e il patriarca ottiene da Dio la salvezza di Sodoma se solo vi si troverà un numero di buoni che nel dialogo continua a diminuire: quarantacinque, quaranta, trenta, venti, dieci. «Con la voce della sua preghiera, Abramo sta dando voce al desiderio di Dio, che non è quello di distruggere, ma di salvare Sodoma, di dare vita al peccatore convertito».
Se però il dialogo di Dio con Abramo «è una prolungata e inequivocabile manifestazione del suo amore misericordioso», il problema è che arrivati al numero dieci si ferma. «Per quale motivo Abramo si fermi a dieci – nota il Papa – , non è detto nel testo. Forse è un numero che indica un nucleo comunitario minimo (ancora oggi, dieci persone sono il quorum necessario per la preghiera pubblica ebraica). Comunque, si tratta di un numero esiguo, una piccola particella di bene da cui partire per salvare un grande male». Ma, come sappiamo, non si trovano neppure dieci giusti a Sodoma e Gomorra, e le città sono distrutte. Il Papa insiste sul fatto che il castigo non è ingiusto, anzi è «una distruzione paradossalmente testimoniata come necessaria proprio dalla preghiera d'intercessione di Abramo. Perché proprio quella preghiera ha rivelato la volontà salvifica di Dio: il Signore era disposto a perdonare, desiderava farlo, ma le città erano chiuse in un male totalizzante e paralizzante, senza neppure pochi innocenti da cui partire per trasformare il male in bene».
Oggi rischiamo di non capire più che «essere salvati non vuol dire semplicemente sfuggire alla punizione, ma essere liberati dal male che ci abita». Sfuggire alla punizione ci sembra un bene in sé, e quasi chiediamo a Dio di eliminare il castigo. Mentre al contrario «non è il castigo che deve essere eliminato, ma il peccato, quel rifiuto di Dio e dell'amore che porta già in sé il castigo. Dirà il profeta Geremia al popolo ribelle: "La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio" (Ger 2,19)». Dio certamente «vuole salvare l'uomo liberandolo dal peccato»: ma «serve dunque una trasformazione dall'interno, un qualche appiglio di bene, un inizio da cui partire per tramutare il male in bene, l'odio in amore, la vendetta in perdono. Per questo i giusti devono essere dentro la città, e Abramo continuamente ripete: "forse là se ne troveranno …". "Là": è dentro la realtà malata che deve esserci quel germe di bene che può risanare e ridare la vita». Ma «nella realtà malata di Sodoma e Gomorra quel germe di bene non si trovava».
E oggi i dieci giusti ci sono? C'è almeno il singolo giusto che secondo Geremia (5,1) – in un ulteriore allargamento della misericordia di Dio – sarebbe stato sufficiente a perdonare Gerusalemme? Quella di Abramo, afferma il Papa, «è una parola rivolta anche a noi: che nelle nostre città si trovi il germe di bene; che facciamo di tutto perché siano non solo dieci i giusti, per far realmente vivere e sopravvivere le nostre città e per salvarci da questa amarezza interiore che è l'assenza di Dio».
Anche nell'episodio di Geremia, non si trova neppure quel singolo giusto a Gerusalemme. Dunque «bisognerà che Dio stesso diventi quel giusto. E questo è il mistero dell'Incarnazione: per garantire un giusto Egli stesso si fa uomo. Il giusto ci sarà sempre perché è Lui: bisogna però che Dio stesso diventi quel giusto. L'infinito e sorprendente amore divino sarà pienamente manifestato quando il Figlio di Dio si farà uomo, il Giusto definitivo, il perfetto Innocente, che porterà la salvezza al mondo intero morendo sulla croce, perdonando e intercedendo per coloro che "non sanno quello che fanno" (Lc 23,34). Allora la preghiera di ogni uomo troverà la sua risposta, allora ogni nostra intercessione sarà pienamente esaudita». E non si tratterà più tanto di discettare sui castighi, ma di confidare nella preghiera nel Signore Gesù.
Salvato dalla Chiesa di Angelo Busetto, 18-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
La vicenda di don Riccardo Seppia, il prete della diocesi di Genova arrestato per abusi sessuali su minori e uso di droga, ha profondamente colpito l'opinione pubblica sia per la gravità dei reati commessi sia per la solitudine e la realtà di disgregazione - comunitaria e sacerdotale - in cui tale doppia vita è maturata. Proprio su quest'ultimo aspetto si era concentrato l'editoriale di ieri, firmato da Andrea Tornielli, che aveva lasciata aperta una domanda su come è stato possibile che una vita sacerdotale si sviluppasse così, quasi nell'indifferenza generale. Una provocazione a cui risponde oggi un sacerdote - che è anche collaboratore de La Bussola Quotidiana -, presentando la propria esperienza positiva di amicizia nella Chiesa, l'unica possibilità per non perdersi.
Mi sono sentito sempre un poco a disagio di fronte a sacerdoti che raccontavano di essere stati salvati dopo uno sbandamento. Non mi ci ritrovavo in quelle 'esperienze di salvezza' eccezionali. La mia vita è trascorsa in modo normale, senza la ferita di vicende così drammatiche. Ma in questi giorni, mentre la cronaca invade la piazza con la notizia di un sacerdote che 'ha sbagliato', mi ritrovo a dire a me stesso e ad altri: "Mi ha salvato la Chiesa".
Volgendo indietro lo sguardo negli anni, posso dire di essere stato 'salvato in anticipo', e di aver goduto della grazia di essere stato 'preservato'. Siamo tutti presi dentro il peccato di Adamo, e subiamo il contraccolpo della tentazione fino a venirne catturati e corrotti. Ma ci è stata data la grazia di nascere dentro una storia di salvezza e di partecipare alla comunità dei discepoli del Signore. La grazia che ha accompagnato la mia vita sacerdotale ha preso il volto e il corpo e l'anima della Chiesa: sono le persone che in questi anni mi sono state appresso, i giovani e le famiglie che ho incontrato, le parrocchie che mi hanno avuto come cappellano e come parroco, i familiari che hanno vissuto con me, le persone che hanno condiviso l'esperienza di fede nel movimento di Comunione e Liberazione, gli impegni pastorali che mi hanno fatto lottare contro il tempo, il fiato delle persone che mi pressavano.
Mi accompagna il richiamo preciso e appassionato di un maestro di vita, don Luigi Giussani: l'incontro con lui ha chiarito e sostenuto la mia decisione di continuare ad essere di Cristo e di servirlo. Sono state e sono per me stimolo e richiamo le persone che domandano Cristo, ponendomi davanti la loro angoscia, il desiderio, l'attesa, la domanda della vita; quale risposta, quale pane si può dare a chi chiede da mangiare? Basta donare se stessi, le proprie parole e prestazioni?
L'urgenza e la domanda sono così imponenti che solo una risposta adeguatamente proporzionata vi può corrispondere: il Signore Gesù, la sua persona incontrata e amata. Sono stato accompagnato a conoscerlo e a seguirlo. Mi è stata donata la ricchezza di poter parlare di Lui, indicarlo, donarlo. Al di fuori di questo, mi trovo a sperimentare desolazione, deserto e vuoto.
Mi accompagna un'esperienza reale di Chiesa, che mi circonda, mi abbraccia, mi condiziona, senza concedermi la possibilità di 'evasioni' nelle settimane, nelle giornate, nelle ore, persino nel tempo della vacanza. La familiarità con alcuni amici preti continua ad essere una splendida compagnia nel vivere la bellezza e la fatica del sacerdozio.
Ho potuto constatare che Cristo non è semplicemente un ideale, una presenza interiore, un pensiero o una immaginazione; non è il risultato dello studio, che pure si è intensificato negli anni dell'insegnamento intenso e impegnativo della teologia. Il rapporto con Cristo si svolge incontrando e accogliendo la sua presenza visibile e concreta nel volto, nel corpo, nel cuore della Chiesa. Amare Cristo significa amarlo nell'Eucaristia attorno alla quale Egli ci raduna; donarlo nella misericordia del sacramento della confessione; parlare di Lui, appassionandosi per l'edificazione del suo corpo.
Egli non è soltanto il Signore del cielo e il Cristo della teologia, ma il Gesù della Chiesa. Il bisogno affettivo non patisce un vuoto, ma si realizza in un amore vissuto, in un attaccamento e una vibrazione per Lui presente e vivo. Il cuore non viene indotto a disseccarsi, alienarsi, ripiegarsi su di sé, spegnendosi nell'aridità e mortificandosi nella solitudine; si può amare ed essere amati, coinvolgendosi in affetti e legami veri, vissuti con passione.
Chi insiste a dire che il prete deve essere staccato da tutti, ha già cominciato a tracciare la strada della sua perdizione. E' una grazia l'attaccamento alle persone come segno di Cristo, l'amore a una sposa concreta e non ideale, la sposa che è la Chiesa, non generica o astratta, ma reale nel volto di uomini e donne e bambini per la cui felicità preghi e speri e soffri e lotti, amando con affetto di fratello, di padre, di sposo. Il prete non è chiamato a vivere staccato dagli altri, ma ad affezionarsi a Cristo che opera in un avvenimento presente.
La disciplina dei sentimenti non conduce a non amare, ma ad amare e accettare di essere amato senza possedere ed essere posseduto perché già si appartiene; amare ed essere amato nella fedeltà alla propria vocazione e nel rispetto della vocazione degli altri. Quest'esperienza non introduce a un di meno, ma un di più. Avete presente la passione di san Paolo, la intensità della sua dedizione, l'irruenza del suo affetto, lui che considerava 'fidanzata' la comunità di Corinto, lui che è diventato padre e generatore di persone e comunità?
Se la verginità conducesse a un cuore vuoto, diventerebbe un'alienazione che va poi a cercare da qualche altra parte la sua compensazione. La verginità è un modo diverso e intenso di amare e di essere amati. Gesù è riconosciuto, amato e servito nei fratelli e nelle sorelle, in una dinamica affettiva che entra in gioco non solo nel contatto con persone sconosciute, povere e derelitte, ma assai di più nel rapporto quotidiano con le persone per le quali e con le quali si vive e si lavora. A questa Chiesa, alla quale domando di accompagnarmi nella storia di ogni giorno, continuo ad affidarmi per il presente e per il futuro.
Dat o biotestamento, la confusione sta all'origine di Riccardo Cascioli, 18-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Oggi dovrebbe riprendere alla Camera la discussione sul disegno di legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT), che i partiti dell'attuale maggioranza sperano di approvare in fretta. Come è noto anche la Conferenza episcopale italiana spinge per una rapida approvazione di una legge che – nelle intenzioni – dovrebbe evitare il ripetersi di un altro caso Eluana Englaro. E' altrettanto noto che nel mondo pro life molte sono le voci di disaccordo, che ritengono non necessaria o addirittura pericolosa questa iniziativa legislativa.
Abbiamo più volte affrontato i diversi punti critici di questo disegno di legge e presentato le diverse posizioni. Ma non ci si è soffermati abbastanza su un aspetto che va oltre la legge stessa. Infatti, anche se si vincesse dal punto di vista legislativo, sul piano culturale la battaglia sembra già persa. E lo si capisce anche dall'insistenza con cui in questi ultimi giorni i sostenitori della cosiddetta "legge sul fine vita" si affannano a spiegare sui giornali e agenzie dove gli è consentito, che tale legge appunto riguarda le Dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT) e non il "testamento biologico".
La questione è molto più importante di quel che possa sembrare a prima vista, perché – parlando di leggi - il cambiamento culturale di una società è determinato più dalla percezione del contenuto che non dal contenuto stesso di una legge.
In questo caso, tra DAT e testamento biologico c'è una differenza abissale: per gli estensori del disegno di legge le DAT si riconducono al principio per cui la vita è indisponibile; al contrario il testamento biologico, per definizione, si fonda sulla disponibilità della propria vita, sulla possibilità estrema di autodeterminazione. Per le lobby che spingono per la legalizzazione dell'eutanasia il testamento biologico è storicamente il passo decisivo nel cammino da una legislazione pro-vita a una pro-morte. Per questo ovunque nel mondo chi vuole la legalizzazione dell'eutanasia comincia dalla richiesta del testamento biologico.
Tornando al caso italiano, pur se il testo parla di DAT, su tutti i media si parla di testamento biologico, e anche i politici parlano di testamento biologico. E' quindi ovvio che l'opinione pubblica sia già convinta che di questo si tratti, anche se la legge dice qualcosa di diverso. Paradossale è poi il fatto che questo messaggio distorto sia ancora più convincente perché a volere la "legge sul testamento biologico" sono addirittura i vescovi e il Movimento per la Vita.
La scorsa settimana, nella risposta a un lettore, il direttore di Avvenire Marco Tarquinio accusava chi cerca di "confondere le acque" parlando di biotestamento invece che di DAT: "Succede su quasi tutti i giornali – diceva Tarquinio - per pigrizia, abitudine e conformismo... O per mero errore. Ma accade anche perché c'è chi scrive quel che vorrebbe che accadesse e non quel che sta accadendo".
Se guardiamo al contenuto del disegno di legge forse è vero, ma il problema non sta anzitutto nei media: infatti basta andare sui siti del Senato e della Camera dei Deputati per rendersi conto che è lì che il disegno di legge viene definito – per brevità – "sul testamento biologico". Sì, per brevità, perché il titolo vero del disegno di legge è: "Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento". Una spataffiata incomprensibile che fa sorgere la curiosità su chi sia il brillante stratega che ha pensato un titolo del genere. Perfino Zapatero in Spagna, per varare nei giorni scorsi una legge più aperta all'eutanasia, l'ha chiamata "sul fine vita". Ci voleva molto a dare lo stesso nome anche in Italia? E come è possibile che i parlamentari pro life che tanto generosamente si sono spesi per sostenere questa legge sulle DAT non si siano accorti o abbiano accettato che nei documenti ufficiali di Camera e Senato si parli di "testamento biologico"?
Ecco, il problema è che questa espressione – dopo due anni di discussioni politiche - è ormai passata nella mentalità comune, il che renderà più facile, al di là delle intenzioni, che in tempi brevi venga accettata anche la sostanza oltre alla formulazione. Con buona pace di chi oggi combatte comma per comma. Forse sarebbe più utile cercare di cambiare il titolo della legge.
Pillola data per errore, ostetrica provoca aborto di Raffaella Frullone, 17-05-2011, da da http://www.labussolaquotidiana.it
Immaginate di essere una donna di 28 anni, di desiderare tanto, con vostro marito, l'arrivo di un figlio, e immaginate che questo figlio non arrivi. Immaginate le attese, le speranze, le preghiere, i timori lunghi quattro lunghi anni e immaginate, finalmente, di rimanere incinta.
Immaginate che la gravidanza proceda in modo tranquillo, ma che ad un certo punto i medici vi dicano che è necessario un intervento chirurgico, un cerchiaggio al collo dell'utero, una piccola operazione che impedisca al bambino di nascere prima del termine. Immaginate il timore che qualcosa vada storto, e le rassicurazioni dei dottori: "Signora, non ha motivo di preoccuparsi".
Immaginate poi di trovarvi in una stanza di ospedale e attendere l'operazione, immaginate le pareti bianche e spoglie, il via vai delle infermiere e dei medici, immaginate di ingannare l'attesa fantasticando sul colore degli occhi di vostro figlio e delle cose che farete insieme, immaginate di venire interrotti da una giovane infermiera ("Signora deve prendere questa pastiglia"), immaginate di ingoiare la pastiglia senza far domande, fidandovi di chi ve la porge poiché indossa un camice bianco.
E immaginate che quella pastiglia vi provochi un aborto.
Non è la trama di un film, nemmeno l'incubo di una madre in ansia, ma è un episodio vero, avvenuto a Lille, nel nord della Francia, precisamente nel Gruppo ospedaliero dell'Istituto cattolico della città, clinica intitolata a San Vincenzo de' Paoli, un ospedale, come si legge nella presentazione in home page sul sito del nosocomio. "che sviluppa contemporaneamente un polo pediatrico ed un polo di altissimo livello dedicato alla mamma".
La scorsa settimana Zara, 28 anni, viene ricoverata per quella che le viene presentata come un' operazione priva di rischi. Quando dunque la giovane ostetrica le porge il farmaco, lo prende senza esitare: "L'infermiera mi ha detto che era per dilatare il collo dell'utero, pensavo fosse una procedura per facilitare il cerchiaggio, e l'ho presa". Dopo soli 20 minuti iniziano delle forti contrazioni. "L'ho segnalato ai medici che mi hanno detto che era normale" prosegue la donna ancora in forte stato di shock. Ignorava che quello che aveva appena preso era una pillola di Misoprostol, utilizzate per l'aborto chimico e destinate ad una madre ricoverata nella stanza accanto che voleva abortire.
Ad accorgersi del tragico scambio di persona sono i medici che, trasportando la donna in sala operatoria, si accorgono degli effetti delle pastiglie, ma è troppo tardi: "Non abbiamo potuto fare niente – rimpiange Houze de l'Aulnoit, capo del servizio di ginecologia e ostetricia del San Vincenzo – abbiamo solo potuto procedere con l'aborto". A commettere l'errore sarebbe stata una tirocinante, colpevole di non aver verificato l'identità della paziente prima di somministrarle il farmaco.
Accanto all'amarezza, allo sconcerto e al profondo dolore per questa madre e questo figlio, rimangono una serie di domande in sospeso. Come è possibile che una donna incinta e una che decide di abortire vengano ricoverate a pochi metri di distanza? Come è possibile che si affidi il compito di somministrare il farmaco che uccide il feto, ad una tirocinante? Come è possibile che una donna che sta per abortire non abbia parlato con i medici e gli infermieri che la seguiranno in questa straziante procedura di morte e che essi possano ignorare totalmente che volto abbia? Quanto conta il rapporto medico paziente in un ospedale che si dichiara di altissimo livello proprio per i reparti di ostetricia e ginecologia? Ma soprattutto, come è possibile che in un istituto cattolico si pratichi l'aborto?
Forse le risposte non arriveranno, più probabilmente ci chiederanno anzi di non fare domande, e ingoiare la pillola, per amara che sia.
Ue o Santa Sede? Di Robi Ronza, mercoledì 18 maggio 2011, il sussidiario.net
Anche se in questi giorni i riflettori della cronaca sono puntati sull'esito delle recenti elezioni amministrative, e non potrebbe essere diverso, è comunque meglio non dimenticarsi che nel frattempo un gruppo di Paesi della Nato, di cui l'Italia fa parte, continua a bombardare in Libia; e che la maggior parte della riva sud del Mediterraneo compreso fra la Tunisia a est e la Siria a ovest, o è in guerra, o è in grave tensione, o sta vivendo comunque una fase di transizione delicata e instabile.
In primo luogo, ma non solo per motivi di vicinato, tale situazione interessa in campo europeo innanzitutto il nostro Paese, l'unico fra i maggiori membri dell'Ue e l'unico fra gli Stati del G8 a essere bagnato soltanto dal Mediterraneo. Come già abbiamo accennato, ma come vale la pena di continuare a ribadire, dalla nostra collocazione geografica derivano delle precise conseguenze sul piano geo-politico e geo-economico che abbiamo il dovere di riscoprire. Continua ad essere ragionevole che aderiamo alla Nato, ovvero alla North Atlantic Treaty Organization (Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord), anche se l'Italia essenzialmente non è un paese atlantico per il semplice motivo che per l'appunto non sta sull'Atlantico bensì sul Mediterraneo. Siccome ciò è lapalissiano, c'è qualcosa di schizofrenico nel fatto che tanta evidenza non sia né comunemente avvertita né sin qui adeguatamente considerata dalla nostra politica estera. I motivi storici di tale colossale strabismo sono noti: risalgono alla seconda guerra mondiale, quando vennero sì sconfitte due dittature esecrande ma anche, insieme ad esse, inevitabilmente due Paesi con dei loro legittimi interessi nazionali. Nel caso che ci riguarda, il nostro legittimo interesse di potenza mediterranea.
Adesso però, a oltre sessantacinque anni dal 1945, diciamo ancora una volta che sarebbe ora di cambiar strada. Non mettersi a rincorrere in modo automatico qualsiasi iniziativa delle potenze nordatlantiche, come invece è accaduto nel caso della crisi libica, sarebbe già qualcosa. Non torno però qui sull'argomento tanto più che quanto scrissi su ilsussidiario.net all'inizio della crisi, e in particolare lo scorso 6 marzo, mi sembra ancora attuale. Al di là dei casi singoli, occorre piuttosto delineare in modo organico le linee di una possibile politica mediterranea del nostro Paese da portare poi avanti sistematicamente ed in cui collocare la gestione delle possibili future crisi. Se invece un tale quadro d'insieme manca, allora ci si condanna a reagire in modo estemporaneo agli eventi, e per di più correndo su binari posti sul terreno da altri secondo un disegno che di solito ci gioca contro.
Nella definizione di tale politica si deve a mio avviso prendere le mosse da un punto fondamentale: mentre a noi sud europei, a noi mediterranei/danubiani, interessa che il Vicino e Medio oriente, in una parola il Levante, sia non solo in tregua ma in pace e in sviluppo, ai nostri alleati nordatlantici nella Nato e ai nostri partner nordatlantici nell'Unione europea non interessa molto che sia in pace e in sviluppo; gli basta che sia in tregua. A nordatlantici perciò va bene che nel Levante le crisi diventino croniche trasformandosi in interminabili conflitti a bassa potenza, in situazioni di attrito ricorrente, come già è accaduto in Israele e Palestina, e in Libano; e come si sta facendo il possibile perché accada anche in Libia.
Il nostro Paese ha invece tutto l'interesse a che questi importanti grandi ponti potenziali dell'interscambio euro-asiatico e rispettivamente euro-africano vengano riaperti e via via sempre più potenziati e infrastrutturati nella prospettiva di un equilibrato sviluppo condiviso (in assenza del quale, osservo per inciso, la disastrosa immigrazione non autorizzata verso le nostre coste diventerebbe a lungo termine comunque irrefrenabile). Questo dovrebbe essere un elemento-chiave della nostra politica estera.
In tale prospettiva una forte mediazione volta a risolvere in modo concordato la crisi libica potrebbe essere, anzi deve essere il punto di svolta. In questo mi sembra di vedere che il nostro Paese potrebbe trovare un grande alleato nella Santa Sede, la quale è ormai apertamente schierata per una soluzione non militare della crisi e che - grazie alla testimonianza e all'opera del vicario apostolico a Tripoli mons. Innocenzo Martinelli, nonché dei cattolici (soprattutto filippini e arabi) rimasti coraggiosamente sul posto a lavorare negli ospedali libici - nella difficile partita per una pace equa in Libia ha delle carte da giocare di cui nessun altro dispone.
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CANNES 2011/ 30 anni di "Momenti di Gloria": se neanche la vittoria dà un senso alla vita di Leonardo Locatelli, mercoledì 18 maggio 2011, il sussidiario.net
«Bring me my Bow of burning gold: / Bring me my Arrows of desire: / Bring me my Spear: O clouds unfold! / Bring me my Chariot of fire»; «Portami l'arco d'oro che incendia: / portami i dardi del desiderio: / portami la lancia: oh! le nubi diradano, / portami il carro di fuoco». Questi pochi versi di William Blake contenuti in un suo breve componimento del 1804 – poi musicato nel 1916 con il titolo di Jerusalem – sono stati di ispirazione allo sceneggiatore Colin Welland per il nome definitivo da dare ad uno script che stava perfezionando proprio nel momento in cui, una domenica sera, sentì questo inno sacro presentato in uno storico programma della BBC.
Quelle pagine sarebbero diventate la base di uno dei più fortunati film di ambito sportivo che la storia del cinema ricordi, una pellicola che proprio trent'anni fa iniziava la sua marcia verso il successo inserita in concorso al Festival di Cannes, nell'edizione che avrebbe incoronato con la Palma d'oro L'uomo di ferro (Czlowiek z zelaza) di Andrzej Wajda. Chariots of Fire (per noi italiani meglio noto come Momenti di gloria) del 45enne Hugh Hudson, regista proveniente dal mondo della pubblicità, sarebbe invece stato premiato per l'attore non protagonista (Ian Holm), ricevendo inoltre – insieme a Uno sguardo, un sorriso (Looks and Smiles) di Ken Loach – una menzione speciale dalla giuria ecumenica. Un anno dopo – sabato 29 maggio 1982 al Dorothy Chandler Pavillion di Los Angeles – sarebbe giunta la consacrazione con quattro Academy Awards (su sette candidature): migliori film, sceneggiatura originale (Welland), colonna sonora originale (Vangelis) e costumi (Milena Canonero).
Proviamo per l'occasione a "ri-attraversare" questa pellicola, cercando di metterne in luce gli aspetti per la quale occupa ancora un posto particolare nella memoria di molti appassionati (in primis di chi scrive). I "momenti di gloria" del titolo italiano sono quelli che vivono i due protagonisti, Harold Abrahams e Eric Liddell, parte di quel gruppo di «pochi giovani con speranza nei loro cuori e ali ai loro talloni», come afferma nelle primissime inquadrature l'ormai anziano Andrew Lindsay. È su queste parole che inizia un flashback, un ritorno al passato che di fatto occupa l'intera durata del film, scandito dalle celebri note dei Vangelis (Evangelos Odysseus Papathanassiou).
Harold Abrahams, il cui padre è un ebreo lituano, trapiantato nell'Inghilterra di inizio Novecento, sente intorno a sé la diffidenza e l'astio che tradizionalmente circondano il suo popolo: «A volte mi dico: "Attento, ti stai immaginando tutto". Poi rivedo quello sguardo. Lo sento nel tono di un commento. Sento la ritrosia di una stretta di mano». Egli ne soffre («È doloroso, un senso di inadeguatezza e di rabbia. Ci si sente umiliati») ma non accetta la situazione e trova nell'atletica il suo strumento di rivincita.
È lui stesso ad ammetterlo, durante il primo incontro con la futura compagna Sybil Gordon: «Direi che è la mia droga. E la mia arma di difesa. Contro l'essere ebreo». La sua è una lotta – fatta eccezione per i pochi e fidati amici come il compagno di studi Aubrey Montague – contro il mondo intero: «Li sfiderò tutti. Uno alla volta. E gli farò mangiare la polvere».
Pur avendo delle comprensibili motivazioni, nel proprio tentativo di rivalsa personale, la pretesa di poter fare tutto da sé è fin da subito votata al fallimento, che arriva nella gara per le qualificazioni olimpiche a Londra, quando è battuto nettamente da Liddell. È in questa occasione che tutti i suoi limiti vengono a galla e a poco servono le rincuoranti parole di Sybil, alla quale confessa con rassegnazione che «non posso correre più veloce».
Questa sarebbe la parola "fine" alle sue ambizioni se non si facesse avanti Sam Mussabini, allenatore professionista, alle cui cure egli si affida. Così quello che prima pensava di raggiungere per conto proprio, ora gli riesce grazie all'aiuto di un maestro che lo guida, lo ri-educa, gli ri-dona forma («Figliolo, se è in gamba, La smonterò pezzo dopo pezzo») e Harold si lascia "ri-fare", perché solo una è la decisione più ragionevole che uno può prendere in queste situazioni: seguire chi gli sta davanti.
L'unico errore che Harold commette sta nel puntare troppo su quello che ha dichiarato essere il suo scopo principale: la vittoria. Nel rincorrerla con troppa foga, anche se per le ragioni che già conosciamo, il rischio è quello di lasciarsi determinare da quest'unica circostanza, in funzione della quale uno non può certo costruire la propria esistenza. Ed è proprio questo il timore che, poco prima della gara decisiva, assale Harold.
Ecco allora lo sfogo al quale si lascia andare con Montague: «Sono sempre alla ricerca e non so neanche di cosa. Caro Aubrey, ho paura. […] Tra un'ora scenderò di nuovo in pista. Solleverò gli occhi verso quel rettilineo largo 120 centimetri e in dieci secondi dovrò giustificare la mia esistenza. Ma ce la farò? Aubrey, conosco la paura di perdere. Ma ora ho quasi paura di vincere».
Si spiega così il contraccolpo – è l'unico del team inglese a non festeggiare con gli altri – cui egli deve far fronte dopo la vittoria, con la quale ha comunque visto sfumare qualcosa che lo aveva fin lì animato, un qualcosa quindi di troppo limitato, inadeguato per dare significato all'intera esistenza di un uomo. Qualcosa che va invece ricercato in altro.
Un Altro di cui il secondo protagonista della vicenda, Eric Liddell, è espressione e si è fatto umile strumento. Anch'egli insegue la vittoria al pari di Harold ma non si lascia definire come lui dal risultato finale, qualunque esso sia. Quella che è la sua natura, la sua statura di uomo sta tutta nell'affermazione (decisiva, totale, illuminante) con cui giustifica il suo impegno per la preparazione olimpica agli occhi della scettica sorella: «Jeannie, cerca di capirmi. Credo che Dio mi abbia creato per uno scopo. Per la Cina. Ma mi ha anche creato veloce. E quando corro… Sento che a Lui fa piacere. Lasciando l'atletica, Gli mancherei di rispetto. Avevi ragione. Non è solo un passatempo. Vincere significa onorare Dio».
E questo è qualcosa di più grande e di più forte anche delle "autorità" che hanno cercato di farlo ritornare sulla sua decisione di non correre di domenica in quanto giorno dedicato al Signore. Lo scambio di battute tra il duca di Sutherland e Lord Birkenhead è indicativo: «La velocità è il prolungamento della sua forza vitale. Volevamo separarlo dalla sua corsa»; «Sì, ma nell'interesse del suo Paese... »; «Nessun interesse vale tanto. Tanto meno un orgoglio nazionale colpevole».
Anche l'avversario Jackson Scholz, uno dei rappresentanti del team statunitense, riconosce l'importanza che questo riveste per Eric. Così si esprime mettendo in guardia uno dei suoi compagni prima della gara: «Ha qualcosa di personale da dimostrare. Qualcosa che uno come il mister non capirà mai».
La Speranza che costituisce e "tiene assieme" il cuore di Eric, determinandone la coscienza con cui affronta tanto la corsa quanto la vita, trova ulteriore risalto nel sermone che lui stesso tiene (citando il profeta Isaia) in una chiesa di Parigi: «Non lo sai forse? Non lo hai udito? Dio eterno è il Signore, creatore di tutta la terra. Egli non si affatica né si stanca. Egli dà forza allo stanco e allo spossato moltiplica il vigore. Ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi».
Colpisce il fatto che, mentre queste parole vengono proclamate, sullo schermo scorrano le immagini delle fatiche e delle sconfitte degli altri atleti inglesi impegnati nelle gare olimpiche. Questo per rendere evidente come quel Dio che Eric serve rappresenta l'ipotesi positiva su tutto ciò che si vive, proprio tutto, anche sulle delusioni, sulle amarezze o su quegli episodi che con la gloria – dell'uomo e di Dio, comunque la nostra limitata misura potrebbe intenderla – non sembrerebbero avere niente a che vedere.
Come ha sintetizzato Morando Morandini, «[è] un film sincero, sostenuto da un trasparente fervore morale, che sa conciliare gli intenti spettacolari con le ambizioni d'autore, la nostalgia per un'epoca di solidi ideali con una rappresentazione che sa essere anche critica. Ebbe 4 Oscar […]. Il tema di Vangelis divenne un hit e il produttore David Puttnam un eroe dell'imprenditoria britannica. Non male per un regista esordiente».
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INCHIESTA/ La civile Svizzera prova a sedurre l'Italia col "turismo della morte" di Marina Marinetti, mercoledì 18 maggio 2011, il sussidiario.net
No, il suicidio assistito non si tocca. Si, si potrà continuare ad andare a morire in Svizzera. Qual è la novità? Nessuna. Eppure, dopo che il referendum nel cantone di Zurigo domenica ha bocciato sia la proposta dell'Unione democratica federale, che chiedeva di rendere punibile qualsiasi forma di istigazione al suicidio, sia quella del Partito Evangelico, che proponeva di limitare l'assistenza al suicidio a chi risiede nel cantone da almeno dieci anni, nel Belpaese non s'è persa l'occasione per dar fiato alle trombe e invocare a gran voce la necessità di approvare la legge sul testamento biologico. Senza accorgersi, o magari facendo finta di non accorgersene, che il suicidio assistito non c'entra nulla con l'opportunità, o meno, di disegnare i propri personalissimi confini oltre ai quali le cure diventano accanimento terapeutico.
A quanto pare, il dettato dell'articolo 32 della Costituzione, "nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge", non basta. E il richiamo al "rispetto della persona umana" per qualcuno è troppo generico. Ma c'è davvero bisogno di una legge per stabilirlo, o sarebbe più opportuna un'iniezione di buon senso? Anche gli italiani cominciano a chiederselo: nel suo rapporto "Cultura della salute e testamento biologico" l'Eurispes registra un calo del 4,2% dei sostenitori del testamento biologico (dall'81,4% degli intervistati nel 2010 al 77,2% del 2011) a fronte di un netto aumento dei contrari, saliti dal 3,3% al 14,2%. E anche sull'eutanasia aumenta il fonte del no (dal 21,7 al 24,2%) e diminuisce quello dei sostenitori (dal 67,4% al 66,2%).
Tra un dibattito e un sondaggio, invocando l'eutanasia come soluzione all'accanimento terapeutico, si confondono le acque e si fa apparire l'Italia indietro anni luce rispetto alla più civile Svizzera, dove il suicidio assistito è ammesso sin dal 1941. Anche se pure nella Confederazione, a voler guardare la realtà dei fatti, il dibattito è sempre vivo: prova ne sono i quesiti posti dai due partiti di ispirazione protestante. Ma il governo federale, che sarebbe intenzionato a stringere le maglie, dovrà accontentarsi dei paletti già in vigore. Quali? Prima di tutto la motivazione, che, stando al diritto elvetico, non deve essere egoistica. Certo, ci piacerebbe sapere in base a quali criteri si possa valutare il grado di altruismo di una decisione del genere, ma non è questa la sede per effettuare un'indagine in tal senso.
In secondo luogo, l'unica modalità di suicidio ammessa nella Confederazione è quella passiva: il medico procura il cocktail letale, ma non può somministrarlo altrimenti commette reato. È il paziente - termine quanto mai inappropriato, considerato l'esito della cura - ad assumerlo autonomamente. Prende il bicchiere, beve un sorso, in tre minuti si addormenta. E nel giro di cinque è tutto finito. Anche in Lussemburgo, Olanda e Belgio è il paziente a dover compiere materialmente l'atto. Il medico assiste e basta. Ma che senso ha rivolgere un servizio simile a malati terminali che non hanno la possibilità di sollevarlo, quel bicchiere? Svezia, Danimarca, Germania e Spagna non fanno la distinzione e ammettono l'eutanasia anche nella sua forma attiva.
E in Italia? Se c'è, non si dice. Che qualche angelo della morte ogni tanto si aggiri in corsia è cosa più facile a dirsi che a dimostrarsi. E nessuno, in coscienza, può giudicare chi, dopo un travagliato percorso di dubbio e sofferenza, sceglie la morte invocandola come soluzione. Anche perché il suicidio, contrariamente a quanto si crede, in Italia non è reato. Lo sono invece l'istigazione al suicidio e l'aiuto al suicidio, puniti dall'articolo 580 del Codice Penale con la reclusione da cinque a dodici anni. In caso di un'eventuale eutanasia, il delinquente è il medico (o l'infermiere, l'amico, il parente), non il malato.
Dei 2.828 suicidi registrati in Italia nel 2008 dall'Istat - ebbene sì, si fanno statistiche anche su questo, divise per età, sesso e provincia - non è dato sapere quanti fossero malati terminali o incurabili. Ma chi parla di "turismo della morte" gridando allo scandalo, alla non-notizia che la Dignitas, una della due associazioni zurighesi che praticano l'assistenza al suicidio, offre il servizio anche agli stranieri, fa male i suoi conti. Gli italiani che hanno scelto questa via, fino ad ora, sono stati 19. No, non nel 2010: dalla fondazione dell'associazione, nel 1998. Un po' poco per parlare di "turismo della morte". E in tutto?
In 13 anni di attività la Dignitas ha "assistito" 1.138 persone. E gran parte degli stranieri che vi sono rivolti provenivano da paesi dove l'eutanasia non è affatto illegale: i 592 tedeschi, i 16 spagnoli, i 18 statunitensi hanno solamente scelto un diverso luogo, forse anche una diversa modalità, per morire. Gli svizzeri, invece? Sono circa 250 l'anno, perlopiù anziani intorno ai 76 anni. Molti, forse troppi per chi, dagli anziani, anche se invalidi e sofferenti, si aspetta una rassegnata accettazione della fine che verrà. Da sola.
Il vero problema, forse, non è l'eutanasia, né l'offerta del servizio anche a chi non potrebbe praticarlo, almeno non con le stesse modalità nel proprio paese. Il vero problema è l'impressionante predisposizione al suicidio che c'è in Svizzera: qui, ogni anno, sono circa 1.400 le persone che si tolgono la vita. Sono tante. In Italia, sono il doppio, dirà qualcuno. Ma l'Italia ha più di 60 milioni di abitanti, mentre la svizzera non arriva neppure a sfiorare gli 8 milioni. E allora? C'è qualcosa che non va. Suicidarsi non è un delitto. Ma perché dev'essere difeso come un diritto?
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I giovani? Una specie in via d'estinzione di Manila Alfano - © IL GIORNALE ON LINE S.R.L.
Negli ultimi dieci anni l'Italia ha perso due milioni di under 34. E nei prossimi venti caleranno ancora. Motivo: ci si costruisce una vita troppo tardi e si fanno pochi figli
Li chiamano «merce rara». I giovani sono in via di estinzione, una specie da proteggere. Pochi e sempre più soli, sembrerebbe. «Negli ultimi dieci anni la generazione giovanile ha perso oltre due milioni di unità e nei prossimi vent'anni diminuirà ancora».
Il rapporto presentato dal direttore del Censis, Giuseppe Roma preoccupa; e ieri, alla commissione Lavoro della camera, neppure lui sembrava molto soddisfatto. I numeri non tornano. Si fanno proiezioni, ipotesi, ma si arriva sempre allo stesso risultato: manca l'ingrediente principale, il motore, il nuovo che sostituisce il vecchio. I giovani scarseggiano, in Italia non nascono abbastanza bambini. «Dal 200 al 2010 abbiamo perso letteralmente due milioni di giovani tra i 15 e i 34 anni», ripete Roma. «I dati strutturali ci dicono che stiamo perdendo la fisiologia di ogni società». Manca il ricambio generazionale, non ci sono nuove leve. L'Italia è un Paese che invecchia. Te ne accorgi camminando per strada, i fiocchi attaccati ai portoni scarseggiano, ogni famiglia si concede un figlio, massimo due. Si aspetta, forse troppo. Un terzo dei 35enni vive a sbafo da mamma e papà, ma solo il 41 per cento lo fa per necessità economica.
C'è paura, si programma e si attende il momento giusto. Lo studio, il posto fisso, la casa, a modo e per bene. Poi, diventa subito maledettamente tardi, scatta la campanella, e le «giovani» mamme si ritrovano ad avere 35 anni senza quasi accorgersene. Si va avanti così: pochi figli con madri sull'orlo della menopausa. Un meccanismo pericoloso, una sorta di politica del figlio unico dettata dalla necessità. Le insegnanti lo sanno da anni, lo vedono quando fanno l'appello e tra i nomi si leggono sempre meno bambini italiani. I figli degli immigrati sono sempre di più, l'incidenza delle nascite di bambini stranieri sul totale dei nati della popolazione residente è passata dall'1,7 per cento al 13,6 per cento. Saranno loro la scialuppa di salvataggio per il welfare italiano? Si preferisce invecchiare, piuttosto che fare figli. «Nei primi anni 2000 i giovani contavano in Italia per il 28% della popolazione totale, nel 2010 la loro quota e scesa al 23%, nel 2030 saranno il 21 per cento», dice il direttore del Censis. Continuerà, al contrario, l'incremento della popolazione con oltre 65 anni, la cui incidenza passa dal 18% di dieci anni fa, al 20% attuale, fino al 26% del 2030. Così mentre attualmente i giovani consentono ancora un certo ricambio generazionale coprendo una quota superiore, seppur di poco, della terza età, fra vent'anni i giovani diminuiranno, seppure di poco, mentre gli anziani cresceranno di oltre 4 milioni. E a quel punto che faremo?
Come noi solo la Germania, anche lì c'è già qualcuno che inizia a preoccuparsi su chi pagherà le pensioni. «I giovani pesano in Italia e Germania meno che in altri grandi Paesi europei come Francia e Regno Unito e rispetto alla media europea. Ma non solo. I nostri, sembrano giovani diversi. «La vera anomalia italiana è rappresentata dai giovani che non mostrano interesse nè nello studio, nè nel lavoro: in Italia sono l'11,2% rispetto al 3,4% della media europea», ha sottolineato il direttore. Secondo il Censis, per i «middle young» (25-34 anni d'età) c'è un'inversione tra chi studia e chi lavora, e crescono le persone alla ricerca di un lavoro o esclusi da qualsiasi attività. È bassa la partecipazione al lavoro nell'età dell'apprendistato e del diploma. Nei successivi dieci anni, la quota di chi non ha avuto accesso alla vita attiva, alla piena autonomia e responsabilità raggiunge il 35% tra i 25-34enni, e la percentuale sale al 45% tra le donne e al 53% nel Mezzogiorno. «E non bisogna neanche agitare lo spauracchio del lavoro precario - ammonisce una nota del Censis - i giovani occupati a tempo determinato in Italia sono il 40,1 per cento, meno che negli altri grandi Paesi europei».
Avvenire.it, 18 maggio 2011 - L'ANALISI - Scola: salvare l'uomo, prima ecologia di S.E. Card. Angelo Scola
Sono quattro le parole chiave che compongono il tema di Expo 2015 «Nutrire il pianeta. Energia per la vita»: alimentazione, energia, pianeta, vita. Ciascuna forma di vita – è stato detto – ha bisogno di energia e l'energia viene fornita dall'alimentazione. A sua volta, il nesso vita-alimentazione incide sullo sviluppo del pianeta, unitamente all'interazione di una molteplicità di fattori naturali e antropici. Da questa circolarità complessa emerge allora quella che viene definita come la quinta parola chiave: la persona che – si legge nel Memorandum – «con gli strumenti del suo vivere e del suo lavoro, contribuisce a trasformare in positivo o in negativo la natura nella quale vive».
La centralità della persona consente di pensare un uso del pianeta responsabile e capace di cura. Vale però la pena di sottolineare come tale riferimento antropologico implichi un decisivo mutamento di paradigma in campo economico e tecnologico. E viceversa: non è pensabile una riformulazione dell'assetto economico-tecnologico globale senza mettere al centro, non solo a parole, la persona e i suoi legami sociali. È stato lo stesso Benedetto XVI a ricordare, in occasione del Vertice mondiale sulla sicurezza alimentare, il fondamentale risvolto antropologico della questione. Contrariamente alle visioni catastrofistiche, che spesso funzionano come pretesto per giustificare una pericolosa inerzia politica , il Papa ha riaffermato chiaramente «l'assenza di una relazione di causa-effetto tra la crescita della popolazione e la fame», come è dimostrabile anche «dalla deprecabile distruzione di derrate alimentari in funzione del lucro economico» (n. 2).
Rifacendosi poi direttamente al n. 27 di <+corsivo>Caritas in Veritate<+tondo>, il papa ha significativamente aggiunto che «la fame non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale. Manca, cioè, un assetto di istituzioni economiche in grado sia di garantire un accesso al cibo e all'acqua regolare e adeguato…, sia di fronteggiare le necessità connesse con i bisogni primari e con le emergenze di vere e proprie crisi alimentari» (n. 2). C'è una «ecologia umana» da pensare, prima di un'ecologia ambientale, dal momento che il degrado o meno dell'ambiente è strettamente connesso «alla cultura che modella la convivenza umana» (n. 9).
Per offrire un modello alternativo all'egoismo è necessario dunque ripensare la natura stessa del bisogno. Troppo spesso interpretato come diritto esclusivo al benessere, il bisogno è invece anzitutto segno di fragilità. In caso contrario il bisogno si trasforma in pretesa e diventa sorgente di dominio. Il bisogno come segno di fragilità documenta invece la necessità di reinterpretare la questione cruciale della soddisfazione umana. Lo stesso fatto per cui l'uomo non può far fronte ai propri bisogni, se non con la mediazione di una cultura del bisogno, una cultura innanzitutto pratica, quella cioè della sua prassi ideativa e lavorativa, indica che il sistema dei bisogni umani dev'essere pensato come un sistema aperto oltre se stesso. In altri termini, è necessario riconsiderare la plasticità dei bisogni umani come espressione di una istanza antropologica che implica una duplice apertura dei soggetti umani a partire dai bisogni stessi.
Da una parte, l'apertura di un'intelligenza inventiva, che in qualche modo domina, manipola, trasforma in continuazione i profili e i contenuti dei bisogni; dall'altra, l'apertura di una dimensione che possiamo chiamare di desiderio, che esprime la capacità di riformulare continuamente i bisogni. Qui il proprio dell'uomo si manifesta come facoltà di porsi, col desiderio appunto, al di là dell'ordine stesso dei bisogni, puntando a una condizione in cui tra l'essere nel bisogno e l'elaborazione dei bisogni vi sia un'ideale armonia, una condizione di pacificazione dinamica. Infatti ciò che muove l'uomo (e solo l'uomo) nell'affrontare i suoi bisogni è l'ideale di vivere in un modo equilibrato, integrato, giusto, pacifico.
È perciò evidente, a questo punto, che la soddisfazione umana implica l'apertura ad una prospettiva di compimento integrale dell'esistenza, che non può essere affrontata con una misura puramente quantitativa. Attitudine che purtroppo non di rado investe il modo di concepire l'economia e gli obiettivi della politica (che sovente è a rimorchio del modello utilitaristico dominante in campo economico). L'effetto, in termini antropologici, è stato ben evidenziato dal premio Nobel per l'economia Amartya Sen e dal filosofo Bernard Williams: le persone finiscono di fatto per non contare «più dei singoli serbatoi di petrolio nell'analisi del consumo nazionale di petrolio».
Opporsi a questa concezione di «uomo-serbatoio» implica fare i conti con la mentalità oggi dominante secondo la quale l'uomo, per porre la propria identità, deve concepirsi in maniera puramente individuale, come uomo senza relazioni. La corretta analisi del bisogno e della sua soddisfazione umana fa quindi emergere l'inadeguatezza dell'interpretazione moderna e contemporanea di chi sia il soggetto umano. Secondo la rappresentazione hobbesiana dello stato di natura, l'uomo ha come unico bisogno quello di sopravvivere e come unico oggetto di desiderio il potere quale mezzo per soddisfare il proprio bisogno. Al contrario, l'uomo è un essere originariamente in-relazione, è un io-in-relazione.
Occorre allora compiere un passaggio fondamentale per riaffermare questa naturale inclinazione alla fiducia reciproca: occorre passare da un concetto di ragione ridotta a puro calcolo a un concetto di ragione come capacità di identificare e condividere ciò che è bene per l'uomo in quanto tale. È questa dimensione intrinsecamente comunicativa della ragione umana a dar conto del fatto che l'identità umana possiede intrinsecamente, e non solo contingentemente, un carattere relazionale, sociale. Del resto, la parola comunicazione, se non viene ridotta a mero trasferimento meccanico di informazioni, suggerisce la posta in gioco: contiene la voce munus, che significa sia «dono», sia «compito».
Potremmo allora dire, riecheggiando il famoso passo aristotelico della Politica: non c'è bene umano personale che non sia un bene ricevuto in dono da altri e responsabilmente donato a propria volta. È su questo concetto impegnativo di Koinonìa che Aristotele fonda la città, il cui scopo non è la semplice sopravvivenza, come dirà Hobbes restringendo per l'appunto l'orizzonte della ragione, ma la vita buona che, non a caso, per Aristotele è – ad un tempo – del singolo e di tutti, oppure semplicemente non è.
Questa visione antropologico-relazionale domanda di riattualizzare il concetto di riconoscimento di hegeliana memoria: l'attesa fondamentale di un soggetto umano è infatti quella di valere qualcosa per qualcuno. Senza questo riconoscimento del proprio valore umano, dice Hegel, l'uomo non diventa soggetto, ma rischia di accontentarsi di vivere come un animale (già Aristotele, in fondo, diceva la stessa cosa). Si può allora concludere dicendo che il riconoscimento tra uomini è un bene primario. Il bene del riconoscimento non è un bene tra gli altri, uno tra i contenuti buoni che possono favorire il fiorire dell'esistenza umana, bensì è quel bene umano che è condizione di possibilità d'ogni altro bene umano in quanto umano.
Questa è la radice antropologica che dovrebbe regolare ogni strategia economica e politica, anche e soprattutto in relazione alla questione dell'abitare il mondo. L'abitabilità presente e futura del mondo non dipende solo dalla disponibilità di risorse, ma dall'orizzonte di riconoscimento reciproco entro cui le risorse verranno distribuite. Si capisce così l'insistenza di Benedetto XVI nel dire che non ci può essere vera cooperazione internazionale senza solidarietà e sussidiarietà, perché nessun aiuto umanitario, nessuna redistribuzione di ricchezza è veramente un bene se non onora/ospita l'umano che è comune a ciascuno di noi.
Appare qui, nella giusta luce, l'apporto che anche oggi le religioni possono dare alla vita buona, che genera pratiche virtuose, all'interno di una società plurale come la nostra. Ciò mostra l'inadeguatezza di una concezione e di una pratica della laicità che pretendano di neutralizzare le religioni e le visioni sostantive.
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La verità sull'Olio di Lorenzo - Il padre racconta la battaglia per una cura impossibile: "Sono solo, ma il ricordo vivrà" - CARLA RESCHIA - GAMALERO (Alessandria) - http://www3.lastampa.it/
Un libro testimonianza, presentato nella casa di famiglia, a Gamalero, paesino dell'Acquese che aveva visto, oltre 30 anni fa, il piccolo Lorenzo ancora sano e felice muovere i suoi primi passi. Augusto Odone, l'economista della Banca Mondiale diventato ricercatore per trovare una cura contro l'adenoleucodistrofia che aveva colpito il figlio a sette anni, e tornato definitivamente in Italia dopo la sua morte, ha scelto un luogo della memoria familiare per la prima uscita pubblica dell'«Olio di Lorenzo», il racconto edito da Mondadori della storia che con lo stesso titolo fu un grande film di Hollywood con Nick Nolte e Susan Saradon.
Storia non a lieto fine: è morta nel 2000 Michaela, la madre di Lorenzo che con Augusto spese anni facendo ricerche in biblioteca e cercando di convincere a collaborare ricercatori che non si erano mai parlati e si guardavano in cagnesco. Ed è morto Lorenzo, il 31 maggio 2008. Ma è morto oltre 20 anni dopo la diagnosi che gli assegnava due anni scarsi di vita. Questo è il miracolo che Augusto Odone ha raccontato in un libro pieno di ricordi, dove le immagini di Lorenzo, bimbo sano, vivace e straordinariamente dotato, sfumano nel dramma di una malattia neurologica rarissima che distrugge la guaina dei centri nervosi e porta a una totale paralisi.
I viaggi e i soggiorni di lavoro in tutto il mondo e l'ultimo periodo sereno lasciano il posto a una vita spesa tra stanze d'ospedale e biblioteche scientifiche, ai tentativi disperati di trovare una speranza e una cura, a un lavoro paziente e dall'esito incerto: trovare una sostanza capace di bloccare la degenerazione dei centri nervosi e bloccare l'evoluzione della malattia. «Allora – ricorda Augusto Odone – non c'era Google e fare ricerche era un lavoro duro, ore spese a consultare cataloghi e a cercare libri». Sono la stessa Michela, portatrice sana di Ald e sua sorella le prime cavie del composto di acido oleico che viene individuato come possibile antidoto grazie al fondamentale apporto della relazione, semidimenticata, di uno scienziato polacco. Cene a base di trigliceridi che Augusto si sforza di confezionare inventando ricette appetitose e che via via confermano l'idea che quella possa essere la soluzione.
Nei film le cose sembrano sempre migliori e ne «L'olio di Lorenzo» Susan Saradon e Nick Nolte si sorridono tutto il tempo. Il libro racconta invece un rapporto famigliare che si fa difficile, costretto tra la necessità di accudire Lorenzo, vivo, salvo da una morte immediata ma irreparabilmente danneggiato dal primo decorso del male e la volontà di raccontare con il Progetto Mielina il lavoro di ricerca iniziato perché possa progredire. «Non ce l'avrei mai fatta senza Michaela – racconta Augusto - ma alle volte litigavamo furiosamente, eravamo tutti e due stanchi e tesi. Non vivevamo più, non avevamo più tempo per noi, assorbiti da Lorenzo e dal tentativo di dargli un futuro».
Confessa che il libro ha avuto una lunga gestazione ed è stato difficile da scrivere. Sia per il dolore e il peso dei ricordi sia per le sue condizioni di salute. Ma aveva promesso a Michaela che l'avrebbe fatto perché per lui la parola «impossibile» non esiste, dice Francesco, figlio nato dal primo matrimonio, che ricorda quel bambino che aveva un sorriso per tutti e che quando non sapeva ancora camminare gattonava così svelto che nessuno gli si stava dietro.
«Ho scritto questo libro per mantenere viva la memoria di mio figlio Lorenzo», così inizia il libro. Ora, raggiunto l'obiettivo, bisogna continuare a tenere viva la ricerca su queste malattie. Non lo devono fare solo i medici. Augusto Odone crede nei pazienti, che «non devono accontentarsi ma andare alla ricerca di una seconda opinione, fare del loro meglio per identificare lo specialista migliore, informarsi. Questa credo sia le lezione importante della mia storia, oltre all'amore, che ti spinge a non abbandonare mai la lotta».La straordinaria storia della famiglia Odone nel 1992 diventa un film che commuove il mondo intero. «L'olio di Lorenzo» s'intitola, regista George Miller, cast di star hollywoodiane: Nick Nolte nel ruolo del padre di Lorenzo, Augusto; Susan Sarandon in quello della madre Michaela; Peter Ustinov in quello del professor Nikolais. Oltre al grandissimo successo di pubblico il film raccoglie due nomination agli Oscar (per la miglior attrice protagonista e per la migliore sceneggiatura originale) e una ai Golden Globe (sempre per la migliore attrice).