Nella rassegna stampa di oggi:
- «Il progresso non è riuscito a cancellare la fede» di Massimo Introvigne, 11-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
- Avvenire.it, 11 maggio 2011 - UDIENZA DEL MERCOLEDI' – il Papa: anche "l'uomo digitale" è alla ricerca di Dio
- C'è poco da negoziare di Riccardo Cascioli, 11-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
- Allarme sulla Ru486: «Troppe complicazioni» - Lo studio - Le emorragie gravi sono 15 volte più frequenti dell'aborto chirurgico - Scienza & Vita: sempre pericoloso banalizzare, di Enrico Negrotti, Avvenire, 10 maggio 2011
- LA REPUBBLICA, 10 maggio 2011 - Scienziati giapponesi hanno guidato lo sviluppo di cellule embrionali di topo – E' l`organo più complesso sinora realizzato - Dal laboratorio nasce l'occhio dotato di retina, di Eugenio Muller*
- RU 486 più dannosa dell'aborto chirurgico di Raffaella Frullone, 10-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
- Il sogno dell'indipendenza passa dall'orgoglio gay? di Marco Respinti, 10-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
- Il "metodo Nerone" è sempre di moda di Anna Bono, 11-05-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/
- Il coraggio di un discorso di Lorenzo Bertocchi - 11/05/2011 - Segnalazioni librarie – da http://www.libertaepersona.org
- Riflessioni e indicazioni pastorali sulle prossime elezioni amministrative del 15 e 16 maggio 2011 - S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi, Arcivescovo-vescovo di Trieste e Presidente dell'Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuân, sulla Dottrina sociale della Chiesa, da http://www.vanthuanobservatory.org/
- VERONESI E' PER L'EUTANASIA. NOI INVECE PER LA "CURA" DELLE PERSONE - Lucio Romano, Copresidente nazionale Associazione Scienza & Vita, Pubblicato l'11 maggio 2011 da http://www.blogscienzaevita.org/
- La Stampa, 11 maggio 2011 - "I miei nanotubi vi guariranno"- Tutto Scienze Intervista - Dopo le missioni nell'organismo, si degradano grazie a un enzima scoperto nei globuli bianchi - LE APPLICAZIONI «I nanomateriali ingegnerizzati potranno essere utilizzati per i nuovi farmaci su misura» - I PERICOLI «Con la tecnica di inattivazione si elimina il rischio che le f ibre diventino cancerogene» di MARTA PATERLINI
- Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2011 - Alla coppia omosessuale una pensione senza tagli di Marina Castellaneta
«Il progresso non è riuscito a cancellare la fede» di Massimo Introvigne, 11-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
A una settimana dall'inizio di quella che ha chiamato una «scuola della preghiera», che sarà proposta nel corso di numerose udienze del mercoledì, Benedetto XVI ha continuato a riflettere l'11 maggio sul ruolo della preghiera nella storia. Una riflessione, ha detto, fondamentale oggi «in un'epoca in cui sono evidenti i segni del secolarismo. Dio sembra sparito dall'orizzonte di varie persone o diventato una realtà verso la quale si rimane indifferenti». Ma le teorie della secolarizzazione non descrivono completamente il contesto contemporaneo. Ci sono anche «molti segni che ci indicano un risveglio del senso religioso, una riscoperta dell'importanza di Dio per la vita dell'uomo, un'esigenza di spiritualità, di superare una visione puramente orizzontale, materiale della vita umana».
Anzi, le teorie illuministe che prevedano l'estinzione come futuro della religione sono a loro volta cadute in discredito, sconfitte non da nuove teorie ma dai fatti. «Guardando alla storia recente, è fallita la previsione di chi, dall'epoca dell'Illuminismo, preannunciava la scomparsa delle religioni ed esaltava una ragione assoluta, staccata dalla fede, una ragione che avrebbe scacciato le tenebre dei dogmatismi religiosi e avrebbe dissolto il "mondo del sacro", restituendo all'uomo la sua libertà, la sua dignità e la sua autonomia da Dio». Del resto, il mondo nuovo illuminista grondava a sua volta di lacrime e di sangue: «l'esperienza del secolo scorso, con le due tragiche Guerre mondiali ha messo in crisi quel progresso che la ragione autonoma, l'uomo senza Dio sembrava poter garantire».
La storia mostra che «non c'è stata alcuna grande civiltà, dai tempi più lontani fino ai nostri giorni, che non sia stata religiosa». Questa conclusione sociologica riposa su una sicura base antropologica: «L'uomo è per sua natura religioso, è homo religiosus come è homo sapiens e homo faber». Non si tratta di un dato di cultura, ma di natura: «L'immagine del Creatore è impressa nel suo essere ed egli sente il bisogno di trovare una luce per dare risposta alle domande che riguardano il senso profondo della realtà; risposta che egli non può trovare in se stesso, nel progresso, nella scienza empirica. L'homo religiosus non emerge solo dai mondi antichi, egli attraversa tutta la storia dell'umanità. A questo proposito, il ricco terreno dell'esperienza umana ha visto sorgere svariate forme di religiosità, nel tentativo di rispondere al desiderio di pienezza e di felicità, al bisogno di salvezza, alla ricerca di senso. L'uomo "digitale" come quello delle caverne, cerca nell'esperienza religiosa le vie per superare la sua finitezza e per assicurare la sua precaria avventura terrena».
Ancora una volta, il dato che si ricava dall'esperienza conferma quello che deriviamo dalla ragione, la quale ci permette di concludere che «la vita senza un orizzonte trascendente non avrebbe un senso compiuto e la felicità, alla quale tendiamo tutti, è proiettata spontaneamente verso il futuro, in un domani ancora da compiersi». La stessa presenza di tante religioni, che pure pone problemi teologici complessi – sul punto, il Papa si è riferito alla dichiarazione Nostra aetate del Concilio Ecumenico Vaticano II –, conferma che «l'uomo sa che non può rispondere da solo al proprio bisogno fondamentale di capire. Per quanto si sia illuso e si illuda tuttora di essere autosufficiente, egli fa l'esperienza di non bastare a se stesso. Ha bisogno di aprirsi ad altro, a qualcosa o a qualcuno, che possa donargli ciò che gli manca, deve uscire da se stesso verso Colui che sia in grado di colmare l'ampiezza e la profondità del suo desiderio».
Chiuso nel cerchio dell'immanenza l'uomo non si spiega. «L'uomo porta in sé una sete di infinito, una nostalgia di eternità, una ricerca di bellezza, un desiderio di amore, un bisogno di luce e di verità, che lo spingono verso l'Assoluto; l'uomo porta in sé il desiderio di Dio». Che cos'è, allora, la preghiera? È la manifestazione della consapevolezza che con Dio si può parlare: «l'uomo sa, in qualche modo, di potersi rivolgere a Dio, sa di poterlo pregare. San Tommaso d'Aquino [1225-1274], uno dei più grandi teologi della storia, definisce la preghiera "espressione del desiderio che l'uomo ha di Dio". Questa attrazione verso Dio, che Dio stesso ha posto nell'uomo, è l'anima della preghiera, che si riveste poi di tante forme e modalità secondo la storia, il tempo, il momento, la grazia e persino il peccato di ciascun orante. La storia dell'uomo ha conosciuto, in effetti, svariate forme di preghiera, perché egli ha sviluppato diverse modalità d'apertura verso l'Altro e verso l'Oltre, tanto che possiamo riconoscere la preghiera come un'esperienza presente in ogni religione e cultura».
Quello che sta a cuore al Papa è affermare che la presenza pressoché universale della preghiera delle storia non si spiega con semplici ragioni culturali. Non si prega perché si vive in una società religiosa, né solo perché qualcuno ci ha insegnato a pregare. Si prega perché Dio ha deposto nel cuore di ogni persona umana l'aspirazione a rivolgersi a Lui. Pertanto «la preghiera non è legata ad un particolare contesto, ma si trova inscritta nel cuore di ogni persona e di ogni civiltà». Naturalmente, qui il Pontefice parla «della preghiera come esperienza dell'uomo in quanto tale, dell'homo orans», da tenere distinta da quelle «serie di pratiche e formule» che sono invece specifiche di una data religione.
Se però «la preghiera ha il suo centro e affonda le sue radici nel più profondo della persona», allora essa «non è facilmente decifrabile e, per lo stesso motivo, può essere soggetta a fraintendimenti e a mistificazioni. Anche in questo senso possiamo intendere l'espressione: pregare è difficile». Se l'aspirazione universale alla preghiera è una cosa buona, possono esserci modi di pregare sbagliati e perfino mistificanti. «Infatti, la preghiera è il luogo per eccellenza della gratuità, della tensione verso l'Invisibile, l'Inatteso e l'Ineffabile. Perciò, l'esperienza della preghiera è per tutti una sfida, una "grazia" da invocare, un dono di Colui al quale ci rivolgiamo».
E tuttavia, ha spiegato il Papa, l'atteggiamento di preghiera è di per sé un valore. «Nella preghiera, in ogni epoca della storia, l'uomo considera se stesso e la sua situazione di fronte a Dio, a partire da Dio e in ordine a Dio, e sperimenta di essere creatura bisognosa di aiuto, incapace di procurarsi da sé il compimento della propria esistenza e della propria speranza. Il filosofo Ludwig Wittgenstein [1889-1951] ricordava che "pregare significa sentire che il senso del mondo è fuori del mondo"». È molto significativo che il Papa citi un filosofo non cattolico che, dopo avere dato l'impressione di avere chiuso il mondo in una rigida impalcatura di regole logiche, si convinse che le cose più importanti per la vita non risiedono all'interno di questa impalcatura ma nella sfera – da lui chiamata «mistica» - che le rimane esterna e inattingibile.
Il Pontefice ha voluto anche sottolineare che «la preghiera ha una delle sue tipiche espressioni nel gesto di mettersi in ginocchio», qualche cosa che può apparire molto semplice ma che in realtà non lo è. Quello d'inginocchiarsi «è un gesto che porta in sé una radicale ambivalenza: infatti, posso essere costretto a mettermi in ginocchio – condizione di indigenza e di schiavitù –, ma posso anche inginocchiarmi spontaneamente, dichiarando il mio limite e, dunque, il mio avere bisogno di un Altro». Nel secondo caso, «in questo guardare ad un Altro, in questo dirigersi "oltre" sta l'essenza della preghiera, come esperienza di una realtà che supera il sensibile e il contingente».
Se è vero che la preghiera è presente in tutte le religioni, «tuttavia solo nel Dio che si rivela trova pieno compimento il cercare dell'uomo. La preghiera che è apertura ed elevazione del cuore a Dio, diviene così rapporto personale con Lui. E anche se l'uomo dimentica il suo Creatore, il Dio vivo e vero non cessa di chiamare per primo l'uomo al misterioso incontro della preghiera». Qui, di fronte a «Dio che si è rivelato in Gesù Cristo, impariamo a riconoscere nel silenzio, nell'intimo di noi stessi, la sua voce che ci chiama e ci riconduce alla profondità della nostra esistenza, alla fonte della vita, alla sorgente della salvezza, per farci andare oltre il limite della nostra vita e aprirci alla misura di Dio, al rapporto con Lui, che è Infinito Amore».
Avvenire.it, 11 maggio 2011 - UDIENZA DEL MERCOLEDI' – il Papa: anche "l'uomo digitale" è alla ricerca di Dio
L'uomo 'digitale' come quello delle caverne, cerca nell'esperienza religiosa le vie per superare la sua finitezza e per assicurare la sua precaria avventura terrena". Lo ha detto il Papa, che ha incentrato la catechesi dell'udienza generale odierna sul senso religioso dell'uomo, proseguendo il ciclo di catechesi sulla preghiera iniziato mercoledì scorso. "La vita – ha spiegato Benedetto XVI - senza un orizzonte trascendente non avrebbe un senso compiuto e la felicità, alla quale tutti tendiamo, è proiettata spontaneamente verso il futuro, in un domani ancora da compiersi". "L'uomo è per sua natura religioso, è homo religiosus come è homo sapiens e homo faber", l'affermazione centrale della catechesi odierna, in cui il Santo Padre – citando il Catechismo della Chiesa cattolica – ha ribadito che "il desiderio di Dio – è inscritto nel cuore dell'uomo". Ciò significa che "l'immagine del Creatore è impressa nel suo essere ed egli sente il bisogno di trovare una luce per dare risposta alle domande che riguardano il senso profondo della realtà; risposta che egli non può trovare in se stesso, nel progresso, nella scienza empirica".
Secondo il Papa, "per quanto si sia illuso e si illuda tuttora di essere autosufficiente", l'uomo "fa l'esperienza di non bastare a se stesso", ha bisogno "di aprirsi ad altro, a qualcosa o a qualcuno, che possa donargli ciò che gli manca, deve uscire da se stesso". "Noi viviamo in un'epoca in cui sono evidenti i segni del secolarismo", ha esordito Benedetto XVI rivolgendosi ai circa 15 mila fedeli presenti in piazza s. Pietro: "Dio sembra sparito dall'orizzonte di varie persone o diventato una realtà verso la quale si rimane indifferenti". Nello stesso tempo, però, "molti segni ci indicano un risveglio del senso religioso, una riscoperta dell'importanza di Dio per la vita dell'uomo, un'esigenza di spiritualità, di superare una visione puramente orizzontale, materiale della vita umana". Guardando alla storia recente, per il Papa "è fallita la previsione di chi, dall'epoca dell'Illuminismo, preannunciava la scomparsa delle religioni ed esaltava una ragione assoluta, staccata dalla fede, una ragione che avrebbe scacciato le tenebre dei dogmatismi religiosi e avrebbe dissolto il 'mondo del sacro', restituendo all'uomo la sua libertà, la sua dignità e la sua autonomia da Dio". Le due "tragiche guerre mondiali" hanno poi "messo in crisi quel progresso che la ragione autonoma, l'uomo senza Dio sembrava poter garantire".
La preghiera è "espressione del desiderio che l'uomo ha di Dio". La definizione è di san Tommaso d'Aquino, "uno dei più grandi teologi della storia", e il Papa l'ha utilizzata per spiegare come "l'uomo porta in sé una sete di infinito, una nostalgia di eternità, una ricerca di bellezza, un desiderio di amore, un bisogno di luce e di verità, che lo spingono verso l'Assoluto; l'uomo porta in sé il desiderio di Dio. E l'uomo sa, in qualche modo, di potersi rivolgere a Dio, sa di poterlo pregare". Questa "attrazione verso Dio, che Dio stesso ha posto nell'uomo", secondo Benedetto XVI "è l'anima della preghiera, che si riveste poi di tante forme e modalità secondo la storia, il tempo, il momento, la grazia e persino il peccato di ciascun orante". La storia dell'uomo ha conosciuto, infatti, "svariate forme di preghiera, diverse modalità d'apertura verso l'Altro e verso l'Oltre, tanto che possiamo riconoscere la preghiera come un'esperienza presente in ogni religione e cultura". Parlare di "homo orans", ha spiegato il Pontefice, significa "tenere presente" che la preghiera "è un atteggiamento interiore, prima che una serie di pratiche e formule, un modo di essere di fronte a Dio prima che il compiere atti di culto o il pronunciare parole". La preghiera, in altre parole, "ha il suo centro e affonda le sue radici nel più profondo della persona": per questo "non è facilmente decifrabile e può essere soggetta a fraintendimenti e a mistificazioni".
"Pregare è difficile", ha ammesso Benedetto XVI, facendo notare che "nella preghiera, in ogni epoca della storia l'uomo considera se stesso e la sua situazione di fronte a Dio, a partire da Dio e in ordine a Dio, e sperimenta di essere creatura bisognosa di aiuto, incapace di procurarsi da sé il compimento della propria esistenza e della propria speranza": così il Papa ha spiegato la perenne attualità della preghiera. Soffermandosi su "una delle sue tipiche espressioni", il "mettersi in ginocchio", il Papa lo ha definito "un gesto che porta in sé una radicale ambivalenza: posso essere costretto a mettermi in ginocchio, ma posso anche inginocchiarmi spontaneamente, dichiarando il mio limite e, dunque, il mio avere bisogno di un Altro", a partire della mia condizione "di essere debole, bisognoso, peccatore". In questo "guardare ad un Altro, in questo dirigersi oltre", per il Papa "sta l'essenza della preghiera, come esperienza di una realtà che supera il sensibile e il contingente". "Impariamo a sostare maggiormente davanti a Dio – l'esortazione finale del Papa - impariamo a riconoscere nel silenzio, nell'intimo di noi stessi, la sua voce che ci chiama e ci riconduce alla profondità della nostra esistenza, alla fonte della vita, alla sorgente della salvezza, per farci andare oltre il limite della nostra vita e aprirci alla misura di Dio, al rapporto con Lui, che è Infinito Amore".
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Bin Laden e "l'impossibile" giustizia di Lorenzo Albacete, mercoledì 11 maggio 2011, da il sussidiario.net
L'esecuzione di Osama bin Laden da parte dei militari americani ha continuato ad essere l'argomento principale nelle notizie e commenti dell'ultima settimana. Le conseguenze della coraggiosa scommessa politica e militare del presidente Barak Obama sono state discusse sotto ogni possibile angolatura, compresi gli aspetti etici, in particolare la questione della legalità e della giustizia.
Uno degli articoli più interessanti in questo dibattito (e rappresentativo dei suoi toni e contenuti) è quello di Thomas Nachbar, intitolato "È giustizia?", apparso il 5 maggio sul periodico elettronico Slate .
"Quando il presidente Obama ha annunciato la morte di Osama bin Laden" commenta Nachbar,"ha evocato ripetutamente il concetto di giustizia. Come lo stesso presidente ha succintamente detto 'Giustizia è fatta' ".
Tuttavia, Nachbar osserva che "usare questo termine per descrivere quanto accaduto lo scorso fine settimana ad Abbottabad in Pakistan, è un invito a una confusione che come nazione non possiamo consentirci."
Descrivere un'azione come "giustizia" non significa solo affermare che quell'azione è legittima, ma affermare che è legittimata da particolari modalità. Così, quando diciamo che il nostro sistema legale dispensa "giustizia", intendiamo dire che ciò avviene secondo una serie fissata di regole e procedure, che hanno il loro fondamento nella volontà sovrana del popolo. Quando dei privati agiscono di propria iniziativa per punire i criminali, lo definiamo "vigilantismo".
"Nella sostanza, quindi, ciò che i militari USA hanno compiuto su Osama bin Laden è violenza… La violenza può essere una forma di giustizia, e la giustizia richiede ogni tanto atti di violenza. Ma, malgrado occasionali relazioni anche strette, giustizia e violenza non devono mai essere confuse, anche quando la violenza sia usata per servire la più giusta delle cause. Perché la distinzione è importante? Perché noi possiamo agire secondo i nostri principi solo se abbiamo una chiara idea di essi, e possiamo averne una chiara idea solo se ne parliamo chiaramente. E i nostri principi, quelli per cui vale la pena combattere e morire, sono ciò che ci separa da quelli come Osama bin Laden, non la capacità di uccidere gente a migliaia di chilometri di distanza."
Nachbar riconosce che "dare un senso a questo mondo complesso e disordinato attraverso le lenti dei nostri principi non è un compito facile, e i nemici non si presentano secondo categorie definite che permettano risposte logiche e predeterminate. Dobbiamo affrontare circostanze e avversari così come vengono".
Anche nel caso che lo scopo di un'azione sia eticamente giusto, è importante che i mezzi scelti per raggiungerlo siano in accordo con i nostri principi. Altrimenti, anche se lo scopo è così importante come l'uccisione o la cattura di un terrorista, è comunque un errore, poiché è questo che distingue il presidente degli Stati Uniti dal capo di una banda pur particolarmente grande e ben organizzata.
Avverte ancora Nachbar: "Non riconoscere le differenze che separano la giustizia dalla violenza è il tipo di errore che condusse alle politiche di detenzione e interrogatorio, confuse e a tratti rovinose, che segnarono l'inizio della partecipazione attiva dell'America in questo conflitto nei primi anni 2000… Anche oggi, anni dopo che la nostra nazione ha messo fuori legge le 'tecniche rafforzate di interrogatorio'…vi è ancora chi le difende perché potrebbero avere aiutato a trovare e uccidere Osama bin Laden".
Il problema è, aggiunge Nachbar, in un concetto ancor più nebuloso di quello di giustizia: "sicurezza". A chi lavora nelle organizzazioni della difesa o dell'intelligence viene spesso chiesto di mettersi al servizio della sicurezza, e spesso la sicurezza sembra essere in conflitto con la ricerca della giustizia. Abbiamo quindi bisogno di qualcosa d'altro per stabilire se particolari misure di sicurezza rispettano i nostri principi.
Vi sono avvocati (tra questi Geoffrey Robertson, il difensore di Julian Assange) che sostengono che, per rendere legale l'uccisione di bin Laden, i Seals avrebbero dovuto agire per difendere se stessi, ma pretendere che unità militari possano usare la forza solo per legittima difesa, osserva Nachbar, non è solo una totale incomprensione delle leggi di guerra, bensì significherebbe esporre i nostri militari a rischi intollerabili e azzoppare la capacità della nostra nazione di difendersi.
"Né la violenza, né la sicurezza, per cui spesso viene usata, devono essere confuse con principi fondamentali come la giustizia" conclude l'autore. "Anche se Osama bin Laden è stato sconfitto dalla violenza, solo principi come la giustizia possono alla fine sconfiggere la ideologia che rappresentava".
L'articolo di Nachbar mi ha ricordato la discussione tra il filosofo tedesco Jurgen Habermas e il Cardinale Joseph Ratzinger, proprio qualche mese prima che venisse eletto Papa. In essa, Ratzinger cita la posizione secondo la quale i principi per giudicare la moralità di una società democratica traggono la loro autorità "dal sovrano volere del popolo", per usare i termini di Nachbar.
Il problema, osserva il Cardinale Ratzinger, è che "l'accordo totale tra gli uomini è molto difficile da raggiungere, il processo di formazione di una volontà democratica dipende necessariamente da un atto di delega alle decisioni di una maggioranza… Ma anche le maggioranze possono essere cieche o ingiuste, come ci insegna la storia. Quando una maggioranza… opprime una minoranza religiosa o etnica mediante leggi ingiuste, possiamo ancora parlare in questo caso di giustizia?"
La volontà sovrana del popolo lascia aperta la questione del fondamento etico della legge. La domanda è "se c'è qualcosa… che è antecedente a ogni decisione della maggioranza e che deve essere rispettato da tutte le sue decisioni". In altre parole, vi sono "valori che sussistono in sé che scaturiscono dall'essenza di ciò che è un uomo e sono pertanto inviolabili: nessun altro uomo può infrangerli". Se è così, l'evidenza di questi valori non può che essere riconosciuta in ogni cultura.
Più volte il Cardinale offre esempi di come sia difficile oggi trovare "una efficace convinzione etica con sufficienti motivazione e forza per rispondere alle sfide" del tempo presente, inclusa quella di come combattere nel modo migliore il terrorismo. Ratzinger conclude francamente: "la formula razionale, etica o religiosa per comprendere tutto il mondo e unire tutte le persone non esiste; o, almeno, non è attualmente conseguibile".
Nello stesso giorno in cui veniva ucciso bin Laden, abbiamo potuto vedere un altro tipo di umanità nella quale il riconoscere il bene e la diversità delle culture non erano in conflitto. Papa Ratzinger continuerà a spingere tutti a proseguire il dialogo che ci può aiutare a trovare un fondamento etico comune per promuovere la causa della giustizia. In quel giorno, però, ci ha dato un uomo, un testimone della salvezza dell'umano in tutti noi, il Beato Giovanni Paolo II.
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C'è poco da negoziare di Riccardo Cascioli, 11-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Tempo di elezioni, si torna a parlare di "princìpi non negoziabili": ne abbiamo già parlato anche noi. Ma dalle lettere e dai messaggi che ci arrivano in redazione è evidente che il concetto è tutt'altro che chiaro, sia nelle ragioni sia nell'individuazione di tali princìpi. Peraltro alla confusione contribuiscono anche alcuni vescovi, che inseriscono in questo concetto qualsiasi tipo di valore positivo, facendo così perdere il significato dell'espressione.
E' importante dunque chiarire in breve alcuni punti.
Anzitutto dobbiamo la definizione di "princìpi non negoziabili" a Benedetto XVI che ha spiegato questa definizione in un discorso ai parlamentari del Partito Popolare Europeo il 30 marzo 2006. Non si è trattato di una innovazione dottrinale, ma della esplicitazione e declinazione della posizione tradizionale della Chiesa. Il papa dunque, spiegando che "il principale interesse della Chiesa nell'arena pubblica è la tutela e la promozione della dignità della persona" individua tre princìpi che non sono negoziabili: "La tutela della vita in tutte le sue fasi, dal primo momento del concepimento fino alla morte naturale; il riconoscimento e promozione della struttura naturale della famiglia, quale unione fra un uomo e una donna basata sul matrimonio (...); tutela del diritto dei genitori di educare i propri figli".
Vita, famiglia, educazione. Sono dunque questi i princìpi non negoziabili "iscritti nella natura umana stessa e quindi comuni a tutta l'umanità". La loro promozione non ha quindi carattere confessionale e non dipende dalla religione di ciascuno.
Questi valori, in quanto strutturali all'uomo, non dipendono dalle analisi dei singoli o dei gruppi, sono un apriori che costituisce anche l'essenziale su cui si fonda l'unità dei cattolici in politica.
Qual è la differenza tra questi princìpi e gli altri, come il lavoro, la solidarietà, l'accoglienza degli immigrati e così via?
Gli altri valori non sono allo stesso livello dei princìpi non negoziabili perché non attengono alla struttura ultima, alla natura ultima dell'uomo. Vale a dire che la loro realizzazione può dare adito a opzioni politiche diverse, deve essere oggetto di collaborazione, dialogo. Mentre divorzio, aborto, eutanasia, monopolio statale dell'educazione non sono mai accettabili, il valore del lavoro - che pure è fondamentale - può essere realizzato seguendo strade diverse. Il piano industriale di una grande azienda, ad esempio, può essere un modo per realizzare il diritto al lavoro anche se passa temporaneamente da un taglio del personale se è visto in chiave di una maggiore occupazione futura. Altrettanto legittima può essere la posizione di chi nei tagli immediati all'occupazione non vede la possibilità del rilancio, ma l'impoverimento definitivo di una realtà locale.
Lo stesso vale anche per l'accoglienza degli immigrati, il rispetto della loro dignità: un valore fondamentale che però non è in contrasto, ad esempio, con una politica di rimpatri (anche se a certe condizioni), perché entrano in gioco altri valori altrettanto fondamentali - come i diritti della comunità che accoglie, il diritto allo sviluppo dei paesi di provenienza e così via - tutti comunque riconducibili alla nozione di bene comune. Insomma, si possono avere opzioni diverse per difendere uno stesso valore fondamentale, cosa che evidentemente non può accadere se ad essere messa in discussione è - ad esempio - l'unicità della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna. Allo stesso modo la sacralità della vita non si discute.
In altre parole, un valore è negoziabile non nel senso che è riducibile dal punto di vista teorico: non è che un immigrato può essere maltrattato un pochino. Semplicemente vuol dire che la sua realizzazione è oggetto di confronto, di dialogo, di collaborazione.
Avere chiara questa differenza è fondamentale, soprattutto in una realtà come quella attuale in Italia, dove politici che si richiamano alla Dottrina sociale della Chiesa militano in diversi schieramenti. Se non è chiaro il fondamento - e ci sembra che questa sia purtroppo la situazione generale - le singole e diverse opzioni politiche diventano esse stesse il fondamento dell'azione politica, con il risultato di una divisione profonda dei cattolici in base agli schieramenti.
Allarme sulla Ru486: «Troppe complicazioni» - Lo studio - Le emorragie gravi sono 15 volte più frequenti dell'aborto chirurgico - Scienza & V/ita: sempre pericoloso banalizzare, di Enrico Negrotti, Avvenire, 10 maggio 2011
Ancora nuvole sull'utilizzo della pillola Ru486. Questa volta è uno studio australiano a mettere in allarme sulla minore sicurezza di questo metodo per la salute della donna rispetto all'intervento chirurgico per interrompere la gravidanza. E l'associazione «Scienza&Vita» mette in guardia dal banalizzare l'aborto. La notizia è racchiusa nella ricerca — pubblicata sulla rivista australiana dei medici di medicina generale Australian Family Physicians — che ha esaminato quasi 7000 aborti eseguiti tra il 2009 e il 2010 nello Stato dell'Australia meridionale. In Australia l'uso della pillola Ru486 è stato introdotto cinque anni fa ed è sempre più diffuso. I risultati emersi segnalano che le complicazioni conseguenti all'aborto chimico sono più frequenti di quelle dell'aborto come metodo chirurgico. I dati illustrati dalle autrici, Ea Mulligan e Hayley Messenger, sono riferiti al primo trimestre di gravidanza e indicano che ha dovuto rivolgersi ai pronto soccorso di un ospedale ii 3,3% delle donne che hanno usato la pillola Ru486, contro il 2,2% di coloro che avevano subito un intervento chirurgico. Più in generale l'incidenza di complicazioni gravi è apparsa più alta dell'aborto chimico. Prendendo come esempio l'emorragia grave, le autrici segnalano che si è verificata in due su 5823 pazienti sottoposte ad aborto chirurgico; mentre lo stesso problema é stato riscontrato in quattro delle 947 che hanno avuto aborti chimici. Il tasso di incidenza è stato quindi di una su tremila nel primo caso, di una su 200 nel secondo: quindici volte maggiore. I risultati spuntano uno degli argomenti più spesso ripetuti a favore dell'aborto chimico, secondo cui il rischio di complicazioni é minore o equivalente all'intervento chirurgico. Un dato che era già stato messo in dubbio da`un editoriale sul New England Journal of Medicine nel 2005 quando —
con nove morti registrate dopo aborto chimico, ora sono 19 — si era segnalato che la mortalità era 10 volte maggiore con il metodo chimico rispetto a quello chirurgico. «Le maggiori complicazioni osservate dopo l'assunzione della Ru486 e riponate dalla rivista Australian Family Physicians — ha commentato il ginecologo Lucio Romano, copresidente dell'associazione "Scienza&Vita" — confermano, indiscutibilmente, dati di letteratura scientifica già noti e su cui era già stato dato l'allarme me ancora prima dell'adozione della pillola abortiva in Italia».
«L'accertata alta incidenza di complicanze proprie dell'aborto chimico conclude Lucio Romano — contraddice, in tutta evidenza, le argomentazioni di coloro che, per varie ragioni, si sono fatti promotori di una pericolosa e avventata banalizzazione dell'aborto».
LA REPUBBLICA, 10 maggio 2011 - Scienziati giapponesi hanno guidato lo sviluppo di cellule embrionali di topo – E' l`organo più complesso sinora realizzato - Dal laboratorio nasce l'occhio dotato di retina, di Eugenio Muller*
Una retina creata in laboratorio in Giappone potrebbe aprire la strada al trattamento di malattie dell`occhio, incluse alcune forme di cecità. La notizia, appena pubblicata su Nature, si riferisce alla possibilità che, creata aggregando cellule staminali embrionali di topo in una precisa struttura tridimensionale, la retina in provetta rappresenti il più complesso tessuto biologico sinora ingegnerizzato. Le reazioni degli addetti ai lavori sono state di stupefazione, incredulità. Se la nuova tecnica potrà essere adattata alle cellule umane e si dimostrerà sicura per il trapianto - un evento che richiederà anni -essa potrà fornire quantità illimitate di tessuto per sostituire le retine lesionate. Sino da ora, tuttavia, la retina sintetica potrebbe aiutare i ricercatori nello studio delle malattie dell`occhio e a identificare nuove terapie. Precedenti studi suggerivano che in presenza di adatti segnali, le cellule staminali potessero formare tessuto oculare spontaneamente. Un insieme di geni è sufficiente a indurre embrioni di rana a formare occhi su altri parti del corpo, e cellule embrionarie staminali umane poste in provetta possono essere indotte a formare le cellule pigmentate che sostengono la retina, strati di cellule simili a lenti e cellule retiniche sensibili alla luce. Ma le strutture oculari create dai ricercatori giapponesi sono molto più complesse. La"coppa ottica" è una struttura particolare che ha due distinti strati cellulari. Lo strato esterno il più vicino al cervello - è formato da cellule retiniche pigmentate che danno nutrimento e sostegno alla retina. Lo strato interno è la retina stessa, e contiene diversi tipi di neuroni sensibili alla luce, cellule gangliari che veicolano l`informazione luminosa al cervello, e cellule di sostegno. Per formare questa struttura, i ricercatori giapponesi hanno coltivato le cellule embrionarie di topo in una "zuppa nutriente" arricchita di proteine che hanno stimolato le cellule staminali a trasformarsi in cellule retiniche. Ulteriore aggiunta, un gel di proteine per sostenere e tenere insieme le cellule. Dapprima le staminali formavano "bolle" di precoci cellule retiniche. Nella settimana successiva le bolle crescevano e generavano una struttura che si osserva precocemente nello sviluppo dell`occhio, la vescicola ottica. Quello che è più sorprendente è che, come in un embrione, anche in laboratorio la vescicola ottica dava origine a una coppa ottica. Non è ancora noto se le coppe ottiche possano percepire la luce o trasmettere gli impulsi al cervello di topo. Questo rappresenta il più immediato traguardo dei ricercatori giapponesi. In una prospettiva futura, la disponibilità di retine sintetiche umane prodotte dalle staminali del paziente riprogrammate sarà utile per rimuovere i difetti molecolari alla base delle malattie degli occhi, e trovare trattamenti utili per esse. *Professore di Farmacologia, Università Statale di Milano
CICOGNE E PROVETTE LA FECONDAZIONE ASSISTITA SPIEGATA AI BAMBINI - di Montanari Laura - Repubblica di martedì 10 maggio 2011
«La mamma mi ha raccontato che prima di tutto i bambini nascono da un desiderio». Servono parole e immagini rotonde, senza spigoli, per raccontare ai figli che non c'è una sola strada che porta dal niente alla vita, né strade buone o cattive. «Eppure molte famiglie non sanno come dire ai propri figli che sono stati concepiti in provetta» raccontano le ginecologhe Claudia Livi ed Elisabetta Chelo che lavorano al Demetra di Firenze, un centro che si occupa di procreazione assistita. Nel corso di un monitoraggio lungo due anni fra i pazienti del centro, questo dato emerge chiaro. E' proprio dal disorientamento, dall'imbarazzo di chi tace o rinvia negli anni la rivelazione d iuna verità apparentemente così facile da dire a un figlio che è nato il libro "C.C.P." ovvero, "Cicogne, cavoli, provette" con testo e illustrazioni di Brunella Baldi: «E' uno dei primi tentativi per aiutare le famiglie che hanno fatto ricorso alla procreazione assistita a spiegare ai bambini, fin da piccoli, l'avventura della nascita senza tacerne i passaggi, senza curarsi dei pregiudizi che ancora esistono» riferisce l'autrice. I disegni aiutano ad essere rassicuranti: colori pastello, cuori rossi, neonati appesi a palloncini che vagano nel cielo, una dottoressa col retino acchiappa "semini" e poche selezionate parole che non rinunciano a spiegare l'intervento della scienza là dove serve un "aiuto". "Aiuto" a cui ricorrono migliaia di persone in Italia dal momento che si contano all'anno quasi 10mila bambini venuti al mondo con tecniche di fecondazione assistita (i12% del totale). Si può nascere anche se il babbo o la mamma hanno cellule pigre, «così pigre che non riescono a incontrarsi neanche nella cuccia più accogliente» e diventa necessario, si legge nel libro edito da Principi e Princìpi, un dottore che metta gli spermatozoi e l'ovulo in un posto stretto stretto come una provetta, «dove trovarsi sarà più facile». Oppure: se «le cellule sono proprio addormentate» si cerca un donatore in un altro uomo o un'altra donna.
Certi argomenti vanno affrontati presto, prima che arrivino le domande degli altri, prima che i bambini restino senza risposte davanti ai quesiti degli amici dell'asilo o della scuola. «C'è un momento della crescita in cui si sente fortissima l'esigenza di capire: i figli ci chiedono perché sono venuti al mondo, se facevano parte di un progetto, se sono stati fortemente voluti —spiega lo psicoterapeuta Gustavo Pie-tropolli Charmet — e sono le persone che li hanno cresciuti a dover dare quelle risposte».
Stanno per uscire in libreria altri due volumi, di una piccola casa editrice milanese, "Lo Stampatello", che hanno come obiettivo illustrare ai più piccoli che si può crescere in tanti tipi di famiglie: quelle con un papà e una mamma, con la sola mamma o solo il papà, quelle con due mamme o due babbi. Uno si intitola "Piccolo uovo" e può contare su una decina di disegni di Altan che manda all'avventura, nelle case, un uovo pieno di incertezze che non sa se e dove nascere. L'altro si intitola: "Piccola storia di una famiglia: perché hai due mamme". Firma entrambi i testi Francesca Pardi, 45 anni, che assieme alla sua compagna ha 4 figli: «Non nascondo che il progetto nasce da un bisogno personale — dice la scrittrice — quello di aiutare i nostri bambini a rispondere alle domande che gli amici fanno loro a proposito di famiglie omosessuali e della nascita con la procreazione assistita». Accettarsi da subito con le differenze aiuta a crescere ricordando, come scrive Brunella Baldi, che «ci sono tante magie bellissime per far nascere i bambini, ma la più bella è fargli un posticino dentro il cuore».
RU 486 più dannosa dell'aborto chirurgico di Raffaella Frullone, 10-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
La notizia non ci stupisce, anzi, non fa che confermare i risultati delle statistiche condotte sui casi negli Stati Uniti: le complicazioni dalla pillola per l'aborto chimico detta RU-486 sono più frequenti degli interventi chirurgici standard.
La conferma arriva da uno studio pubblicato in Australia, paese in cui l'uso della pillola è stato introdotto cinque anni fa. Da Sydeny arriva infatti un dossier che prende in analisi quasi 7000 aborti eseguiti nel 2009 e nel 2010, pubblicato sulla rivista dei medici generici, Australian Family Physician. Lo studio indica che il 3,3% delle donne che hanno usato la RU-486 nel primo trimestre di gravidanza ha dovuto rivolgersi al pronto soccorso di un ospedale, contro il 2,2% di chi aveva subito l'intervento chirurgico.
Le autrici dello studio, due medici che da anni lavorano sul tema dell'aborto, Ea Mulligan e Hayley Messenger, sottolineano poi un altro dato. Due delle 5823 pazienti che hanno effettuato aborto chirurgico hanno sofferto emorragie gravi, pari ad un tasso di una su 3000. Hanno avuto lo stesso problema quattro delle 947 donne che hanno avuto aborti chimici, con un tasso di una su 200. I risultati contraddicono uno degli argomenti principali a favore dell'aborto chimico, ossia che la pillola ridurrebbe notevolmente i rischi che comporta un'operazione chirurgica.
D'altra parte la certezza di 29 vittime legate all'assunzione di mifepristone, il principio attivo della Ru486, peraltro denunciate dalla stessa casa produttrice al ministero, dovrebbe pesare già in maniera decisiva nella valutazione dei millantanti vantaggi del farmaco. Ventinove morti, sulle quali ancora si sta indagando senza che i media italiani ne riportano notizia, 29 vittime invisibili, come siamo certi che rimarranno invisibili i dati che sono arrivati dall'Australia su quella che era presentata come la soluzione rapida e indolore per eliminare un fastidio.
Il sogno dell'indipendenza passa dall'orgoglio gay? di Marco Respinti, 10-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Giovedì scorso lo Scottish National Party (SNP) ha vinto a mani basse le elezioni "regionali" per il rinnovo del parlamento unicamerale di Scozia, conquistando la maggioranza assoluta dei 129 seggi che lo compongono, 69, e lasciandone 37 ai Laburisti, 15 ai Conservatori, 5 ai Liberal-Democratici, 2 ai Verdi e 1 a una indipendente (Margo MacDonald, ex deputata proprio dell'SNP). Un'apparizione inequivocabile dello spettro secessionista che si aggira per le brumose lande caledoniane.
Perché questo l'SNP è: una classica formazione nazionalista, in cui la "religione civile" mirante a "dare uno Stato a una nazione" prevale su qualsiasi altro principio ideale o ideologico. Nel suo caso, dunque (così come in quello di partiti analoghi), la tradizionale dicotomia "destra"-"sinistra" serve ben poco a spiegarne l'orientamento. Eppure la netta opposizione alla conservazione di un determinato status quo istituzionale - nella fattispecie la Gran Bretagna in cui la Scozia nazionalista si sente costretta - colloca inevitabilmente partiti come l'SNP a sinistra.
Nato nel 1934 dalla fusione tra il National Party of Scotland e lo Scottish Party, l'SNP degli albori pencolò fra inclinazioni marcatamente socialiste e orientamenti di tipo fascista - poca differenza, peraltro, tenendo presente che, soprattutto negli anni Venti e Trenta, diversi movimenti e formazioni di tipo populistico-nazionalista vennero tentati, se non altro organizzativamente, dall'opzione del "socialismo nazionale" di tipo appunto fascistico (un modello in realtà, tecnicamente parlando, forse mai completamente abbandonato) - per poi attestarsi saldamente su posizioni progressiste che classicamente erodono consensi a sinistra.
Il partito degli indipendentisti scozzesi è del resto sempre stato, e ancora oggi è, in concorrenza diretta con il Partito Laburista, al quale giovedì ha sottratto ben l'11% dei consensi in virtù di un programma per obiettivi scritto un po' in sinistrese («diventare la centrale di energia verde di tutta Europa», «rendere la Scozia "carbon neutral"»), un po' in linguaggio tendenzioso («contribuire a guerre internazionali non illegali di peace-keeping e di peace-building», «liberare la Scozia dalle armi nucleari»), un po' nella "logica di Catalano" («più elevati livelli di crescita economica e più posti di lavoro»).
Anche a non voler essere maliziosi, infatti, il silenzio più assordante osservato dall'SNP riguarda i "princìpi non negoziabili", quelli che dovrebbero stare a cuore all'elettorato scozzese "tradizionale": sia ai calvinisti presbiteriani della "Kirk" nazionale di Scozia (stando al censimento del 2001 il 42% della popolazione che si professa cristiana, ossia il 65% degli abitanti), sia ai cattolici (poco meno del 16% di quel 65%).
Un silenzio costante affatto contraddetto dalla corte a tratti spietata che l'SNP riserva agli elettorati cristiani (e verosimilmente in aumento man mano che ci si dovesse avvicinare a un ipotetico referendum sull'indipendenza), a loro volta in più di una occasione ammaliati dalle sirene nazionalistiche, persino talora maldestramente sovrapposte a questioni identitarie cristiane: per esempio quando un certo "mito" della "Scozia cattolica" (un po' di cartapesta) coniuga i propri sospiri con quelli dell'irrendentismo anti-inglese, non meno però intensamente vagheggiato dall'acerrimo nemico protestante, spesso e volentieri nel mezzo scordando che la protestantizzazione della Scozia non fu opera di "truppe da sbarco" straniere ma (nonostante l'influenza del "modello inglese") di un campione della "scozzesità" (ai limiti del nazionalismo esasperato) quale fu, John Knox (1513-1572), la cui riforma presbiteriana del 1560 ebbe anche connotati di vera e propria rivoluzione poltico-istituzionale.
Ebbene, questa giustapposizione (o sapiente dosaggio?) tra il corteggiamento degli elettorati cristiani e il "silenzio assordante" sui "princìpi non negoziabili" consentono di tanto in tanto alla logica social-nazionalistica dell'SNP qualche utile fuga controllata di radiazioni. Per esempio l'uscita, alla vigilia delle elezioni (evidentemente paga: nel 2009 un sondaggio dava i due terzi degli scozzesi a favore), di Alex Salmond [nella foto], il Primo ministro di Scozia portato sugli scudi dal trionfante SNP che si è pronunciato a favore della legalizzazione del "matrimonio" omosessuale.
Nel Regno Unito le "nozze" gay sono ancora proibite, ma dal 2005 le coppie omosessuali hanno la possibilità di contrarre unioni civili che estendono loro le provvisioni giuridiche del matrimonio eterosessuale. Tutto ha però subito una decisiva accelerazione da quando, nel settembre 2010, i Liberal-Democratici hanno messo il tema al centro del dibattito politico britannico spingendo ogni partito (esclusi i Conservatori, stretti in un rigoroso no-comment) a inserire nei programmi clausole favorevoli. Così, in febbraio, è sceso in campo persino il governo londinese, affermando di voler presto lanciare a livello nazionale il dibattito sull'opportunità di conferire valore legale anche alle cerimonie religiose "matrimoniali" per gay. L'affermazione inedita di Salmond fornirà a quel punto un precedente decisivo per l'intero Regno Unito, motivo per cui la Scozia indipendentista è oggi il fiore all'occhiello dell'"orgoglio gay".
Del resto Salmond, leader dei nazionalisti scozzesi che nel 2008 hanno eletto (a Bruxelles, dove oggi l'SNP fa parte dell'eurogruppo di sinistra Verdi Europei-Alleanza Libera Europea) il loro primo parlamentare omosessuale, Alyn Smith, viene dritto dal "79 Group", una forte e rumorosa corrente interna all'SNP così chiamata da quel 1979 in cui nacque per spingere sempre più a sinistra la piattaforma ideologica del partito. Un gruppo così radicale da venire espulso per intero nel 1982, salvo il fatto che tutti i suoi membri sono poi stati reintegrati nel partito, in numerosissimi casi (quello di Salmond è il più eloquente) scalandone "fabianamente" la leadership.
Presto o tardi l'SNP potrebbe insomma regalare alla Scozia l'indipendenza. Non però la sua antica, nobile identità cristiana.
Il "metodo Nerone" è sempre di moda di Anna Bono, 11-05-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/
La situazione è già tesa, si diffonde una falsa notizia in cui si accusa la minoranza cristiana di qualche misfatto, e il gioco è fatto: folle rabbiose prendono d'assalto chiese e villaggi cristiani seminando morte e distruzione. E' quello che potremmo chiamare "metodo Nerone", ma è il modo classico in cui ancora oggi dal Medio Oriente all'Asia si scatenano persecuzioni contro i cristiani.
L'ultimo esempio, lo abbiamo visto, è di questi giorni: sabato scorso, in Egitto, qualcuno ha sparso la voce che una donna sposata a un musulmano e in procinto di convertirsi all'islam era tenuta prigioniera dai cristiani copti nel quartiere Imbaba, al Cairo. È bastato questo per indurre gruppi di musulmani a confluire nel quartiere dove hanno dato alle fiamme la chiesa di Santa Mina, uno dei maggiori luoghi di culto copti della capitale, e diverse abitazioni. Ne sono seguiti violenti scontri armati durati due giorni, con un grave bilancio: finora, 12 morti e oltre 200 feriti. L'intervento dei militari – in colpevole ritardo - che hanno arrestato 190 persone ha riportato l'ordine nelle strade, ma la situazione resta tesa.
Non è la prima volta che accade in Egitto: appena pochi mesi fa, ottobre 2010, il mondo islamico si è infiammato alla rivelazione che due donne erano detenute in una chiesa, sempre al Cairo, per essersi convertite all'islam. In realtà le donne in questione, Camelia Shehata e Wafa Constantine, erano le mogli di due sacerdoti della Chiesa copta d'Egitto che in effetti vivevano da tempo in due comunità conventuali, ma per problemi legati a disaccordi familiari che le avevano costrette a cercare rifugio in luoghi sicuri. Le stesse autorità religiose islamiche egiziane lo hanno ammesso in seguito. Ma intanto, il 31 ottobre, dei terroristi appartenenti al gruppo 'Stato Islamico dell'Irak' (ISI), legato ad al-Qaida, erano penetrati nella chiesa sirocattolica Nostra Signora della Salvezza di Baghdad mentre era in corso una funzione religiosa e avevano preso in ostaggio i presenti. Il successivo intervento delle forze dell'ordine per liberarli si concluse con la morte di 37 fedeli e il ferimento di numerosi altri. Nel comunicato con cui l'ISI rivendicava l'attentato si leggeva: "Un gruppo di mujaheddin in collera fra i fedeli di Allah ha effettuato un raid su uno dei rifugi osceni dell'idolatria, che era stato sempre usato dai cristiani dell'Iraq come quartier generale per la lotta contro la religione dell'islam e il sostegno a quelli che combattono questa religione". Obiettivo dell'azione – spiegava inoltre il comunicato – era stata la liberazione di due "povere sorelle musulmane imprigionate nei monasteri dell'infedeltà nelle chiese dell'idolatria in Egitto".
False erano anche le accuse di blasfemia rivolte lo scorso gennaio a due donne cristiane di Lahore, Pakistan. Ma nessuno le ha messe minimamente in dubbio. Le poverette sono state aggredite da una folla incollerita, imbrattate, picchiate e portate a dorso di asino per le strade del loro quartiere. Si è poi saputo che invece le accuse erano una vendetta di alcuni familiari coinvolti in una lite sull'educazione religiosa da impartire alla figlia del fratello di una delle due donne, sposato a una musulmana. Del resto tutte le accuse di blasfemia in Pakistan si basano su accuse infondate, che nessuno si preoccupa di verificare. Anche Asia Bibi, la donna cristiana protestante condannata a morte in Pakistan per blasfemia, ne è un esempio, e dei più drammatici. Le donne islamiche sue compagne di lavoro che hanno testimoniato di averla sentita offendere il profeta Maometto avevano litigato con lei e si sono servite di quest'arma temibile – l'accusa di blasfemia – per punirla. Adesso rischia la vita per questo.
Sempre all'inizio dell'anno in India, a Karnataka, un missionario della Santa Croce di Whitefield, padre Phillip Noronha, veniva accusato dai genitori di alcuni allievi della scuola di cui è vicedirettore di aver molestato sessualmente i loro figli. Benché anche in questo caso le accuse fossero false, è stato aggredito da una folla di centinaia di indu senza che la polizia intervenisse a difenderlo. Secondo i missionari, si vuole screditare la scuola e ottenere l'esproprio dei terreni su cui sorge per consentirne l'annessione a un vicino tempio indù.
Ma come non ricordare le terribili violenze anticristiane nello stato indiano dell'Orissa nel 2008, quando chiese e interi villaggi sono stati distrutti da una folla incitata da qualcuno che aveva falsamente accusato i cristiani dell'assassinio di un vecchio leader indù: decine furono i morti, sacerdoti picchiati a sangue e suore violentate, sempre con il "metodo Nerone".
Così come un'altra falsa accusa fu alla base di una violenza durata tre anni nell'arcipelago delle Molucche, in Indonesia, dove nel 1999 un banale screzio tra l'autista cristiano di un minibus e un passeggero islamico, che invece denunciò di essere stato aggredito, diede il via a una stagione interminabile di odio e morte che fu sedata con fatica dall'esercito indonesiano. Ma alla fine, nel 2002, si contarono circa 15mila morti e 500mila profughi.
Il ripetersi, anzi, il moltiplicarsi di episodi simili – false accuse che provocano reazioni violente di massa, senza mai il beneficio del dubbio – dà certamente la misura dell'ostilità e del risentimento crescenti nei confronti delle minoranze cristiane nel mondo.
LINEE GUIDA SUGLI STATI VEGETATIVI E DI MINIMA COSCIENZA - Pubblicato il 10 maggio 2011 da http://www.blogscienzaevita.org/
La Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano ha approvato il 5 maggio 2011 le Linee di indirizzo sugli stati vegetativi e di minima coscienza.
Il documento prevede la realizzazione di un sistema integrato ospedale-territorio per costruire un percorso di "dimissione protetta", riducendo al minimo la permanenza nei reparti di rianimazione e intensivi e favorisca al più presto il trasferimento in ambienti più adeguati a fornire un'assistenza più attenta agli aspetti funzionali e riabilitativi del paziente e al benessere della propria famiglia.
"L'approvazione delle linee guida sugli stati vegetativi – dichiara il sottosegretario alla Salute, On. Eugenia Roccella – rappresenta il punto di arrivo di un lungo lavoro avviato sin dall'inizio di questo governo. Il documento recepisce infatti nella sostanza i risultati della Commissione di esperti sullo stato vegetativo e di minima coscienza, da me presieduto, e delle associazioni che hanno collaborato con il Ministero alla realizzazione del libro bianco".
"Le linee guida – prosegue il sottosegretario – rappresentano un obiettivo importante per una società che sappia tutelare i più deboli e più fragili, capace di accogliere, come noi abbiamo fatto, l'appello delle famiglie che, con fatica e dedizione, assistono i propri cari in stato vegetativo, uomini e donne in condizioni di disabilità estrema. Il documento oggi approvato fornirà alle Regioni i giusti strumenti per affrontare il problema dell'appropriatezza del percorso assistenziale di questi disabili che, come ci insegna il Libro bianco, deve essere personalizzato e costruito sulle reali esigenze dei malati e delle loro famiglie. È per questo importante ottimizzare le risorse disponibili (come i fondi che già da due anni il governo ha vincolato agli obiettivi di piano) per implementare, per esempio, la rete di accoglienza specializzata puntando sulla riabilitazione poiché si tratta di malati che, sottoposti a determinati programmi, possono migliorare. E' la prima volta che un atto istituzionale di alto profilo come le linee guida recepisce le istanze delle associazioni che in questo percorso sono state di fatto riconosciute, e continueranno ad esserlo, come interlocutori."
vai al testo delle linee guida: http://www.salute.gov.it/dettaglio/dettaglioNews.jsp?id=1506&tipo=new
Il coraggio di un discorso di Lorenzo Bertocchi - 11/05/2011 - Segnalazioni librarie – da http://www.libertaepersona.org
"Eodem sensu eademque sententia". Questo è il passo di San Vincenzo di Lerins che risuona nelle opere di Mons. Brunero Gherardini. "Nello stesso senso e nel medesimo significato", è la chiave interpretativa che il teologo della gloriosa Scuola Romana richiama più volte nella sua coraggiosa ricerca teologica sull'interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II.
L'altro punto fermo che penso sia necessario considerare affrontando il lavoro di Gherardini riguarda la preoccupazione sincera che anima l'autore rispetto alla crisi nella Chiesa, quella che molti ritengono gravissima. O si riconosce la profondità e l'ampiezza di tale crisi, oppure difficilmente si potrà capire il lavoro e lo sforzo del teologo toscano.
Nel 2009 con il suo primo libro sul tema egli proponeva un "discorso da fare", oggi - "Concilio Vaticano II. Il discorso mancato" (Ed. Lindau - 2011) – quella proposta gli pare un occasione persa, perchè come risposta al suo appello registra prevalentemente il ripetersi di una specie di refrain, e cioè che la crisi nella Chiesa ha radici soltanto nel post-concilio, là dove si è affermata una interpretazione deviata dei documenti conciliari.
Mons. Gherardini non nega che vi sia stato l'abuso post-conciliare, questo ormai è un dato acquisito, ma cosa ha permesso che nella prassi si sviluppassero due interpretazioni contrapposte? Dove sono le radici di questi abusi? Qui si colloca il "discorso da fare" che propone Gherardini, il quale sa bene che una malapianta non viene estirpata semplicemente potandola.
Personalmente credo che questa sua proposta di ricerca sia del tutto ragionevole e anziché emarginarlo sarebbe meglio ascoltarne il suggerimento, ossia "prendersi tutti la testa fra le mani per decidere finalmente di mettere un po' d'ordine nel disordinato andazzo di questo interminabile e sempre inossidabile post-concilio" (pag. 78).
Mons. Gherardini riconosce il Concilio Vaticano II come ecumenico e trae la ovvia conseguenza di considerarne il magistero come conciliare e solenne, ma di per sé – e il "ma" è assai rilevante – questo non depone affatto per una sua completa e totale dogmaticità e infallibilità. Ammetto che il discorso si fa complesso e impervio, ma proprio qui l'autore colloca il "discorso mancato", infatti, più che l'avvio di un dibattito storico, teologico e filosofico sul tema, egli nota un pullulare di voci che di fatto si collocano nella scia del filone celebrativo del Concilio, voci che non aggiungono gran che alle questioni da risolvere.
Sembra che più che cercar di distinguere e capire, si sia preferito squalificare i presupposti del "discorso", ma Gherardini, pur non nascondendo una certa delusione, prova a comunque a rilanciare.
Le principali piste di analisi proposte dall'autore credo possono essere ricondotte a due: la distinzione della qualità dei diversi documenti conciliari e la individuazione di quattro livelli in cui analizzare il concilio (generico, pastorale, di appello ai precedenti concili e quello delle innovazioni). Nell'analisi di Gherardini mi pare che il nodo fondamentale da sciogliere riguardi soprattutto il tema delle "innovazioni" introdotte dal Concilio, qui è particolarmente rilevante il problema interpretativo, tema connesso anche alla questione della dogmaticità/infallibilità del magistero.
L'autore risolve questo nodo sottoponendo le "innovazioni" al vaglio di quel principio - "eodem sensu eademque sententia" – che dovrebbe garantire l'aggiornamento rispetto alla fedeltà alla dottrina di sempre. In ultima analisi sembra che il problema venga sciolto con una espressione quasi sofferta, ma coraggiosamente chiara: "filologicamente, storicamente, esegeticamente e teologicamente – scrive Gherardini - si stenta, arrancando e ansimando come su di una salita impervia, a trovar una giustificazione per: la collegialità dei vescovi espressa dalla costituzione Lumen Gentium, il nuovo rapporto tra Scrittura e Tradizione indicato dalla costituzione Dei Verbum e le innovazioni attinenti la sacra liturgia, la soteriologia, il rapporto tra cristianesimo e giudaismo, islamismo e religioni in genere." (pag. 96). Egli quindi dichiara di non poter assolutamente applicare l'aggettivo "dogmatico" a quello che lui indica come quarto livello del Concilio, quello delle "innovazioni".
A questo punto entra in gioco l'altro argomento controverso, quello dei diversi livelli del magistero in rapporto al Vaticano II e anche in questo caso, come già osservato, la proposta di Gherardini è precisa: magistero conciliare e perciò solenne, ma di per sé non dogmatico e infallibile.
C'è chi ha scritto che quello di Gherardini non è un discorso, ma soltanto un denigrare, francamente mi sembra un giudizio un po' troppo tranchant, certo le questioni poste sono piuttosto spinose, ma da semplice fedele mi preme sottolineare un punto che credo non debba mai esser perso di vista.
Il Vaticano II voleva andare incontro all'uomo moderno, abbracciarne le istanze, parlare il suo stesso linguaggio, esaltarne la dignità e così riconciliarlo con Dio, ebbene dopo quasi 50 anni siamo di fronte al fatto che molti uomini vivono "etsi Deus non daretur", come se Dio non esistesse. Con questa realtà è necessario fare i conti, non si tratta di pessimismo, ma di quel sano realismo cattolico che ha sempre caratterizzato la Chiesa nel compimento della Sua missione: "che si convertano e credano al Vangelo".
Grazie a uomini come Mons. Gherardini la discussione ha preso quota, alzandosi rispetto ad un andamento un po' troppo soporifero e privo di quel sano nerbo che, in fin dei conti, è zelo per le anime.
Riflessioni e indicazioni pastorali sulle prossime elezioni amministrative del 15 e 16 maggio 2011 - S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi, Arcivescovo-vescovo di Trieste e Presidente dell'Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuân, sulla Dottrina sociale della Chiesa, da http://www.vanthuanobservatory.org/
Un momento importante
Le elezioni, siano esse politiche che amministrative, sono sempre un momento importante per una comunità. Sono infatti l'occasione per pensare a se stessa e al proprio futuro e per indicare programmi e nomi che possano interpretare questa idea di se stessa e del proprio futuro. E' vero che nella nostra società i momenti decisionali della politica si sono moltiplicati e, si potrebbe dire, sono usciti dai tradizionali palazzi. C'è oggi una politica "diffusa" nella società e nel territorio. Ciononostante, il momento elettorale conserva una sua indubbia importanza perché in esso il cittadino riflette non solo sui propri bisogni e interessi, ma sul "nostro" bene, il bene di tutti, il bene della comunità percepita come un tutto. E' così anche per le prossime elezioni amministrative.
Il compito del Vescovo
Il mio compito, come vescovo, è di confermare che la comunità cristiana e la fede cristiana non sono estranee a questi momenti importanti della vita della comunità, anzi, dato che esse hanno a cuore l'uomo "via della Chiesa", come scriveva nella sua prima enciclica, la Redemptor hominis, il Beato Giovanni Paolo II, non possono ritenersi estranee ai momenti in cui l'uomo decide di se stesso e del proprio futuro. Non perché la fede cristiana fornisca ricette politiche o amministrative, ma perché ritiene di aver qualcosa da dire – e di fondamentale importanza – sul senso comunitario della vita umana e sul nostro destino. E' propriamente qui, sul tema dell'uomo e del suo destino – il suo "cos'è" e il suo "cosa deve essere" – che la fede cristiana scende nella pubblica piazza e fa la sua proposta a tutti gli uomini che cercano la verità.
L'uomo ha una sola vocazione
Credo che non sia corretto interpretare la frase evangelica "date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio" come se la politica avesse da provvedere ai bisogni "materiali" della persona e la fede a quelli "spirituali". Sia la politica, sia la fede cristiana guardano alla persona tutta intera. La persona non ha due chiamate diverse: una materiale e una spirituale; non persegue due destini diversi: uno terreno e l'altro eterno; non risponde a due bisogni diversi: il benessere qui e la salvezza di là. La persona è un tutt'uno e cerca semplicemente di essere, di crescere, di maturare in tutte le sue dimensioni; sente che qualsiasi singola dimensione le sta stretta e cerca di respirare al massimo, con i polmoni e con l'anima. La politica, compresa quella amministrativa, non riguarda solo un aspetto della persona, perché nella persona nessun aspetto è pienamente comprensibile se viene staccato dagli altri. La politica riguarda, quindi, tutta la persona, come pure la fede riguarda tutta la persona: la vedono da angolature diverse ma non contrapposte.
Le elezioni amministrative non sono mai solo amministrative
Può risultare strana questa mia affermazione. La politica nelle amministrazioni locali – si dice talvolta – riguarda l'organizzazione pratica della vita della comunità: il lavoro, il traffico, l'occupazione, il tempo libero … ; la fede, invece, riguarda altre cose: la preghiera, i sacramenti, lo spirito … Certamente questa visione ha molti aspetti di verità, però se nella persona si vede – come insegna la fede cristiana – la creatura del Padre, l'immagine di Dio, un fratello in Gesù Cristo, una realtà unica ed eminente che non ha eguali nel creato, anche l'organizzazione del lavoro, del traffico, dell'occupazione, del tempo libero … troverà altre e superiori motivazioni e indicazioni operative. Non pensiamo che ci siano da un lato le questioni operative e materiali e dall'altro quello morali e spirituali. L'uomo è un tutt'uno e la vita è sempre una sintesi. Quando noi compiamo una qualsiasi azione ci mettiamo tutta la nostra realtà di persone umane.
I grandi valori umani
E' per questo che le elezioni amministrative non devono essere considerate come estranee ai grandi valori umani, che la fede cristiana ci ha insegnato e continua ad insegnarci. L'amministrazione di una città è senz'altro indipendente dal piano ecclesiastico della religione, ma non lo è dall'etica, ossia dai principi morali legati al bene della persona e della comunità e che la fede cristiana ha contribuito a far scoprire e contribuisce oggi a conservare, a difendere e a far respirare.. I grandi valori umani della persona sono per esempio il diritto alla vita, l'integrità della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, la libertà per le famiglie di educare i propri figli secondo la propria responsabilità, l'aiuto solidale ai poveri condotto in modo sussidiario, ossia evitando sprechi ed assistenzialismo e favorendo, invece, la creatività e l'assunzione di responsabilità di persone e corpi intermedi.
Davanti alla scheda elettorale
Davanti alla scheda elettorale, l'elettore sa bene che dovrà decidere non solo del piano urbanistico o della viabilità, ma anche di questi grandi valori. Ed è per questo che la Chiesa ha sempre insegnato che non è lecito al cristiano appoggiare partiti che «su questioni etiche fondamentali hanno espresso posizioni contrarie all'insegnamento morale e sociale della Chiesa» (Nota della Congregazione della Dottrina della Fede del 2002). Questo sia per un dovere di coerenza, sia perché, facendo diversamente, si farebbe un danno alla persona e alla società. Ci sono, infatti, questioni che possono essere affrontate e risolte in molti modi, ed altre che, invece, sono sicuramente sbagliate e contrarie al bene umano.
La crescente importanza degli enti territoriali
Oggi gli enti territoriali hanno sempre maggiori competenze anche su queste questioni di fondamentale importanza. Essi possono danneggiare o aiutare la famiglia, possono o meno aprire il riconoscimento pubblico a "nuove forme di famiglia", possono o meno mettere in atto aiuti concreti contro l'aborto, possono o meno promuovere forme di pubblicità offensive del diritto alla vita, possono soffocare la libertà di educazione delle famiglie oppure fare passi concreti per permettere il suo esercizio, possono sistematicamente combattere la presenza pubblica del cristianesimo o aprirsi ad una collaborazione nel reciproco rispetto. E tutto questo si amplierà ulteriormente in futuro, perché le autonomie si stanno diffondendo e le stesse competenze legislative degli enti locali aumentano.
Il dovere della coerenza
Anche in occasione di elezioni amministrative, il cristiano che voglia essere fedele agli insegnamenti della Chiesa distinguerà nei programmi le questioni su cui sono lecite molte opinioni da quelle che invece obbligano la sua coscienza. E non darà il suo appoggio a partiti che le prevedano. Cercherà l'onestà personale dei candidati, ma non solo. Cercherà anche l'accettabilità dei loro programmi dal punto di vista dei valori fondamentali che ho elencato sopra e valuterà la storia e il retroterra culturale dei partiti dentro cui i candidati operano.
VERONESI E' PER L'EUTANASIA. NOI INVECE PER LA "CURA" DELLE PERSONE - Lucio Romano, Copresidente nazionale Associazione Scienza & Vita, Pubblicato l'11 maggio 2011 da http://www.blogscienzaevita.org/
Ci risiamo, come prevedibile. Umberto Veronesi, illustre oncologo di fama internazionale a cui va il riconoscimento per l'attività di clinico e di ricercatore, si è espresso in maniera inequivocabilmente chiara a favore dell'eutanasia. Nel corso di un incontro culturale tenutosi presso l'Università Bocconi di Milano, ha fondato l'eutanasia sul "diritto assoluto alla propria autodeterminazione, in quanto ognuno ha diritto a un proprio progetto di vita e anche di morte". Che Veronesi sia a favore della c.d. "dolce morte" mi sembra sia già noto da tempo attraverso molteplici esposizioni pubbliche e mediatiche. Inoltre, la stessa Fondazione Veronesi ha anche proposto un modello di Testamento Biologico: "nell'attesa di una legge sul testamento biologico che ne regoli compiutamente l'istituzione".
Immediato, semplice e direi, drammaticamente logico, il procedimento che si vuole perseguire: no a una legge che si basi su Dichiarazioni Anticipate di Trattamento non vincolanti per il medico e che includano alimentazione e idratazione assistite come sostegni vitali; sì invece a una legge che ratifichi il Testamento Biologico e che introduca in Italia, sebbene non in forma esplicita, l'eutanasia. Infine, a fronte dell'impedimento a legiferare a favore dell'eutanasia, meglio nessuna legge. Questa è la posizione che chiaramente emerge dagli interventi di Veronesi e di altri che concordano per posizioni pro eutanasiche. Attenzione, però. Non richiama in maniera esplicita l'eutanasia, ma si preferiscono altre espressioni meno direttamente evocative e certamente più suggestive quale ad esempio: "nelle malattie terminali, quando non si è più autosufficienti, si soffre o si è dipendenti dagli altri, ci si può permettere di chiedere al medico una mano per morire in maniera decorosa". Detto così, si vorrebbe significare che tutti gli altri sono per l'accanimento, per interventi futili e comunque disumanizzanti. Comportamenti, questi, che sarebbero ratificati dalla legge sulle Dat in discussione al Parlamento.
Non è assolutamente vero! Essere contro l'eutanasia non significa essere a favore dell'accanimento, piuttosto significa assistere in termini di trattamenti proporzionati e sempre avendo cura della persona sofferente, "nelle malattie in fase terminale" o nelle gravi disabilità. Guai per una società dove la fragilità trovi nell'eutanasia la sua soluzione: significherebbe davvero il prevalere del più forte sul più debole, si annullerebbe il fondamento della relazione sociale e umana che si sostanzia nell'essere con l'altro e per l'altro in libertà e responsabilità.
La Stampa, 11 maggio 2011 - "I miei nanotubi vi guariranno"- Tutto Scienze Intervista - Dopo le missioni nell'organismo, si degradano grazie a un enzima scoperto nei globuli bianchi - LE APPLICAZIONI «I nanomateriali ingegnerizzati potranno essere utilizzati per i nuovi farmaci su misura» - I PERICOLI «Con la tecnica di inattivazione si elimina il rischio che le f ibre diventino cancerogene» di MARTA PATERLINI
I nanomateriali ingegnerizzati offrono straordinarie opportunità per l'industria e i beni di consumo (dai cosmetici agli imballaggi per alimenti e agli articoli sportivi, come le racchette da badminton e i caschi per bicicletta), oltre che per la medicina e l'elettronica, solo per menzionare alcuni settori. Gli scienziati prevedono che i nanomateriali saranno anche fondamentali nello sviluppo dei computer e nella produzione di energia. E, tuttavia, sono ancora molti gli interrogativi sui potenziali effetti pericolosi che queste realtà che contengono particelle di dimensioni pari a un miliardesimo di un metro - potrebbero avere sulla salute umana e sull'ambiente. ronmental Medicine» del Karolinska Institutet di Stoccolma e coordinatore di «Nanommune», il progetto della comunità europea che ha come obiettivo proprio la nanosicurezza. Ha anche organizzato un convegno internazionale per discutere di questo problema: i rischi sono sottovalutati o esagerati? «Noi siamo sempre stati esposti alle nanoparticelle: a quelle di una candela, per esempio, o a quelle di un vulcano. Tuttavia ciò che non sappiamo è se i nanomateriali ingegnerizzati nascondano dei rischi. "Nanommune" si prefigge proprio questo, vale a dire fare una valutazione precisa del ciclo di vita di un nanomateriale, perché esiste la preoccupazione che le stesse proprietà che rendono le nanostrutture così attraenti possano celare anche effetti non previsti e pericolosi per la salute. Le nanotecnologie hanno già portato quasi 300 prodotti sul mercato e lo spettro di possibli danni - immaginari o reali - potrebbe rallentare la crescita di questo settore. A meno che non si sviluppi, in parallelo, un'informazione indipendente, autorevole e chiara sui possibili rischi e su come si possa evitarli. Si tratta di un'azione preventiva senza precedenti nei confronti di una nuova tecnologia: ecco perché governi, industrie e ricercatori stanno studiando come ottimizzare i benefici delle nanotecnologie emergenti, minimizzandone i pericoli». Bengt Fadeel, lei è professore di nanotossicologia all'«Institute of EnviFinora che cosa è stato scoperto? «Si è cominciato a parlare di nanosicurezza e di nanotossicologia dal 2004-2005. Ma alle spalle ci sono decenni di ricerca sulle microfibre. Per esempio quelle di amianto, che, si sa, sono patogene. Oggi, però, siamo in una posizione unica: c'è una crescente consapevolezza della necessità di capire se ci sia qualche aspetto potenzialmente tossico nei nanomateriali. Se al momento nella letteratura scientifica non c'è menzione del fatto che l'esposizione sia pericolosa, l'anno scorso ha fatto scalpore un rapporto su sette donne addette all'assemblaggio di nanomateriali in una fabbrica cinese: dopo aver sviluppato problemi respiratori, due morirono e nei loro polmoni furono rilevate delle nanoparticelle. Nonostante non siano emerse prove che giustifichino una connessione di causa ed effetto, la tragedia ci ha costretto a una riflessione più attenta. Senza dimenticare che, a prescindere da ciò che si sta maneggiando, dovrebbe essere sempre obbligatorio avere un'adeguata protezione e ventilazione. Elementi basilari, questi, che però erano inesistenti in quello stabilimento». A Stoccolma avete parlato diffusamente di nanotubi, che rappresentano una delle tecnologie più promettenti, giusto? «Abbiamo discusso molto di queste strutture di carbonio, costituite da un singolo foglio di nanoatomi, arrotolato a guisa di tubo: esiste la preoccupazione che possano avere effetti simili a quelli dell'amianto. Tutto è nato dalle osservazioni su alcuni topi di laboratorio. Esposti proprio ai nanotubi, hanno sviluppato problemi polmonari e sintomi non molto lontani da quelli provocati dalle polveri di amianto. Il dilemma, quindi, è se questi, che sono ottimi conduttori di calore ed energia e che diventano molto più forti e leggeri dell'acciaio, siano anche cancerogeni. E' una questione cruciale soprattutto quando si parla di nanomedicina, un settore ancora agli albori ma in crescita rapida: queste nanoparticelle, infatti, potrebbero essere utilizzate per il trasporto di farmaci, come agenti di contrasto per l'analisi delle immagini e nella medicina rigenerativa». Quali sono i dati certi oggi disponibili? «E' stato dimostrato che i nanotubi di carbonio, se iniettati nel peritoneo dei topi, causano infiammazioni e possono generare granulomi: è una reazione simile a quella descritta con le fibre di amianto. Da altri esperimenti è poi emerso che soltanto i nanotubi lunghi almeno 20 micron sono dannosi e non quelli più corti. Si tratta di risultati che si accordano con una serie di dati accumulati negli anni: le fibre lunghe e sottili sono biopersistenti, cioè non biodegradabili, e possono essere dannose e causare infiammazioni polmonari, fino a generare mesoteliomi anche 30 anni dopo l'esposizione. E questo punto è diventato un fulcro di discussione a Stoccolma: la questione se i nanotubi causino il cancro resta contreoversa. Alcuni scienziati ne sono certi, altri non vedono questo pericolo. Comunque sia, un parametro importante sembra essere la lunghezza dei nanotubi». Lei ha fatto un'importante scoperta: può spiegarla? «Il mio team ha pubblicato alcuni risultati innovativi su "Nature Nanotechnology", in cui ho sfidato, in un certo, senso il paradigma vigente: ho descritto, per la prima volta, un meccanismo di inattivazione enzimatica una biodegradazione - dei nanotubi di carbonio. Prima sono stati isolati i globuli bianchi dal sangue di pazienti di controllo. Poi su queste cellule abbiamo continuato le ricerche in vitro, osservando che l'enzima mieloperossidasi degrada i nanotubi in acqua e anidride carbonica: è lo stesso enzima che alcuni tipi di globuli bianchi utilizzano per neutralizzare i batteri nocivi. Al momento sappiamo solo che l'enzima funziona su nanotubi corti e purificati, ma il nostro studio è una prova di principio: le nanostrutture possono essere biodegradabili. Adesso stiamo cercando di capire che cosa accade in vivo, sia in topi normali sia in topi a cui manca la mieloperossidasi: così vedremo se c'è differenza nella degradazione». Che cosa risponde uno scienziato a un'opinione pubblica preoccupata? «Non bisogna generare inutili paure. La questione, oggi, è l'esposizione, sulla quale la ricerca resta ancora lenta. Se un nanomateriale è completamente integrato nelle componenti di un prodotto, per esempio una bicicletta, non causa alcun pericolo. Il pericolo, eventualmente, potrebbe esistere per chi assembla i componenti e nel caso in cui non ci siano sistemi di sicurezza adeguati».
Bengt Fadeel Medico ambientale
Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2011 - Alla coppia omosessuale una pensione senza tagli di Marina Castellaneta
La Corte di giustizia Ue interviene sui diritti delle coppie omosessuali che in uno Stato possono registrare la propria unione. Se gli Stati dell'Unione adottano una legislazione nazionale che prevede la registrazione di un'unione anche per coppie dello stesso sesso, i Paesi membri sono tenuti a garantire diritti analoghi a quelli corrisposti a coppie regolarmente sposate.
Tra questi, ad esempio, quelli legati ai criteri per calcolare la pensione complementare di vecchiaia. È il principio stabilito con la sentenza depositata ieri (causa C-147/08, Römer), con la quale Lussemburgo ha riconosciuto che rientra nella competenza degli Stati stabilire le regole in materia di stato civile. Nell'adottare leggi in questo settore le autorità nazionali devono però rispettare il diritto Ue e impedire discriminazioni fondate sulle tendenze sessuali, per garantire la parità di trattamento.
Alla Corte Ue si era rivolto il tribunale del lavoro di Amburgo, chiamato a dirimere una controversia tra un impiegato e il comune sul calcolo pensione complementare: secondo l'impiegato tedesco, non era stato applicato nei suoi confronti lo scaglione tributario corrisposto ai beneficiari coniugati malgrado egli avesse un'unione registrata con un partner dello stesso sesso e la legislazione tedesca, che prevede le unioni civili registrate, avesse provveduto a un progressivo avvicinamento tra le due situazioni. I giudici tedeschi hanno chiamato in causa i colleghi di Lussemburgo per sciogliere alcuni nodi interpretativi sulla direttiva 2000/78 sul principio della parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (recepita in Italia con il decreto legislativo 216/03).
Prima di tutto - ha precisato la Corte Ue - gli Stati sono liberi di scegliere la legislazione in materia di stato civile: è un settore che rientra nella competenza dei Paesi membri a patto però che, nel predisporre la normativa interna, sia assicurato che le disposizioni nazionali non producano effetti contrari al diritto dell'Unione. Gli Stati non sono obbligati a prevedere la registrazione di unioni civili, ma se lo fanno devono assicurare che la legislazione interna non contrasti con il divieto di ogni discriminazione fondata sulle tendenze sessuali in materia di occupazione e di lavoro. Questo anche nei casi in cui il diritto interno non abbia effettuato un'equiparazione generale e completa, sotto il profilo giuridico, dell'unione civile registrata rispetto al matrimonio.
Ciò che conta è che le situazioni siano paragonabili: in questi casi, le autorità nazionali devono prevedere che siano corrisposte pensioni di anzianità, che rientrano nella nozione di retribuzione, identiche proprio perché situazioni paragonabili devono essere trattate nello stesso modo. Nessuna differenza tra il componente di un'unione registrata e quello di una coppia sposata che si distinguono solo perché il primo non può contrarre matrimonio. Il ricorrente ha diritto a un incremento nella pensione di vecchiaia, in quanto pensionato sposato.
E apre la strada al diritto del cittadino di invocare direttamente la norma Ue che vieta ogni discriminazione fondata sul sesso dinanzi alle autorità nazionali, senza attendere una modifica legislativa interna.
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