Nella rassegna stampa di oggi:
- IL PAPA AI PARTECIPATI AL CONVEGNO SU "GIUSTIZIA E GLOBALIZZAZIONE" - Nel 50° anniversario dell'Enciclica Mater et magistra
- 50 anni fa usciva l'enciclica «Mater et magistra» di Massimo Introvigne, 17-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it/
- Ma chi erano gli amici di don Seppia? di Andrea Tornielli, 17-05-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
- CURE DI SUPPORTO E DI FINE VITA: UNA DIFFERENZA IMPORTANTE - Pubblicato il 16 maggio 2011 da http://www.blogscienzaevita.org/
- RU486/ Io, medico abortista, vi spiego perché la pillola è il male peggiore - INT. Vincenzo Cagnano - martedì 17 maggio 2011 – il sussidiario.net
- LETTURE/ Potok e Asher Lev: anche un ebreo comprende il dramma della croce di Martino Sartori, martedì 17 maggio 2011, il sussidiario.net
- Gli anziani e i disabili temono la legge sull'eutanasia, 16 maggio, 2011, da http://www.uccronline.it
- IL CASO POLEMICHE SU «THE SIMS», IL GAME PIÙ VENDUTO NEL MONDO - Videogioco con coppie gay «Minaccia l' educazione» di Cavalli Giovanna, 15 maggio 2011, Corriere della Sera
- The Sims in versione gay - Così promuove l'adozione tra le coppie omosessuali di Redazione - sabato 14 maggio 2011, © IL GIORNALE ON LINE S.R.L.
- Ricerca Sarà presto in vendita in Gran Bretagna. Ma é un bene conoscere la fine in anciticipo? - Se un test da 500 euro ci dice quanto vivremo, di Edoardo Boncinelli, Corriere della Sera, 17 maggio 2011
- LA SOLITUDINE DEL MEDICO TRA SUPER TECNOLOGIE E TAGLI, di Sergio Harari, Corriere Della Sera, 17 maggio 2011
- Legge sul fine vita, le questioni irrisolte di Tommaso Scandroglio, 17-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it/
- Lo storico Paul Crawford smonta i miti popolari sulle crociate - 17 maggio, 2011, da http://www.uccronline.it
IL PAPA AI PARTECIPATI AL CONVEGNO SU "GIUSTIZIA E GLOBALIZZAZIONE" - Nel 50° anniversario dell'Enciclica Mater et magistra
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 16 maggio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo lunedì da Benedetto XVI nel ricevere in udienza i partecipanti al Congresso Internazionale promosso dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, nel 50° anniversario dell'Enciclica Mater et magistra del Beato Giovanni XXIII, sul tema: "Giustizia e globalizzazione: dalla Mater et magistra alla Caritas in veritate" (Roma, 16-18 maggio 2011).
* * *
Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
illustri Signore e Signori,
sono lieto di accogliervi e di salutarvi in occasione del 50° anniversario dell'Enciclica Mater et magistra del beato Giovanni XXIII; un documento che conserva grande attualità anche nel mondo globalizzato. Saluto il Cardinale Presidente, che ringrazio per le sue cortesi parole, come pure Mons. Segretario, i Collaboratori del Dicastero e tutti voi, convenuti dai vari Continenti per questo importante Congresso.
Nella Mater et magistra Papa Roncalli, con una visione di Chiesa posta al servizio della famiglia umana soprattutto mediante la sua specifica missione evangelizzatrice, ha pensato alla Dottrina sociale – anticipando il beato Giovanni Paolo II – come ad un elemento essenziale di questa missione, perché «parte integrante della concezione cristiana della vita» (n. 206). Giovanni XXIII è all'origine delle affermazioni dei suoi Successori anche quando ha indicato nella Chiesa il soggetto comunitario e plurale della Dottrina sociale. I christifideles laici, in particolare, non possono esserne soltanto fruitori ed esecutori passivi, ma ne sono protagonisti nel momento vitale della sua attuazione, come anche collaboratori preziosi dei Pastori nella sua formulazione, grazie all'esperienza acquisita sul campo e alle proprie specifiche competenze. Per il beato Giovanni XXIII, la Dottrina sociale della Chiesa ha come luce la Verità, come forza propulsiva l'Amore, come obiettivo la Giustizia (cfr n. 209), una visione della Dottrina sociale, che ho ripreso nell'Enciclica Caritas in veritate, a testimonianza di quella continuità che tiene unito l'intero corpus delle Encicliche sociali. La verità, l'amore, la giustizia, additati dalla Mater et magistra, assieme al principio della destinazione universale dei beni, quali criteri fondamentali per superare gli squilibri sociali e culturali, rimangono i pilastri per interpretare ed avviare a soluzione anche gli squilibri interni all'odierna globalizzazione. A fronte di questi squilibri c'è bisogno del ripristino di una ragione integrale che faccia rinascere il pensiero e l'etica. Senza un pensiero morale che superi l'impostazione delle etiche secolari, come quelle neoutilitaristiche e neocontrattualiste, che si fondano su un sostanziale scetticismo e su una visione prevalentemente immanentista della storia, diviene arduo per l'uomo d'oggi accedere alla conoscenza del vero bene umano. Occorre sviluppare sintesi culturali umanistiche aperte alla Trascendenza mediante una nuova evangelizzazione - radicata nella legge nuova del Vangelo, la legge dello Spirito - a cui più volte ci ha sollecitati il beato Giovanni Paolo II. Solo nella comunione personale con il Nuovo Adamo, Gesù Cristo, la ragione umana viene guarita e potenziata ed è possibile accedere ad una visione più adeguata dello sviluppo, dell'economia e della politica secondo la loro dimensione antropologica e le nuove condizioni storiche. Ed è grazie ad una ragione ripristinata nella sua capacità speculativa e pratica che si può disporre di criteri fondamentali per superare gli squilibri globali, alla luce del bene comune. Infatti, senza la conoscenza del vero bene umano, la carità scivola nel sentimentalismo (cfr n. 3); la giustizia perde la sua «misura» fondamentale; il principio della destinazione universale dei beni viene delegittimato. Dai vari squilibri globali, che caratterizzano la nostra epoca, vengono alimentate disparità, differenze di ricchezza, ineguaglianze, che creano problemi di giustizia e di equa distribuzione delle risorse e delle opportunità, specie nei confronti dei più poveri.
Ma non sono meno preoccupanti i fenomeni legati ad una finanza che, dopo la fase più acuta della crisi, è tornata a praticare con frenesia dei contratti di credito che spesso consentono una speculazione senza limiti. Fenomeni di speculazione dannosa si verificano anche con riferimento alle derrate alimentari, all'acqua, alla terra, finendo per impoverire ancor di più coloro che già vivono in situazioni di grave precarietà. Analogamente, l'aumento dei prezzi delle risorse energetiche primarie, con la conseguente ricerca di energie alternative guidata, talvolta, da interessi esclusivamente economici di corto termine, finiscono per avere conseguenze negative sull'ambiente, nonché sull'uomo stesso.
La questione sociale odierna è senza dubbio questione di giustizia sociale mondiale, come peraltro già ricordava la Mater et magistra cinquant'anni fa, sia pure con riferimento ad un altro contesto. È, inoltre, questione di distribuzione equa delle risorse materiali ed immateriali, di globalizzazione della democrazia sostanziale, sociale e partecipativa. Per questo, in un contesto ove si vive una progressiva unificazione dell'umanità, è indispensabile che la nuova evangelizzazione del sociale evidenzi le implicanze di una giustizia che va realizzata a livello universale. Con riferimento alla fondazione di tale giustizia va sottolineato che non è possibile realizzarla poggiandosi sul mero consenso sociale, senza riconoscere che questo, per essere duraturo, deve essere radicato nel bene umano universale. Per quanto concerne il piano della realizzazione, la giustizia sociale va attuata nella società civile, nell'economia di mercato (cfr Caritas in veritate n. 35), ma anche da un'autorità politica onesta e trasparente ad essa proporzionata, pure a livello internazionale (cfr ibid., n. 67).
Rispetto alle grandi sfide odierne, la Chiesa, mentre confida in primo luogo nel Signore Gesù e nel suo Spirito, che la conducono attraverso le vicende del mondo, per la diffusione della Dottrina sociale conta anche sull'attività delle sue istituzioni culturali, sui programmi di istruzione religiosa e di catechesi sociale delle parrocchie, sui mass media e sull'opera di annuncio e di testimonianza dei christifideles laici (cfr Mater et magistra, 206-207). Questi debbono essere preparati spiritualmente, professionalmente ed eticamente. La Mater et magistra insisteva non solo sulla formazione, ma soprattutto sull'educazione che forma cristianamente la coscienza ed avvia ad un'azione concreta, secondo un discernimento sapientemente guidato. Il beato Giovanni XXIII affermava: «L'educazione ad operare cristianamente anche in campo economico e sociale difficilmente riesce efficace se i soggetti medesimi non prendono parte attiva nell'educare se stessi, e se l'educazione non viene svolta anche attraverso l'azione» (nn. 212-213).
Ancora valide, inoltre, sono le indicazioni offerte da Papa Roncalli a proposito di un legittimo pluralismo tra i cattolici nella concretizzazione della Dottrina sociale. Scriveva, infatti, che in questo ambito «[…] possono sorgere anche tra cattolici, retti e sinceri, delle divergenze. Quando ciò si verifichi non vengano mai meno la vicendevole considerazione, il reciproco rispetto e la buona disposizione a individuare i punti di incontro per un'azione tempestiva ed efficace: non ci si logori in discussioni interminabili e, sotto il pretesto del meglio e dell'ottimo, non si trascuri di compiere il bene che è possibile e perciò doveroso» (n. 219). Importanti istituzioni a servizio della nuova evangelizzazione del sociale sono, oltre alle associazioni di volontariato e alle organizzazioni non governative cristiane o di ispirazione cristiana, le Commissioni Giustizia e Pace, gli Uffici per i problemi sociali e il lavoro, i Centri e gli Istituti di Dottrina sociale, molti dei quali non si limitano allo studio e alla diffusione, ma anche all'accompagnamento di varie iniziative di sperimentazione dei contenuti del magistero sociale, come nel caso di cooperative sociali di sviluppo, di esperienze di microcredito e di un'economia animata dalla logica della comunione e della fraternità.
Il beato Giovanni XXIII, nella Mater et magistra, rammentava che si possono cogliere meglio le esigenze fondamentali della giustizia quando si vive come figli della luce (cfr n. 235). Auguro, pertanto, a tutti voi che il Signore Risorto riscaldi i vostri cuori e vi aiuti a diffondere il frutto della redenzione, mediante una nuova evangelizzazione del sociale e la testimonianza della vita buona secondo il Vangelo. Tale evangelizzazione sia sorretta da un'adeguata pastorale sociale, attivata sistematicamente nelle varie Chiese particolari. In un mondo, non di rado ripiegato su se stesso, privo di speranza, la Chiesa si attende che voi siate lievito, seminatori instancabili di veritiero e responsabile pensiero e di generosa progettualità sociale, sostenuti dall'amore pieno di verità che abita in Gesù Cristo, Verbo di Dio fattosi uomo. Nel ringraziarvi per la vostra opera, vi imparto di cuore la mia Benedizione Apostolica.
[© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana]
50 anni fa usciva l'enciclica «Mater et magistra» di Massimo Introvigne, 17-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it/
Il 16 maggio Benedetto XVI ha ricevuto in udienza i partecipanti al Congresso Internazionale promosso dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, nel cinquantesimo anniversario dell'Enciclica Mater et magistra del Beato Giovanni XXIII (1881-1963), datata 15 maggio 1961. Fu un'enciclica che affrontò per la prima volta in modo sistematico il problema della giustizia sociale internazionale ed ebbe grande risonanza anche fuori della Chiesa Cattolica. Il Papa ne propone - come nell'enciclica Caritas in veritate aveva fatto per un'altra enciclica sociale sullo stesso tema, la Populorum progressio (1967) del servo di Dio Paolo VI (1897-1978) - un'interpretazione che ne fa emergere insieme gli elementi di novità e la continuità con il Magistero precedente della Chiesa, secondo un programma di «ermeneutica della riforma nella continuità» che è parte essenziale del pontificato di Benedetto XVI, applicato sistematicamente sia ai documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II sia al Magistero dei Papi del Concilio, il beato Giovanni XXIII e il servo di Dio Paolo VI.
Il Papa ha definito la Mater et magistra «un documento che conserva grande attualità anche nel mondo globalizzato». Anzitutto, nell'enciclica di cinquant'anni fa, Benedetto XVI vede una prima rivendicazione - a fronte di critiche che iniziavano a manifestarsi - del ruolo della dottrina sociale della Chiesa. Secondo alcuni, infatti, la dottrina sociale della Chiesa era ormai un vecchiume inadatto al mondo moderno e doveva essere accantonata accogliendo al suo posto nella Chiesa la moderna scienza politica fondata sulle ideologie. Al contrario, spiega Benedetto XVI, Papa Roncalli «ha pensato alla Dottrina sociale - anticipando il beato Giovanni Paolo II [1920-2005] - come ad un elemento essenziale di questa missione, perché "parte integrante della concezione cristiana della vita" (n. 206)». Questa espressione - secondo cui, appunto, la dottrina sociale è «parte integrante» del messaggio cristiano - è insieme molto impegnativa ed è il cuore dell'enciclica.
Inoltre, ricorda Benedetto XVI, con la Mater et magistra «Giovanni XXIII è all'origine delle affermazioni dei suoi Successori anche quando ha indicato nella Chiesa il soggetto comunitario e plurale della Dottrina sociale. I christifideles laici, in particolare, non possono esserne soltanto fruitori ed esecutori passivi, ma ne sono protagonisti nel momento vitale della sua attuazione, come anche collaboratori preziosi dei Pastori nella sua formulazione, grazie all'esperienza acquisita sul campo e alle proprie specifiche competenze». Attraverso la dottrina sociale iniziano a prendere forma quei principi relativi al ruolo proprio dei laici nell'instaurazione cristiana dell'ordine temporale - con un'implicita critica di un certo clericalismo tipico dell'associazionismo cattolico degli anni 1950 e 1960 - che saranno poi consacrati dal Concilio Ecumenico Vaticano II.
«Per il beato Giovanni XXIII - ha proseguito Benedetto XVI - la Dottrina sociale della Chiesa ha come luce la Verità, come forza propulsiva l'Amore, come obiettivo la Giustizia (cfr n. 209), una visione della Dottrina sociale, che ho ripreso nell'Enciclica Caritas in veritate, a testimonianza di quella continuità che tiene unito l'intero corpus delle Encicliche sociali». Anche la Mater et magistra dev'essere interpretata dunque all'interno di una «continuità» della dottrina sociale. Nella Caritas in veritate Benedetto XVI aveva insistito sul fatto che «non contribuiscono a fare chiarezza certe astratte suddivisioni della dottrina sociale della Chiesa che applicano all'insegnamento sociale pontificio categorie ad esso estranee. Non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare [o - potremmo dire - precedente al beato Giovanni XXIII] e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo. È giusto rilevare le peculiarità dell'una o dell'altra Enciclica, dell'insegnamento dell'uno o dell'altro Pontefice, mai però perdendo di vista la coerenza dell'intero corpus dottrinale».
In omaggio al principio d'interpretazione del Magistero che ha proposto per il Concilio Ecumenico Vaticano II, che fa riferimento non a una mera continuità ma a una «riforma nella continuità», Benedetto XVI nota anche gli elementi d'innovazione della Mater et magistra rispetto a documenti precedenti. Il beato Giovanni XXIII si trovò di fronte a una particolare situazione di squilibrio crescente fra Paesi ricchi e Paesi poveri, risultato di processi che già anticipavano la globalizzazione. E in effetti «la verità, l'amore, la giustizia, additati dalla Mater et magistra, assieme al principio della destinazione universale dei beni, quali criteri fondamentali per superare gli squilibri sociali e culturali, rimangono i pilastri per interpretare ed avviare a soluzione anche gli squilibri interni all'odierna globalizzazione».
La soluzione del problema degli squilibri, indicava il beato Giovanni XXIII con un insegnamento che rimane attuale ancora oggi, non può essere semplicemente tecnica. No: «a fronte di questi squilibri c'è bisogno del ripristino di una ragione integrale che faccia rinascere il pensiero e l'etica. Senza un pensiero morale che superi l'impostazione delle etiche secolari, come quelle neoutilitaristiche e neocontrattualiste, che si fondano su un sostanziale scetticismo e su una visione prevalentemente immanentista della storia, diviene arduo per l'uomo d'oggi accedere alla conoscenza del vero bene umano». Se la ragione sia determinata dal vero oppure soltanto dall'utile rimane la questione di fondo per impostare anche i problemi dell'economia.
Ultimamente però - è un tema caro a Benedetto XVI, che lo ritrova nella Mater et magistra - una ragione orientata alla verità e non al mero utilitarismo nel contesto attuale può operare e portare i suoi frutti solo aprendosi al senso religioso e all'incontro con Gesù Cristo. «Solo nella comunione personale con il Nuovo Adamo, Gesù Cristo, la ragione umana viene guarita e potenziata ed è possibile accedere ad una visione più adeguata dello sviluppo, dell'economia e della politica secondo la loro dimensione antropologica e le nuove condizioni storiche. Ed è grazie ad una ragione ripristinata nella sua capacità speculativa e pratica che si può disporre di criteri fondamentali per superare gli squilibri globali, alla luce del bene comune».
Questo ancoraggio razionale è indispensabile per non accostarsi ai problemi dell'economia nazionale e internazionale con un atteggiamento meramente sentimentale. Infatti, «senza la conoscenza del vero bene umano, la carità scivola nel sentimentalismo […]; la giustizia perde la sua "misura" fondamentale; il principio della destinazione universale dei beni viene delegittimato», creando ingiustizie e distorsioni di ogni genere. Fra questi, come già aveva fatto nella Caritas in veritate, il Papa ha voluto menzionare «i fenomeni legati ad una finanza che, dopo la fase più acuta della crisi, è tornata a praticare con frenesia dei contratti di credito che spesso consentono una speculazione senza limiti. Fenomeni di speculazione dannosa si verificano anche con riferimento alle derrate alimentari, all'acqua, alla terra, finendo per impoverire ancor di più coloro che già vivono in situazioni di grave precarietà. Analogamente, l'aumento dei prezzi delle risorse energetiche primarie, con la conseguente ricerca di energie alternative guidata, talvolta, da interessi esclusivamente economici di corto termine, finiscono per avere conseguenze negative sull'ambiente, nonché sull'uomo stesso».
La Mater et magistra ci ha insegnato che la questione sociale è diventata «questione di giustizia sociale mondiale», e dunque «questione di distribuzione equa delle risorse materiali ed immateriali, di globalizzazione della democrazia sostanziale, sociale e partecipativa». Prendendo come base l'enciclica del beato Giovanni XXIII «è indispensabile che la nuova evangelizzazione del sociale evidenzi le implicanze di una giustizia che va realizzata a livello universale. Con riferimento alla fondazione di tale giustizia va sottolineato che non è possibile realizzarla poggiandosi sul mero consenso sociale, senza riconoscere che questo, per essere duraturo, deve essere radicato nel bene umano universale. Per quanto concerne il piano della realizzazione, la giustizia sociale va attuata nella società civile, nell'economia di mercato (cfr Caritas in veritate n. 35), ma anche da un'autorità politica onesta e trasparente ad essa proporzionata, pure a livello internazionale (cfr ibid., n. 67)».
Perché la dottrina sociale sia conosciuta e messa in pratica la Chiesa, insegnava il beato Giovanni XXIII e ricorda Benedetto XVI, conta «sull'opera di annuncio e di testimonianza dei christifideles laici (cfr Mater et magistra, 206-207)». Ma i laici «debbono essere preparati spiritualmente, professionalmente ed eticamente. La Mater et magistra insisteva non solo sulla formazione, ma soprattutto sull'educazione che forma cristianamente la coscienza ed avvia ad un'azione concreta, secondo un discernimento sapientemente guidato. Il beato Giovanni XXIII affermava: "L'educazione ad operare cristianamente anche in campo economico e sociale difficilmente riesce efficace se i soggetti medesimi non prendono parte attiva nell'educare se stessi, e se l'educazione non viene svolta anche attraverso l'azione" (nn. 212-213)».
Il beato Giovanni XXIII agli inizi degli anni 1960 iniziava a rendersi conto che fra i cattolici, anche in materia di dottrina sociale, esistevano diverse scuole. Il Magistero non abbraccia nessuna scuola in particolare: tiene conto delle indicazioni di tutte, le discerne e se del caso le assume e le coordina. Da questo punto di vista, nota Benedetto XVI, «ancora valide, inoltre, sono le indicazioni offerte da Papa Roncalli a proposito di un legittimo pluralismo tra i cattolici nella concretizzazione della Dottrina sociale. Scriveva, infatti, che in questo ambito "[…] possono sorgere anche tra cattolici, retti e sinceri, delle divergenze. Quando ciò si verifichi non vengano mai meno la vicendevole considerazione, il reciproco rispetto e la buona disposizione a individuare i punti di incontro per un'azione tempestiva ed efficace: non ci si logori in discussioni interminabili e, sotto il pretesto del meglio e dell'ottimo, non si trascuri di compiere il bene che è possibile e perciò doveroso" (n. 219)».
Infine, «il beato Giovanni XXIII, nella Mater et magistra, rammentava che si possono cogliere meglio le esigenze fondamentali della giustizia quando si vive come figli della luce (cfr n. 235)». Può sembrare che questi richiami delle encicliche siano atti dovuti o clausole di stile tipiche dei documenti pontifici. Non è così. La Chiesa sa che solo laici «sostenuti dall'amore pieno di verità che abita in Gesù Cristo, Verbo di Dio fattosi uomo» possono prendere sul serio l'insegnamento sociale della Chiesa. Senza una buona vita spirituale non ci sarà neppure ascolto e messa in pratica della dottrina sociale.
Ma chi erano gli amici di don Seppia? di Andrea Tornielli, 17-05-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
La triste vicenda di don Riccardo Seppia, il parroco della chiesa di Santo Spirito Sestri Ponente arrestato nei giorni scorsi perché accusato di aver abusato sessualmente di un sedicenne e per cessione di cocaina, lascia aperte domande drammatiche.
Va dato atto all'arcivescovo di Genova, il cardinale Angelo Bagnasco, di essersi subito recato nella parrocchia, di aver pubblicamente dichiarato la propria vergogna, di aver immediatamente sospeso il sacerdote in attesa degli sviluppi dell'inchiesta. Inoltre, ogni cristiano sa bene che nonostante le norme antipedofilia, l'inasprimento delle pene canoniche, etc. etc., la natura umana continua a rimanere ferita dal peccato originale. Purtroppo questi episodi vergognosi e tremendi – che mostrano come la persecuzione più terribile per la Chiesa non arrivi dai nemici esterni, come ha spiegato Benedeto XVI, ma dal peccato dentro la stessa Chiesa – accadono ancora.
Quello che stupisce, nel caso di don Seppia, come nel caso dei preti gay oggetto di un'inchiesta di Panorama, poi trasformatasi in un libro, è da una parte la capacità di queste persone di costruirsi e gestire delle doppie vite, dall'altra la mancanza quasi totale di «controllo sociale» sulla vita del prete.
Qui non si tratta (solo) di peccati, ma di gravissimi reati. Non siamo di fronte alla caduta, alla debolezza vissuta con senso di colpa di un sacerdote che non riesce ad essere fedele all'impegno del celibato, e cede alla tentazione. Si tratta, invece, di vite parallele, dove la persona riesce a sdoppiarsi, predicando bene e razzolando malissimo perché compie dei crimini, usa droga e se ne serve per attirare le giovani prede utilizzate per soddisfare le sue voglie.
Ecco, ciò che stupisce è proprio questo: don Seppia era – ora lo si scopre – un prete chiacchierato, alcuni suoi parrocchiani sapevano delle sue assenze notturne (andava a Milano per rifornirsi di droga o per frequentare palestre e saune), sussurravano critiche per certi suoi atteggiamenti disinvolti. C'è da chiedersi come don Riccardo fosse inserito nel contesto della diocesi, in quali rapporti fosse con i confratelli preti, quali fossero le sue amicizie. Insomma, c'è da chiedersi come sia possibile che quanto leggiamo sia potuto accadere senza che nessun campanello d'allarme scattasse nelle persone più vicine al sacerdote accusato dell'abuso di un minore con una leggera disabilità mentale.
La Lettera circolare della Congregazione per la dottrina delle fede alle conferenze episcopali che detta le linee guida per codificare norme antipedofilia, insiste in un punto sulla formazione dei seminaristi e sulla formazione permanente del clero. La soluzione, però, non sta in una formula, o in nuovi schemi bacchettoni da introdurre nei seminari per riportare indietro di cinquant'anni l'orologio della storia: una volta usciti, i seminaristi diventati preti si troveranno comunque a fare i conti con la società in cui tutti viviamo. La questione vera, ancora una volta, è quella che riguarda il tessuto di relazioni e di amicizie che sostiene il sacerdote, quella che riguarda la sua maturità affettiva, oltre che lo spessore della sua vita spirituale.
CURE DI SUPPORTO E DI FINE VITA: UNA DIFFERENZA IMPORTANTE
Pubblicato il 16 maggio 2011 da http://www.blogscienzaevita.org/
Intervenendo sulle problematiche sorte al proposito del significato dell'alimentazione e dell'idratazione assistite in un programma assistenziale di cure palliative, ritengo che un tentativo di chiarezza sia necessario.
Innanzitutto riflettiamo sul ruolo delle cure palliative nel paziente oncologico in relazione alle attuali possibilità terapeutiche della malattia oncologica.
È ormai un dato certo che il percorso diagnostico-terapeutico del paziente oncologico è spesso lungo e frammentato, potendo intercorrere anni dal momento della diagnosi al raggiungimento dello stadio di in guaribilità. In altre parole, la progressione della malattia oncologica è caratterizzata da un rapido declino dello stato funzionale solo negli ultimi periodi di vita: pertanto, un intervento precoce, per anticipare i bisogni e controllare i sintomi, risulta assolutamente necessario.
A tal proposito, vale la pena citare un articolo apparso di recente sul "The New England Journal of Medicine", dal significativo titolo: " Early Palliative Care for patients with Metastatic non-small-cell lung cancer", in cui si dimostra come l'anticipazione delle terapia palliative nel tumore polmonare non solo migliora la qualità della vita, ma aumenta in maniera significativa la sopravvivenza.
Allora, forse, parlare in senso lato di cure palliative è da ritenersi riduttivo e non aderente alla reale evoluzione della malattia oncologica.
Più realistico appare, a mio parere, rapportarsi al termine "Cure di supporto" per riferirsi a tutte le terapie in grado di intervenire sui sintomi intercorrenti del paziente oncologico in tutto il periodo di malattia, mentre per "Cure di fine vita" possono intendersi quelle praticate ad un malato ormai inguaribile, ma con un'aspettativa di vita ancora quantificabile in settimane o mesi e con il termine "Assistenza al morente" l'accompagnamento ed il sostegno nelle ultime ore di vita.
Accettando queste definizioni, che esprimono quanto clinicamente è evidente a chi opera nell'assistenza al paziente oncologico, appare evidente che l'alimentazione e l'idratazione assistite debbano fare parte delle cure che eticamente, deontologicamente, culturalmente ed umanamente debbano essere assicurate come parte integrante del progetto assistenziale caratterizzante sia le "Cure di supporto", sia le "Cure di fine vita".
Arturo Cuomo, Responsabile Struttura Dipartimentale di Terapia Antalgica – Istituto Nazionale per lo Studio e la Cura dei Tumori "G. Pascale" – Napoli
N. 4 | 16 maggio 2011 - BUONA SCIENZA E SCIENZA BUONA RU486 E CLOSTRIDIUM SORDELLII UN CONNUBIO LETALE, a cura di Lucio Romano*
La notizia diffusa al 21° European Congress of Clinical Microbiology and Infectious Diseases (Milano, 7-10 maggio 2011) del decesso di una ragazza portoghese di 16 anni, per shock settico da Clostridium sordellii dopo aborto chimico con RU486 e prostaglandine, richiede un approfondimento circa le caratteristiche microbiologiche, cliniche ed etiopatogenetiche di questa infezione mortale.
CHE COS'È IL CLOSTRIDIUM SORDELLII?
Il Clostridium sordellii (CS) è un batterio anaerobico, vale a dire che per svilupparsi non richiede la presenza di ossigeno. Produce tossine che sono rapidamente fatali: la tossina letale (LT, Lethal Toxin) e la tossina emorragica (HT, Hemorrhagic Toxin). Rare infezioni da CS possono anche verificarsi dopo un parto spontaneo o dopo taglio cesareo. Il CS può essere presente anche nell'apparato intestinale della donna non gravida senza che si riferiscano sintomi e non producendo tossine. Questo fenomeno è chiamato "colonizzazione".
QUALI SONO I SINTOMI DELL'INFEZIONE DA CLOSTRIDIUM SORDELLII?
I sintomi iniziali sono: nausea, vomito, diarrea, a volte dolori addominali senza febbre. Appunto l'assenza di febbre è un aspetto particolarmente pericoloso in quanto può far sottovalutare una situazione clinica già grave. Con l'aggravarsi dell'infezione e dei sintomi si giunge allo shock settico.
QUAL È LA CORRELAZIONE IPOTIZZABILE TRA SHOCK SETTICO DA CS E ABORTO CHIMICO CON RU486 E MISOPROSTOLO?
L'RU486 (mifepristone) usato per l'aborto chimico non svolge solo un'azione antagonista al progesterone (azione antiprogestinica), ormone fondamentale per il regolare sviluppo della gravidanza. L'RU486 è anche un antagonista degli ormoni prodotti dalla corteccia surrenale (glucocorticoidi). Gli ormoni glucocorticoidi svolgono spiccate azioni antiinfiammatorie e sul sistema immunitario. E' stato ipotizzato che l'RU486, antagonizzando gli ormoni glucocorticoidi, indebolisca le difese dell'organismo e predisponga alle infezioni come quelle da CS o da altri patogeni. Infatti, in sperimentazioni di laboratorio su cavie trattate con RU486 è stato dimostrato che la mancata risposta immunitaria e antiinfiammatoria aumenta l'incidenza della letalità (Contraception 2005;75:393).
ESISTONO ALTRI MECCANISMI COLLEGATI ALL'USO DELL'RU486?
L'RU486, antagonizzando l'azione fisiologica del progesterone, induce la necrosi dell'embrione, della placenta e della decidua. Il tessuto necrotico presente in utero rappresenta il terreno ideale per lo sviluppo e la moltiplicazione dei batteri anaerobi come appunto il CS (The Lancet Infectious Diseases 2006;6:11).
NELLO SHOCK SETTICO DA CS, IL MISOPROSTOLO SOMMINISTRATO DOPO L'RU486 PUÒ ESSERE UNA CONCAUSA?
Il misoprostolo, molecola di sintesi, è la prostaglandina di elezione usata con l'RU486 per l'aborto chimico. La sua efficacia abortiva è valutata intorno al 70% e in associazione con l'RU486 l'efficacia abortiva aumenta al 92.3%-94.7%. Il misoprostolo imita l'azione svolta dalle prostaglandine di tipo 2 (PGE2), presenti fisiologicamente nell'organismo. Le PGE2, secondo complessi meccanismi e bilanciamenti organici, hanno proprietà immunosoppressive. Infatti, le PGE2 – quando sono significativamente presenti nel tratto genitale durante la gravidanza – possono essere un'importante causa delle più comuni infezioni a carico dell'utero gravido. Da studi in vitro è stato evidenziato che il misoprostolo, potenziando l'azione delle PGE2, riduce le difese dell'organismo nei confronti del CS (The Journal of Immunology 2008;180:8222-8230).
E PER QUANTO RIGUARDA I DECESSI PER EMORRAGIA? QUALI I MECCANISMI IPOTIZZABILI?
Ancora una volta è coinvolta l'azione antagonista dell'RU486 nei confronti degli ormoni glucocorticoidi della corteccia surrenale. Gli ormoni glucocorticoidi prevengono la sovrapproduzione di sostanze (NO: nitric oxide) che, in quanto potenti vasodilatatori, sono state associate all'insorgenza di emorragie. E' stato rilevato che gli ormoni glucocorticoidi contribuiscono a controllare l'emorragia nel postaborto.
L'RU486, invece, bloccando l'azione degli ormoni glucocorticoidi induce un eccesso di sostanze vasodilatatrici ed impedisce il controllo dell'emorragia nel postaborto. E' stato ipotizzato che questa possa essere una delle cause di emorragie riscontrate negli aborti con RU486 (The Annals of Pharmacotherapy 2007;41:2002-2007).
* Università di Napoli "Federico II"
Dip. Scienze Ostetrico Ginecologiche,
Copresidente nazionale
Associazione Scienza & Vita
RU486/ Io, medico abortista, vi spiego perché la pillola è il male peggiore - INT. Vincenzo Cagnano - martedì 17 maggio 2011 – il sussidiario.net
E' morta a soli 16 anni, per non portare a termine la gravidanza di un figlio che, non sappiamo perché, ma non voleva. A toglierle la vita è stata la pillola abortiva Ru486; il decesso è stato causato da uno shock settico da Clostridium Sordellii, infezione che finora era stata diagnostica nei decessi da aborto medico esclusivamente negli Stati Uniti. La ragazzina era portoghese e, in Europa, è il primo caso di morte accertata per Ru486. Al di là delle considerazioni sulla liceità o meno dell'interruzione di gravidanza, resta un fatto incontrovertibile: se fosse stata seguita in ospedale, probabilmente il virus sarebbe stato contrastato e si sarebbe salvata. Vincenzo Cagnano, medico che ha deciso di non optare per l'obiezione di coscienza e che, quindi, pratica l'aborto, ci illustra gli aspetti controversi della Ru486.
Qual è la sua opinione sull'utilizzo della pillola abortiva?
Pariamo da una considerazione: la legge 194 è stata studiata per garantire un'assistenza alle donne che vogliono abortire. Prevede che la donna sia accudita, nel corso della propria vita riproduttiva, in tale scelta - che non è mai presa a cuor leggero -, attraverso, ad esempio, colloqui con specialisti, psicologi e ginecologi, per trovare alternative all'aborto. Nella mia esperienza ho notato come trovarsi qualcuno con cui parlare – può essere lo psicologo, il medico o l'infermiera -, confrontarsi, chiedere ancora spiegazioni sul passo che si sta compiendo, possa essere determinante.
Ho visto alcune donne cambiare idea all'ultimo minuto e rinunciare all'aborto. Se la Ru486 dovesse essere introdotta in Italia – attualmente è impiegata in via sperimentale solo in alcune Regioni - ci troveremmo ad uno stravolgimento completo della 194. Le donne entrerebbero in una qualsiasi farmacia e prenderebbero la pillola nel silenzio della loro casa.
Attualmente in cosa consiste il suo utilizzo sperimentale?
Viene utilizzata in trial controllati nelle aziende ospedaliere. E' stato deciso, nel 2005, di adottarla, con notevole dispendio di risorse economiche, sia per l'azienda che per l'utente. La donna viene ricoverata per tre giorni. Nel primo, prende la dose di farmaco. Nel secondo vengono osservate le sue condizioni cliniche. Il terzo prende il misoprostolo, un farmaco che favorisce la modificazione del collo dell'utero e l'espulsione eventuale della camera gestazionale. Se tutto ciò non avviene, la donna viene egualmente sottoposta a raschiamento. C'è da dire che, a mio avviso, in quei tre giorni non viene particolarmente seguita.
In realtà, non sono sempre tre giorni…
Questo, infatti, è un altro grande problema. Spesso accade che la donna, dopo avere assunto la pillola in ospedale, già nel pomeriggio torni a casa. Si tratta sovente di ragazze molto giovani, che prendono la Ru486 la mattina, e poche ore dopo devono rientrare, per nascondere ai genitori quanto avvenuto. Con tutto ciò che ne consegue. L'infezione della ragazza portoghese, se fosse stata riconosciuta in ospedale, sarebbe stata curata con degli antibiotici. Benché sia previsto il ricovero per le pazienti che prendono la Ru486, nessuno può tenerle in ospedale contro la loro volontà. Il medico non può obbligarle, è solamente tenuto a consigliare il ricovero. C'è un ulteriore elemento che mi lascia perplesso.
Quale?
La donna, dopo aver preso la pillola, viene sottoposta ad una revisione di cavità, cosa che non dovrebbe essere fatta, perché l'aborto medico, se effettuato con il mifepristone, dovrebbe adottare solamente questo farmaco. La donna viene sottoposta, quindi, ad una sorta di doppio intervento, medico e chirurgico.
(Paolo Nessi)
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LETTURE/ Potok e Asher Lev: anche un ebreo comprende il dramma della croce di Martino Sartori, martedì 17 maggio 2011, il sussidiario.net
"Noi abbiamo sempre raccontato storie, fin dall'inizio della nostra specie: le storie sono il modo grazie al quale diamo un significato alla nostra vita" diceva lo scrittore americano di origine ebraica Chaim Potok nel 1999, tre anni prima della sua scomparsa. E proprio questa necessità di raccontare e raccontarsi fu la causa dei dissidi con la comunità di Brooklyn nella quale viveva. Lo dirà meglio lui stesso spiegando il cambiamento avvenuto nella narrativa contemporanea, e respingendo le accuse comuni mosse ad essa: "la tensione fra l'individuo solo che aspira alla propria realizzazione e la comunità è proprio l'argomento delle storie moderne, diversamente da quanto avveniva in passato. La vita non è semplice così le storie non sono semplici, la vita è tragica così le storie sono tragiche, la vita è piena di domande difficili così le storie sono colme di domande difficili".
Lo si capisce bene leggendo il romanzo Il mio nome è Asher Lev. È la storia di una famiglia di ebrei chassidim Ladover di Brooklyn ambientata nell'anno 1943. Asher è figlio di Rivkeh e Aryeh Lev. Il padre è un uomo importante dentro alla comunità ed emissario del Rebbe, compie lunghi viaggi in Europa per aiutare i fratelli ebrei perseguitati da Stalin, la madre, grande studiosa (tra le poche donne iscritte all'università), aiuta il marito nel compito affidatogli dal Yoh Ribbon Olom. Il piccolo Asher è totalmente inserito nel cuore della tradizione religiosa della faglia e dei rituali che ne conseguono, ma già all'età di sei anni è un prodigio nel disegnare e Aryeh lo incita nel raffigurare "un mondo leggiadro". Quando cadrà in depressione per la perdita del fratello, Asher disegnò per lei tanti fiori e uccelli leggiadri, ma che una volta fatti vedere alla madre non provocavano nessun miglioramento. Da li incominciò a intuire che i disegni non avevano il potere da lui sperato:
- Era un bel disegno leggiadro, Asher? - No ,mamma. Ma era un bel disegno. - Asher dovresti fare il mondo leggiadro. - A me non piace il mondo, mamma. Non lo disegnerò più leggiadro.
In tutto il romanzo avremo l'evolversi di Asher come artista grazie anche all'incontro col maestro scultore Jacob Kahn e l'ingrandirsi del disagio del padre che non vuole un figlio pittore, artista, che perda tempo con certe sciocchezze.La madre è presa tra le due forti personalità: il padre deluso e irritato, e il figlio che non può fare a meno di dipingere di mettere in pratica la grazia ricevuta. Asher capisce la sofferenza della madre divisa da questo conflitto, e nella mostra che lo consacrerà come pittore di successo la ritrarrà crocefissa alla finestra (dalla quale aspettava sempre il ritorno del marito) con a lato lui e suo padre.
Questa della crocefissione di Brooklyn è il punto nodale del romanzo ma esprime anche il cruccio costante dell'opera di Potok. Infatti Asher Lev, dipingendo questo quadro, arriva all'apice della sua arte e mette finalmente in luce tutto il suo talento, il suo modo di vedere il mondo, la sofferenza della madre. Ma così facendo rinnega la tradizione da dove proviene, si afferma come individuo ma perde la sua famiglia, il rispetto del padre e l'amore della madre.
Potok ci richiama al valore che ha l'individuo in sé stesso come emerge nella religione cristiana, però la sua formazione passa inevitabilmente da ciò che è la famiglia e la tradizione, con un rapporto altamente drammatico. E ci lascia con un ultima domanda: a cosa serve ritrovarsi come individui se poi si è perso tutto il resto? Buona lettura.
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Gli anziani e i disabili temono la legge sull'eutanasia, 16 maggio, 2011, da http://www.uccronline.it
Anche in Inghilterra il dibattito sull'eutanasia è aperto. Il British Medical Journal ha dato spazio ad un articolo di Kevin Fitzpatrick, un ricercatore dell'associazione per i diritti dei disabili e contro eutanasia e suicidio assistito, chiamata "Not dead yet" ("Non ancora morto").
Fitzpatrick ricorda che anche le persone disabili «hanno bisogno di sentirsi al sicuro». La legge sull'eutanasia «andrebbe ad intaccare un senso di sicurezza già traballante traballante nell'assistenza medica, e rappresenterebbe una minaccia ulteriore per il benessere dei disabili, per il proseguimento delle cure, e per la vita stessa». Il ricercatore dice che il giudizio dei sostenitori del suicidio assistito, si basa «sull'idea di una "vita non degna di essere vissuta". Si tratta di dire: "Non vorrei, non poteva vivere così", cioè una sentenza del valore di un altro, sulla vita di una persona disabile, non credo che i medici abbiano il diritto di farlo. Inoltre, quel che insopportabile per uno, non è necessariamente vero anche per un altro». Permettendo l'eutanasia dunque «si potrebbe rafforzare questa posizione, decidendo la dignità della vita di un altro sulla base di un giudizio morale, piuttosto che una realtà medica». «La minaccia -dice ancora Fitzpatrick- si estenderà anche e inevitabilmente alla vita degli anziani e dei semplici disabili».
Il ricercatore cita proprio le parole di un chirurgo olandese, McColl, il quale informa che «molte persone anziane negli ospizi dei Paesi Bassi hanno così paura dell'eutanasia che portano un cartellino con scritto che loro non la vogliono». L'argomento dell'eutanasia è dunque un "pendio scivoloso". Si inizia dai casi estremi e si arriva a tutti, come infatti accade negli Stati in cui è stata legalizzata: Ultimissima 28/2/11 e Ultimissima 21/3/11.
Fitzpatrick conclude accennando al "diritto di morire", che i sostenitori dell'eutanasia rivendicano continuamente. Eppure «la morte è inevitabile e non è "un evento nella vita": è la fine della nostra esperienza di vita nel mondo, non ha senso parlare di un "diritto" di morire. Chi lo fa tende a mascherare il fatto che sta chiedendo il diritto di ricevere un aiuto per terminare la vita, il diritto a una morte prematura, il che è affatto un evento inevitabile». L'altro errore che si fa è passare «dal particolare al caso generale». Cioè: questa persona disabile vuole suicidarsi, quindi tutte le persone nella loro situazione lo vogliono o lo avrebbero voluto. E conclude: «La vita di molte persone disabili dipende dalla resistenza dai tentativi di introdurre una legge che legalizza di fatto l'atto intenzionale all'omicidio».
IL CASO POLEMICHE SU «THE SIMS», IL GAME PIÙ VENDUTO NEL MONDO - Videogioco con coppie gay «Minaccia l' educazione» di Cavalli Giovanna, 15 maggio 2011, Corriere della Sera
Accuse di Giovanardi. Luxuria: solo qui ci si stupisce Famiglia virtuale I ragazzi si creano la loro vita virtuale e mettono su famiglia. Anche omosessuale, se vogliono
ROMA - C' è un videogioco che, secondo Carlo Casini, eurodeputato Udc, corrompe i minori e «li educa all' omosessualità». Si chiama «The Sims» e con oltre 125 milioni di copie in 10 anni e un incasso di 2 miliardi e mezzo di dollari (dati 2010) è la serie per pc più venduta. Nelle sue tre versioni (l' ultima in 3D) il game di simulazione consente di creare un mondo di personaggi virtuali, che nascono e muoiono, scegliendone ogni dettaglio, colore dei capelli, mobili di casa, professione, amicizie, amori, matrimoni e bebè. Senza regole fisse. Perciò è possibile selezionare coppie dello stesso sesso e farli diventare genitori. Ed è questo a indignare Casini, leader del Movimento per la Vita: «È inaccettabile che un videogioco che entra nelle case di milioni di italiani permetta a un bambino di 6,7, 8 anni di formare una coppia gay che poi può adottare bambini. Minaccia la loro educazione in un momento di sviluppo parziale, si rischia di fissarne l' omosessualità latente». E chiede di vietarne la vendita almeno ai minorenni. «Una proposta di buon senso», commenta Maurizio Gasparri, presidente senatori Pdl. Concorda e rilancia Carlo Giovanardi: «È evidente che siamo davanti a una grande campagna delle lobby che vogliono promuovere certi valori», spiega il sottosegretario alla Famiglia, già critico verso la pubblicità dell' Ikea con la coppia di soli uomini. «Questo accade non solo con i giochi per pc ma anche con libri destinati ai bambini che invece di proporre una famiglia con papà e mamma ne propongono una con due papà». Si appella ai produttori di videogames: «Siano trasparenti e spieghino che da noi non esiste questa possibilità e che il matrimonio donna-donna e uomo-uomo è fuorilegge». Si offendono le associazioni che lottano per i diritti omosessuali. «Giovanardi è il primatista assoluto di assurdità» dice Franco Grillini, presidente di Gaynet. «Le famiglie omogenitoriali sono tante e per la Costituzione tutti i cittadini hanno uguali diritti». Aurelio Mancuso di Equality Italia sostiene che sia una polemica «sollevata ad arte prima delle elezioni». Paolo Patanè di Arcigay osserva che «Giovanardi deve avere un problema con l' omosessualità visto che siamo sempre nei suoi pensieri». Il deputato Pd Paola Concia accusa Carlo Casini di «integralismo» e ritiene che «siano le sue idee ad essere pericolose per i bambini». Il collega Beppe Fioroni replica: «Le scelte individuali meritano rispetto ma l' educazione dei figli è cosa diversa su cui non si può scherzare. La famiglia è un' istituzione da tutelare». Secondo Rocco Buttiglione «l' Italia ha una Costituzione che definisce cos' è la famiglia e c' è un attacco contro questo valore». Paola Binetti, deputato Udc dice che «un gioco per bambini deve riflettere la rappresentazione della realtà e della famiglia in cui vivono per capire il loro ruolo e i valori di riferimento». Per Luca Borgomeo dell' Aiart (telespettatori cattolici) «il videogioco è un pericolo per il corretto sviluppo della personalità dei bambini». Chiude Vladimir Luxuria: «Solo In Italia ci si stupisce delle unioni gay». Giovanna Cavalli RIPRODUZIONE RISERVATA **** La vita finta Che cosa è The Sims (foto a sinistra) è una serie di videogiochi - il primo è del 2000 - distribuita dalla EA Games. L' ideatore è Will Wright, tra i più grandi autori di videogiochi nel mondo. Il primo è del 2000 Vite in prestito Si tratta di simulatori di vita, piccoli personaggi completi di tratti fisici e caratteriali, che nascono, vivono, si riproducono e muoiono. Abitano delle case (da costruire e arredare), hanno un lavoro, guadagnano simoleon (la loro moneta) e vivono esistenze che ricordano quelle delle persone vere 100 milioni di copie La serie ha venduto oltre 125 milioni di copie in dieci anni generando entrate per più di 2.5 miliardi di dollari e diventando così la serie di videogiochi di maggior successo della storia dei personal computer
The Sims in versione gay - Così promuove l'adozione tra le coppie omosessuali di Redazione - sabato 14 maggio 2011, © IL GIORNALE ON LINE S.R.L.
A breve uscirà una versione gay del videogioco più venduto al mondo: il giocatore dovrà formare coppie e far loro adottare bimbi. Giovanardi: "Le lobby propagandano una cultura fuori legge". Udc: "Va vietato"
Bruxelles - Adesso l'Unione europea litiga su un videogioco. Al centro del dibattito è finito The Sims, la "simulazione della vita" in versione arcobaleno che promuove famiglie, matrimoni e adozioni omosessuali consentendo ai protagonisti di formare coppie gay in grado di sposarsi e adottare bambini. "Non va venduto ai minorenni", ha chiesto a gran voce Carlo Casini, europarlamentare Udc e leader del Movimento per la Vita. Ed è subito polemica.
The Sims non è un passatempo di nicchia, ma il videogioco più venduto al mondo: secondo l'ultimo rapporto dell'istituto di sondaggi SWG ci gioca un minore italiano su due, di cui uno su quattro inizia già alla tenera età di tre anni. A breve è prevista una ulteriore nuova attesissima versione che, nella sua omosex edition, consente ai giocatori di creare coppie e famiglie dello stesso sesso attraverso il matrimonio e l'adozione omosessuale.
"E' inaccettabile - spiega Casini intervenendo a KlausCondicio, il salotto televisivo via web di Klaus Davi - che un videogioco che entra nelle case di milioni di italiani permetta ad un bambino di appena sei anni di creare una coppia gay che può anche adottare bambini. Questi videogiochi sono molto pericolosi, minacciano l'educazione di un bambino, la loro diffusione ha risvolti di carattere igienico-sanitario". Lo sviluppo della sessualità di un adolescente presenta inizialmente aspetti di omosessualità e bisessualità, che poi si armonizzano e l'eterosessualità diventa la regola. "Questi videogiochi intervengono in quel momento di sviluppo parziale, in cui è normale che ci siano tendenze omosessuali che rischiano di essere fissate - continua l'esponente centrista - questo è un modo per fissare l'omosessualità".
Proprio per questo, il leader del Movimento per la Vita ha chiesto che sia vietata la vendita del gioco almeno ai minorenni, così come avviene con la pornografia. "E' una strada percorribile - spiega Casini - mi farò carico di intervenire in questa materia sia a livello europeo che italiano. Ma so già che saranno puntelli insufficienti". Della stessa opinione anche Paola Binetti: "Un gioco per i bambini deve riflettere la rappresentazione della realtà e della famiglia in cui vivono". "Il bambino - ha concluso la Binetti - deve essere tenuto vicino all'esperienza concreta della famiglia in cui vive per capire il suo ruolo all'interno del nucleo familiare e i valori di riferimento".
"E' evidente che siamo davanti a una grande campagna promozionale delle lobby che vogliono promuovere certi valori". Il sottosegretario alla Famiglia, Carlo Giovanardi, è intervenuto per spiegare che questo disegno politico è reso possibile anche grazie ai "libri destinati ai bambini che invece di proporre una famiglia con papà e mamma ne propongono una di un papà con un papà". "Queste lobby promuovono una cultura in contrasto con le leggi di un paese, come nel caso del matrimonio gay che da noi non è consentito", ha continuato Giovanardi auspicando che i produttori del videogioco spieghino che "il matrimonio uomo-uomo e donna-donna è fuori legge". Il sottosegretario ha spiegato che "con queste iniziative viene tolta la normalità costituzionale per spiegare al bambino che invece è tutto lecito, tutto uguale e che possono essere messe sullo stesso piano situazioni che giuridicamente e costituzionalmente non lo sono".
Immediata la replica di Franco Grillini: "Non sono i videogiochi e neppure i libri ad alterare la realtà, ma è la realtà a entrare nei videogiochi e nei libri". Secondo Grillini, infatti, "le famiglie omogenitoriali sono tante anche in Italia e la Costituzione afferma che tutti i cittadini hanno uguali diritti. Il fatto che in Italia non ci sia ancora neppure una legge che riconosca le semplici convivenze non è dovuto alla Costituzione, ma all'arretratezza culturale di chi ci malgoverna".
ZURIGO VOTA A FAVORE DEL SUICIDIO ASSISTITO - Respinte due iniziative popolari per vietare o limitare il suicidio assistito di Paul De Maeyer
ROMA, lunedì, 16 maggio 2011 (ZENIT.org).- Non ci sarà dunque alcuna svolta riguardo al suicidio assistito nel cantone svizzero di Zurigo, il quale ospita nella località di Forch la sede legale della controversa associazione Dignitas. In un referendum locale, tenutosi domenica 15 aprile, gli "Stimmbürger" o "cittadini-elettori" del cantone germanofono, che conta circa 1,2 milioni di abitanti, cioè quasi un sesto dell'intera popolazione della Confederazione elvetica (più di 7,8 milioni di abitanti, suddivisi in 26 cantoni e semicantoni), hanno deciso infatti di lasciare le cose così come stavano e di non apportare alcuna modifica.
Il "popolo sovrano" doveva esprimersi su due iniziative popolari presentate da altrettante formazioni politiche, il Partito Evangelico Popolare e l'Unione Democratica Federale (un partito di ispirazione cattolica). La prima consultazione popolare, la quale si intitolava significativamente "Stopp der Suizidhilfe" (Stop all'aiuto al suicidio), chiedeva di lanciare un'iniziativa cantonale davanti al parlamento federale di Berna per rendere punibile sia il suicidio assistito che l'istigazione alla prassi. Secondo l'agenzia ATS (Agenzia Telegrafica Svizzera), appena il 15,52% dei votanti - ossia 43.165 cittadini - ha detto "sì". Nettissima invece è stata la percentuale di coloro che hanno respinto la proposta: l'84,48% o meglio 234.956 abitanti del cantone.
Un po' meno amplia ma altrettanto eloquente è stata la proporzione di cittadini che ha rigettato la seconda iniziativa, battezzata "Nein zum Sterbetourismus im Kanton Zürich" (No al turismo della morte nel cantone Zurigo), la quale mirava a fermare il suicidio assistito di non residenti a Zurigo, sia abitanti di altri cantoni svizzeri che stranieri. Il 78,41 dei votanti ha detto infatti "no" alla proposta, ovvero 218.602 cittadini. Invece poco più di un quinto dell'elettorato del cantone (cioè il 21,59%) l'ha approvata, ossia 60.186 abitanti. Nelle intenzioni dei promotori della seconda iniziativa, solo persone che hanno vissuto almeno un anno nel cantone potevano accedere ai servizi di associazioni come Dignitas.
L'esito è stato accolto con soddisfazione da parte dei sostenitori del suicidio assistito, fra cui Bernhard Sutter. Secondo il vice presidente di Exit - l'altra nota associazione che offre "aiuto" al suicidio -, il risultato di questa domenica rappresenta una sconfitta per i "fondamentalisti religiosi" e una vittoria per l'autodeterminazione. "Né lo Stato né la Chiesa hanno voce in capitolo nel morire. Il popolo non vuole farsi rubare la possiblità di decidere autonomamente sulla morte", ha detto a caldo Sutter all'ATS. Netta, persino disprezzante, è stata anche la reazione del fondatore di Dignitas, Ludwig Minelli, il quale ha parlato della disfatta dei "Sektenbrüder und Betschwestern", cioè "dei fratelli settari e delle bigotte" (Tagesanzeiger, 15 maggio).
Mentre la partecipazione alla consultazione popolare - l'elettorato doveva esprimersi in totale su 10 questiti - si è attestata sul 33,6%, la bocciatura della doppia iniziativa popolare riguardante l'eutanasia attiva indiretta conferma dunque l'orientamento liberale o "tollerante" approvato dagli stessi zurighesi già 34 anni fa. E questa volta - così osservano i media svizzeri - non c'è stata neppure la quasi tradizionale differenza città-campagna o "Stadt-Land-Gefälle" : infatti in nessun comune del cantone le due proposte sul suicidio assistito sono state approvate.
E' rimasto deluso invece Hans Peter Häring, consigliere cantonale per l'Unione Democratica Federale, soprattutto per il fatto che neppure nelle zone tradizionalmente più credenti i "valori della Bibbia e della Parola di Dio" hanno trovato una maggioranza (Tagesanzeiger, idem).
Tutti i commentatori sono d'accordo che il voto di domenica è un messaggio chiaro e netto alle autorità federali e in particolare al ministro o "consigliera" federale Simonetta Sommaruga. Alla guida del Dipartimento Federale di Giustizia e Polizia dal 1° novembre scorso, la consigliera socialista del Ticino ha promesso infatti di presentare entro l'estate una nuova proposta legislativa per regolamentare la pratica e combattere gli abusi.
La Svizzera ammette infatti l'accompagnamento alla morte a condizione - come stabilisce l'art. 115 del Codice penale della Confederazione - che la pratica non non sia legata a "motivi egoistici". Secondo gli oppositori al suicidio assistito, proprio questo è forse il caso dell'associazione Dignitas, il cui fondatore e direttore - Ludwig Minelli - è diventato un "milionario" nell'arco di un solo decennio. Come rivelato dal Telegraph (24 giugno 2010), il suo patrimonio personale supera 1,2 milioni di sterline ed include ad esempio una villa lussuosa. Mentre Minelli si è difeso dicendo che si tratta di un'eredità lasciatagli dalla madre, rimane il fatto che il prezzo di un suicidio assistito "semplice" in una "clinica" di Dignitas è aumentato di parecchio negli ultimi anni: da 1.800 sterline nel 2005 è balzato a 4.500 sterline nel 2010. Un suicidio "tutto compreso" (sono incluse ad esempio le spese funebri e mediche) costava l'anno scorso almeno 7.000 sterline.
Un altro punto problematico è lo smaltimento delle urne funerarie delle persone decedute nelle strutture di Dignitas. Sdegno ha provocato l'anno scorso il ritrovamento di una grande quantità di urne nel lago di Zurigo, al largo di Küssnacht, con il logo del crematorio di Nordheim, cioè quello utilizzato dall'associazione di Ludwig Minelli. Anche se la procura di Zurigo ha deciso nel luglio scorso di archiviare la causa per mancanza di prova, c'è un forte sospetto che sia stata proprio Dignitas a gettare le urne nel lago, che funge da riserva idrica. Ancora prima della scoperta, un'ex collaboratrice di Dignitas, Soraya Wernli, aveva accusato infatti l'associazione di aver buttato i resti di circa 300 "clienti" nel lago di Zurigo (Times Online, 25 ottobre 2008).
A gettare ombre scure sul "modus operandi" di Dignitas è stato un altro episodio sconcertante. Nel novembre 2007 l'associazione ha aiutato due cittadini tedeschi a morire in una macchina ferma in un parcheggio nella località di Maur, sul Greifensee, a sud-est di Zurigo.
L'esito del referendum di questa domenica significa dunque che gli stranieri potranno continuare a bussare alla porta di Dignitas (Exit non accetta candidati suicidi stranieri). Dai dati forniti dall'associazione emerge che fino alla fine del 2010 ha accompagnato verso la morte ben 1.138 persone, in grande maggioranza stranieri, soprattutto tedeschi, britannici e francesi.
In tutto il discorso sul suicidio assistito si tende a dimenticare un elemento: come nel caso della pena di morte anche nel suicidio assistito il rischio di un "errore" è sempre dietro l'angolo. Basta alle volte un buon medico di famiglia per rimettere un paziente ritenuto "terminale" sulla strada del miglioramento. Lo dimostra almeno l'esempio di Andrew Barnes, di Topsham, un sobborgo di Exeter, nella Cornovaglia. Come rivela l'Exmouth Journal (13 maggio), a bloccare "in extremis" il viaggio di solo andata in Svizzera del cinquantacinquenne, a cui lo specialista aveva dato solo tre mesi di vita, è stato il proprio medico di base, che gli aveva suggerito di smettere di bere e di seguire una cura per risolvere la mancanza di potassio. Barnes ha seguito questi consigli e oggi sta molto meglio, anche se poi non vuole rinnegare il suicidio assistito.
Ricerca Sarà presto in vendita in Gran Bretagna. Ma é un bene conoscere la fine in anciticipo? - Se un test da 500 euro ci dice quanto vivremo, di Edoardo Boncinelli, Corriere della Sera, 17 maggio 2011
C'e qualcosa nelle nostre cellule che si accorcia con ritmo costante con il passare degli anni e poterne misurare la lunghezza significa sapere qual è la nostra età biologica effettiva e quanto ancora ragionevolmente ci resta da vivere, Si tratta dei «telomeri», una sorta di cappuccetti che servono a proteggere le estremità di tutti i nostri cromosomi. Le
cellule dell'embrione e quelle tumorali ce l'anno della loro massima lunghezza, mentre in ogni altra cellula del corpo abbiamo una lunghezza decrescente. Sembra che oggi si possano misurare in un modo relativamente semplice e poco dispendioso.
Per essere precisi con 435 sterline, circa 500 euro, come riportava ieri il quotidiano inglese The Indipendent.
La notizia non mancherà di creare polemiche e suscitare dibattiti nazionali, con ricadute di carattere commerciale ed etico-morale. Perché basterà fare un semplice prelievo del sangue per «radiografare» l'invecchiamento di una persona e calcolare così la linea del tempo che manca per esalare l'ultimo respiro. A seconda della lunghezza dei telomeri, dicono i ricercatori·medici, si potrà verificare la reale età biologica di un individuo e stabilire con una certa precisione quanto gli resta da vivere.
Il test, molto controverso, é stato messo a punto in Spagna (dal Centro nazionale per la ricerca sul cancro) e sarà commercializzato a breve in Gran Bretagna. Maria Blasco, l'ideatrice, spiega che «sappiamo che chi nasce con telomeri più corti ha una durata della vita più breve anche se non possiamo dire se chi li ha più lunghi ha davanti a
sé la vita di Matusalemme».
Si potrà però sapere qual è la nostra vera età biologica e soprattutto se, per caso, siamo partiti svantaggiati.
Due considerazioni: una tecnica e una di carattere esistenziale.
Tecnicamente non é assolutamente garantito che a telomeri i lunghi corrisponda una vita lunga, ma certo i fenomeni corti non lasciano molto bene sperare.
Sono test che hanno quindi un valore statistico: in una larga popolazione predicono abbastanza bene la lunghezza della nostra vita. Purtroppo questa conoscenza, come tutte quelle portate dalla medicina predittiva, possono anche cadere in mani sbagliate di speculatori o di assicuratori senza scrupoli (come si comporteranno le compagnie di assicurazioni: negheranno o alzeranno le polizze a persone con telomeri corti?). Dal punto di vista esistenziale é bene o é male sapere queste cose? Io sono sempre stato convinto del fatto che sapere é meglio di non sapere, ma é chiaro che questa conoscenza comporta spesso un di più di consapevolezza e un'assunzione di responsabilità. Se so che sono destinato biologicamente a vivere a lungo, ogni incidente, ogni' malattia, mi provocheranno un di più di angoscia. Poiché però é l da supporre che tutti avremmo più o meno la stessa aspettativa di vita, la cosa non dovrebbe turbarci più di tanto, La saggezza suggerisce comunque di impostare la propria vita come se ogni giorno potesse essere l'ultimo. Così facendo non si avranno mai delusioni e si imprimerà una spinta equilibrata alla nostra vita e al nostro legittimo desiderio di viverla appieno.
IL FUTURO A 500 EURO UN TEST DEL SANGUE CI DIRA'. QUANTO VIVREMO - LA REPUBBLICA di ENRICO FRANCESCHINI – 17 maggio 2011
Basterà un semplice prelievo per stabilire quale sarà la data approssimativa della nostra morte L`analisi, disponibile in Inghilterra e in Spagna entro fine anno, in futuro potrà costare meno Il futuro a 500 euro un test del sangue ci dirà quanto vivremo
LONDRA Vorreste sapere quanto durerà la vostra vita? Per 500 euro lo scoprirete presto. Un rivoluzionario esame del sangue, basato su nuove indagini del Dna, è in grado di stabilire se la nostra "età biologica" è più avanti o più indietro rispetto all`età anagrafica, ovvero se stiamo invecchiando lentamente o rapidamente, permettendo di risalire da questa informazione a una previsione sulla durata della vita. Si fa un normale prelievo di sangue, si invia il campione a un laboratorio, lo si sottopone a un test e dopo un po` arriva la risposta: la data - sebbene non precisa al punto da indicare giorno e mese - della nostra morte. Un laboratorio spagnolo e una clinica inglese contano di lanciare il "life test", l`esame della vita, entro fine anno, prevedendo che entro un decennio analisi del genere diventeranno la norma in tutti i paesi industrializzati. Le implicazioni per la prevenzione di malattie potenzialmente fatali, dai disturbi cardiocircolatori ai tumori, dal morbo di Alzheimer al diabete, sono enormi, aprendo prospettive inedite alla medicina, in modo da intervenire prima che il male si manifesti. Ma ci sarebbero anche conseguenze per le compagnie di assicurazioni, che certamente richiederebbero i risultati di un test simile prima di firmare polizze sulla vita, in modo da sapere se l`assicurato ha davanti a sé poco o molto da vivere. E infine ci sono le questioni di carattere etico: è giusto cercare di sapere in anticipo quanto vivremo? Ed è consigliabile? Ci farebbe bene o male, dal punto di vista psicologico, sapere sia pure approssimativamente quando moriremo? «Penso che tutti siano curiosi sulla propria mortalità», afferma il professor Jerry Shay, direttore del Medical Centre della University of Texas Southwestern e consulente della Life Lenght (Durata dellavita), la società spagnola che ha approntato il nuovo test. «Se chiedi a qualcuno cosa lo preoccupa di più, la maggior parte delle persone risponderà: l`idea della morte. Uno dirà: se so che mi restano da vivere solo 10 anni, spenderò tutti i miei soldi e me la spasserò. Un altro dirà: se so che vivrò altri 40 anni, sarò parsimonioso, risparmierò. Credo che questo esame susciterà grande interesse». Inventrice del test è Maria Blasco, studiosa del Centro Ricerche Nazionali sul Cancro di Madrid. La sua scoperta parte da un dato noto: i telomeri, strutture sulla punta dei cromosomi, tendono ad accorciarsi progressivamente con l`età, fatto che viene associato al processo di invecchiamento della cellula e dell`intero organismo. «Le persone nate con telomeri più corti del normale tendono ad avere una durata della vita più corta», dice la ricercatrice spagnola, ma ciò si sapeva. Esistono numerosi studi in materia. La lunghezza dei telomeri è un buon indicatore per stabilire se una persona di 60 anni potrà viverne altri 15. Donne in alto stato di stress sono risultate avere telomeri più corti della norma; e d`altra parte la meditazione e varie forme di riduzione dello stress possono allungare i telomeri. La novità è che ora un semplice esame del sangue, per 500 euro (ma più gente farà il test, più il costo scenderà), può misurare con estrema precisione la lunghezza di questi "termometri" dell`esistenza: farci sapere se la nostra età biologica corrisponde a quella anagrafica e rivelarci quanto ci resta da vivere. Sempre che uno voglia davvero scoprirlo.
Dico no al test sulla mia morte, di Antonio Pascale, Il Messaggero, 17 maggio 2011
Quando si chiede ad alcuni scienziati, esperti in futuro, quali possibilità la genetica ci potrebbe regalare, in termini di
miglioramenti di vita e di salute, i suddetti, spesso, ci parlano dei telomeri, ossia della parte terminale dei cromosomi. Questa, con molta probabilità, regola la durata della nostra vita e quindi, si suppone, in un futuro prossimo avremo nuove opportunità.
E cioé potremo capire meglio come agire sui telomeri, per allungare la vita o magari - e qui però i futurologhi esagerano — per ambire all'immortalità. E' una buona notizia, qualche anno in più non dispiacerebbe a nessuno, del resto la vita media sta già aumentando, e la mortalità infantile in molte parti del mondo é, per fortuna, in forte riduzione.
E qui, in questo caso, i telomeri non c`entrano, contano cose più semplici, come le buone pratiche igieniche, le fognature e gli antibiotici. Tornando a noi e ai nostri telomeri, potevamo avere prima la buona notizia e invece ne è arrivata una cattiva.
Fra un anno sarà in commercio un semplice test del sangue attraverso il quale potremmo sapere - scusate la semplificazione - quanto sono lunghi i nostri telomeri, quindi quanta vita ci resta. Come un conto alla rovescia. Naturalmente il test non sarà così preciso, ma potremmo considerarlo come un orientamento temporale.
E vero che non abbiamo scampo alla morte. Questa strana cosa, la morte appunto, del resto ci garantisce la vita: guardate infatti quante specie animali e vegetali banchettano su una carogna. Ma siamo stati sfortunati e ci tocca, fra un anno circa, un test che misura quanto sono corti o lunghi i nostri telomeri regalando cosi depressioni immediate o gioie repentine a seconda del risultato.
Notizie così brutte allarmano tutti e ognuno di noi si chiede se sia giusto o sbagliato entrare a contatto con le radici della vita in maniera cosi intima e definitiva. Quando ci allarmiamo, naturalmente, facciamo prevalere nella discussione l`aspetto emotivo e spesso immaginiamo che gli eventi precipiteranno per una sorta di discesa forzata verso il baratro, dovuto appunto a un piano inclinato al quale non si può sfuggire. Questo modo di ragionare è di solito fallace e non aiuta il ragionamento; gli eventi, intatti, si possono prevedere. analizzare, valutare e fermare. Di certo la genetica e i telomeri ci ·daranno parecchie soddisfazioni e ci regaleranno anche qualche grattacapo. ma purtroppo nella conoscenza è prevista sempre una buona dose di inquietudine. Non possiamo eliminare, intatti, le scorie che ogni azione umana (conoscitiva) porta con sè. Possiamo solo gestirle. In questo caso allora che si fa? Ci si preoccupa? Dove andremo a finire? Le assicurazioni, le multinazionali, renderanno obbligatorio questo test? Verremo assunti assunti se ci resta poco da vivere?·
Non possiamo rispondere a tutte queste domande, almeno per adesso, ma potremmo scegliere anche un`altra via, più di buon senso: non comprare il test. insomma, io sono curiosa di tante cose, ma se in quel test c`é la data della mia morte preferisco non leggere i risultati. Allora invece di chiederci continuamente e nevroticamente se sia giusto o sbagliato questo test, potremmo semplicemente lasciare la scelta alle persone. Mettiamo in commercio questo benedetto (o maledetto) test e stiamo a vedere se i cittadini lo comprano o lo fanno fallire. Io, alla luce di un sondaggio preliminare fatto in Inghilterra, tenderei a pensare che in pochi lo compreranno e così la data della nostra morte sarà conservata li, nascosta, sul braccio distale dei cromosomi. Del resto. come dice il poeta: in questa vita non é difficile morire, vivere è di gran lunga più difficile».
Gemelli, prima nascita "a distanza" - Milano, miracolo alla Mangiagalli: mamma partorisce i piccoli, entrambi prematuri, in due tempi - da
http://www.tgcom.mediaset.it
09:14 - Sono nati entrambi prematuri, ma a distanza di un mese l'uno dall'altro. E' la straordinaria storia di Gregorio e Leonardo, due gemelli venuti alla luce alla clinica Mangiagalli di Milano in condizioni eccezionali. Il primogenito, Gregorio, è nato il 18 marzo, alla ventiquattresima settimana di gravidanza, il secondo, Leonardo, esattamente un mese dopo, il 18 aprile.
La mamma è una negoziante 41enne di Ponte Lambro, il papà un imprenditore edile. Le doglie, come racconta il "Corriere della Sera", colgono la donna la mattina del 18 marzo, solo al quinto mese e mezzo. E i medici non possono evitare la nascita di Gregorio, per parto spontaneo. Si riesce però a evitare che nasca anche l'altro bimbo: grazie a farmaci anticontrazione e cure antibiotiche contro le infezioni, Leonardo può rimanere nel grembo della madre. Il piccolo resta nel ventre materno per quattro settimane in più. I due bimbi erano in sacche amniotiche distinte: viene tagliato soltanto il cordone ombelicale del primo dei gemelli e l'altro può aspettare ancora del tempo prima di venire al mondo.
A un mese di distanza, la nascita del secondo bambino. Entrambi i gemelli sono molto al di sotto del peso normale. Gregorio pesa 650 grammi, Leonardo 1.080, tutti e due largamente sotto la media, se si pensa che a livello nazionale soltanto un bambino su cento nasce con un peso inferiore al chilo e mezzo.
L'evento ha davvero dello straordinario, anche considerando che i rischi di non sopravvivenza del feto alla ventiquattresima settimana, il momento della nascita del primo gemello, superano l'80%. D'altra parte, con l'aumento dell'età delle maternità e delle fecondazioni artificiali, cresce anche il numero dei parti gemellari e, di conseguenza, delle nascite premature. Quelle sotto la trentasettesima settimana sono ormai al 10%.
Adesso i due gemelli sono ricoverati in terapia intensiva, dove resteranno ancora per settimane. "Ma sono fuori pericolo, anche se le loro condizioni mediche sono in continua evoluzione", assicura il primario Fabio Mosca.
LA SOLITUDINE DEL MEDICO TRA SUPER TECNOLOGIE E TAGLI, di Sergio Harari, Corriere Della Sera, 17 maggio 2011
Soli nelle corsie ospedaliere a decidere quando negare cure troppo costose, a che linea di chemioterapia fermarsi, quando intubare o meno un paziente, i medici temoho di ritrovarsi a decidere del destino dei loro malati abbandonati dal vuoto di una politica cho riduce le risorse ma non dice cosa fare. Tra bisogni di salute in crescita, tecnologie e terapie mediche sempre più moderne e costose e risorse economiche limitate, cosa succederà alla sanità di domani? L'Europa riuscirà ancora a garantire qual sistema pubblico gratuito e con alti standard assistenziali che l'hanno contraddistinta e che rappresenta uno dei suoi maggiori traguardi di civiltà? In questi giorni nei quali la scure dei tagli della Finanziaria si sta abbattendo sul nostro sistema sanitario, ne ricominciano a discutere economisti, medici, amministratori. I tagli degli sprechi possono migliorare un po' i conti ma sono lungi dal poter risolvere un problema ormai strutturale della sanità, difficile continuare a garantire tutto a tutti, continuare a far finta che la vita non abbia un prezzo è solo ipocrisia.
l nuovi modelli organizzativi ospedalieri, in stile 'Toyota, non é affatto detto che diano risposte efficaci ai nuovi bisogni assistenziali ultraspecialistici e sono subiti dai professionisti della salute con malcontento, prova ne sia la pioggia di dimissioni di primari registrate in questi mesi al Niguarda di Milano.
Cresce ovunque la demotivazione nella classe medica, ridotta ad una manodopera specializzata e schiacciata da una politica sempre più lottizzatrice e da amministrazioni lontane e dirigiste. La sfida per i medici é partecipare attivamente all'innovazione riaffermando in primis il merito al di sopra di intrallazzi politici e baronie, la scienza deve dare un segnale al Paese. L`introduzione di nuove terapie deve essere sostenuta da studi di superiorità (ovvero una nuova cura va favorita quando non solo é uguale alle terapie già in uso ma è superiore e garantisce un netto vantaggio per i malati) e, infine, é indispensabile promuovere una forte integrazione tra ricerca, assistenza e formazione.
Legge sul fine vita, le questioni irrisolte di Tommaso Scandroglio, 17-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it/
Mentre riprende alla Camera la discussione sul disegno di legge sul fine vita, rimangono irrisolte alcune questioni, la principale delle quali va oltre il testo stesso e anche oltre le migliori intenzioni di chi vuole tutelare la vita sino al suo tramonto naturale. la questione è infatti che non esiste legge al mondo, perfetta quanto vogliamo, che possa ostacolare l'arbitrio dei giudici. Questo vale per il fine vita come per i danni da vacanza rovinata. Qualsiasi avvocato anche alle prime armi lo sa: le buone intenzioni del legislatore possono scontrarsi con le cattive intenzioni dei magistrati. Se la futura legge verrà promulgata ciò non comporterà automaticamente che i giudici la applicheranno fedelmente secondo i principi ispiratori degli estensori. In buona sostanza una nuova legge di per sé non porterà a cancellare il possibile orientamento ideologizzato di alcune toghe. E' banale quasi ricordarlo.
L'obiezione a quanto sin qui detto potrebbe essere la seguente: i casi Eluana e Welby hanno messo in evidenza che il nostro ordinamento giuridico sui temi di fine vita presenta delle fragilità preoccupanti. Quindi proprio per contrastare l'arbitrio dei giudici è bene fortificarlo il più possibile, consci che la perfezione, anche e soprattutto nell'ambito giuridico, non è di questo mondo. Insomma meglio una legge non perfetta che conservare lo status quo. Qualche contro-obiezione. Su tutti i temi dell'umano vivere la giurisprudenza ha orientamenti talvolta, se non spesso, divergenti, ma questo non significa che ogni volta dobbiamo metter mano alle leggi per cambiarle e per aggiungerne di nuove. Quanti magistrati hanno assolto pluriomicidi, o sequestratori o rapinatori di "chiara fama"? Molti, ma non per questo qualcuno si sogna di cambiare l'art 575 cp (omicidio) o il 605 cp (sequestro) o il 628 cp (rapina). Il nostro ordinamento è ben conscio di questo limite inestirpabile ed infatti ha previsto tre gradi di giudizio (in realtà due perchè la Cassazione non dovrebbe entrare nel merito ma solo verificare la consequenzialità logica dei pronunciamenti precedenti, cosa che non fece ad esempio nel caso Eluana), più la revisione. Oltre a ciò ha previsto un organo disciplinare chiamato Consiglio Superiore della Magistratura. Se non si paventasse l'errore – colposo o doloso del giudice – non ci sarebbe motivo di avere tre gradi di giudizio, più la revisione, nonché prevedere l'esistenza di un organo quale il CSM.
Dunque gli errori/orrori giurisprudenziali dei casi Eluana e Welby andavano risolti non tramite una novella legislativa ma per mezzo degli strumenti procedurali già esistenti: opponendosi alle pronunce dei giudici, riaprendo il caso, etc. Così come alcune coraggiose associazioni pro-life hanno fatto. E' questa la prassi normale. Oltre a ciò, e a differenza di tante altre materie, sul fine vita la giurisprudenza, sui casi rarissimi in cui è stata chiamata a decidere, ha un orientamento pressoché univoco. Ciò paradossalmente è testimoniato dallo stesso caso Eluana: per ben sette volte i giudici civili respinsero la richiesta di Beppino Englaro di staccare la spina. A testimonianza del fatto che le toghe, interpellate sulla fattispecie concreta anche a distanza di anni, presentavano sempre un indirizzo omogeneo.
Questo orientamento pro-life della giurisprudenza è testimoniato anche dalle sentenze emesse nei casi di rifiuto di trasfusione di sangue da parte dei Testimoni di Geova. Qui vogliamo riferirci non al rifiuto di persona cosciente nell'iniziare una trasfusione dato che questa fattispecie non potrebbe essere affiancabile al caso di Eluana, la quale come si sa non era vigile. In questi casi i giudici, ex art. 32 della Costituzione, hanno qualificato come legittimo il rifiuto della trasfusione. Attenzione però a non costruire analogie con il caso Welby che in realtà non esistono. I giudici che assolsero il dottor Riccio dall'imputazione di omicidio del consenziente formulata dal Gip La Viola errarono per due motivi. Primo: la respirazione meccanica non era un trattamento sanitario, ma un mezzo di sostentamento vitale, e quindi non poteva essere rifiutata. In secondo luogo, ammesso e non concesso che di trattamento sanitario si fosse trattato, questo era già in essere. In costanza di trattamento, l'accoglimento del rifiuto dello stesso espresso dal paziente configurerebbe una collaborazione attiva nel procurare la morte dello stesso (staccare le macchine ad esempio che fanno la trasfusione) e quindi entreremmo di rigore nell'ambito di applicazione dell'art. 579 c.p. che punisce appunto l'omicidio del consenziente. Una cosa quindi è rifiutare un trattamento sanitario non ancora iniziato – vedi Testimoni di Geova – un'altra è rifiutare un trattamento già iniziato – vedi caso Welby.
Qui vogliamo riferirci invece ai casi in cui un paziente testimone di Geova arriva in ospedale in stato d'incoscienza, portando al collo una catenina o al polso un braccialetto attraverso i quali chiede di non ricevere trasfusioni. Appuntiamo il fatto che la giurisprudenza è scarna a riguardo, a testimonianza che non c'è un'emergenza né sociale né giuridica sui temi di fine vita. Detto ciò vediamo comunque cosa hanno deciso i magistrati su questa materia. A parte un caso – che come vedremo in realtà depone verso il favor vitae – i giudici hanno affermato che i medici hanno agito legittimamente nell'effettuare le trasfusioni. Ci riferiamo alle sentenze del Tribunale di Trento (9 luglio 2002) confermata in appello (Tribunale di Trento sentenza del 19 dicembre del 2003) e poi ancora in Cassazione (n. 4211/2007). Stesso indirizzo è rinvenibile nella sentenza della Corte di Appello di Trieste del 25 ottobre del 2003. Sentenza confermata successivamente dalla Cassazione (n. 23676/2008). La Cassazione, in quest'ultima circostanza, respinse la richiesta di risarcimento da parte di un testimone di Geova a cui in stato di incoscienza venne praticata una trasfusione perché il cartellino che recava con sé e che riportava la dicitura "niente sangue" non indicava una volontà "espressa, inequivoca, attuale e informata". Però, ed arriviamo all'eccezione di cui facevamo cenno prima, tale volontà scritta sarebbe stata vincolante per il medico nel caso in cui questa fosse stata "articolata, puntuale ed espressa". E il criterio d'attualità che fine ha fatto? I giudici non l'hanno indicato perché consci con imbarazzo che qualsiasi dichiarazione, scritta precedentemente alla perdita di conoscenza, è inevitabilmente inattuale. E dunque sul punto hanno preferito prudentemente glissare…
Insomma i nostri giudici, a parte questo svarione che non andò comunque ad incidere nella fattispecie concreta, si allineano, tra l'altro con sentenze assai recenti, a quanto previsto dalla legge 145/2001 che ratifica la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla protezione dei diritti dell'uomo riguardo all'applicazione della biologia e della medicina. L'art. 8 di questa norma recita che "allorquando, in una situazione di urgenza, il consenso appropriato non può essere ottenuto, si potrà procedere immediatamente a qualsiasi intervento medico indispensabile per il beneficio della salute della persona interessata". L'art 9, in linea con lo stesso art. 9 della Convenzione di Oviedo, specifica che i desideri precedentemente espressi saranno tenuti in considerazione ma non sono vincolanti. Questo, a margine ma non troppo, a dimostrazione che anche sulla materia del consenso informato in relazione a persone coscienti o incoscienti una legge c'è già.
Tutti parlano dei casi Eluana e Welby proprio perché ci sono stati solo questi due casi eclatanti che non hanno mutato l'assetto normativo del nostro ordinamento giuridico. Altri non ce ne saranno dal momento che nella grandissima maggioranza dei casi i pazienti vogliono vivere, i familiari vogliono accudire i loro cari e non farli morire (la decisione di Beppino non ha fatto scuola tra le 2.000 famiglie che hanno un parente nelle stesse condizioni di Eluana), i medici vogliono curarli e i giudici non sono così folli da concedere che si stacchi la spina ai moribondi o ai disabili. Non c'è quindi un fenomeno così diffuso da legittimare una risposta normativa da parte dello Stato. Le leggi, Tommaso D'Aquino insegna nella Summa contra Gentiles e nella Summa Theologiae, devono disciplinare "ciò che accade tra i più". Questo è uno, ma non il solo, dei criteri da tener presenti nel decidere sull'opportunità di legiferare.
Un'obiezione alle argomentazioni sin qui illustrare potrebbe essere la seguente: vero è che fino ad ora le derive giurisprudenziali pro-eutanasiche sono state insignificanti dal punto di vista numerico, però chi ci assicura che nel futuro questi casi non aumenteranno? Ora bisogna capire se, a fronte di possibili e futuri colpi di mano dei giudici, offrano maggiori garanzie le norme attualmente presenti o altre di nuova fattura. Abbiamo già illustrato in un precedente articolo i motivi per cui riteniamo che la tutela migliore, anche per il domani, della vita dei pazienti venga dalle norme del codice penali già esistenti. La prova viene paradossalmente dal progetto di legge in esame. In genere si afferma che è necessaria una legge perchè gli artt. 575, 579, 580 del Codice Penale – così si dice – presentano delle lacune in merito alle fattispecie riguardanti i temi di fine vita. Dopo Eluana e Welby questi articoli non possono più essere interpretati come una volta, si sostiene. Quindi da una parte si criticano questi articoli, sostenendo che sono inefficaci per garantire tutela contro possibili attacchi futuri giurisprudenziali, ma poi sono proprio questi articoli che all'art. 1 lettera c) del disegno di legge vengono citati per evitare derive eutanasiche: "vieta ai sensi degli articoli 575, 579 e 580 del codice penale ogni forma di eutanasia e ogni forma di assistenza o di aiuto al suicidio". E poi in modo analogo all'art. 3 comma 4: "Nella dichiarazione anticipata di trattamento il soggetto non può inserire indicazioni che integrino le fattispecie di cui agli articoli 575, 579 e 580 del codice penale". Ed infine all'art. 6 comma 4: "Il fiduciario, se nominato, si impegna a verificare attentamente che non si determinino a carico del paziente situazioni che integrino fattispecie di cui agli articoli 575, 579 e 580 del codice penale". Ciò a riprova che questi articoli (insieme al 5 cc) anche per gli estensori del Ddl in esame alla Camera rappresentano già attualmente il baluardo contro l'eutanasia.
Se questi articoli già vigenti sono insufficienti per vietare l'eutanasia perché metterli a fondamento del Ddl? Perché da una parte si svuotano di efficacia questi articoli e dall'altra si sostiene nero su bianco in più punti del disegno di legge attualmente in approvazione che proprio queste stesse norme sono il granitico presidio contro atti eutanasici? La contraddizione è evidente.
Come aveva suggerito l'on. Alfredo Mantovano in un dibattito pubblico di circa due anni fa, semmai occorre fare una leggina in cui si specificasse ciò che già implicitamente è contenuto nel nostro ordinamento: acqua e cibo non sono trattamenti sanitari e quindi ex art. 32 Cost. non possono essere rifiutati. E' come l'art 527 cp "Atti osceni": basterebbe già questo articolo per dire che non devi andare in giro mezzo nudo, ma fece bene il sindaco di Roma Alemanno qualche anno fa a emettere una disposizione amministrativa la quale prevedeva che sulla Salaria non si passeggia in abiti discinti (era funzionale ad ostacolare la prostituzione). Nel nostro caso purtroppo abbiamo a che fare non con glutei e seni scoperti ma con qualcosa di ben più scabroso.
Lo storico Paul Crawford smonta i miti popolari sulle crociate - 17 maggio, 2011, da http://www.uccronline.it
Nell'ultima edizione di Review Intercollegiate, la rivista dell'Intercollegiate Studies Institute (ISI), organizzazione no-profit che raccoglie oltre 50.000 studenti e docenti universitari di tutti gli Stati Uniti, è apparso un articolo intitolato: "Quattro miti sulle crociate", a cura dello storico medievalista Dr. Paul Crawford, docente alla California University of Pennsylvania. Lo specialista fa notare che spesso le crociate sono raffigurate come un episodio deplorevolmente violento, tuttavia è una visione molto popolare e poco veritiera. Vengono affrontati nel dettaglio 4 famosi miti, che noi riproponiamo sotto forma di sintesi (senza note di riferimento).
1) Le crociate sono un attacco immotivato al mondo musulmano
Niente potrebbe essere più lontano dalla verità, afferma Crawford. Nel 632 d.C., Egitto, Palestina, Siria, Asia minore, Africa settentrionale, Spagna, Francia, Italia, Sicilia, Sardegna e Corsica erano tutti territori cristiani. Certamente vi furono tante comunità cristiane anche in Arabia. Ma nel 732 d.C. i cristiani erano stati attaccati in Egitto, Palestina, Siria, Nord Africa, Spagna, gran parte dell'Asia Minore, e in Francia meridionale. Le comunità cristiane d'Arabia vennero interamente distrutte poco dopo il 633, quando ebrei e cristiani furono espulsi dalla penisola. Le forze islamiche conquistarono tutto il Nord Africa e puntarono verso l'Italia e la costa francese, attaccando la penisola italiana nell'837. In Terra Santa i pellegrinaggi divennero sempre più difficili e pericolosi. Lo storico approfondisce nel dettaglio la grave situazione venutasi a creare. E' quindi da questi fatti che i papi del X e XI secolo si attivarono nel disperato tentativo di proteggere i cristiani perseguitati. Conclude quindi affermando che «lungi dal non essere motivate, le crociate rappresentano di fatto il primo grande contrattacco occidentale agli attacchi musulmani, che avevano avuto luogo ininterrottamente dalla nascita dell'Islam fino all'undicesimo secolo, e che continuarono anche in seguito, senza sosta. Se la cristianità voleva sopravvivere occorreva una forte difesa». Per capire che si trattava solo di difesa, domanda: «quante volte le forze cristiane hanno attaccato La Mecca o Medina? Naturalmente mai».
2) I cristiani hanno avviato le crociate per saccheggiare i musulmani e arricchirsi.
Anche questo non è vero. Urbano II invitò nel 1095 i guerrieri francesi nella Prima Crociata, legittimandoli a "fare bottino del tesoro del nemico". Ma questo, dice Crawford, non era altro che il modo usuale per finanziare la guerra nella società antica e medievale. I crociati, infatti, vendettero tanti dei loro beni per finanziare le loro spedizioni. Lo storico ricorda anche che uno dei motivi principali del naufragio della quarta crociata fu proprio la mancanza di soldi. I papi stessi ricorsero a stratagemmi sempre più disperati per raccogliere fondi da utilizzare nel finanziamento delle crociate. Anche in questo caso, dopo aver analizzato molto più in profondità la situazione, Crawford conclude: «furono solo poche persone a diventare ricche a causa delle crociate, e il loro numero era sminuito da coloro entrarono in bancarotta. La maggior parte dei medioevali era ben consapevole di questo e non ha ritenuto la crociata un modo per migliorare la situazione finanziaria».
3) I crociati erano animati da motivazioni materialistiche e non religiose.
Dopo Voltaire questo è un mito molto popolare, dice Crawford. Certamente ci furono uomini cinici e ipocriti anche nel Medioevo, tuttavia anche questa affermazione è falsa. Innanzitutto il numero di vittime delle crociate erano molto alto e la maggior parte dei crociati non si aspettava certo di ritornare in patria. Uno storico militare ha stimato il tasso di perdite della Prima Crociata con un 75%. La partecipazione alla missione è stata volontaria e i partecipanti venivano motivati attraverso dei sermoni, che però erano pieni di avvertimenti sul fatto che le crociate avrebbero portato privazione, malattia, sofferenza e spesso morte. L'accettazione di andare incontro a difficoltà e sofferenza può essere visto dentro la dottrina cristiana di assimilazione alle sofferenze di Cristo e dei martiri. Lo storico spiega che per un crociato, la missione armata era essenzialmente un atto di amore disinteressato, come chiede il passo evangelico "dare la vita per i propri amici" (Gv. 15,13). Fin dall'inizio, dunque, la carità cristiana era la ragione per la crociata, e questo non cambiò per tutto il periodo.
4) Le crociate hanno spinto i Musulmani ad odiare e ad attaccare i cristiani.
Come scritto nella risposta 1), i musulmani hanno attaccato i cristiani per più di 450 anni prima che Papa Urbano dichiarò la Prima Crociata. Non avevano certo bisogno di alcun incentivo per continuare a farlo. Crawford ricorda che prima del 19° secolo non esisteva nemmeno la parola araba "crociata" perché non era importante per i musulmani distinguere le crociate dagli altri conflitti tra cristianesimo e Islam. Saladino non era certo venerato dai musulmani come il leader anti-cristiano grande leader. Solo nel 1899 il mondo musulmano ha riscoperto le crociate, ma è stato grazie agli occidentali come Voltaire, Gibbon, e Sir Walter Scott e Sir Steven Runciman, che dipinsero i crociati come rozzi, avidi, barbari aggressivi che attaccarono civili e musulmani amanti della pace. Allo stesso tempo, dice lo storico, il nazionalismo cominciava a mettere radici nel mondo musulmano e i nazionalisti arabi presero in prestito questa grave e cattiva interpretazione delle crociate, e utilizzarono questa come supporto filosofico per i propri programmi. Questo ha portato senza soluzione di continuità alla nascita di Al-Qaeda. Concludendo: «non sono le Crociate che hanno insegnato ad attaccare l'Islam e l'odio verso i cristiani. La guerra al cristianesimo ha preceduto di molto le crociate e risale alla nascita stessa dell'Islam. Piuttosto, è l'Occidente che ha insegnato all'Islam ad odiare le crociate».