martedì 5 aprile 2011

1)    Francia, insegnante licenziato: ha mostrato immagini di aborto di Raffaella Frullone, 05-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it/
2)    India, aborto selettivo fa strage di bambine di Marco Respinti, 04-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3)    IL COINVOLGIMENTO DEI GENITORI FA DIMINUIRE GLI ABORTI, AFFERMA UNO STUDIO
4)    Contro l'eutanasia non basta dibattere della legge di Marco Respinti, 05-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
5)    Lampedusa e Sant'Agostino di Luca Doninelli, martedì 5 aprile 2011, il sussidiario.net
6)    LETTURE/ "Nessun uomo è un’isola": da John Donne a san Benedetto, l’io da solo non basta di Laura Cioni - martedì 5 aprile 2011 – il sussidiario.net
7)    Avvenire, 5 aprile 2011 - LE FRONTIERE DELLA SCIENZA - Stati vegetativi: un casco «dipinge» i loro pensieri di Lucia Bellaspiga


Francia, insegnante licenziato: ha mostrato immagini di aborto di Raffaella Frullone, 05-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it/

Succede di perdere il posto di lavoro per i motivi più disparati. In Francia è toccato al professore di storia, geografia ed educazione civica di un liceo, reo di aver fatto vedere ai suoi alunni un video che mostra le diverse tecniche di aborto utilizzate in Europa e in particolare in Francia.

La vicenda risale all’ottobre scorso e riguarda Philip Isnard, 40enne, insegnante dal 1993, da sei anni in cattedra in un liceo di Manosque, in Provenza.  Come ogni anno e come richiesto dal ministero dell’istruzione francese, per le lezioni di educazione civica organizzava dei dibattiti «Parte del mio lavoro - racconta - consiste nello stimolare discussioni su alcune tematiche attuali, i dibattiti sono lo strumento che il ministero ci esorta ad utilizzare, essi devono essere organizzati presentando le voci pro e quelle contro determinate questioni. In particolare nelle classi seconde il ministero ci chiede di approfondire il tema legato al diritto di famiglia, in quest’ottica dunque mi è sembrato importante affrontare il tema dell’aborto, cosa che per altro faccio da anni».  Nel corso di questo dibattito il professore sottopone ai ragazzi materiali diversi: articoli di giornale, discorsi di politici, leggi in vigore, registrazioni audio video, non sapeva che uno di questi gli sarebbe costato il posto di lavoro.

Il video si intitola “No need to argue”, dura poco meno di 7 minuti, ed è disponibile su Youtube e dunque accessibile a chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la rete. Le immagini mostrano  le diverse procedure abortive in vigore in Francia e in Europa. All’inizio ci sono le immagini di un feto all’interno del grembo materno, poi ci sono i filmati delle procedure abortive praticate sia con l’operazione chirurgia di aborto, sia con l’assunzione da parte della donna di farmaci che provocano la morte del feto e poi la sua espulsione, così come avviene per esempio con l’assunzione dalla pillola Ru486. Si tratta di video realizzati durante o appena dopo l’espulsione del feto e dunque molto crude poiché si vede chiaramente il bambino già formato ucciso nel corso dell’operazione o ancora si vedono le ferite, le lacerazioni e le mutilazioni su corpicini molto piccoli, e soprattutto si distinguono chiaramente le manine, i piedini, le gambe, il viso dei bambini. Il video non è accompagnato da una voce narrante, semplicemente a tratti appaiono dei titoli che distinguono le diverse tipologie di aborto.  In sottofondo solo una canzone dei Cranberries dall’omonimo titolo “no need to argue”. Nessun bisogno di argomentare.  Invece questo video ha fatto discutere e non solo.

Alla fine di novembre Philip Isnard riceve una sospensione provvisoria dal posto di lavoro cui segue, a quattro mesi di distanza la revoca dell’incarico. E la genesi di questa sospensione è da brivido. «Tutto è partito dai genitori di due alunni, che sono anche due colleghi che insegnano nella stessa scuola, e sono anche due membri di Prochiox, associazione che si dichiara per la difesa delle libertà individuali e naturalmente è a favore dell'aborto. Loro per primi hanno chiesto il mio allontanamento dal posto di lavoro».  Secondo quanto riporta il sito dell’associazione, Prochoix avrebbe in effetti raccolto il disappunti dei genitori verso un video ingiustamente sottoposto ai ragazzi le cui immagini erano, si legge  «talmente crude e scioccanti da aver provocato il disgusto dei ragazzi e delle alunne presenti».

Sotto accusa insomma, ci sarebbe proprio il video. Si difende Isinard  «I miei alunni sono liceali di 16 anni, potenzialmente sono persone che potrebbero essere sottoposte all’aborto o che comunque nella loro vita potrebbero decidere di non tenere un figlio che aspettano. Mi è sembrato del tutto consono dunque mostrare loro cosa significa interrompere una gravidanza, affinchè scelgano il meglio e in ogni caso non affrontino la scelta in modo leggero».

Le motivazioni ufficiali per la revoca dell’incarico sono quelle di «aver messo in pericolo gli alunni, per non aver rispettato la neutralità dell’insegnamento, per aver fatto proselitismo, e aver procurato disordini gravi nell’istituto».  A sua difesa Isnard sottolinea che la classe nella quale è stato proiettato il video in discussione gli alunni all'unanimita hanno firmato una petizione a suo sostegno, per altro proposta da una studentessa di origine musulmana «Non solo, ci tengo a sottolineare che nel corso del dibattitto i ragazzi sono stati dotati anche del materiale che illustrava le posizioni pro aborto tra le quali il testo della legge vigore in Francia insieme allo storico  discorso dell’allora ministro Simon Veil che difendeva il provvedimtno legislativo e parlava dell’aborto come “diritto delle donne” ».

Ma il punto forse sta più a monte. Isnard, che anche presidente dell’Associazione Pro vie, spiega infatti che in Francia la sola associazione che ha diritto a entrare nelle scuole a parlare di educazione sessuale è Planing Familial e che probabilmente è a loro che il video ha dato fastidio. «Planning familial, il nome la dice lunga, è l’unico movimento autorizzato ad entrare nelle scuole francesi e naturalmente è a favore dell’aborto. Indirettamente avevo già ricevuto  "avvertimenti" che il mio metodo di lavoro non era apprezzato poichè, qualcuno mi ha detto  “troppo vicine alla Chiesa” ».

Ed ecco che allora il gioco è fatto. Il ministro dell’educazione francese Luc Chatel revoca l’incarico a Philip Isnard. Dal punto di vista legale probabilmente non è detta l’ultima parola. Dal punto di vista culturale e sociale rimangono aperti molti interrogativi, ci limitiamo a segnalarne tre. Perché in un liceo statale non si possono mostrare le immagini di un aborto? Perché dire che l’aborto è un omicidio dà così fastidio? Perché ci sono scuole statali in cui un insegnate cattolico è considerato indegno di salire in cattedra?


India, aborto selettivo fa strage di bambine di Marco Respinti, 04-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

In India la piaga dell’aborto selettivo continua a decimare la popolazione femminile. Si abortiscono infatti costantemente più femmine che maschi. Lo dimostrano le cifre raccolte nel censimento ufficiale per l’anno 2011 (il quinto dal 1872), pubblicato il 31 marzo (i dati presentati sono aggiornati alla mezzanotte del 1° ottobre 2010).  E questo nel quadro complessivo di un declino demografico costante e senza precedenti per il subcontinente indiano.

La popolazione femminile del Paese, infatti, è in assoluto più bassa rispetto a quella maschile, e questo per effetto di lungo termine proprio dell’aborto selettivo; e se pure oggi, in generale, lo scarto fra i due sessi è di 940 femmine per ogni 1000 maschi - aumentato cioè dalle 933 per mille del 2001 - un più attento esame delle statistiche rivela che nella fascia di età compresa fra 0 e 6 anni - quella cioè dove più facilmente si registra l’incidenza dell’aborto selettivo - lo scarto scende mediamente dalle 927 femmine del 2001 alle attuali 914. Il giornale economico più autorevole del modo, The Wall Street Journal, parla senza mezzi termini di «feticidio femminile», esito dell’«opera di gruppi che lavorano nel sociale», di gruppi particolari...

Nel complesso, l’India resta oggi il secondo Paese più popoloso del mondo: i suoi abitanti, 1,21 miliardi di persone, rappresentano il 17,5% della popolazione mondiale. Nello scorso decennio il Paese è aumentato di 181 milioni di persone, facendo registrare un aumento proporzionale lievemente inferiore a quello del Brasile, ma totalizzando alla fine una popolazione equivalente a cinque volte quella del Canada o, praticamente, a quelle di Stati Uniti, Indonesia, Brasile, Bangladesh, Pakistan e Giappone messe assieme (il solo Stato dell’Uttar Pradesh ha più abitanti di tutto il Brasile, e la popolazione dell’Uttar Pradesh assieme a quella dello Stato del Maharashtra è maggiore di quella statunitense). Nonostante queste cifre enormi, il gigante indiano sta però lentamente rimpicciolendo: il suo tasso di crescita declina anno dopo anno da decenni e quest’anno fa registrare addirittura la percentuale di aumento relativo più bassa - +3,90 % - dall’anno in cui il Paese ottonne l’indipendenza dal Regno Unito, nel 1947.

Curiosa del resto una notazione del censimento, che, riportando il numero totale dei maschi indiani oggi, 623,7 milioni, e quello delle femmine, 586,5 milioni, tiene  a precisare che il conto dei «maschi comprende sia i “maschi” sia gli “altri”»… (niente “altre”…)

Il nuovo censimento indiano ufficializza insomma un trend più che noto da tempo, e del resto già opportunamente denunciato: il “gendercidio” (o “genericidio”?), vale a dire la soppressione sistematica delle persone appartenenti a uno dei due sessi, in questo caso quello femminile, in questo caso per precisa strategia abortiva. L’espressione è stata coniata e resa celebre nel 1975 dalla saggista statunitense Mary Anne Warren (1946-2010), femminista e filoabortista, con il libro Gendercide: The Implications of Sex Selection (Rowman & Littlefield, Lanham [Maryland]) e oramai non è un mistero per nessuno che sia pratica comune in quei Paesi e in quelle culture dove la donna viene per diversi motivi considerata meno importante dell’uomo: perché inadatta ai lavori pesanti o alla guerra, perché da meno dei maschi, addirittura perché più costosa, per esempio in quei contesti sociali dove all’atto del matrimonio la famiglia della sposa è tenuta a una dote particolarmente onerosa. L’India, appunto, ma non di meno la Cina, dove il “gendercidio” è una pratica notoria e tradizionale che, nel contesto della politica che impone alle famiglie l’aborto dopo la nascita del primogenito, assume contorni mostruosi.

Una storia non nuova, appunto. Tra i primi in Italia a lanciare l’allarme fu Giuliano Ferrara ai tempi in cui, era il 2008, lanciò l’idea di una moratoria internazionale sull’aborto, ma lo sdoganamento giunse quando nella questione entrò prepotentemente The Economist - certo «non […] un bollettino umanitario», lo definì allora Il Foglio - che l’anno scorso, il 4 marzo 2010, decise di squarciare il muro di omertà su una piaga enorme sbattendo tutto opportunamente in copertina e gridando che è di almeno 100 milioni il numero delle bambine mancanti all’appello del mondo per via dell’aborto selettivo praticano in Cina e appunto o in India.

Insomma, quegli strumenti ecografici che hanno sconvolto la vita al più grande abortista del mondo, il medico statunitense Bernard N. Nathanson (1926-2011), facendogli mutare radicalmente indirizzo, sono gli stessi oggi utilizzati dagli indiani per scegliersi il figlio adatto sopprimendo le femmine. In India c’è un legge del 1994 - la Prenatal Diagnostic Techniques (Prohibitaion of Sex Selection) Act – che vieta il “gendercidio”: adesso sono le stesse autorità governative a denunciarne al mondo la sconfitta.


IL COINVOLGIMENTO DEI GENITORI FA DIMINUIRE GLI ABORTI, AFFERMA UNO STUDIO

WASHINGTON, D.C., lunedì, 4 aprile 2011 (ZENIT.org).- Un nuovo studio mostra che gli aborti vengono ridotti efficacemente del 15% negli Stati in cui ci sono leggi che richiedono il coinvolgimento dei genitori prima che i minorenni optino per questa possibilità.

Il Family Research Council ha commentato lo studio condotto da Michael New, ex ricercatore presso il Marriage and Religion Research Institute, un progetto del Consiglio.

La ricerca ha evidenziato “solide prove che le restrizioni al finanziamento dell'aborto, le leggi sul coinvolgimento dei genitori e quelle sul consenso informato abbassano efficacemente i tassi di aborto”.

Allo stesso modo, ha notato che “le leggi sul coinvolgimento dei genitori fanno calare il tasso di aborti di minori di circa il 15%”.

Tony Perkins, presidente del Family Research Council, ha affermato che “quasi invariabilmente è un genitore, non un impiegato governativo o un'entità di affari, ad avere più a cuore il benessere della propria figlia”.

“E' per questo che sosteniamo fortemente le leggi che ribadiscono il ruolo unico dei genitori come 'decision-makers' nella vita dei propri figli”.

“I politici possono parlare di riduzione dei tassi di aborto”, ha dichiarato Perkins, “ma se vogliono davvero raggiungerla devono sostenere la legislazione che coinvolge i genitori e togliere finanziamenti a organizzazioni come Planned Parenthood che effettuano o promuovono aborti”.
Lo studio è disponibile su http://downloads.frc.org/EF/EF11C45.pdf


Contro l'eutanasia non basta dibattere della legge di Marco Respinti, 05-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Nessuno può negarlo: la proposta di legge in discussione alla Camera sulle Dat, cioè le “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento”, ha scatenato una vera e propria “guerra civile” dentro il mondo cattolico deciso a impedire la deriva eutanasica del nostro ordinamento giuridico.

Da un lato vi è chi sostiene a spada tratta la necessità di legiferare positivamente in materia, giudicando lacunosa la normativa vigente che non metterebbe al riparo dai colpi di mano più o meno legittimi dei giudici chiamati a dirimere i singoli casi. Dall’altro vi è invece chi la legge l’avversa nettamente, muovendo pure critiche alla situazione attuale che comunque giudica maggiormente garante del diritto alla vita e aggiungendo che i colpi di mano di questo o di quel giudice sono e restano appunto solo casi isolati  e comunque illeciti.

Lo scopo dei due schieramenti è lo stesso, ma è sui mezzi che imperversa la lite.

Il primo fronte è capitanato dal presidente del Movimento per la Vita (MpV) Carlo Casini (eurodeputato dell’Udc) - il quale appoggia il ddl proposto dalla maggioranza di governo -, conta sull’appoggio della Conferenza Episcopale Italiana e si esprime dalle pagine del quotidiano Avvenire.

Il secondo fronte è rappresentato dal Comitato Verità e Vita (CVV), ha sponda nelle critiche al ddl sulle Dat espresse dall’ex Sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano e da Adriano Pessina, direttore dell’Istituto di bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, trova spazio sulle pagine de Il Foglio e probabilmente gode delle simpatie discrete di qualche vescovo.

Come tutte le guerre, anche questa non conosce esclusione di colpi; vista però l’identità dei due schieramenti, la cosa è ancora più incresciosa. L’ultima battaglia in ordine di tempo è iniziata  il 19 marzo, a Firenze, nel corso dell’assemblea nazionale del Movimento per la Vita il cui documento conclusivo - sbarcato sulle colonne di Avvenire il 24 marzo - dichiara incompatibile l’impegno nelle realtà locali e attivistiche dell’MpV con la militanza nel CVV. Il quale ha evidentemente reagito, poi sono intercorse lettere, smentite, telefonate, scuse a denti stretti accettate per metà, insomma un vespaio che rende le due posizioni ancora più inconciliabili. La sensazione - non gradevolissima - è che la discussione sulle Dat stia veicolando, o coprendo, anche antiche rivalità, compreso qualche personalismo di troppo.

Ora, ragioni valide di natura squisitamente pratica a sostegno della propria posizione le accampano entrambi i fronti. Né, trattandosi di ambiti negoziabili (non negoziabile è solo lo scopo da raggiungere), il favore con cui i vescovi guardano a un intervento legislativo diviene sic et simpliciter indiscutibile per i cattolici, i quali invece lecitamente possono, anzi debbono, in piena coscienza, offrire al dibattito tutti i contributi anche tecnici di cui sono capaci, dibattito che appunto riguarda la politica, pur fatta da cattolici, e non - come non potrebbe essere - la dottrina.

Ciò detto, due sono però i rischi che questa “guerra civile”, dannosa e fuorviante come lo sono tutte, comporta.

Il primo rischio quello di spingere i due fronti ad assolutizzare la propria posizione, passando dal campo opinabile dell’azione politica concernente i mezzi per raggiungere uno scopo al piano dei princìpi, ma indebitamente. Insomma, quello di attribuire alla propria parte il monopolio della verità dottrinale, scambiando pericolosamente il mezzo per un fine, “scomunicando” la parte avversaria in un contenzioso che riguarda solo il modo non lo scopo. Perché - è chiaro, ma deve essere detto apertamente - in nessuno dei due schieramenti allignano posizioni filoeutanasiche.

In secondo rischio è quello di concentrare tutta l’attenzione sulla sola questione legislativa, finendo per operare, in un senso o nell’altro, cioè sia che la legge la sia voglia sia che la si avversi, un pericoloso riduzionismo positivistico di una materia invece di ben altra natura. Di pensare, cioè, che tutto riposi solo sul ddl in discussione alla Camera, perdendo di vista, in entrambi i casi, ciò che fa davvero, lentamente ma inesorabilmente, scivolare la società italiana verso una cultura eutanasica, legge o non legge. Vale a dire il clima relativistico che la permea, il pensiero comune materialistico che la domina, la capacità ideologica di pilotare qualsiasi assetto normativo. Non certamente per dire che l’assetto legislativo di un Paese non conti, ma per sottolineare che essa non basta e che soprattutto non incomincia da lì la conversione di una società.

Entrambi i fronti di questa comunque incresciosa e troppo lunga “guerra civile” hanno ragione da vendere nella pars destruens, ovvero là dove ravvisano pericolose incognite sia nell’un caso sia nell’altro. Se però pensano che ciò basti a fermare il fremito eutanasico che, legge o non legge, attraversa ora la società italiana, hanno perso in partenza entrambi. Vincerebbero invece se lavorassero a monte della pur importante questione legislativa e politica, assieme, riunendo il fronte pro-life.


Lampedusa e Sant'Agostino di Luca Doninelli, martedì 5 aprile 2011, il sussidiario.net

Guardo e riguardo su internet le immagini di Lampedusa nuovamente svuotata dopo la disperata invasione di migranti delle settimane scorse. Ora il paesaggio si è come svuotato, e la bellezza dell’isola contrasta con quello che resta della presenza di queste persone, e che gli addetti alle pulizie si stanno adoperando a far sparire.
Ma c’è qualcosa che è destinato a non sparire. È la domanda che sale dalle scene concitate dei giorni scorsi. Una domanda che non segue le coordinate del nostro mondo, né le costituzioni degli Stati, né il Diritto internazionale, né le più o meno legittime posizioni dei diversi partiti. Si tratta del diritto elementare dell’uomo ad avere un futuro, della sua aspirazione a una vita dignitosa, a una destinazione per il proprio viaggio.
Un mio amico kosovaro, Sebastian, che fu costretto anche lui, anni fa, ad attraversare il mare su un barcone, mi racconta che quel barcone, al viaggio successivo, affondò con cinquanta persone a bordo. Di quel barcone, come di molti altri, nessuno ha saputo mai nulla, e adesso il mare custodisce il triste segreto di quei poveretti. Perciò ogni volta che incontro o vedo in tv le facce degli immigrati in attesa di sistemazione, avvolti nelle coperte o alle prese con le visite mediche, penso a quanti altri non hanno mai visto questi momenti. E rido sinceramente quando il politico di turno grida il suo “föra d’i ball”, come se le sue parole potessero fare anche soltanto il solletico alla tragedia che si svolge sotto gli occhi di tutti, e che lui, semplicemente, non vede.
Il fatto è che la società ricca ha smesso di porsi le domande elementari che la nostra civiltà, nelle diverse epoche, si è sempre posta: che cos’è l’uomo, che cos’è il destino? Se lo chiedevano gli Ebrei e i Greci, se lo chiedevano i Padri della Chiesa, se lo chiedevano i dottori medievali e gli umanisti, gli idealisti e gli illuministi. Che cos’è un uomo? Che cos’è un emigrante? Che cos’è un uomo costretto a viaggiare per necessità? Che cos’è un uomo che annega, che cos’è un bambino che muore di stenti o che viene gettato fuori dal barcone mentre il mare è agitato? Che cos’è una donna che partorisce su una nave?
Non mi chiedo nemmeno che speranza possiamo offrire a quelle persone, ma soltanto se riusciamo a cogliere la speranza che li anima, e che fa tutt’uno con la loro sofferenza. Aver fatto tanta strada esige un termine del cammino. La responsabilità è di tutti noi, perché tutti noi - compresi quelli che dicono “föra d’i ball” - siamo i responsabili di quanto succede: non siamo lo sfondo, la scenografia, ma personaggi di un dramma. E il dramma è quello lì, è quel dolore lì, non quello che pensiamo noi.
Tornano alla mente S. Agostino e le parole sconcertanti che pronunciò all’indomani del Sacco di Roma del 407 d.C. da parte dei Vandali. Anziché stracciarsi le vesti, osservò come, nonostante i morti e le devastazioni, che sono - purtroppo - il normale bilancio di tutte le guerre, una strana mitezza si fosse impadronita di uomini tanto selvaggi, tanto che le chiese non furono toccate e divennero anzi il rifugio in cui ciascuno poté preservare la propria vita. In questo modo, S. Agostino fece avanzare di cento chilometri la riflessione sulle invasioni barbariche, ricordando agli intellettuali scandalizzati (scandalizzarsi è uno sport per intellettuali) che le stesse domande si agitano nel cuore di tutti. Tanto da fargli concludere che solo Gesù Cristo poteva aver compiuto un simile miracolo. E lo sapeva bene, perché lui stesso era stato miracolato.
Oggi questa conclusione fa ridere. Anche i cristiani, temo, non ci credono. Ma che riso è? Proviamo a chiedercelo. Agostino, le cui osservazioni posero le basi per la costruzione di una nuova civiltà, parlò di miracolo operato dalla Grazia di Cristo. Oggi noi ridiamo, scettici, di quell’ipotesi, però intanto diciamo “föra d’i ball” o altre cose simili (il buonismo non è molto meglio, anzi: è peggio perché non possiede nemmeno quella pur demenziale sincerità). E non poniamo certo le basi per il futuro.
Intanto, milioni di uomini combattono per un destino umano. Per secoli e secoli i loro avi trovarono, ossia incontrarono in Europa (dove molti la pensavano come Agostino) una risposta. Ma se questa risposta dovesse finire di esistere, quale altra risposta degna di una simile domanda potrebbero sperare di trovare?
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LETTURE/ "Nessun uomo è un’isola": da John Donne a san Benedetto, l’io da solo non basta di Laura Cioni - martedì 5 aprile 2011 – il sussidiario.net

Nessun uomo è un’isola è il primo verso di una poesia di John Donne, ripresa da Hemingway come esergo al suo romanzo Per chi suona la campana e usato da Thomas Merton per il titolo della sua autobiografia. La Bibbia l’aveva già detto, motivando addirittura la decisione da parte di Dio di creare la donna: Non è bene che l’uomo sia solo; altrove il testo sacro indica il pericolo della cattiva solitudine: Guai all’uomo solo, perché se cade non ha chi lo sollevi.
Nel film Uomini di Dio uno degli aspetti più interessanti è la via del tutto personale con la quale ogni monaco giunge alla decisione di non abbandonare il monastero diventato pericoloso; il silenzio in cui quegli uomini maturano la loro scelta si scioglie nel momento in cui si comunicano a vicenda le ragioni che li spingono a restare e a continuare la vita comune lì, dove la loro vocazione li ha portati. Figli di una lunga tradizione monastica, quella cistercense, che a sua volta si innesta sull’antico tronco benedettino, questi uomini dimostrano in una situazione drammatica, che li porterà alla morte, la fecondità di una scuola secolare, incentrata sulla rieducazione dell’amore.
L’idea stessa della vita comune ha uno dei suoi fondamenti nella diffidenza che i maestri di spirito nutrono per una ricerca interiore troppo appartata, priva della relazione con gli uomini, in una solitudine che non corregge la tendenza di molti a concepirsi come monadi, ma anzi la circonda di una aureola. Gregorio Magno, formato alla scuola di san Benedetto, commenta il brano del Vangelo che racconta la prima missione dei discepoli di Gesù in questo modo: Il Signore manda i discepoli a due a due a predicare per indicarci tacitamente che non deve assolutamente assumersi il compito di predicare chi non ha la carità verso gli altri. San Bernardo e gli altri esponenti della scuola cistercense non hanno fatto altro che sottolineare la centralità dell’amore come forza unificante e dinamica della vita spirituale, sia personale, sia comunitaria, cogliendo anche le istanze di una età che ha a lungo studiato su Cicerone la virtù dell’amicizia.

La fecondità di questa visione educativa è giunta attraverso i secoli fino a oggi, come documenta un libro di madre Cristiana Piccardo, Pedagogia viva, Citeaux novecento anni dopo. È la storia di una comunità trappista femminile, della sua evoluzione, delle sue fondazioni in tutto il mondo, del cammino di adeguamento compiuto di fronte alla diversità umana delle giovani che si sono via via presentate alla porta del monastero. L’autrice afferma che oggi  “non basta quella santa tensione verticale a Dio, sostenuta dalla grande preghiera liturgica e dalla generosa fedeltà all’austera osservanza, che ha caratterizzato le generazioni monastiche che ci hanno preceduto”. Occorre fare i conti con la caduta del modello stoico, basato sulla capacità di controllo delle proprie emozioni e sul dominio della ragione sul sentimento, con il mutare e il rapido venir meno di altri modelli, con una diffusa immaturità affettiva.
Educare all’amore non è compito facile e madre Cristiana descrive i passi compiuti dalla sua comunità per far cadere le maschere dell’egocentrismo, dell’aridità e della paura e favorire la nascita di una reciprocità fedele, di un’integrazione generosa, di una fiducia che afferma l’altro, di una amicizia. Ella espone tentativi e strumenti del cammino educativo, così come si è evoluto nel corso di diversi decenni nella sua comunità, umilmente convinta che ciò possa essere utile anche al di là dello stretto ambito monastico. E riferisce le parole di un monaco trappista spagnolo, il beato Rafael, morto nel 1938 e beatificato da Giovanni Paolo II nel 1992: “C’è in me molta superbia, molta vanità, molto amor proprio. E tuttavia, ora, mi accade una cosa strana. Certi giorni dopo l’orazione, anche se in essa mi sembra di non sentire proprio nulla, scopro in me un gran desiderio di amare tutti i membri della mia comunità, quasi un’ansia di amarli come Gesù li ama. Così invece di scandalizzarmi della debolezza di un fratello, come sempre mi accadeva, provo per lui una grande tenerezza”.
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Avvenire, 5 aprile 2011 - LE FRONTIERE DELLA SCIENZA - Stati vegetativi: un casco «dipinge» i loro pensieri di Lucia Bellaspiga

Il ddl sulle Dat tornerà in Aula alla Camera il 27 aprile, dopo l’avvio della discussione generale avvenuta nelle sedute del 7 e 9 marzo. In particolare - si legge nel calendario - l’esame delle «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento» è previsto il pomeriggio del 27, al termine delle discussioni sulle linee generali, e il giovedì 28 aprile (con eventuale prosecuzione notturna e nella giornata del 29 aprile)».

Un caccia americano di ultima generazione sfreccia nel cielo. All’improvviso "sente" che il suo pilota è svenuto e inizia ad autoguidarsi. Come sa l’apparecchio che l’uomo ha perso i sensi? Sul casco del pilota, nella tuta e nell’impugnatura dei comandi ci sono sensori in grado di captare la coscienza... Solo fantascienza? No, una tecnologia già in uso da tempo, basata sul fatto che il nostro cervello quando pensa, cioè quando appunto ha coscienza, emette un segnale elettrico con delle frequenze, e i moderni sensori sanno leggere tali impulsi neuronali, in pratica "vedono" il pensiero prima che si traduca in azione. Quali enormi sorprese si potrebbero avere, allora, se un analogo caschetto venisse posto sulla testa delle persone in "stato vegetativo", cioè - secondo la diagnosi - del tutto "prive di coscienza e incapaci di qualsiasi relazione col mondo esterno"?

«Lo abbiamo chiamato "Elu1" (pronunciato all’inglese, eluàn) perché è un software ideato proprio nei giorni del caso Englaro -spiega l’ingegnere Daniele Salpietro, da mesi impegnato tra i 24 stati vegetativi ricoverati al Centro don Orione di Bergamo, proprio per provare a ricostruire un "dialogo" tra i pazienti e i loro cari -. Ai caschetti ormai in uso nei videogiochi dei ragazzi ho applicato un amplificatore cerebrale che moltiplica di un milione di volte gli impulsi neuronali, in modo da poter captare anche i minimi "spifferi" di volontà, e ho collegato il tutto al monitor di un computer...». Gli esperimenti che conduce davanti a noi parlano più di mille parole.

«Dite ad Aldo che io sono felice»
«Cristina, se mi senti muovi gli occhi», ordinava in passato l’ingegnere alla donna, che secondo la diagnosi era in uno "stato vegetativo irreversibile". E Cristina infatti non faceva nulla: non un battito di ciglia, non un’espressione diversa, nemmeno un lamento. «Ma con il caschetto che misura la volontà, ogni volta che le davo questo ordine vedevo schizzare a mille il segnale sul monitor. In pratica sentiva e desiderava pure obbedire, il problema quindi non era la coscienza, ma solo la possibilità di tradurla in movimento». Una situazione già raccontata da tanti "risvegliati" (il caso più noto quello di Max Tresoldi, uscito da 10 anni di "sonno" e testimone oggi del fatto che «coglievo tutto ma non riuscivo a dirvelo»), e una scoperta che apre nuove voragini nella conoscenza del cervello e degli stati vegetativi. «Il fatto di sentirsi capìta ha cambiato la vita di Cristina, che ha preso a reagire, e quella di suo marito Aldo, perché il parente è affranto quando per anni non sa se la persona amata coglie qualcosa o è del tutto inerte». Così Cristina ha cominciato a "uscire" ed è passata a quello che la medicina chiama "stato di minima coscienza", fino addirittura a riuscire a parlare: «Dite ad Aldo che sono felice», sono le prime parole che ha detto. «Nessun miracolo e nessuna falsa speranza - chiarisce Salpietro - l’Elu1 misura la volontà, non guarisce nulla, ma in questo modo abbiamo potuto rilevare con grande anticipo che lei "c’era" e la paziente ha avuto la spinta per dare il tutto per tutto».

90 euro e ti compri il futuro
Cosa che certo non avviene nei tanti reparti o nelle stanzette solitarie in cui migliaia di "stati vegetativi" in Italia attendono il nulla, mentre spesso anche i medici non si pongono più domande, considerandoli persi in partenza. Chissà quante volte sono invece persone che pensano, e la nostra incomprensione del loro muto "linguaggio" dev’essere il più feroce dei tormenti. «Tantissimi di loro sono stati definiti "vegetativi" magari dieci anni fa e nessuno li ha più rivisitati - spiega l’ingegnere -. Non dico di fare a tutti una Risonanza magnetica funzionale, esame raffinatissimo e molto costoso che dal 2006 "fotografa" a colori le attività del cervello, ma ormai con solo 90 euro si può costruire un casco come quello dei caccia americani o dei videogiochi più moderni», quelli con cui puoi fare la partita a tennis o guidare le macchine da corsa senza muovere un dito né premere un pulsante, solo con gli impulsi del cervello. «Nel 2008 chiesi al padre di Eluana di poter fare l’esperimento sulla figlia, di valutare cioè il suo grado di coscienza, ma non mi rispose. Certo che dagli indizi che abbiamo avrebbe dato risposte sorprendenti: una notte chiamò persino "mamma", mentre il suo respiro cambiava all’udire le diverse voci e davanti a più testimoni alcune volte ha sorriso».

L’effetto parente
Già da tempo a livello internazionale si è accertato che per il 40% dei cosiddetti "stati vegetativi" la diagnosi è sbagliata. E il motivo è un errore di metodo: «In persone paralizzate o incapaci di inviare i comandi dal cervello agli arti, è assurdo usare come parametro il movimento - spiega l’esperto -. Invece è la loro volontà che va accertata. Ciò che conta è se, al nostro comando, il loro cervello invia l’ordine di fare una cosa, indipendentemente dal fatto che poi la riescano a fare davvero». È importante inoltre sapere che in ciascuno di noi tra l’impulso cerebrale di volontà e il movimento passa sempre un tempo minimo, «dunque ancor più negli stati vegetativi l’azione richiesta può avvenire minuti dopo, o addirittura ore, quando ormai il medico è uscito dalla stanza...». Ecco allora l’importanza del parente, «l’unico che osserva per giorni e notti, per mesi e anni, e, nonostante il neurologo parli di "coscienza zero", rileva quei piccoli immensi segnali di vita lasciati inascoltati dalla scienza».

La partita a ping pong
Segnali di vita come quelli che abbiamo visto al Don Orione di Bergamo, leggendo sul monitor le forti reazioni emotive mentre il volto dello stesso paziente resta immobile e inespressivo. Così Domenico prende a "obbedire" solo quando gli ordini partono dalla voce della sorella, in dialetto bergamasco: il segnale sul video schizza in alto e, dopo una settimana, l’uomo ha già imparato a chiudere gli occhi su comando. E così Loredana (dimessa da un centro specialistico come "priva di coscienza") quando le si avvicina improvvisamente la mano agli occhi non fa una piega, ma sul monitor rivela senza dubbio una rapida "risposta alla minaccia": gli occhi non li chiude, ma ha la volontà di farlo. O così Mauro - complice la moglie che gli legge Fantozzi - si rilassa fino a sorridere. «Spesso i pazienti all’inizio non collaborano, perché non vogliono - spiega Salpietro -, ma l’insistenza di un marito, di un genitore o di un figlio fanno miracoli». Molti poi ci prendono gusto e imparano rapidamente, qualcuno addirittura su quel monitor riesce a "muovere" col pensiero le racchette e fare una partita a ping pong. Con viso inerte e sguardo fisso nel nulla. «Quando è così, riprendono in qualche modo possesso di sé... Ma allora è chiaro che hanno bisogno di una nuova riabilitazione mirata, non più solo di essere lavati e girati in un letto... Ma quanto costa dar loro tutto questo? Più facile ed economico darli per persi e magari avviarli alla dolce morte, no?».