2) Il martirio silenzioso dei cristiani perseguitati di Antonio Giuliano, 11-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3) Un microchip genetico per la caccia al feto Down di Carlo Bellieni, 08-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
4) IL CASO/ Quei bambini in via di estinzione che nessuno vuole curare di Carlo Bellieni - lunedì 11 aprile 2011 – il sussidiario.net
5) Avvenire.it, 10 aprile 2011 - Fine vita. Dire sì alla legge sulle Dat - Cassazione doppia - Chiarezza urgente di Assuntina Morresi
6) Pedofilia "variante naturale della sessualità umana"? Di Roberto Marchesini - 11/04/2011 – da http://www.libertaepersona.org
7) LA MATERNITÀ SURROGATA FA DISCUTERE LA FRANCIA - No all'iscrizione nello stato civile due bimbe nate da una “madre portatrice” di Paul de Maeyer
8) LE RAGIONI DI UN INTELLETTUALE CATTOLICO E L’IRRAZIONALISMO DEI LAICISTI - di Mons. Antonio Livi – da http://www.riscossacristiana.it
9) Burqa, il laicismo provoca guerre di religione di Riccardo Cascioli, 12-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
10) Boscovich, fede e scienza alle radici dell'Europa di Massimo Introvigne, 12-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
11) Jurij Gagarin e Dio di Pigi Colognesi, martedì 12 aprile 2011, il sussidiario.net
12) IL CASO/ Mario Mauro: così la piccola Tunisia affonda l’Europa di Mario Mauro - martedì 12 aprile 2011 – il sussidiario.net
13) STORIA/ Le lettere di Bernardo a Ermengarda, quando la carità "governa" il mondo di Laura Cioni - martedì 12 aprile 2011 – il sussidiario.net
14) Avvenire.it, 11 aprila 2011 - Libertà religiosa, Cina: arrestati centinaia di cristiani
In Pakistan c’è un nuovo caso di un cristiano vittima di false accuse di blasfemia. Si chiama Arif Masih, e l’agenzia Fides, citando la sua storia, rilancia la proposta di una moratoria sull’applicazione di questa norma. Paul Bhatti, Consigliere speciale del primo ministro per gli affari delle minoranze religiose del Pakistan, accogliendo la proposta che circola nella società civile pakistana, intende portare avanti l’idea della moratoria che sta trovando l’appoggio di intellettuali, editorialisti e studiosi, attivisti per i diritti umani.
Queste le parole che Bhatti ha consegnato a Fides: «Urge trovare una soluzione per impedire gli abusi della legge. Si può partire da una moratoria o pensare a delle modifiche. Ma occorre anche lavorare per cambiare la mentalità e la cultura: vi sono in Pakistan individui e organizzazioni che usano questa legge per creare disarmonia e tensione sociale».
Vale la pena di ricordare, come ha fatto Mehdi Hasan, presidente della Commissione per i diritti umani del Pakistan, che prima del 1986 non vi erano nel Paese denunce di blasfemia, mentre negli anni successivi si sono verificati circa mille casi. E ben settanta persone, accusate solo di questo reato, sono state vittime di esecuzioni sommarie senza varcare la soglia di un tribunale.
Non si deve dimenticare che chi si oppone alla legge sulla blasfemia rischia a sua volta la vita in quanto considerato blasfemo. La moratoria potrebbe rappresentare un primo passo per fermare le strumentalizzazioni della legge da parte dei fondamentalisti.
Tra le proposte concrete, per evitare gli abusi all’ordine del giorno, c’è quella di affidare l’incarico di registrare le eventuali denunce di blasfemia ad agenti di polizia di alto grado e di stabilire la competenza sui processi direttamente all’Alta Corte, saltando così i tribunali di primo grado, troppo esposti alle pressioni dei gruppi fondamentalisti.
Le tristi storie di Asia Bibi e ora di Arif Masih ci interpellano. Ci invitano a non dimenticare la loro situazione e a chiedere che i singoli Stati e la comunità internazionale nel suo insieme faccia il possibile per convincere il governo pakistano ad abolire una legge che di fatto serve a coprire ogni genere di attacchi e di persecuzioni contro le minoranze religiose e in particolare contro i cristiani. O almeno a cominciare, come primo passo, con una moratoria.
Il martirio silenzioso dei cristiani perseguitati di Antonio Giuliano, 11-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Dalla Nigeria al Brasile, dall’Iraq all’Indonesia, un filo rosso lega il pianeta da un capo all’altro: il sangue dei martiri cristiani del XXI secolo. «Da almeno due decenni il cristianesimo è la religione più perseguitata del mondo» sostiene un’organizzazione tutt’altro che confessionale come Amnesty International. Eppure è un martirio che avviene ancora nel silenzio e nell’indifferenza mondiale, testimonia Francesca Paci, inviato de La Stampa, nel suo libro Dove muoiono i cristiani (Mondadori, pp. 190, euro 17,50).
Una raccolta di pregevoli reportage dai luoghi della persecuzione che accende i riflettori su storie e volti che in prima pagina non finiscono mai. «Viviamo in Occidente – spiega la giornalista - in stati democratici dove il cristianesimo è ancora maggioranza. Non siamo abituati all’idea che altrove questa è una piccola minoranza di fedeli che fanno fatica anche ad andare a messa. Per questo, da non credente, sono rimasta sbalordita dalle aggressioni in Nigeria, dall’assalto alle chiese in Iraq, dalle stragi di cristiani copti in Egitto a quelle dei fedeli dell’Orissa (India). Per non parlare del Pakistan... Una persecuzione che non fa notizia, specie se le discriminazioni non mietono vittime. Sono stata per anni corrispondente da Gerusalemme e ho visto l’esodo tuttora in corso dei cristiani dalla Terra Santa».
Spesso al silenzio contribuisce, paradossalmente, anche la strategia del dialogo: «Credo – continua - che nessuno come la Chiesa cattolica si stia impegnando nel creare ponti piuttosto che muri, con incontri e seminari di ogni genere. E condivido questo impegno. Purtroppo però a volte si rischia di tacitare le situazioni di oppressione. Spesso i copti in Egitto mi dicono è “colpa vostra, perché a furia di insistere sul dialogo non capite che i Fratelli Musulmani non vogliono il dialogo e faranno di tutto per schiacciarci”. Dopo aver contribuito alla caduta di Mubarak, ora temono di non poter ancora accedere a cariche pubbliche. La verità è che nei paesi musulmani la divisione tra religione e politica non c’è mai stata. E non posso che essere favorevole anch’io all’istituzione del Christian Rights Watch, un osservatorio a difesa dei diritti dei cristiani».
Ci sono Paesi, come l’India, l’Iraq o la Nigeria, in cui alla base c’è un esplicito odio religioso, come quello dei fondamentalisti di altre islamici o indù. E altri come la Cina, il Vietnam o la Corea del Nord, dove lo Stato comunista non ammette nessun credo. «Però da laica - sottolinea l’autrice – mi son sempre chiesta qual è la matrice comune della massiccia persecuzione anticristiana ai giorni nostri nelle diverse zone del mondo. Ho capito che il cristianesimo sin dalle origini sovverte l’ordine costituito non attraverso la spada, ma promuovendo la dignità dell’uomo: con largo anticipo su qualunque dottrina liberale o illuminista. Ovunque la dignità dell’uomo è calpestata, il cristianesimo mette in campo la sua carica rivoluzionaria. Penso ad esempio all’India, dove i cristiani sono gli unici ad accogliere i più emarginati, i “dahlit”, quelli senza casta. Oppure all’Amazzonia dove non ci sono fondamentalisti eppure sacerdoti e missionari perdono la vita per difendere gli ultimi e i poveri». Ritratti che spingono l’autrice ad affermare sicura: «La fede è un pretesto, le persecuzioni nascondono disuguaglianze economiche per tagliar fuori le minoranze».
In realtà insistendo sulle ragioni sociali dell’oppressione dei cristiani, la giornalista non fa altro che affermare come la fede non sia soltanto una dottrina, ma si incarni nella vita concreta dei credenti che ha incontrato. «Mi ha colpito – rivela – la testimonianza dei fedeli della Corea del Nord, un mondo ancora inaccessibile. Un eroismo che ricorda quello dei primi cristiani. Ho incontrato uno di loro ad Amsterdam e mi raccontava che per anni i suoi genitori cristiani nascondevano il libro di preghiere in una giara seppellita in giardino: la tiravano fuori solo durante la notte. Qualcuno però ha fatto la spia e i suoi familiari furono torturati e uccisi. E un altro coreano, riuscito a fuggire dai campi di concentramento dove finiscono anche tanti dissidenti cristiani, mi ha confidato che ha sempre tenuto nascosto ai suoi figli la propria fede. “Mi pento – mi ha detto, ma non potevo parlare. Una volta tentavo di spiegare ai miei bambini il Natale, la nascita di Gesù. E mio figlio mi chiese: “Ma chi era il bimbo di Betlemme, il caro leader?”. In Corea del Nord infatti i cristiani sono considerati dissidenti perché hanno un altro “dio” rispetto al leader del partito comunista e il lavaggio del cervello comincia già nelle scuole».
Una tenacia che non conosce confini: «Mi ha impressionato – conclude Francesca Paci - il coraggio di una donna cristiana in Indonesia. Nonostante le percosse subite continuava a ripetermi: “Non ho paura di morire se si tratta di difendere Gesù”».
IL CASO/ Quei bambini in via di estinzione che nessuno vuole curare di Carlo Bellieni - lunedì 11 aprile 2011 – il sussidiario.net
Un primo studio promettente per una terapia efficace contro gli effetti negativi della sindrome di Down è stato eseguito in Spagna. Ovviamente non ne parla nessuno. Il sito della Fondazione Jerome Lejeune riporta che la notizia è stata data a un congresso scientifico: dopo dei promettenti studi sui topi, il farmaco è stato testato su dei soggetti con sindrome Down, con effetti chiaramente apprezzabili sulla memoria e l’intelligenza.
Come ben sappiamo, una rondine non fa primavera, e ben altri studi serviranno per valutare se questo approccio è davvero efficace o una speranza presto delusa. Le Figaro del 5 aprile, riportando l’avvenimento spiega che, visti gli esiti incoraggianti di questo studio pilota fatto su 30 pazienti, i ricercatori spagnoli che lo hanno condotto vogliono iniziarne uno multicentrico internazionale.
Siamo felici della notizia, ma siamo anche stravolti al pensiero che nessuno ci abbia pensato prima! In Francia ci sono più di 50.000 malati di sindrome Down, e considerando che oltre il 90% viene eliminato prima di nascere, si capisce una cosa: nei fatti la sindrome Down, che colpisce circa un bambino su 700, finisce per diventare una malattia rara, perché non nasce più nessuno che ne sia afflitto; e come le altre malattie rare non riscuote l’attenzione che merita.
Ed è un dramma, perché una società civile dovrebbe avere i disabili al primo posto; poi le auto blu. Invece, in pratica, non c’è nessuno che faccia ricerca sulla sindrome Down per curare i malati; ma ci sono decine che fanno ricerca per trovare nuovi sistemi per non farli venire al mondo: test sempre più precoci, sempre più alla moda, incuranti della contraddizione che fino a quando non si inventavano un modo per fare diagnosi di feto down nel sangue materno, i rischi dell’amniocentesi venivano sussurrati sui giornali, ma ora che l’amniocentesi deve forse passare la mano a un sistema alternativo, i rischi vengono sbandierati. Ed è un dramma perché la società che non vuole bimbi Down in giro riversa il ruolo di sceriffi genetici sulle spalle delle donne, che sorvegliano che questi “clandestini genetici”, le persone Down, non approdino sulle coste della vita postnatale.
Speriamo, però, che gli studi della professoressa Mara Dierssen, del Centro sulla regolazione genomica di Barcellona, diano i risultati sperati. Perché i ragazzi Down sono in via d’estinzione: nessuno si augura di avere un figlio malato, ma il nemico da combattere è la malattia, non il malato stesso! E i loro genitori sono guardati come folli se li lasciano nascere: e anche in questo caso, perché non battersi per aiutare le famiglie dei disabili invece di ostracizzarle come bigotte e anacronistiche? Sarebbe il segno che la società ha ancora un seme buono e che la medicina serve davvero a curare e non a far la guardia sulle porte della vita.
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Avvenire.it, 10 aprile 2011 - Fine vita. Dire sì alla legge sulle Dat - Cassazione doppia - Chiarezza urgente di Assuntina Morresi
Il medico non è vincolato dalle volontà espresse dal paziente, anche quando sono sottoscritte in un consapevole consenso informato, ma deve operare con prudenza, in scienza e coscienza, per il bene di chi ha in cura. Questo il succo della sentenza con cui la Cassazione ieri ha confermato la condanna per omicidio colposo (andata comunque in prescrizione) a tre chirurghi che avevano operato una signora gravemente malata di cancro, morta a seguito dell’intervento: la donna lo aveva chiesto con forza ma, secondo i giudici, quello dei chirurghi si configurava come «inutile accanimento diagnostico-terapeutico», vietato dal codice deontologico e passibile di condanna.
Non basta, cioè, che un malato capace di intendere e di volere chieda una terapia ben precisa, perché il medico la debba eseguire: l’ultima parola spetta al professionista. Solo lui ha gli strumenti per giudicare fino in fondo quale sia il modo più adeguato per curare i propri pazienti. I quali possono rifiutare un trattamento che viene loro proposto, ma non possono pretendere che i dottori ne eseguano uno richiesto.
Una sentenza, insomma, in accordo con la legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) in discussione in Parlamento, per la quale il medico deve tenere conto delle volontà espresse dal paziente quando ancora era in grado di farlo, ma non è obbligato a eseguirle, perché non può trasformarsi in un mero esecutore delle sue richieste. E un alibi in meno a chi sostiene che la legge sulle Dat è incostituzionale perché le indicazioni contenute non sono vincolanti.
Ancora una volta si conferma che l’autodeterminazione del paziente non è assoluta, perché non basta il suo consenso a rendere legittimo qualsiasi intervento medico: il professionista non può scaricare sul malato la responsabilità che gli compete, quella cioè del giudizio ultimo sulla terapia da intraprendere, sospendere, o non iniziare affatto. L’alleanza medico-paziente deve cioè camminare su due gambe: una è la fiducia di chi viene curato nella scienza e coscienza di chi cura, e l’altra è la condivisione consapevole e informata, e quindi libera, delle strategie terapeutiche.
La sentenza di venerdì scorso va in direzione opposta a quella che riguardava Eluana Englaro, per la quale, invece, il consenso informato non serve: per interrompere alimentazione e idratazione a una persona che non l’ha mai chiesto esplicitamente, è sufficiente ipotizzare le sue opinioni, deducendole a posteriori, anche in base agli stili di vita. Basta che ne abbia parlato a tavola con i genitori, o che abbia detto agli amici 'non vorrei mai vivere così', e si possono sospendere acqua e cibo (figuriamoci le terapie).
E quindi, per stabilire se un trattamento sanitario sia legittimo o no, il massimo livello della giurisprudenza italiana ha dato due criteri opposti: ieri la quarta sezione penale della Cassazione ha stabilito che il consenso informato, regolarmente sottoscritto davanti a un medico da una persona consapevole, è necessario ma non basta. Al contrario, nel 2007 secondo la Cassazione in sezioni unite civili, sono sufficienti le volontà espresse dal paziente in precedenza, in assenza di colloqui con specialisti, e anche se dedotte da testimonianze altrui.
Senza una legge che regoli validità e limiti del consenso informato, insomma, è grande la confusione sotto il cielo: in caso di contenziosi i tribunali si potrebbero appellare all’uno o all’altro pronunciamento giurisprudenziale, con esiti totalmente diversi anche in situazioni analoghe. Il Parlamento si deve affrettare, quindi, ad approvare la legge sulle Dat, se vogliamo evitare che siano i singoli tribunali ad avere – anche in modo altalenante – l’ultima parola.
Pedofilia "variante naturale della sessualità umana"? Di Roberto Marchesini - 11/04/2011 – da http://www.libertaepersona.org
Andrà a finire così: che l'OMS dichiarerà che la pedofilia è una “variante naturale della sessualità umana”, che il ministero per le pari opportunità farà delle campagne per combattere la “pedofobia” e che nei corsi di educazione sessuale si insegneranno le tecniche con le quali i bambini possono soddisfare sessualmente degli adulti. In Canada alcuni parlamentari hanno proposto di modificare le leggi contro la pedofilia. Al fine di fornire un punto di vista scientifico sulla questione, il 14 febbraio scorso sono stati auditi il dottor Vernon Quinsey, professore emerito di psicologia presso la Queen's University e il dottor Hubert Van Gijseghem, ex professore di psicologia presso l'Università di Montreal. Il dottor Van Gijseghem ha sostenuto che “la pedofilia è un orientamento sessuale” paragonabile all'eterosessualità e all'omosessualità. Di per sé, non c'è nulla di sconvolgente in questa affermazione; tuttavia, da qualche anno, abbiamo orientamenti sessuali che sono “perversioni” (come il feticismo, la zoofilia, la coprofilia, la necrofilia...) e orientamenti sessuali che “varianti naturali della sessualità umana”.
Quando un orientamento sessuale passa dalla prima alla seconda categoria, deve essere immediatamente accettato con tutte le sue conseguenze. Infatti il dottor Van Gijseghem ha aggiunto che non è possibile modificare questo orientamento e il solo tentativo è una pazzia, come il tentativo di cambiare qualunque altro orientamento sessuale. Il parallelismo con l'omosessualità è evidente, e infatti è colto da uno dei parlamentari, l'onorevole Lemay, che ha commentato: “Ricordo un periodo, non troppo tempo fa, quando l'omosessualità era considerata una malattia. È ormai accettato, la società ha accettato, e anche se alcuni si rifiutano di riconoscerlo, è accettato. Tuttavia, non posso immaginare che la pedofilia sia accettata nel 2011”. In altre parole, è solo questione di tempo: prima o poi la società sarà pronta (abbastanza matura? Libera da moralismi di tipo religioso?) ad accettare l'omosessualità come “variante naturale della sessualità umana”.
Del resto, gli argomenti usati per convincere l'opinione pubblica che l'omosessualità sia una “variante naturale della sessualità umana” valgono anche per la pedofilia: la pedofilia era diffusa in società molto diverse e lontane dall'attuale, come quella dell'antica Grecia, “quindi” è naturale; il dottor Kinsey, nei suoi rapporti (Il comportamento sessuale della donna, Bompiani, Milano 1956, pp. 159-160), “spiega” che non c'è nulla di strano in rapporti sessuali tra bambini ed adulti, a parte l'allarmismo ingiustificato da parte di genitori, assistenti sociali e poliziotti che traumatizzano, loro si, non i pedofili, i bambini; infine, nel 1994 anche la pedofilia egosintonica (come l'omosessualità egosintonica nel 1980) è stata tolta dal DSM, il manuale diagnostico dell'American Psychiatric Association. Salvo, poi, essere nuovamente inserita nella successiva edizione a causa delle proteste da parte delle associazioni di genitori. Come ha detto l'onorevole Lemay, la società non è ancora pronta. Il verbale dell'audizione dei due cattedratici è disponibile a questo url:
LA MATERNITÀ SURROGATA FA DISCUTERE LA FRANCIA - No all'iscrizione nello stato civile due bimbe nate da una “madre portatrice” di Paul de Maeyer
ROMA, domenica, 10 aprile 2011 (ZENIT.org).- La “maternità surrogata” - nota anche come “utero in affitto” - solleva tutta una serie di interrogativi etici. Già il fatto che per la “surrogazione” - nient'altro che la logica conseguenza della “fecondazione in vitro e trasferimento di embrioni” (FIVET) - si ricorra di norma alla donazione di gameti (di seme o di ovociti, o di entrambi) rende la tecnica eticamente discutibile. Ma non finisce qui. Un'altra caratteristica che contraddistingue la pratica è che sfocia spesso in aspre battaglie legali, che costringono i giudici di turno a sciogliere “nodi gordiani” o a pronunciare sentenze quasi “salomoniche”.
Mercoledì 6 aprile, la Corte di Cassazione di Parigi ha reso nota la sua molto attesa sentenza sul caso avanzato dai coniugi Sylvie e Dominique Mennesson, di Maisons-Alfort, nel dipartimento di Val-de-Marne, nella periferia sud-orientale della capitale francese. La vicenda inizia nel 2000, quando diventano genitori di due gemelline - Isa e Léa -, nate il 25 ottobre in California da una “madre portatrice” (dietro un compenso di 12.000 dollari) e concepite con il seme di Dominique Mennesson e con ovociti donati da un'amica della famiglia.
Anche se i certificati di nascita californiani riconoscono Sylvie e Dominique Mennesson come i genitori delle due bambine, al loro ritorno in patria le autorità locali rifiutano di iscrivere Isa e Léa nei registri dello stato civile nazionale, privando le bambine della cittadinanza francese. Per una semplice ragione: la gestazione detta “per conto altrui” (o GPA, in acronimo francese) è vietata nel Paese dal 1991, ben prima della nascita delle due gemelline.
La battaglia giuridica dei Mennesson - molto mediatizzata - per ottenere l'iscrizione delle due bambine è giunta sino ai giudici supremi d'Oltralpe, che mercoledì scorso hanno confermato il "no" già pronunciato dai tribunali di grado inferiore. Secondo gli "ermellini" francesi, i bambini nati da madri portatrici all'estero non hanno infatti il diritto di essere iscritti nei registri dello stato civile francese.
Nella sentenza, la Corte di Cassazione giudica "contraria all'ordine pubblico internazionale francese la decisione straniera che comporta delle disposizioni che offendono dei principi essenziali del diritto francese" (Agence France-Presse, 6 aprile). Nonostante la decisione negativa, la sentenza rispetta secondo i giudici i diritti primordiali delle bambine: non sono private dalla filiazione materna e paterna riconosciuta dal diritto straniero, e non viene impedito loro di vivere con i "richiedenti", cioè i Mennesson.
La speranza della coppia era grande. L'8 marzo scorso, il "Parquet général" (la Procura Generale) aveva emesso infatti un parere positivo, chiedendo alla più alta corte di giustizia della Francia di accogliere la richiesta della coppia. Come motivazione, il pubblico ministero aveva invocato il principio di "interesse superiore del bambino" e si era basato sull'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo sul "diritto al rispetto della vita privata e familiare". La procura ha usato persino espressioni molto forti, qualificando le bambine come "irregolari" ("sans papiers" in francese, letteralmente "senza documenti") e "clandestine", come ha ricordato il legale della coppia, Nathalie Boudjerada, il 5 aprile sul sito di Libération.
Il nuovo "no" è senz'altro un duro colpo per i coniugi Mennesson, che si sono dichiarati "costernati" e intendono presentare ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo. "Tutto questo è molto ipocrita", ha detto Sylvie Mennesson. "Si fa come se non esistessero" le bambine, ha affermato commentando la sentenza (Libération, 7 aprile). Secondo la saggista e femminista Caroline Fourest, la decisione della Cassazione è una "battuta d'arresto", che rimanda queste famiglie "all'era della giungla" (Le Monde, 9 aprile).
Per la filosofa Sylviane Agacinski, membro del collettivo No Body for Sale, le cose sono un po' diverse. In un articolo pubblicato il 4 aprile su Le Monde.fr, la Agacinski ha definito la battaglia dei Mennesson un tentativo di "aggirare" la legge francese. Come ricorda inoltre l'autrice, le due bambine non sono né clandestine né irregolari: hanno infatti uno stato civile e un passaporto statunitensi.
Secondo la filosofa, la domanda fondamentale è se la legge sia giusta o no. La legge francese, ha spiegato, riconosce alle persone il diritto al rispetto del loro corpo e garantisce questo diritto impedendo di farne un oggetto di scambio. Ed è per questo che la "maternità sostitutiva" è vietata. Applicare il "molto vago" art. 8 della Convenzione europea dei Diritti umani a questo caso, inoltre, sarebbe "puramente arbitrario". Con tutte le simpatie per Isa e Léa, conclude la Agacinski, la battaglia condotta apparentemente nel nome dell'interesse superiore del bambino è "un cavallo di Troia" usato dai sostenitori della gestazione per conto altrui per assediare la legge.
E tutto indica che la legge non cambierà presto. Nel dibattito sul progetto di revisione della legge sulla bioetica del 2004, il Senato francese ha rifiutato infatti giovedì 7 aprile - cioè appena 24 ore dopo la pubblicazione della sentenza della Cassazione - di legalizzare la surrogazione. Con 201 voti contro 80, i senatori hanno respinto 3 emendamenti che miravano ad autorizzare la pratica.
"Dobbiamo resistere a questa tendenza che consiste nel dire che giacché una cosa esiste bisogna anche legalizzarla", ha sottolineato la senatrice socialista Catherine Tasca (AFP, 7 aprile). Per Marie-Thérèse Hermange, senatrice dell'UMP, "legalizzare la gestazione per conto altrui è legalizzare l'abbandono infantile". Con una maggioranza meno netta (173 voti contro 134), i senatori hanno bocciato anche alcuni emendamenti per autorizzare l'iscrizione all'anagrafe di bambini nati da madri portatrici.
C'è però un "ma". Lo scorso 10 febbraio, il Tribunale di Grande Istanza di Nantes (dipartimento della Loira Atlantica, Bretagna) ha ordinato di iscrivere nello stato civile una bambina nata nel 2001 sempre da una madre surrogata californiana e di darle la nazionalità francese. Si tratta - scrive il 4 aprile il sito Gènéthique - di un caso particolare: il padre, che vive in una relazione omosessuale, non era francese alla nascita della bambina. L'uomo, che ha ottenuto la nazionalità francese nel 2010, ho voluto conferire la sua nuova cittadinanza anche alla bimba.
La grande differenza tra il caso di Nantes e quello dei Mennesson è dunque che nel primo il richiedente era straniero al momento della nascita del bambino. Il fatto che nel caso dei Mennesson la Corte di Cassazione abbia respinto l'iscrizione perché si tratta di due coniugi francesi costituisce allora una discriminazione? Come ribadisce sul sito Chretiente.info (7 aprile) Jeanne Smits, che accoglie positivamente la decisione della Suprema Corte e osserva che Isa e Léa possono considerarsi figlie di quattro genitori - della coppia Mennesson, della madre portatrice e della donatrice degli ovociti -, non c'è da dubitare che la futura argomentazione dei sostenitori della surrogazione sarà incentrata sull'aspetto discriminatorio della sentenza del 6 aprile.
LE RAGIONI DI UN INTELLETTUALE CATTOLICO E L’IRRAZIONALISMO DEI LAICISTI - di Mons. Antonio Livi – da http://www.riscossacristiana.it
RISCOSSA CRISTIANA è onorata di ospitare un articolo di Mons. Antonio Livi, senza dubbio il maggior filosofo vivente, che mantiene viva e feconda la grande Tradizione italiana di studio e di Fede, uniti a creare l'armonia della vera saggezza. La profondità e la chiarezza di Mons. Livi, al quale va la nostra sincera gratitudine, saranno senza dubbio di giovamento a tutti, per meglio comprendere il senso dei recenti avvenimenti, e per saper riconoscere dove sta la vera e sana razionalità.
PD
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LE RAGIONI DI UN INTELLETTUALE CATTOLICO E L’IRRAZIONALISMO DEI LAICISTI di Mons. Antonio Livi
La vicenda che ha coinvolto storico Roberto de Mattei, vice-presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, è stata commentata per parecchio tempo, anche su questa testata, e sono state esaurientemente contestate – dopo averle riferite correttamente - le assurde critiche che da varie parti gli sono state rivolte. Sembrerebbe che non ci sia più nulla da dire, ma io desidero tornare sull’argomento per segnalare alcuni aspetti dell’ideologia dominante nell’opinione pubblica che i cattolici dovrebbero rilevare criticamente, per non concedere alla montante polemica anticristiana degli argomenti apparentemente razionali che di fatto sono invece assolutamente inconsistenti.
Non mi riferisco alle manovre meramente politiche, miranti a estromettere gli intellettuali cattolici da ogni luogo dove si esercita il potere culturale; sono manovre basate su pregiudizi laicistici tanto evidenti quanto illogici. Illogica infatti era la pretesa di alcuni, dopo la riflessione teologica che Roberto de Mattei aveva fatto ai microfoni di Radio Maria nel corso di una rubrica mensile intitolata “Le radici cristiane”, di reclamare le sue dimissioni dalla vicepresidenza del CNR per incompatibilità tra le idee espresse in quella occasione e il ruolo scientifico che la sua carica presuppone. Mi riferisco invece a un articolo della Stampa, nel quale si riduce arbitrariamente tutto il discorso di Roberto de Mattei all’affermazione perentoria che il recente terremoto del Giappone non è altro che un terribile e giusto castigo inviato da Dio sull'uomo per punirlo, purificarlo e migliorarlo: affermazione, secondo il giornale, espressa «in modo piuttosto anomalo per il suo ruolo»; il suo, infatti, «è un punto di vista non particolarmente basato sulla scienza, ed è abbastanza comprensibile: se si legge il suo curriculum si nota che non è uno scienziato ma uno storico con evidenti radici cattoliche» (Flavia Amabile, in La Stampa, 23 marzo 2011). Chissà «se gli altri vertici del CNR la pensano allo stesso modo», concludeva provocatoriamente la Amabile, e qualcuno ha commentato che probabilmente quelle ultime parole erano state scritte «gettando l'amo al presidente del CNR, Luciano Maiani, uno dei sessantasette firmatari di una lettera aperta che, definendo "incongrua" e non in linea con la laicità della scienza una prevista lezione di papa Benedetto XVI all'Università di Roma "La Sapienza", il 17 gennaio 2008, aveva contribuito a causarne l'annullamento» (Luca Codignola, in L'Occcidentale, 28 marzo 2011). Insomma, si è gridato allo scandalo perché il vicepresidente del CNR, commentando le notizie di cronaca, si è permesso di parlare di Dio e non esclusivamente di costruzioni antisismiche, di centrali nucleari e di radioattività; ciò significa che, per l’opinione pubblica dominante, quello di Dio non è un argomento “scientifico”, perché per “scienza” bisognerebbe intendere soltanto la fisica. Ora, in effetti, De Mattei è uno storico e non un fisico, dunque non dovrebbe far parte del CNR, oppure non dovrebbe parlare dei terremoti con un “approccio” (ossia, da un punto di vista) diverso da quello dei fisici? Ecco l’illogicità che – al di là delle intenzioni malvagie – va severamente denunciata.
La logica (in questo caso, l’epistemologia) non può acconsentire che si neghi un proprio valore epistemologico alle discipline storiografiche: a parte l’archeologia, la paleontologia e la paleografia, la stessa storiografia, alla pari di tutte le altre discipline umane o sociali (Geisteswissenschaften), è oggi universalmente riconosciuta come “scienza” tanto quanto la fisica e tutte le altre scienze della natura (Naturwissenschaften) che si servono della formalizzazione matematica. Chi negherebbe oggi, ad esempio, il carattere di scienza alle discipline che si insegnano nella facoltà di Scienze politiche o in quella di Psicologia? Certo, Karl Popper sosteneva che il marxismo e la psicanalisi non sono scienze, nel senso con cui egli considerava scienza la fisica: ma per lui tutte le scienze, compresa la fisica, erano soggette al criterio del fallibilismo e al procedimento critico della falsificazione. Peraltro, anche per chi non adotta gli schemi epistemologici di Popper, il fatto che un sapere sia annoverato tra le scienze non toglie che esso sia il frutto della ricerca razionale (che si serve di svariati mezzi di indagine e di deduzione) e sia quindi sempre relativo, opinabile, ipotetico, o comunque riformulabile con schemi concettuali diversi. Solo gli scienziati fanatici che sono rimasti fermi ai pregiudizi scientistici del positivismo (di questi abbiamo in Italia un esemplare quanto mai ridicolo nel matematico Odifreddi) considerano la loro disciplina scientifica una verità assoluta, anzi l’unica verità.
Altri, in mezzo a questa inestricabile confusione di idee sull’argomento della giustizia di Dio e del peccato degli uomini, hanno tirato in ballo la dottrina della Chiesa, nella quale, secondo loro, ci sarebbe una netta smentita della tesi di De Mattei. Scrive ad esempio un lettore nella rubrica della lettere di un quotidiano: «La stampa ha dato risalto alle dichiarazioni di uno storico che si dice cattolico e proclama in nome della “dottrina della Chiesa” che il terremoto e lo tsunami sono stati un’esigenza della giustizia di Dio. Come hanno sottolineato fonti ufficiali della Chiesa, qui non si esprime la fede cristiana e cattolica, ma una visione anticristiana di origine pagana, pur presente in alcune primitive credenze bibliche alla quale però un certo Gesù (Vangelo Gv 9) ha opposto il suo “no”. Dio non causa il male. Se una valanga uccide un uomo, Dio non è un omicida» (Alessio Nolan, Il terremoto non è un castigo di Dio, in Libero, 1° aprile 2011, p. 31). È un modo di parlare tanto incoerente da sembrare demenziale, ma lo riporto perché riflette, purtroppo, la confusione dottrinale dei cattolici italiani, succubi oggi come non mai delle ideologie dominanti (grazie allo strapotere della stampa e alla televisione gestite da opinion leaders anticristiani, ai quali non offre alcun argine la cosiddetta stampa cattolica). Come ho spiegato in alcuni miei libri (cfr Filosofia e teologia, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2009; Vera e falsa teologia, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2011), la dottrina della Chiesa è cosa ben diversa dalla teologia. La teologia non fornisce ai credenti la materia della loro fede (quella la fornisce il Magistero): fornisce solo un’utilissima, talvolta indispensabile interpretazione del dogma. Per sua natura, quella proposta dai teologi non è un’interpretazione autorevole e pertanto vincolante (come quando interviene il Magistero) bensì un’interpretazione che è per sua natura ipotetica, basata soltanto sulla forza dell’argomentazione razionale, non sulla forza dell’autorità di Dio che rivela. I teologi non sono maestri della fede (questi sono solo i vescovi) ma sono semplicemente degli intellettuali al servizio della fede, con l’approfondimento e la chiarificazione che ogni aspetto del dogma richiede, a seconda dei tempi e dei luoghi, in rapporto anche alle circostanze culturali del momento. In conclusione, che fa un discorso teologico dice cose assolutamente vere finché riferisce correttamente quello che Dio ha detto nella rivelazione pubblica; se poi aggiunge a questo le sue personali interpretazioni (o quelle della scuola di pensiero cui appartiene), deve lasciar intendere chiaramente che si tratta di mere ipotesi, non di dogmi: ipotesi, peraltro, che saranno ammissibili solo nella misura in cui non contraddicono il dogma. Tornando al tema che ha suscitato la discussione: che il terremoto e lo zunami (così si deve scrivere) del Giappone siano un castigo di Dio non c’è scritto da nessuna parte, dunque, di per sé, questa non è materia di fede (la Bibbia parla invece del diluvio universale e di altri eventi – ad esempio la distruzione di Sodoma e di Gomorra - come castighi di Dio); ma che ogni evento naturale o provocato dagli uomini siano da riportare a Dio, questo è non solo dogma di fede ma è innanzitutto un’evidenza della ragione: perché Dio è la causa prima che governa il mondo con perfetta giustizia, e le cause seconde (consapevoli o meno) non tolgono il primato metafisico della potenza infinita di Dio. Ora, però, la ratio per la quale un singolo evento è voluto o permesso da Dio noi non la possiamo conoscere, a meno che Dio stesso non ce la riveli. Dunque, per un elementare dovere di rispetto nei confronti dei misteri naturali e soprannaturali che riguardano le intenzioni di Dio, noi dobbiamo limitarci a ipotizzare il carattere di castigo o di ammonimento (in ogni caso, castigo e ammonimento paterno) di una calamità che abbia afflitto una parte dell’umanità, senza mai pretendere di sapere – ripeto – quello che appartiene al mistero dell’Amore divino nel governo del mondo. In questo senso, la Teodicea di Leibniz non va intesa come una “giustificazione” apologetica di Dio in presenza di tante manifestazione del male nel mondo, ma come la logica ammissione filosofica di dover credere alla perfetta “giustizia” di Dio, che si identifica con la sua infinita bontà. A tale ragionevole ammissione filosofica noi cristiani possiamo aggiungere la certezza che Dio, come Egli stesso ci ha rivelato, «non si rallegra della morte del peccatore, ma vuole che si converta e viva», e poi, positivamente, «vuole che ogni uomo sia salvato e che giunga alla conoscenza della verità». Questo è assolutamente vero: l’applicazione di questa legge universale dell’amore di Dio al singolo caso non può che essere solo ipoteticamente vera, come una legittima supposizione a partire da un principio generale, senza escludere altre ipotesi altrettanto compatibili con quel principio.
In conclusione: le affermazioni di chi ha attaccato il professor Roberto de Mattei sono illogiche proprio perché, partendo da presupposti falsi, hanno negato in modo ottusamente dogmatico la legittimità di opinioni che dogmatiche non pretendevano di essere ma si richiamavano doverosamente al dogma autentico, ossia alle verità inconfutabili, sia di ragione che di fede.
Burqa, il laicismo provoca guerre di religione di Riccardo Cascioli, 12-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Condivisibile nello scopo, sbagliata nel modo. E’ questo in sintesi il giudizio sulla legge anti-burqa entrata in vigore l’11 aprile in Francia fra mille polemiche e provocazioni aperte. Circa 60 donne islamiche con burqa e niqab (i due indumenti che coprono la faccia lasciando visibili solo gli occhi) hanno infatti sfidato il divieto manifestando davanti alla cattedrale di Notre Dame a Parigi e facendosi fermare dalla polizia: “non per il burqa ma per manifestazione non autorizzata”, come ha precisato la polizia.
Come dicevamo, la legge è condivisibile nel vietare indumenti e copricapi che non permettono l’identificazione della persona. Ci sono motivi di sicurezza che rendono più che giustificato questo divieto. Tanto è vero che la stessa legge francese entrata in vigore l’11 aprile, estende il divieto a indossare in pubblico altri copricapi – casco, passamontagna, e così via – che hanno effetto analogo al burqa. Il punto è semplice: se lo Stato pretende dai suoi cittadini che, per motivi di sicurezza, vadano in giro a volto scoperto, non si capisce perché questo non debba valere anche per le minoranze presenti. Ad esempio, in Italia è una legge del 1975 (la no. 152) a porre questo divieto, e ora in Parlamento giacciono diversi progetti di legge che pretendono di includere o escludere esplicitamente il burqa e il niqab in questa normativa.
Se questo è vero, allora perché la legge francese sarebbe sbagliata nel metodo? Perché fa una pericolosa confusione tra religione e abbigliamento. Il governo francese già nel 2004 aveva bandito dalla scuola ogni tipo di segno di riconoscimento esteriore dell’appartenenza a una religione. Ora, la legge anti-burqa, anche se in modo più sfumato, prosegue questa tradizione “laicista”, identificando burqa e niqab come abiti derivanti dalla legge islamica. Ma tutto ciò è sbagliato: il velo integrale non ha niente a che vedere con il Corano, è una tradizione di alcune zone circoscritte, che i movimenti fondamentalisti islamici hanno rilanciato e tentano di imporre a tutti. Per questo in Italia il Comitato per l’islam italiano – in un documento di alcuni mesi fa – invita i parlamentari a “deconfessionalizzare” la questione del burqa, riportandola entro i confini delle disposizioni in materia di sicurezza e ordine pubblico.
Colpire il burqa in quanto islamico, oltre ad affermare una cosa non vera, è una sorta di dichiarazione di guerra – a torto o a ragione - contro una religione. In un paese coma la Francia, dove gli islamici sono intorno ai 5 milioni, si tratta di un’operazione molto rischiosa.
Ma è anche la dimostrazione che il “laicismo”, chiuso com’è nella sua comprensione ideologica, è incapace di guardare e comprendere la realtà.
Boscovich, fede e scienza alle radici dell'Europa di Massimo Introvigne, 12-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
La Croazia – e le istituzioni scientifiche – celebrano nel 2001 «l’anno di Boscovich», nel secondo centenario della nascita di uno dei più grandi scienziati europei, Ruggero Giuseppe Boscovich (1711-1787), nato il 17 maggio 1711 a Dubrovnik (Ragusa), in Dalmazia. Fu considerato al suo tempo un uomo di scienza non meno illustre di Isaac Newton (1643-1727), e non è troppo malizioso pensare che la sua scomparsa da molti libri di storia sia dovuta al fatto che era un fervente cattolico e un padre gesuita, la cui sola esistenza smentisce il mito secondo cui la scienza del Settecento si affermò al di fuori e contro la Chiesa.
Ruggero Boscovich è figlio di un ricco e celebre mercante bosniaco, Nikola Boscovich (1642-1721), e della colta erede di una grande famiglia di mercanti italiani di origine bergamasca, Paola Bettera (1674-1777). Ruggero diventa gesuita insieme a uno dei suoi fratelli. Una sorella si fa suora e un altro fratello entra nell’Ordine Domenicano. Già da novizio a Roma, Ruggero rivela una straordinaria inclinazione per la fisica e l’astronomia, che non sfugge ai suoi superiori. I suoi studi sul transito del pianeta Mercurio, sull’aurora boreale, sulle irregolarità del campo gravitazionale hanno ispirato la scienza europea per diversi secoli. Nel 1742 è tra gli scienziati consultati da Papa Benedetto XIV (1675-1758) per trovare una soluzione al problema della cupola di San Pietro, la cui stabilità è in pericolo. La soluzione da lui proposta, quella di inserire nella cupola barre di ferro concentriche, è quella adottata dal Papa.
Nel 1745 Boscovich pubblica la sua prima opera importante, De Viribus Vivis, in cui cerca una via media tra le teorie di Newton e le obiezioni a Newton del filosofo Gottfried Wilhelm Leibnitz (1646-1716). Il libro mostra l’interesse di Boscovich per la filosofia della scienza e per una teoria unificata della natura, che fiorisce nell’opera principale del 1758 Theoria philosophiae naturalis redacta ad unicam legem virium in natura existentium. Questa teoria unificata ha al suo centro la nozione dell’atomo e i campi tensoriali. Alcune delle equazioni sviluppate da Boscovich si usano ancora oggi, e nel secolo successivo il fisico inglese Michael Faraday (1791-1867) riconoscerà molto apertamente il suo debito con lo scienziato gesuita per l’elaborazione della teoria dei campi elettromagnetici.
Onorato in Italia e in patria, Boscovich è nominato dalla Repubblica di Ragusa ambasciatore in Gran Bretagna in occasione di una crisi diplomatica. A Londra, nel 1760, è eletto membro della Royal Society, la più prestigiosa società scientifica del suo tempo, che lo incarica di una missione astronomica nell’Europa Orientale, nel corso della quale diventa membro anche dell’Accademia delle Scienze Russa. E tutto questo in anni di attività prodigiosa, rimanendo insieme professore all’Università di Pavia e direttore dell’Osservatorio di Brera a Milano.
Al culmine della gloria, Boscovich cade vittima della persecuzione contro i Gesuiti. La soppressione dell’ordine nel 1773 lo priva di tutte le cariche, e l’ostilità implacabile degli illuministi ne fa un fuggiasco di Paese in Paese. Accolto in Francia e naturalizzato cittadino francese dal re Luigi XVI (1754-1793), l’odio illuminista e le campagne anti-gesuitiche continuano a perseguirlo. Finisce per ritirarsi prima a Bassano e poi all’abbazia di Vallombrosa, in Toscana. Muore a Milano nel 1787, ed è sepolto nella chiesa di Santa Maria Podone.
Questo grandissimo scienziato fu combattuto e perseguitato non solo perché era un gesuita, ma perché la sua teoria unificata della natura sostiene la perfetta compatibilità fra fede e scienza e la conferma attraverso lo studio dei misteri del mondo dell’esistenza di Dio autore della natura. Così ha ricordato Boscovich l’11 aprile Benedetto XVI, ricevendo l’ambasciatore della Croazia ed esprimendo la sua «soddisfazione» per le celebrazioni dell’Anno di Boscovich. «Questo gesuita – ha detto il Papa – era un fisico, un astronomo, un matematico, un architetto, un filosofo e un diplomatico. La sua esistenza dimostra la possibilità di fare vivere in armonia la scienza e la fede, il servizio alla patria e l’impegno nella Chiesa. Questo scienziato cristiano dice ai giovani che è possibile realizzare se stessi nella società di oggi e vivere felici pur essendo credenti».
Il Papa è partito dal ricordo di Boscovich per ricordare che, anche nella sua scienza, le radici dell’Europa sono cristiane. Alla Croazia che entra nell’Unione Europea Benedetto XVI ha detto che «non dovrà avere paura di rivendicare con determinazione il rispetto della propria storia e della propria identità religiosa e culturale. Tristi voci contestano con stupefacente regolarità la realtà delle radici religiose europee. È diventato di bon ton essere amnesici e dimenticare le evidenze storiche. Affermare che l’Europa non ha radici cristiane equivale a pretendere che un uomo possa vivere senza ossigeno e senza nutrimento». Anche il ricorso dei grandi scienziati europei che erano nello stesso tempo, come Boscovich, grandi cristiani ravviva la necessaria memoria delle radici cristiane dell’Europa.
Jurij Gagarin e Dio di Pigi Colognesi, martedì 12 aprile 2011, il sussidiario.net
Sono cinquant’anni che l’uomo vola nello spazio al di fuori dell’atmosfera terrestre. Il primo a farlo, per 108 minuti, è stato il cosmonauta sovietico Jurij Gagarin a bordo della navicella Vostok 1. Era il 12 aprile 1961.
Chi finora ha ricordato l’evento, ha evidenziato soprattutto due aspetti. Da un lato lo smacco tecnologico subito dall’America di Kennedy, che si vedeva d’un balzo superata dalla superpotenza avversaria nella delicata e propagandisticamente decisiva sfida per la conquista del cosmo. Dall’altro il salto tecnologico che la gara spaziale ha prodotto e le cui ricadute sarebbero arrivate fin nella nostra vita quotidiana. Poco o niente si è invece detto sulla valenza interna all’Urss dell’impresa di Gagarin.
Al potere c’è l’imprevedibile Nikita Chrušcëv, colui che aveva (almeno parzialmente) denunciato gli orrori di Stalin e, anche per questo, aveva vinto la gara per la successione al dittatore georgiano. Nel congresso del partito comunista sovietico, svoltosi nel 1959, Chrušcëv aveva solennemente annunciato che l’Urss era in procinto di realizzare il comunismo; la grande marcia verso il sol dell’avvenire, iniziata da Lenin nel 1917, stava per raggiungere la meta. E se il comunismo è il migliore dei mondi possibili, ciò significa che il Paese che lo realizza deve per forza essere il più avanzato di tutti.
Il giro attorno alla terra di un cosmonauta figlio di povera gente e formato nelle scuole sovietiche sta a dimostrare che l’homo sovieticus è il primo esemplare di una umanità superiore, cui non è precluso nessun successo scientifico o tecnologico. Ne consegue, nel ragionamento politico-propagandistico di Chrušcëv, che ogni retaggio del passato deve essere abbandonato. Soprattutto quello della religione, che si suppone essere il peggior nemico della scienza.
Infatti, proprio gli anni dei successi spaziali sono quelli in cui in Urss viene lanciata una massiccia campagna antireligiosa. Corsi di ateismo sono resi obbligatori in molte facoltà, migliaia di conferenzieri raggiungono i più sperduti villaggi per convincere e costringere il popolo ad abbandonare ogni fede, un numero sterminato di opuscoli ateistici invade scuole, librerie, edicole, viene pure fondata una aggressiva rivista ad hoc: Nauka i religija (Scienza e religione) con elevatissima tiratura. Il viaggio cosmico di Gagarin è una prelibata occasione di propaganda contro la religione. La frase del cosmonauta più citata dai giornali sovietici è infatti: «Sono stato in cielo e Dio non l’ho visto». Problema risolto: Dio non c’è.
Invece, il problema non era risolto. Proprio in quegli anni la rivista dei giovani comunisti ha svolto un’inchiesta sulla felicità. L’ipotesi di partenza era, ovviamente, dimostrare che la felicità è il comunismo che sta per realizzarsi. Ma un giovane di nome Vladimir Sasov ha avuto il coraggio di scrivere: «A me interessa questo problema: perché vive l’uomo? Mangia, dorme, lavora; ma a che scopo egli fa tutto questo? Come cambiare la vita? Come trovare lo scopo?».
Colui che Gagarin non aveva visto in cielo bussava, sulla terra, alla porta di quel ragazzo. E a quella di molti suoi coetanei, che negli anni successivi avrebbero dato vita a un profondo movimento di dissenso nei confronti dell’ideologia materialistica dominante. L’Urss perse la sua battaglia tecnologica e, alla fine, crollò. La domanda di tutti i Vladimir resta.
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IL CASO/ Mario Mauro: così la piccola Tunisia affonda l’Europa di Mario Mauro - martedì 12 aprile 2011 – il sussidiario.net
Secondo la Commissiaria Cecilia Malmström la direttiva 55 del 2001 sulla protezione temporanea per i profughi dai paesi del Nord Africa “può essere utilizzata, ma non siamo ancora in una situazione tale da far scattare il meccanismo”. Un commento, quello della Commissaria, esternato ieri a margine della riunione del Consiglio dei ministri degli Affari interni dell’Unione europea, che di fatto non chiude le porte alla proposta italiana avanzata dal ministro Maroni, ma che non può nulla contro la decisione presa dagli stati membri di non rispondere positivamente all’appello italiano.
La maggioranza dei governi dell’Unione pensa che debbano essere la Tunisia e l’Italia a risolvere il problema all’origine. Silvio Berlusconi e Franco Frattini puntavano molto sull’estensione dell’articolo 5 della direttiva 55, sulla possibilità di concedere la protezione temporanea per un anno agli immigrati e dar loro per un anno lo status dei rifugiati. Non so se le divergenze in atto su un tema così delicato siano più o meno ricomponibili, certo è che il Governo italiano non può e non deve in alcun modo fermare le proprie legittime aspirazioni: l’Italia continuerà con forza a ribadire che il problema immigrazione va risolto politicamente in sede Ue.
Da più parti si cerca di ridurre la questione ad una diatriba prettamente italo-francese. E anche se nelle ultime settimane Parigi ha fatto di tutto per non risultarci simpatica, non è questo il cuore del problema. Come ha spiegato ieri il ministro Frattini, non c’è “un caso italo-francese, ma in tutto e per tutto un caso europeo. Altrimenti si rimette in discussione l’integrazione europea”. Pienamente in linea con quanto dichiarato da Frattini è la posizione del Presidente del gruppo Ppe, il francese Joseph Daul: “Ancora una volta, con i rifugiati che arrivano sulle coste del Sud dell’Italia, l’Europa è di fronte ad una situazione umanitaria drammatica, e alla necessità di gestire in modo degno e responsabile l’afflusso di immigrati clandestini. È evidente che solo una politica europea può essere all’altezza della sfida”.
Vorrei inoltre riflettere sulle parole utilizzate nei giorni scorsi da Silvio Berlusconi: “Se l’Europa non è concreta è meglio dividersi”. Un messaggio che può essere indirizzato sia alle istituzioni europee in quanto tali, sia agli stati membri, che non perdono mai l’occasione di riaffermare la supremazia dei propri interessi particolari a discapito delle dinamiche comunitarie. Se infatti il senso del nostro stare insieme viene puntualmente sconfessato, quale può essere la prospettiva? Come può spiegare la Commissione europea l’assoluta mancanza di coraggio nel prendere decisioni forti che impegnino seriamente tutti quanti nella salvaguardia di un destino comune? Quale alternativa al progetto chiamato Europa unita hanno in mente quegli stati membri che si lavano le mani rispetto a gravissimi problemi che riguardano altri?
Non è la prima volta che la Ue si trova ad affrontare una situazione simile, in quel caso di fronte alle decine di migliaia di cittadini dell’est in fuga dall’implosione dei regimi comunisti l’Europa scelse la strada della risposta politica e non dei cavilli burocratici o di un finto europeismo. Nella mia visione della politica è doveroso cercare di mettere insieme gli ideali con gli interessi. In una visione forse un po’ schematica e fanciullesca delle Istituzioni europee, io credo che le Istituzioni europee rappresentino i nostri ideali e che i nostri governi, per tante ragioni, rappresentino i nostri interessi. C’è una partita da giocare, quindi.
Ciò che mi colpisce è che mi sembra che in alcune circostanze i giocatori della partita degli ideali rinuncino a giocarla. Alcune settimane fa la signora Ashton, quando il Parlamento ha proposto che la Commissione proponesse al Consiglio di riconoscere il Consiglio provvisorio della Libia, ha detto che quello non era il suo mandato. La scorsa settimana in Parlamento il Commissario Malmström, quando avrebbe dovuto fare la proposta al Consiglio di una strategia che renda europea la crisi legata ai flussi migratori, ha detto che rinunciava, perché pensa che in Consiglio non ci sia la maggioranza.
Come fa la squadra degli ideali a vincere la partita se i nostri giocatori rinunciano a tirare in porta magari perché pensano che il portiere sia troppo bravo? Credo che sia questo un punto essenziale per comprendere storicamente il compito cui siamo chiamati. Mi permetto di fare questa osservazione: chi sono i giocatori dell’attacco? Sono le Istituzioni europee: il Parlamento, la Commissione e anche il Presidente Van Rompuy, perché credo che non rappresenti il Consiglio nel senso che ne difende gli interessi, ma che sia l’uomo che può far capire al Consiglio gli ideali sui cui puntare. Barroso, Van Rompuy, Sarkozy, Berlusconi, Merkel: la verità è che gli interessi di tutti saranno davvero difesi solo se prevarrà il metodo dell’unità e non quello della divisione.
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STORIA/ Le lettere di Bernardo a Ermengarda, quando la carità "governa" il mondo
Laura Cioni
martedì 12 aprile 2011
La storia di Ermengarda di Bretagna documenta quanto falsa sia una lettura unicamente misogina del Medioevo, in cui la figura della donna troverebbe risalto solo nella devozione alla Madonna e solo dopo molti secoli di oblio verrebbe idealizzata dall’amore cortese, senza alcun interesse per la realtà concreta della condizione femminile. Nei suoi limiti, la sua vicenda è anche un esempio dell’importanza dell’amicizia depositata nella corrispondenza epistolare: due uomini molto influenti infatti le si rivolgono per lettera e si prendono cura di lei, mostrando una singolare attitudine a comprendere l’animo femminile.
Nata verso la metà dell’XI secolo ad Angers, Ermengarda era figlia del conte d’Angiò e aveva sposato giovanissima il conte di Poitiers; rimasta vedova si era risposata con il duca di Bretagna e durante l’assenza del marito, partito per la Crociata, aveva affiancato il giovane figlio come reggente nel governo delle terre del marito. Il duca era tornato dalla Crociata provato nel corpo e nello spirito e, come spesso accadeva, aveva abdicato e si era ritirato in un monastero.
Decisa a seguirne l’esempio, Ermengarda si rivolge allora al bretone Roberto di Arbrissel, fondatore di Fontevraud, il quale in una lettera - ed è l’unico suo scritto che ci sia pervenuto - piuttosto che incoraggiarla a prendere il velo, la invita a santificare la sua vita di castellana, ad attendere con cura ai suoi doveri senza trascurare la preghiera e le opere di carità. Forse in questa duttilità dolce e insieme esigente, improntata a mitezza e mansuetudine, lontana dalla durezza di regole rigide si trova il motivo dell’efficacia della predicazione di Roberto tra le donne di ogni ceto, dalle nobili alle prostitute; certo in questa lettera è presente una valorizzazione della vita familiare molto moderna per tempi nei quali la cura della spiritualità laicale era ancora ben lontana dall’essere tematizzata.
Ermengarda tuttavia entra a Fontevraud nel 1111, per uscirne alla morte del marito e assumere il ruolo di conciliatrice nella Bretagna sconvolta da intrighi e lotte nobiliari. Ma la nostalgia del chiostro la accompagna e la mette sulle tracce di Bernardo di Chiaravalle, nel cui ricco epistolario si trovano due lettere a lei indirizzate, non facilmente databili né inscrivibili con precisione nella complessa vicenda biografica di Ermengarda.
In un brano della prima egli le si rivolge così: Piacesse a Dio che tu potessi leggere nel mio cuore come su questa pergamena. Vedresti quale profondo amore per te il dito di Dio ha inciso per te nel mio cuore. Un frammento della seconda esprime l’affetto in modo ancora più esplicito: Il mio cuore è colmo di gioia quando sento che il tuo è in pace. Che piacere sarebbe intrattenermi con te di persona e non per lettera. Mi dolgo dei miei impegni quando mi impediscono di vederti e sono così felice quando mi consentono di farlo.
Il tono delle due lettere meraviglia gli esperti, pur abituati all’affettività del santo, che si esprime secondo tutta la gamma dei sentimenti umani, dall’ammirazione alla rampogna, dall’intenso affetto all’ira più viscerale.
Non può sfuggire a nessuno l’attenzione che uno degli uomini più potenti del suo tempo riserva alla sensibilità di una donna forte tanto da governare territori estesi, ma anche combattuta circa la via per perseguire la propria santità.
L’instabilità di Ermengarda non trova pace neppure quando per opera di san Bernardo viene accolta tra le monache cistercensi di Larrey nel 1129. Su invito del fratello Folco, diventato re di Gerusalemme, ella infatti compie un pellegrinaggio in Palestina, di certo non agevole e comunque non contemplato dalla rigida clausura dell’ordine che aveva abbracciato. Al suo ritorno in Bretagna fonda l’abbazia cistercense di Buzay, il cui primo abate è il fratello di san Bernardo. Nel 1147 muore nel suo monastero e viene sepolta accanto alla tomba del secondo marito, esempio quanto mai vivace di una condizione femminile privilegiata e connotata da mutamenti solo in parte dovuti alle circostanze esterne.
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STORIA/ Le lettere di Bernardo a Ermengarda, quando la carità "governa" il mondo di Laura Cioni - martedì 12 aprile 2011 – il sussidiario.net
La storia di Ermengarda di Bretagna documenta quanto falsa sia una lettura unicamente misogina del Medioevo, in cui la figura della donna troverebbe risalto solo nella devozione alla Madonna e solo dopo molti secoli di oblio verrebbe idealizzata dall’amore cortese, senza alcun interesse per la realtà concreta della condizione femminile. Nei suoi limiti, la sua vicenda è anche un esempio dell’importanza dell’amicizia depositata nella corrispondenza epistolare: due uomini molto influenti infatti le si rivolgono per lettera e si prendono cura di lei, mostrando una singolare attitudine a comprendere l’animo femminile.
Nata verso la metà dell’XI secolo ad Angers, Ermengarda era figlia del conte d’Angiò e aveva sposato giovanissima il conte di Poitiers; rimasta vedova si era risposata con il duca di Bretagna e durante l’assenza del marito, partito per la Crociata, aveva affiancato il giovane figlio come reggente nel governo delle terre del marito. Il duca era tornato dalla Crociata provato nel corpo e nello spirito e, come spesso accadeva, aveva abdicato e si era ritirato in un monastero.
Decisa a seguirne l’esempio, Ermengarda si rivolge allora al bretone Roberto di Arbrissel, fondatore di Fontevraud, il quale in una lettera - ed è l’unico suo scritto che ci sia pervenuto - piuttosto che incoraggiarla a prendere il velo, la invita a santificare la sua vita di castellana, ad attendere con cura ai suoi doveri senza trascurare la preghiera e le opere di carità. Forse in questa duttilità dolce e insieme esigente, improntata a mitezza e mansuetudine, lontana dalla durezza di regole rigide si trova il motivo dell’efficacia della predicazione di Roberto tra le donne di ogni ceto, dalle nobili alle prostitute; certo in questa lettera è presente una valorizzazione della vita familiare molto moderna per tempi nei quali la cura della spiritualità laicale era ancora ben lontana dall’essere tematizzata.
Ermengarda tuttavia entra a Fontevraud nel 1111, per uscirne alla morte del marito e assumere il ruolo di conciliatrice nella Bretagna sconvolta da intrighi e lotte nobiliari. Ma la nostalgia del chiostro la accompagna e la mette sulle tracce di Bernardo di Chiaravalle, nel cui ricco epistolario si trovano due lettere a lei indirizzate, non facilmente databili né inscrivibili con precisione nella complessa vicenda biografica di Ermengarda.
In un brano della prima egli le si rivolge così: Piacesse a Dio che tu potessi leggere nel mio cuore come su questa pergamena. Vedresti quale profondo amore per te il dito di Dio ha inciso per te nel mio cuore. Un frammento della seconda esprime l’affetto in modo ancora più esplicito: Il mio cuore è colmo di gioia quando sento che il tuo è in pace. Che piacere sarebbe intrattenermi con te di persona e non per lettera. Mi dolgo dei miei impegni quando mi impediscono di vederti e sono così felice quando mi consentono di farlo.
Il tono delle due lettere meraviglia gli esperti, pur abituati all’affettività del santo, che si esprime secondo tutta la gamma dei sentimenti umani, dall’ammirazione alla rampogna, dall’intenso affetto all’ira più viscerale.
Non può sfuggire a nessuno l’attenzione che uno degli uomini più potenti del suo tempo riserva alla sensibilità di una donna forte tanto da governare territori estesi, ma anche combattuta circa la via per perseguire la propria santità.
L’instabilità di Ermengarda non trova pace neppure quando per opera di san Bernardo viene accolta tra le monache cistercensi di Larrey nel 1129. Su invito del fratello Folco, diventato re di Gerusalemme, ella infatti compie un pellegrinaggio in Palestina, di certo non agevole e comunque non contemplato dalla rigida clausura dell’ordine che aveva abbracciato. Al suo ritorno in Bretagna fonda l’abbazia cistercense di Buzay, il cui primo abate è il fratello di san Bernardo. Nel 1147 muore nel suo monastero e viene sepolta accanto alla tomba del secondo marito, esempio quanto mai vivace di una condizione femminile privilegiata e connotata da mutamenti solo in parte dovuti alle circostanze esterne.
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Avvenire.it, 11 aprila 2011 - Libertà religiosa, Cina: arrestati centinaia di cristiani
Circa 200 cristiani sono stati arrestati dalla polizia, nei distretto di Haidian (nord di Pechino), per essersi dati appuntamento ieri in una piazza pubblica per celebrare la liturgia. E’ la maggior operazione contro cristiani degli ultimi anni. Il timore dei cristiani è che la repressione in atto per impedire una Rivoluzione dei gelsomini in Cina, sia estesa anche ai gruppi religiosi. Come informa Asia News, l'agenzia del Pontificio Istituto Missioni Estere.
I fedeli appartengono alla Chiesa protestante di Shouwang, una delle maggiori chiese domestiche (non riconosciute) del Paese con oltre 1000 membri. Di recente sono stati cacciati dai locali di un ristorante dove tenevano gli incontri: la polizia ha obbligato il padrone del ristorante a espellere i fedeli. Centinaia di poliziotti hanno presidiato sin dal mattino la zona di Zhongguancun e hanno portato via i fedeli appena arrivavano, per partecipare al servizio liturgico fissato per le ore 8.30, caricandoli su pullman in attesa. La liturgia in piazza non era segreta: era stata annunciata dai fedeli su internet.
Sin dalla sera del 9 aprile la polizia ha pure messo agli arresti domiciliari almeno 5 pastori della comunità. La polizia ha arrestato anche un fotografo del New York Times, rilasciato più tardi. Molti cittadini denunciano che le autorità hanno disabilitato le comunicazioni telefoniche cellulari nella zona per ritardare la notizia degli arresti, che, invece, si è subito propagata via internet.
Nel Paese ci sono decine di milioni di cristiani protestanti, in gran parte seguaci di chiese domestiche non registrate. Pechino esige che tutti i fedeli aderiscano al Movimento delle Tre autonomie (insieme dei protestanti controllati dal Partito comunista) ma solo 20 milioni di cristiani sono nella Chiesa di Stato, rispetto agli oltre 50 milioni di fedeli (ma altre fonti dicono che sono oltre 100 milioni) membri di chiese non ufficiali.