1) Avvenire.it, 22 aprile 2011, Morire a cinque anni - La piccola Caterina e il dolore redento
2) Fine vita: senza questa legge, arriva l'eutanasia di Claudio Sartea - 21 aprile 2011
3) L’unica speranza di Francesco Ventorino, sabato 23 aprile 2011, il sussidiario.net
4) Il popolo dei santi di Massimo Camisasca, mercoledì 20 aprile 2011, il sussidiario.net
5) LA RISURREZIONE E' UN FATTO, di Carlo Caffarra* - 23-04-2011, da www.labussolaquotidiana.it
6) LA MEDITAZIONE DI BENEDETTO XVI PER LA VIA CRUCIS AL COLOSSEO - La Croce “è il segno luminoso dell’amore, anzi della vastità dell’amore di Dio"
7) IL VIETNAM STRINGE LA MORSA SUI DISSIDENTI - Arrestati e malmenati attivisti per i diritti umani di Paul De Maeyer
8) La crocifissione e la risurrezione negli inni di Efrem il Siro - Discese dal legno come frutto e salì al cielo come primizia di MANUEL NIN (©L'Osservatore Romano 24 aprile 2011)
9) Avvenire.it, 23 aprile 2011 - VIA CRUCIS - Il Papa: «Le sciagure sono monito, mai castigo divino» di Fabrizio Mastrofini
Avvenire.it, 22 aprile 2011, Morire a cinque anni - La piccola Caterina e il dolore redento
Caterina, cinque anni. Se ne è andata l’altro giorno, il primo della settimana di Pasqua. I suoi genitori l’avevano fortemente voluta, strappata a un destino che sembrava negarne l’esistenza e poi amata e seguita per questi cinque anni. Lunghi e brevi come un lampo. Era lunedì della settimana di Pasqua. Come se Caterina fosse arrivata proprio lì, alle soglie del Grande Teatro, della grande Scena che si sta per svolgere. Come se questa dolce bambina e con lei il coro muto dei nostri morti bellissimi, amatissimi, come se il coro dei colpiti dal dolore, si fossero affacciati qui, alla settimana della Passione e della Morte. E della Resurrezione. Come se Caterina fosse la prima, la avanguardia, insomma, che dal mare di dolore che è il mondo si fosse affacciata alla scena che stiamo tutti per vedere. Se vogliamo guardare. La Scena della passione, della morte.
E della resurrezione.
Caterina e quanti come lei. I suoi genitori. I dolenti del mondo. Noi tutti dolenti del mondo. Possiamo guardare questa scena. Arrivare con Caterina e con gli altri – tutti gli altri che ci vengono in mente e quelli che addirittura non sono in mente di nessuno – e affacciarci alla scena di questa ultima settimana di Gesù. Noi tutti possiamo arrivare qui senza nascondere il dolore e tutte le ferite, le amputazioni, ed esporci all’inizio di questa settimana. E vedere cosa succede. Sì: con tutto quel che ci è successo, vedere cosa succede. La Gran Scena.
La più importante scena del mondo e della storia. Possiamo guardare. Dio sofferente e vincente la morte non è un discorso, ma un fatto che si offre ai nostri fatti.
Caterina è andata avanti, come fanno i bambini, è svicolata tra le nostre gambe. È andata a vedere cosa succede a Gesù. Quella solitudine (come la nostra solitudine) quella pena, la trafittura, lo sperdimento. Come i nostri. E la ingiustizia del dolore. La innocenza. Possiamo vedere tutto quel che ci brucia dentro. Possiamo dalla balaustra, dalla gradinata o da qualsiasi punto del teatro ci troviamo, anche atterrati, anche prostrati sul pavimento possiamo vedere, se vogliamo, tutta la morte di Gesù. E il mistero della sua Resurrezione. Possiamo guardare, non importa se con gli occhi pieni di lacrime. Anche se non vediamo bene. Con i contorni sfocati. Perché cosa ce ne faremmo di un Padre nostro che sei nei cieli, se non viene anche in terra, nella terra dove è passata e piangiamo Caterina, se non venisse qui a impastare il suo pianto con la polvere, quella che ci secca la gola per l’orrore…Cosa ce ne faremmo di un Padre nostro che sei nei cieli se non sapesse cosa vuol dire soffrire come un padre e una madre, e che male fa la trafittura come di chiodi nelle mani, nel cuore… Invece Lui lo sa. La scena è evidente. Il racconto, la storia vera. Possiamo unire il nostro al suo dolore. È l’unica cosa da fare.
L’unica sensata. Perché Lui sa cosa è soffrire, e del peggiore dolore. Lui come noi. Ma Lui è l’unico che sa risorgere. E portare nella vita tutto quello che sembrava conquistato dalla morte. Lui è il Signore. L’unico che ha fatto cantare al poeta: «E morte non avrà dominio».
Possiamo guardare, inizia la settimana, la scena. Si ripete l’unica scena davvero interessante della storia. La grande contesa, la grande vittoria. Caterina si è affacciata alla settimana. Dietro di lei si vedono tutti i nostri dolori del mondo. Come se li portasse lei, e dicesse come fanno i bambini: venite, dai… Lei che ha lo sguardo più chiaro per vedere bene cosa succede. La scena della croce e della Resurrezione. La settimana che ha cambiato la storia, perché non toglie ma cambia anche i nostri dolori.
Davide Rondoni
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Fine vita: senza questa legge, arriva l'eutanasia di Claudio Sartea - 21 aprile 2011
«Lasciatemi morire in pace!»; cosi il triste protagonista della campagna radicale a favore dell'eutanasia sussurra e grida ai suoi interlocutori — cioè a tutti noi, fortemente interpellati dallo spot televisivo che lo ritrae, e ora dalle sue gigantografie per le strade di alcune città. Non è un lieto fine: le storie belle e importanti finiscono sempre bene, quella dell'eutanasia è una storia che finisce male. Non accende luci sul palcoscenico, al contrario, ci butta addosso un nero sipario di tenebre. Cosi,tutto questo insistere sulla liberta, sull'autodeterminazione, sul "se voi non lo volete fare almeno lasciatelo fare agli altri", sul "vivi e lascia vivere" reinterpretato nel macabro "muori o almeno lascia morire", diventa uno di quei casi paradigmatici in cui la libertà è scollegata dalla felicità una richiesta di legalizzazione che, a ben vedere, ci costringe a domandarci se la teorizzata priorità del giusto sul bene,
tame equivoca quanto cara al neutralismo liberale degli ultimi quarantanni, è davvero un auspicabile punto d'arrivo per il diritto e per la politica.
Ma a veniamo ai nostri dibattiti parlamentari, ormai — forse — prossimi alla ripresa. Mentre strade e
giornali si popolano di volti dolenti e tristi, cresce la sensazione che la pressione comunicativa a cui siamo sottoposti per opera dei radicali, i quali colgono l'occasione per incoraggiare i contribuenti a finanziare con il 5x1000 la propria strategia tanatologica, trovi spazio in un'atmosfera che rapidamente si è assuefatta a prese di posizione che anche solo pochi mesi fa nessuno avrebbe osato così esplicite. E' solo che i toni si sono innalzati in vista della decisione finale, oppure nel corso dei lunghi mesi di sfiancante dibattito è andato maturando un diverso sentire?
In realtà, l'opposizione all'approvazione della legge varata nel 2009 dal Senato ha compattato due fronti almeno formalmente estranei; quello pro-eutanasico strillato dei radicali, e un fronte frastagliato ma sempre più convergente di voci di singoli e di gruppi, di politici ed intellettuali, che, muovendo da prospettive ideologicamente spesso assai diverse, si sono ritrovate affiancate nel coro dei dinieghi.
Ciascuna voce ha mostrato di avere specialmente a cuore ora la privacy ora l'autodeterminazione individuale, ora il soft law (la norma "leggera") ora la protesta con la biopolitica come dominio legale dei mondi vitali: anche se non sempre si aveva la sensazione che tali concetti venissero maneggiati con la consapevolezza e ia cura dovute, pure un messaggio era chiaro e cioè che tutte queste voci chiedevano ormai all'unisono la preservazione dello status
quo.
E così arriviamo al Vero cuore del problema, che e tutto qui: questo status quo, che in molti ritengono preferibile
a una legge esplicitamente a favore della vita, consiste di fatto in un sistema di regole che tende a legittimare il suicidio "medicalmente" assistito. Si tratta di un sistema parallelo a quello ufficiale, giacché l'ordinamento giuridico italiano mantiene senza incrinature un meccanismo di tutela della vita terminale e della relazione clinica nella sua triplice "fisiologia" (umana, etica e deontologica): ma è un
sistema informale e ufficioso già molto strutturato, fondato su interpretazioni forzate della Costituzione, e specialmente dell'art. 32, giustificato in base a paralleli normativi con altri ordinamenti ed esperienze internazionali, alimentati da sentenze anche di massimo livello nonché da iniziative amministrative locali come i registri dei testamenti biologici, a suo tempo delegittimati dai ministeri competenti.
Non intendo affermare, come altri hanno fatto con una buona dose di cinismo (e direi anche di violenza nei
confronti di quel minimo di formalismo che il diritto esige per rimanere se stesso), che il nostro ordinamento sia già idoneo a ospitare e giustificare normativamente la prassi eutanasica: è facile anzi dimostrare il contrario. Ma il diritto vivente respira anche al di la della pagine dei codici, ed è proprio per questo che la legge parlamentare (a cui la Costituzione rimanda sempre, con apposite riserve, la disciplina dei fenomeni piu rilevanti per la vita collettiva e i diritti fondamentali delle persone) ha il compito prezioso e insostituibile di orientare la prassi giurisprudenziale, amministrativa, e più in generale sociale, Negargli tale compito, imporle il bavaglio, lasciar fare a giudici ed esecutori, proprio come e avvenuto per anni nell’ambito della fecondazione artificiale, ha lo sgradevole effetto di privare di orientamento i cittadini e soprattutto i medici, per di più su temi letteralmente di vita o di morte. E proprio in questi settori dell'ordinamento che l’attitudine paradigmatica ed educativa della legislazione (negata ormai solo dai ciechi o da quanti perseguono secondi fini inconfessabili), mostra la sua consistenza e rilevanza: e che dopo anni di dibattito e incertezze, cittadini e medici hanno il diritto di ricevere un orientamento normativo chiaro e privo di ambiguita.
L’unica speranza di Francesco Ventorino, sabato 23 aprile 2011, il sussidiario.net
Cormac McCarthy, nel romanzo Non è un paese per vecchi, narra con uno stile veloce e asciutto la storia di tre uomini che nel Texas di oggi, lungo il confine con il Messico, si inseguono spietatamente, spinti da una necessità ineluttabile, in un mondo dove solo gli spietati sopravvivono, nel senso che possono scegliere «in quale ordine abbandonare la propria vita». Uno di loro, lo sceriffo, contempla, alla fine della storia, un abbeveratoio scavato nella pietra. A chi era venuta un’idea del genere, in quel paese senza pace? Certo, quell’uomo “si era messo lì con una mazza e uno scalpello”, e l’abbeveratoio “sarebbe potuto durare diecimila anni”. Perché lo aveva fatto, in che cosa credeva? “Devo dire che l’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una sorta di promessa dentro al cuore. E io non ho certo l’intenzione di mettermi a scavare un abbeveratoio di pietra. Ma mi piacerebbe essere capace di fare quel tipo di promessa. È la cosa che mi piacerebbe più di tutte”.
È possibile fare una promessa all’uomo, cioè ai nostri amici e ai nostri figli, che non abbia come fondamento la resurrezione di Cristo?
Un “teologo laico” (secondo la definizione dello stesso interessato) scriveva su un noto quotidiano: “Se domani si ritrovasse un’urna con le ossa di Gesù di Nazareth, per i miei valori e per la mia visione del mondo non cambierebbe molto […]. Non è perché Gesù è risorto che è il mio maestro. Lo è per le cose che ha detto e per lo stile di vita con cui ha vissuto, per la sua umanità, il suo senso di giustizia E questo dimostra che non è il cristianesimo a salvare gli uomini, come non li salva nessun altra religione. Gli uomini si salvano […] perché sono giusti.(V. Mancuso, Il Foglio, 23 marzo 2008).
Il cristianesimo diviene così un traguardo etico, a cui tendere con le proprie forze. Nobilissimo traguardo. Ci sono ragionevoli speranze di raggiungerlo? Francamente, pare di no. Agli stessi successi, anche morali, manca sempre qualcosa. Ammoniva un testimone non meno “laico”, Italo Calvino, ne Le città invisibili: “Solo se conoscerai il residuo di infelicità che nessuna pietra preziosa arriverà a risarcire, potrai computare l’esatto numero di carati cui il diamante finale deve tendere, e non sballerai i calcoli del tuo progetto dall’inizio”. Con sollecitudine non meno realistica, la Chiesa, nella liturgia della Settimana Santa, parla di un’umanità “sfinita per la sua debolezza mortale”.
La sfida della Pasqua non è un ideale morale. Ma un fatto accaduto realmente: l’inizio di una vita umana diversa nella quale sono rintracciabili i tratti del divino. Di quel diamante finale desiderato in maniera struggente dal cuore. Nella Pasqua, la Chiesa mostra al mondo l’unica “pietra angolare” sulla quale è possibile costruire la nostra speranza.
“La fede cristiana - ha scritto recentemente Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret - sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti. Se si toglie questo, si può, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e sull’uomo, sull’essere dell’uomo e sul suo dover essere - una sorta di concezione religiosa del mondo -, ma la fede cristiana è morta”.
La resurrezione di Cristo, dunque, è l’unica speranza. Ma può essere veramente accaduta? Come facciamo noi uomini di oggi a crederci senza abdicare alle esigenze della nostra ragione? Le prove sono da cercarsi nella vita dei credenti. Sono loro a dare anche oggi testimonianza di Gesù risorto; ponendo nel mondo dei gesti che sarebbero impossibili e assurdi se Lui non fosse vivo e presente.
In questo senso la resurrezione di Gesù avviene ora.
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Il popolo dei santi di Massimo Camisasca, mercoledì 20 aprile 2011, il sussidiario.net
Benedetto XVI conclude il suo ultimo libro su Gesù di Nazaret indicando nelle grandi figure dei santi la visibilità della resurrezione. Attraverso le loro vite, i loro volti trasfigurati (come non pensare al corpo di Giovanni Paolo II, soprattutto durante gli ultimi anni di vita, attraversati dal paradosso di una grande fragilità unita ad una forza espressiva eccezionale!), le loro opere, le loro parole siamo catturati dentro l’esperienza di Gesù risorto.
I santi non sono solo coloro che la Chiesa riconosce come tali con atto formale. Sono intorno a noi, camminano sulle nostre strade, ci parlano. Insieme formano quel popolo che è la Chiesa, miracolosamente unito, pur nelle difficoltà delle invidie reciproche, dei malintesi, dei peccati più gravi e ripugnanti.
L’evento della resurrezione si rende accessibile a noi in «un presente che ci provoca e percuote», come disse qualche anno fa don Giussani. Esiste su questa terra un popolo di gente che cammina verso la santità, che accetta di cambiare, di lasciarsi plasmare dal dono della fede. Sono persone come noi, peccatori come noi, ma portatori di speranza. Attraverso la loro testimonianza sperimentiamo la vicinanza di Dio, comprendiamo un po’ di più che ogni istante può essere un passo verso il Bene e che ciò che è veramente definitivo non è il male che compiamo, ma, dentro i nostri limiti, l’abbraccio luminoso del Cristo risorto.
Alla luce di queste esperienze, possiamo comprendere che la liturgia non è soltanto un succedersi di momenti, lungo il corso dell’anno, che ripresentano le tappe fondamentali della vita di Gesù e che ci permettono di entrare nella sua esperienza. Essa ci rivela soprattutto la dimensione definitiva della nostra esistenza, ciò per cui siamo fatti.
Vidi ritto in mezzo al trono, circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come immolato (Ap 5,6). Questa splendida immagine dell’Apocalisse di san Giovanni, l’Agnello in piedi e trafitto allo stesso tempo, ripresenta i tratti del corpo di Cristo così come appare nelle sue manifestazioni dopo la resurrezione: sereno e con i segni della sua passione. Il senso di tutta la storia, degli avvenimenti che accadono attorno a noi e nel mondo, è racchiuso in questa immagine.
Attraverso il dono dello Spirito, il corpo di Cristo ci raggiunge oggi chiamandoci, da una parte, a partecipare della sua passione: anche noi siamo trafitti dalle divisioni che ci allontanano, dai tradimenti degli amici, dalle catastrofi naturali che colpiscono i nostri fratelli… Dall’altra il Risorto continua la sua esperienza nelle nostre vite donandoci la forza di restare “in piedi” di fronte alle prove, di affrontare le sfide quotidiane portando negli occhi la luce dell’immortalità.
Questi due tratti del corpo risorto di Cristo, luminoso e al tempo stesso piagato, non possono essere disgiunti. La vita dell’uomo su questa terra è partecipazione alla resurrezione di Cristo e alla sua croce, gioia e dolore, pena e letizia. Sono un solo mistero, come appare chiaro in ogni amore, dove passione e gloria si uniscono e quasi si confondono.
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LA RISURREZIONE E' UN FATTO, di Carlo Caffarra* - 23-04-2011, da www.labussolaquotidiana.it
«Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato». La Chiesa è nata dalla costatazione di un fatto: Gesù crocifisso morto e sepolto, è risuscitato. E la comunità cristiana continua ad essere costruita sul fondamento di questo fatto. Essa non è raccolta primariamente attorno all’insegnamento religioso di un maestro; non è in primo luogo la comunità di coloro che accettano di vivere secondo un determinato codice morale. Più semplicemente, è la comunità di coloro che credono alla narrazione del seguente fatto: Gesù è risorto.
È un fatto realmente accaduto nella storia - un fatto storico - di cui gli Apostoli sono testimoni e non certo gli inventori. È un fatto: non un mito o un simbolo creato per comunicarci significati religiosi, o per stimolarci ad impegni etici.
Nello stesso tempo però la risurrezione di Gesù non è stato un semplice ritorno alla vita che viveva prima della morte, alla sua vita terrena. Ma nella sua risurrezione, Cristo anche col suo corpo è entrato nella gloria dell’esistenza del Padre e posto nella sua stessa condizione. Come di dice l’apostolo Paolo, Egli «si trova … assiso alla destra di Dio». L’umanità del Verbo incarnato, il suo corpo crocefisso e morto è divenuto partecipe della stessa vita di Dio.
Riflettiamo bene su questo fatto. Nella sua umanità in tutto simile alla nostra, nella sua carne fragile e mortale come la nostra, Gesù è divenuto partecipe della vita eterna di Dio: questo è ciò che è accaduto nella risurrezione. È dunque la più grande “trasformazione” mai accaduta, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova. Non per niente durante questi giorni pasquali sentirete spesso ripetere: “Cristo risorto non muore più; la morte non avrà più nessun dominio su di lui”.
L’apostolo Paolo insegna che esiste una condivisione vera e propria da parte dell’uomo della condizione di Cristo risorto. Con Cristo ed in Cristo siamo resi capaci anche noi, così come tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo, e siamo chiamati ad entrare e a compiere quel “salto” decisivo dentro alla dimensione di vita nuova di cui Cristo risorto è sorgente e causa.
Con la sua risurrezione Egli ha dato inizio ad una nuova umanità, ad un modo nuovo di essere e di vivere; una novità che penetra continuamente dentro tutto il mondo del peccato, lo purifica e lo trasforma, e lo attira a Sé.
Questa purificazione e trasfigurazione avviene concretamente mediante la Chiesa: mediante la fede alla predicazione del Vangelo ed i sacramenti pasquali del Battesimo e dell’Eucarestia. La presenza della Chiesa impregna la vita dell’uomo e l’universo intero della potenza trasformante del Signore risorto, comunicando a chi crede la stessa vita divina.
Pertanto, «la Chiesa può, così, essere concepita come il “Corpo di Cristo” e l’organo congeniale attraverso cui il Risorto esercita la sua signoria e dispiega la sua forza vitale. Essa diventa, in questo senso, la comunità di Pasqua nel mondo» [L. Scheffczyk].
È questo che la Chiesa porta nel mondo: la forza di Cristo risorto, che trasforma la nostra povera umanità devastata dal peccato. Ed è questa la sorgente da cui scaturisce la capacità, il dovere ed il diritto della Chiesa di educare, e la sua legittimazione a farlo.
Dal fatto della Risurrezione di Gesù, che dispiega la sua forza trasformante attraverso la Chiesa, nasce il bisogno per il credente di testimoniare dentro ogni ambito della vita la signoria del Risorto: «e ci ha ordinato di annunciare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio».
Oggi più che mai, i discepoli del Signore sono chiamati a fuggire da un rinunciatario ripiegamento in se stessi e a collegare continuamente la proposta evangelica coi bisogni più profondi del cuore umano. E le nostre città oggi hanno particolare bisogno di testimoni del Signore risorto, perché hanno bisogno di ritrovare quel coraggio di esistere senza del quale non possono non avviarsi sul viale del tramonto, e non congedarsi dalla storia.
La Risurrezione del Signore è la grande forza che Dio, ricco di misericordia, ha immesso nella storia di ogni uomo e di tutta l’umanità. È la risurrezione corporea di Gesù che dà all’uomo il diritto di sperare: sempre e comunque.
* Arcivescovo di Bologna
LA MEDITAZIONE DI BENEDETTO XVI PER LA VIA CRUCIS AL COLOSSEO - La Croce “è il segno luminoso dell’amore, anzi della vastità dell’amore di Dio"
ROMA, venerdì, 22 aprile 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della meditazione tenuta questo venerdì da Benedetto XVI al termine della Via Crucis al Colosseo.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
questa notte abbiamo accompagnato nella fede Gesù che percorre l’ultimo tratto del suo cammino terreno, il tratto più doloroso, quello del Calvario. Abbiamo ascoltato il clamore della folla, le parole della condanna, la derisione dei soldati, il pianto della Vergine Maria e delle donne. Ora siamo immersi nel silenzio di questa notte, nel silenzio della croce, nel silenzio della morte. E’ un silenzio che porta in sé il peso del dolore dell’uomo rifiutato, oppresso, schiacciato, il peso del peccato che ne sfigura il volto, il peso del male. Questa notte abbiamo rivissuto, nel profondo del nostro cuore, il dramma di Gesù, carico del dolore, del male, del peccato dell’uomo.
Che cosa rimane ora davanti ai nostri occhi? Rimane un Crocifisso; una Croce innalzata sul Golgota, una Croce che sembra segnare la sconfitta definitiva di Colui che aveva portato la luce a chi era immerso nel buio, di Colui che aveva parlato della forza del perdono e della misericordia, che aveva invitato a credere nell’amore infinito di Dio per ogni persona umana. Disprezzato e reietto dagli uomini, davanti a noi sta l’“uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia” (Is 53,3).
Ma guardiamo bene quell’uomo crocifisso tra la terra e il Cielo, contempliamolo con uno sguardo più profondo, e scopriremo che la Croce non è il segno della vittoria della morte, del peccato, del male ma è il segno luminoso dell’amore, anzi della vastità dell’amore di Dio, di ciò che non avremmo mai potuto chiedere, immaginare o sperare: Dio si è piegato su di noi, si è abbassato fino a giungere nell’angolo più buio della nostra vita per tenderci la mano e tirarci a sé, portarci fino a Lui. La Croce ci parla dell’amore supremo di Dio e ci invita a rinnovare, oggi, la nostra fede nella potenza di questo amore, a credere che in ogni situazione della nostra vita, della storia, del mondo, Dio è capace di vincere la morte, il peccato, il male, e di donarci una vita nuova, risorta. Nella morte in croce del Figlio di Dio, c’è il germe di una nuova speranza di vita, come il chicco che muore dentro la terra.
In questa notte carica di silenzio, carica di speranza, risuona l’invito che Dio ci rivolge attraverso le parole di sant’Agostino: “Abbiate fede! Voi verrete da me e gusterete i beni della mia mensa, com'è vero che io non ho ricusato d'assaporare i mali della mensa vostra […] Vi ho promesso la mia vita […] Come anticipo vi ho elargito la mia morte, quasi a dirvi: Ecco, io vi invito a partecipare della mia vita […] È una vita dove nessuno muore, una vita veramente beata, che offre un cibo incorruttibile, un cibo che ristora e mai vien meno. La meta a cui vi invito, ecco [...] è l'amicizia con il Padre e lo Spirito Santo, è la cena eterna, è la comunione con me […] è partecipare della mia vita” (cfr Discorso 231, 5).
Fissiamo il nostro sguardo su Gesù Crocifisso e chiediamo nella preghiera: Illumina, Signore, il nostro cuore, perché possiamo seguirti sul cammino della Croce, fa’ morire in noi l’“uomo vecchio”, legato all’egoismo, al male, al peccato, rendici “uomini nuovi”, uomini e donne santi, trasformati e animati dal tuo amore.
IL VIETNAM STRINGE LA MORSA SUI DISSIDENTI - Arrestati e malmenati attivisti per i diritti umani di Paul De Maeyer
ROMA, giovedì, 21 aprile 2011 (ZENIT.org).- Forse non siamo ancora ai livelli della Cina, ma quando si tratta della repressione ai danni dei dissidenti o delle voci critiche al regime, anche il Vietnam non scherza. Basta ad esempio voler seguire fuori dall'aula del tribunale il processo contro un altro dissidente per essere arrestati a propria volta.
Ed è infatti quello che è capitato a due attivisti per i diritti umani - l'avvocato cattolico Le Quoc Quan e il medico Pham Hong Son, un non cattolico - quando assieme ad altri simpatizzanti, tra cui anche numerosi cattolici, hanno voluto assistere la mattina del 4 aprile nella capitale Hanoi al processo davanti al Tribunale popolare contro un altro noto avvocato e dissidente, il cinquantatreenne Cu Huy Ha Vu. Quest'ultimo - figlio del noto poeta Cu Huy Can, molto legato al "padre" della Rivoluzione vietnamita, Ho Chi Minh - è stato condannato lo stesso giorno dal giudice Nguyen Huu Chinh a sette anni di carcere seguiti da tre anni di arresti domiciliari "per propaganda antigovernativa". Vu, che in passato aveva difeso vari dissidenti (anche cattolici), aveva chiesto ad esempio la fine del sistema monopartitico nel Paese.
Come riportato dall'agenzia AsiaNews (5 aprile), a finire in manette sono stati non solo Le Quoc Quan e Pham Hong Son. La polizia ha arrestato almeno 29 cattolici, tra cui Paulus Le Son, un blogger che scrive anche sul sito Internet dei padri redentoristi, e John Nguyen Van Tam, leader di un gruppo studentesco cattolico. La polizia ha agito del resto in modo brutale: gli arrestati sono stati malmenati dagli agenti, che hanno preso a botte anche chi cercava di venire in loro soccorso. "La polizia lo ha catturato e ha picchiato chiunque cercava di difenderlo. Hanno usato i bastoni per stordire una donna che ha rischiato la vita nel tentativo di allontanare il legale", così ha raccontato nei giorni successivi un testimone, fratel Nguyen Tang (AsiaNews, 11 aprile).
In particolare l'arresto di Le Quoc Quan ha destato un'ondata di indignazione nella comunità cattolica del Vietnam, la quale ha reagito alla notizia diffusa dall'Associazione dei giovani cattolici della diocesi di Vinh con una grande mobilitazione ed una raffica di iniziative a favore dell'avvocato: lettere di protesta, comunicati, assemblee e veglie di preghiere. Secondo quanto riferito da Églises d'Asie (8 aprile), la più spettacolare manifestazione di solidarietà nei confronti dell'attivista si è svolta la sera del 10 aprile nella chiesa della parrocchia di Thai Ha, a Hanoi, cioè la stessa che negli anni scorsi è stata al centro di un duro braccio di ferro con le autorità per la restituzione di terreni espropriati alla Chiesa. L'evento, a cui hanno partecipato più di 4.000 cattolici, è stato organizzato dall'associazione Doanh Tri cong Giao (Movimento degli intellettuali e degli imprenditori cattolici), di cui l'attivista è uno dei responsabili.
Molto attiva è stata la diocesi di Vinh (nella parte settentrionale del Paese), che con 500.000 cattolici e decine di migliaia di fedeli sparsi in tutto il mondo è una delle più importanti ed "unite" del Vietnam. Originario proprio di Vinh, Le Quoc Quan è membro della Commissione "Giustizia e Pace" locale. Nell'ambito di un colloquio organizzato dalla Commissione nazionale "Giustizia e Pace", l'attivista dovrebbe pronunciare il 27 maggio prossimo a Ho Chi Minh City (ex Saigon) una conferenza intitolata "La giustizia e la pace nel contesto della società vietnamita", come rivelato sempre da Églises d'Asie. Proprio la comunità dei cattolici di Vinh residenti nella capitale Hanoi ha pubblicato due comunicati per denunciare l'arbitrarietà della detenzione di Le Quoc Quan.
La mobilitazione ha sortito l'effetto desiderato. Le Quoc Quan e il medico Pham Hong Son sono stati scarcerati la sera di mercoledì 13 aprile. Come ribadito da AsiaNews (14 aprile), il rilascio, annunciato da Le Quoc Quan stesso ad un fratello durante una conversazione telefonica, è avvenuto poche ore dopo un incontro tra l'arcivescovo di Hanoi, monsignor Peter Nguyen Van Nhon, e il vescovo di Vinh, monsignor Paul Nguyen Thai Hop, con una delegazione del ministro della Pubblica sicurezza, durante il quale i presuli avevano chiesto l'immediata liberazione come precondizione per ulteriori colloqui. Mentre subito dopo la loro liberazione gli attivisti si sono recati con le loro mogli in varie chiese della capitale per ringraziare la comunità cattolica, per il portavoce del movimento oppositore Viet Tan (Vietnam Reform Party, con base negli USA), Duy Hoang, il rilascio dovrebbe "servire come precedente che i vietnamiti hanno il diritto di riunirsi pacificamente, persino fuori dalle aule dei processi politici" (Radio Free Asia, 13 aprile).
Quando si tratta della libertà di religione, la repressione colpisce non solo i singoli dissidenti, come ad esempio il sacerdote Nguyen Van Ly, o alcune parrocchie, come quella di Thai Ha appunto, ma anche intere comunità. Lo dimostra un nuovo rapporto (1) della nota organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch (HRW). Pubblicato il 30 marzo scorso sotto il titolo "Montagnard Christians in Vietnam: A Case Study in Religious Repression", il documento denuncia la continua persecuzione religiosa nei confronti dei "Montagnards" (montanari), cioè la popolazione aborigena della regione degli Altipiani, lungo il confine con la Cambogia e il Laos.
Fra i Montagnards, che si autodefiniscono "Degar" (figli delle montagne) ma vengono chiamati spregiativamente "moi" (selvaggi) in vietnamita, il cristianesimo è molto diffuso. Molti appartengono però a chiese protestanti indipendenti (le cosiddette "chiese domestiche" o "House churches"), particolarmente malviste dal governo comunista di Hanoi, che accetta solo comunità affiliate alla Chiesa protestante riconosciuta, cioè la Southern Evangelical Church of Vietnam (SECV).
La persecuzione nei confronti dei "montanari" è stata descritta come "dura" e "sistematica" da Phil Robertson, vice direttore per l'Asia di HRW, che ha presentato e commentato il rapporto (Radio Free Asia, 30 marzo). Dalla ricerca emerge che nel solo 2010 più di 70 Montagnards sono stati arrestati e che dal 2001 ben 25 sono morti in carcere o in detenzione. I "montanari" attualmente dietro le sbarre per motivi legati alla "sicurezza nazionale" sono almeno 250. Per questo motivo, l'organizzazione ha chiesto agli USA di reinserire il Vietnam nella lista dei "Paesi di particolare preoccupazione" (CPC in acronimo inglese) per le continue violazioni delle libertà di religione, da cui era stato tolto nel 2006. Secondo HRW, Hanoi cerca ad esempio di costringere i Montagnards ad abbandonare la loro fede. Non mancano inoltre le notizie di torture, con scosse elettriche o i tentativi di rompere i timpani con colpi sulle orecchie.
La pressione sui Montagnards non si limita al Vietnam, ma si presenta anche nella vicina Cambogia, dove le autorità di Phnom Penh hanno deciso nel febbraio scorso di chiudere un campo profughi delle Nazioni Unite, che accoglieva Montagnards fuggiti dal Vietnam. Mentre la mossa ha suscitato la preoccupazione di HRW - l'organismo teme infatti che i rifugiati verrano rispediti in patria -, i responsabili del Jesuit Refugees Service (JRS) hanno accolto favorevolmente la chiusura. Il campo non era altro che "l'equivalente di un centro di detenzione", così hanno detto (BBC, 15 febbraio).
Dal canto suo, la diocesi cattolica di Kontum, la quale include le province di Gia Lai e di Kontum, dove si concentrano le minoranze etniche, ha lanciato di recente una serie di iniziative a favore dei Montagnards. Come ha raccontato un sacerdote ad AsiaNews (7 febbraio), molti giovani sacerdoti sono stati mandati nelle zone più remote della diocesi e le suore domenicane hanno fondato ad esempio sei nuovi ostelli per accogliere orfani di diverse etnie. Più a sud, anche la diocesi di Ban Me Thuot sta rafforzando il suo impegno pastorale e sociale tra i Montagnards. Ad annunciarlo era stato il nuovo vescovo della diocesi, monsignor Vincent Nguyen Van Ban, in occasione della sua consacrazione avvenuta nel maggio del 2009.
La questione della libertà di religione e dei rapporti fra Chiesa e Stato sarà senz'altro uno dei temi che domineranno la prima visita al Paese di monsignor Leopoldo Girelli, nunzio a Singapore, nominato il 13 gennaio scorso da Papa Benedetto XVI rappresentante non residente in Vietnam. Arrivato lunedì 18 aprile a Hanoi, il diplomatico vaticano celebrerà la Pasqua nella capitale e parteciperà anche all’incontro biennale della Conferenza episcopale vietnamita, in programma a Ho Chi Minh City (Saigon) dal 25 al 28 aprile. Prima di ripartire per Singapore il 2 maggio, il presule visiterà anche varie diocesi nel sud del Paese. Secondo quanto fatto sapere da AsiaNews (21 aprile), la nomina di monsignor Girelli è il primo risultato concreto dei negoziati in corso fra il Vaticano e il governo vietnamita. Al suo arrivo all'arcivescovado di Hanoi, il presule sembra aver ricevuto una lettera da alcuni fedeli, di cui si ignora tuttavia il contenuto.
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scaricabile all'indirizzo web: http://www.hrw.org/sites/default/files/reports/vietnam0311Web.pdf
La crocifissione e la risurrezione negli inni di Efrem il Siro - Discese dal legno come frutto e salì al cielo come primizia di MANUEL NIN (©L'Osservatore Romano 24 aprile 2011)
Efrem il Siro, morto nel 373, canta il mistero della nostra salvezza in 35 inni pasquali che trattano gli azzimi, la crocifissione e la risurrezione. Nell'ottavo inno sulla crocifissione sono contemplati i luoghi e gli strumenti legati alla passione di Cristo, ognuno acclamato "beato". Il giardino del Getsemani è messo in parallelo col giardino dell'Eden: "Beato sei tu, luogo, che fosti degno di quel sudore del Figlio che su di te cadde. Alla terra mescolò il suo sudore per allontanare il sudore di Adamo. Beata la terra, che egli profumò con il suo sudore e che malata fu guarita".
L'Eden è presentato come il luogo della volontà divisa tra il precetto di Dio e l'astuzia del serpente, che nel Getsemani si ricompone: "Beato sei tu, luogo, perché hai fatto gioire il giardino delle delizie con le tue preghiere. In esso era divisa la volontà di Adamo verso il suo creatore. Nel giardino Gesù entrò, pregò e ricompose la volontà che si era divisa nel giardino e disse: Non la mia ma la tua volontà!".
Beato è dichiarato anche il Golgota: "Beato sei anche tu, o Golgota! Il cielo ha invidiato la tua piccolezza. Non quando il Signore se ne stava lassù nel cielo avvenne la riconciliazione. È su di te che fu saldato il nostro debito. È partendo da te che il ladrone aprì l'Eden. Colui che fu ucciso su di te mi ha salvato". E il buon ladrone è beato perché condotto nel paradiso dal Signore stesso.
Molto bella è anche l'immagine, per contrasto, tra coloro che tradirono (Giuda), negarono (Pietro) e fuggirono (i discepoli) e colui che dall'alto della croce (il ladrone) lo annunzia, come se Efrem volesse sottolineare che sulla croce il ladrone diventa apostolo: "Beato anche tu, ladrone, perché a causa della tua morte la Vita ti ha incontrato. Il nostro Signore ti ha preso e adagiato nell'Eden. Giuda tradì con inganno, anche Simone rinnegò e i discepoli fuggendo si nascosero; tu però lo hai annunziato".
Nello stesso inno Efrem accosta Giuseppe di Arimatea allo sposo di Maria. Il ruolo di costui nell'accogliere il Bambino neonato, nel fasciarlo, nel vederlo schiudere gli occhi, diventa in qualche modo il ruolo dell'altro Giuseppe verso Cristo calato dalla croce: "Beato sei tu, che hai lo stesso nome di Giuseppe il giusto, perché avvolgesti e seppellisti il Vivente defunto; chiudesti gli occhi al Vigilante addormentato che si addormentò e spogliò lo sheol".
Beato è anche il sepolcro, grembo che rinchiude per sempre la morte: "Beato sei anche tu, sepolcro unico, poiché la luce unigenita sorse in te. Dentro di te fu vinta la morte orgogliosa, che in te il Vivente morto ha cacciato via. Il sepolcro e il giardino sono simbolo dell'Eden nel quale Adamo morì di una morte invisibile. Il Vivente sepolto che risuscitò nel giardino risollevò colui che era caduto nel giardino".
Nel primo inno sulla Risurrezione canta il mistero della salvezza: "Volò e discese quel Pastore di tutti: cercò Adamo pecora smarrita, sulle proprie spalle la portò e salì". Efrem accosta il grembo del Padre e quello di Maria e dei credenti, gravidi del Verbo di Dio: "Il Verbo del Padre venne dal suo grembo e rivestì il corpo in un altro grembo. Da grembo a grembo egli procedette e i grembi casti furono ripieni di lui. Benedetto colui che prese dimora in noi!".
Il santo poeta sottolinea la coerenza di tutto il mistero della salvezza fino all'ascensione in cielo: "Dall'alto fluì come fiume e da Maria come una radice. Dal legno discese come frutto e salì al cielo come primizia. Dall'alto discese come Signore e dal ventre uscì come servo. Si inginocchiò la morte davanti a lui nello sheol e alla sua risurrezione la vita lo adorò".
Infine, l'incarnazione è vista come l'avvicinarsi di Cristo verso l'umanità debole e malata: "Gli impuri non aborrì e i peccatori non schivò. Degli innocenti gioì molto e molto desiderò i semplici". Tutta la redenzione è nel suo farsi vicino agli uomini per portarli alla sua gloria divina: "Nel fiume lo annoverarono tra i battezzandi, e nel mare lo contarono tra i dormienti. Sul legno come ucciso e nel sepolcro come un cadavere. Chi per noi, Signore, come te? Il Grande che si fece piccolo, il Vigilante che si addormentò, il Puro che fu battezzato, il Vivente che perì, il Re disprezzato per dare a tutti onore".
Avvenire.it, 23 aprile 2011 - VIA CRUCIS - Il Papa: «Le sciagure sono monito, mai castigo divino» di Fabrizio Mastrofini
Dio indica all’uomo la via della conversione e della salvezza; la morte di Gesù testimonia il suo amore per l’umanità e i martiri di tutti i tempi comunicano la fondatezza della speranza cristiana. Su questi registri padre Raniero Cantalamessa, cappuccino, predicatore della Casa Pontificia, ha svolto la sua meditazione durante la celebrazione della Passione del Signore nel Venerdì Santo, presieduta dal Papa nella Basilica Vaticana. In questo giorno la memoria del sacrificio di Gesù in croce si svolge secondo una liturgia silenziosa, di toccante meditazione.
La croce, posta al centro della Basilica, ha orientato lo sguardo dei fedeli e padre Cantalamessa ha concentrato la sua omelia sul significato della morte sulla croce del Figlio di Dio. La croce, ha notato, «è il sì di amore di Dio verso il mondo». Ma come spiegare allora il dolore, il male, le tante sciagure, comprese quelle recenti in Giappone? Secondo padre Cantalamessa è il «tutto» della fede a mostrare la risposta. Gesù è stato uomo fino in fondo, fino alla morte in croce dopo essere stato torturato e deriso. Gesù «ha bevuto il calice amaro della passione. Non può essere dunque avvelenato il dolore umano, non può essere solo negatività, perdita, assurdo, se Dio stesso ha scelto di assaporarlo. In fondo al calice ci deve essere una perla. Il nome della perla lo conosciamo: Risurrezione!».
La Risurrezione ci consente di non cedere alla disperazione e al dolore. «Se la corsa per la vita finisse quaggiù, ci sarebbe davvero da disperarsi al pensiero dei milioni e forse miliardi di esseri umani che partono svantaggiati. Ma non è così». Dopo Gesù la fiaccola della testimonianza cristiana è stata portata alta dai martiri. Nell’ultima parte della sua predica padre Cantalamessa ha notato che nel mondo della globalizzazione il dolore e le sciagure che avvengono in una parte del mondo riverberano su tutto il pianeta. E la domanda di Giobbe sul significato del dolore ha bisogno di una risposta. «Dobbiamo però raccogliere anche l’insegnamento che c’è in eventi come questo.
Terremoti, uragani e altre sciagure che colpiscono insieme colpevoli e innocenti non sono mai un castigo di Dio. Dire il contrario, significa offendere Dio e gli uomini. Sono, però, un ammonimento: in questo caso, l’ammonimento a non illuderci che basteranno la scienza e la tecnica a salvarci. Se non sapremo imporci dei limiti, possono diventare, proprio esse, lo stiamo vedendo, la minaccia più grave di tutte». I credenti sanno che Dio può salvare tutta l’umanità perché lo ha già fatto con il sacrificio di Cristo.