1) LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 03.04.2011
2) Il terremoto e Dio: unde malum? Di Francesco Agnoli - 01/04/2011 - Religione – da http://www.libertaepersona.org
3) I dubbi di Michele Aramini/Una legge "giusta"? di Giacomo Rocchi - http://veritaevita.blogspot.com/
4) Graham Green, il giallo di uno scrittore ignorato di Andrea Monda, 02-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
6) Avvenire.it, 2 aprile 2011 - La gazzarra è il problema, la politica di più - Il teatro c'è dateci la storia di Davide Rondoni
7) A Parigi si è disputato su Dio, ma prima ancora sull'uomo - Il dirompente intervento di Fabrice Hadjadj contro l'ideologia eugenista dei padri fondatori dell'UNESCO. Peccato che di quanto si è detto al "Cortile dei gentili" si è saputo troppo poco. Grande iniziativa, ma male pubblicizzata di Sandro Magister - http://chiesa.espresso.repubblica.it/
8) «Io, surfista senza un braccio vi racconto la mia fede» di Raffaella Frullone, 04-04-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
9) EDITORIALE - Macerie ideologiche di Pigi Colognesi - lunedì 4 aprile 2011 – ilsussidiario.net
10) CULTURA - IDEE/ Sloterdijk, il "nipotino" di Nietzsche che vuol rifare il Superuomo di Antonio Allegra - lunedì 4 aprile 2011 – il sussidiario.net
11) IL CASO/ Il dramma di Wadil: una famiglia cattolica lo vuole ma i genitori musulmani si ribellano... - Andrea Avveduto - lunedì 4 aprile 2011 – il sussidiario.net
12) Ma le neuroscienze sono davvero scientifiche? di Giampaolo Ghilardi, 04-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it/
LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 03.04.2011
Alle ore 12 di oggi, IV Domenica di Quaresima, il Santo Padre Benedetto XVI si affaccia alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare l’Angelus con i fedeli ed i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro per il consueto appuntamento domenicale.
Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:
PRIMA DELL’ANGELUS
Cari fratelli e sorelle!
L’itinerario quaresimale che stiamo vivendo è un particolare tempo di grazia, durante il quale possiamo sperimentare il dono della benevolenza del Signore nei nostri confronti. La liturgia di questa domenica, denominata "Laetare", invita a rallegrarci, a gioire, così come proclama l’antifona d’ingresso della celebrazione eucaristica: "Rallegrati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, riunitevi. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione" (cfr Is 66,10-11).
Qual è la ragione profonda di questa gioia? Ce lo dice il Vangelo odierno, nel quale Gesù guarisce un uomo cieco dalla nascita. La domanda che il Signore Gesù rivolge a colui che era stato cieco costituisce il culmine del racconto: "Tu credi nel Figlio dell’uomo?" (Gv 9,35). Quell’uomo riconosce il segno operato da Gesù e passa dalla luce degli occhi alla luce della fede: "Credo, Signore!" (Gv 9,38).
È da evidenziare come una persona semplice e sincera, in modo graduale, compie un cammino di fede: in un primo momento incontra Gesù come un "uomo" tra gli altri, poi lo considera un "profeta", infine i suoi occhi si aprono e lo proclama "Signore". In opposizione alla fede del cieco guarito vi è l’indurimento del cuore dei farisei che non vogliono accettare il miracolo, perché si rifiutano di accogliere Gesù come il Messia. La folla, invece, si sofferma a discutere sull’accaduto e resta distante e indifferente. Gli stessi genitori del cieco sono vinti dalla paura del giudizio degli altri.
E noi, quale atteggiamento assumiamo di fronte a Gesù? Anche noi a causa del peccato di Adamo siamo nati "ciechi", ma nel fonte battesimale siamo stati illuminati dalla grazia di Cristo. Il peccato aveva ferito l’umanità destinandola all’oscurità della morte, ma in Cristo risplende la novità della vita e la meta alla quale siamo chiamati. In Lui, rinvigoriti dallo Spirito Santo, riceviamo la forza per vincere il male e operare il bene. Infatti la vita cristiana è una continua conformazione a Cristo, immagine dell’uomo nuovo, per giungere alla piena comunione con Dio. Il Signore Gesù è "la luce del mondo" (Gv 8,12), perché in Lui "risplende la conoscenza della gloria di Dio" (2 Cor 4,6) che continua a rivelare nella complessa trama della storia quale sia il senso dell’esistenza umana.
Nel rito del Battesimo, la consegna della candela, accesa al grande cero pasquale simbolo di Cristo Risorto, è un segno che aiuta a cogliere ciò che avviene nel Sacramento.
Quando la nostra vita si lascia illuminare dal mistero di Cristo, sperimenta la gioia di essere liberata da tutto ciò che ne minaccia la piena realizzazione. In questi giorni che ci preparano alla Pasqua ravviviamo in noi il dono ricevuto nel Battesimo, quella fiamma che a volte rischia di essere soffocata. Alimentiamola con la preghiera e la carità verso il prossimo.
Alla Vergine Maria, Madre della Chiesa, affidiamo il cammino quaresimale, perché tutti possano incontrare Cristo, Salvatore del mondo.
DOPO L’ANGELUS
Cari fratelli e sorelle, ieri ricorreva il sesto anniversario della morte del mio amato Predecessore, il Venerabile Giovanni Paolo II. A motivo della sua prossima beatificazione, non ho celebrato la tradizionale Messa di suffragio per lui, ma l’ho ricordato con affetto nella preghiera, come penso tutti voi. Mentre, attraverso il cammino quaresimale, ci prepariamo alla festa di Pasqua, ci avviciniamo con gioia anche al giorno in cui potremo venerare come Beato questo grande Pontefice e Testimone di Cristo, e affidarci ancora di più alla sua intercessione.
Je salue cordialement les pèlerins francophones et particulièrement les élèves et les familles du collège Saint-Jean de Passy. L’évangile de ce dimanche pose à chacun de nous la question essentielle de la foi : « Crois-tu au Fils de l’homme ? » Puisse la réponse immédiate et joyeuse de l’aveugle-né devenir la nôtre : « Oui, je crois Seigneur ! » En acceptant la lumière de vérité qui vient du Christ, en soumettant notre intelligence à la révélation qui la dépasse et la comble, nous ouvrons notre cœur à l’Esprit. Dans une sincère révision de vie, accueillons la grâce rénovatrice du sacrement de Pénitence qui purifie notre regard. Que la Vierge Marie, modèle de la foi de l’Eglise, intercède pour nous durant ce Carême ! Bon pèlerinage à tous !
I offer a warm welcome to all the English-speaking visitors present for this Angelus prayer. I especially greet the students from the Oratory Preparatory School, Woodcote, and a group of the Daughters of Mary Help of Christians studying in Rome. In today’s Gospel Jesus, the light of the world, gives sight to the man born blind. May the light of Christ, received in Baptism, always guide us through this life to the splendour of divine glory. Upon you and your families I invoke God’s blessings of joy and peace!
Ein herzliches „Grüß Gott" sage ich den Pilgern und Besuchern aus den Ländern deutscher Sprache. Der Evangelist Johannes nennt die Wunder Jesu Zeichen. Auch die Heilung des Blindgeborenen im heutigen Evangelium ist ein solches Zeichen. Das Heilshandeln Jesu ist mit dem Öffnen der leiblichen Augen nicht am Ziel. Es verweist auf Größeres. Christus öffnet dem Geheilten auch die Augen des Herzens, so daß er vor Jesus niederfällt und bekennt: „Ich glaube, Herr!" Christus, das Licht der Welt, will auch unsere Augen für die Schönheit des Glaubens öffnen. Er will unser Leben hell machen. Dazu begleite euch Gott mit seiner Gnade.
Saludo con afecto a los peregrinos de lengua española presentes en esta oración mariana, así como a los que se unen a ella a través de los medios de comunicación social. La liturgia de este día nos recuerda que Jesucristo es la Luz del mundo. De su mano podemos afrontar la vida y vencer todo lo que oscurece la conciencia y nos impide distinguir el bien del mal. Como hizo el Siervo de Dios Juan Pablo II, del que ayer recordamos el sexto aniversario de su fallecimiento, os invito a identificaros cada vez más con el Señor y de este modo avanzar siempre por el camino de la verdad y de la auténtica alegría. Feliz domingo.
Srdačno pozdravljam i blagoslivljam hrvatske hodočasnike, a osobito nastavnike i učenike pazinskog Kolegija. Dragi prijatelji, uvijek slijedite Krista! Ne bojte se ljubiti ga i vjerovati mu! Posvetite svoj život Spasitelju dijeleći s njim svoje radosti i teškoće. Hvaljen Isus i Marija!
[Saluto di cuore e benedico tutti i pellegrini Croati, particolarmente i professori e gli studenti del Collegio Cattolico di Pazin. Cari amici, seguite Cristo sempre! Non abbiate paura di amarLo e di crederGli! Consacrate la vostra vita al Salvatore, condividendo con Lui le gioie e le difficoltà. Siano lodati Gesù e Maria!]
Słowo pozdrowienia przekazuję wszystkim Polakom. Czwarta Niedziela Wielkiego Postu kieruje naszą myśl ku Chrystusowi, który przywraca wzrok niewidomemu od urodzenia. Syn Boży, oddając swe życie na krzyżu dla naszego zbawienia przywraca wzrok także naszej duszy, abyśmy dostrzegali blask Bożej prawdy. W każdej chwili życia, w każdym miejscu bądźmy świadkami Tego, który jest światłością świata i Jego ewangelicznego orędzia. Waszemu świadectwu wiary z serca błogosławię.
[Rivolgo il mio saluto a tutti i Polacchi. La Quarta Domenica di Quaresima orienta il nostro pensiero verso Cristo, il quale restituisce la vista ad un cieco dalla nascita. Il Figlio di Dio offrendo sulla Croce la Sua vita per la nostra salvezza restituisce la vista anche alla nostra anima perché possiamo scorgere lo splendore della Verità Divina. In ogni istante della vita e in ogni luogo cerchiamo di essere testimoni di Colui che è luce del mondo e del Suo evangelico messaggio. Di cuore benedico la vostra testimonianza di fede.]
Rivolgo infine un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare a quelli provenienti da alcune parrocchie dell’Umbria e della Basilicata, da Valdagno, Orentano e Castelfranco di Sotto. Saluto i ragazzi di san Michele Arcangelo in Precotto–Milano e i cresimandi di Bertipaglia presso Padova, come pure il gruppo dell’Associazione Nazionale Carabinieri di Pontedera e gli studenti di Lucera. A tutti auguro una buona domenica.
© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana
Il terremoto e Dio: unde malum? Di Francesco Agnoli - 01/04/2011 - Religione – da http://www.libertaepersona.org
Recentemente il professor Roberto de Mattei, affrontando in termini teologici, il recente terremoto in Giappone, ha sollevato un forte dibattito. Cosa ha detto di così particolare il De Mattei?
Ha proposto una domanda che da sempre angustia l’uomo: unde malum? Questa domanda è il più grande scandalo con cui ognuno di noi abbia a che fare. “Perché?” ci chiediamo tutti, quando il telegiornale ci presenta morti violente, omicidi efferati e mostruosità di cui l’uomo si rende protagonista.
A questa domanda vi sono due risposte.
Il credente tira in ballo il peccato originale, la legge di Dio, la libertà umana.
L’ateo, invece, prova a giustificare con il determinismo (Lombroso), la società che corrompe gli individui (Rousseau), il domani in cui, passando per i gulag e i tribunali rivoluzionari, non vi saranno più nè ladri, né delinquenti, e quindi, come promettevano Marx e i suoi epigoni, neppure polizia, eserciti e tribunali. Altri ancora negano del tutto l’esistenza del male morale, in nome di un totale relativismo, oppure si limitano a non proporre alcun tentativo di risposta, ma il problema del Bene e del male, del Vero e del falso rimane.
Oltre al male morale, di cui l’uomo è personalmente colpevole, ha aggiunto de Mattei, ci sono i mali “naturali”, che avvengono senza colpa specifica: un figlio che nasce malato, un terremoto, una catastrofe naturale. Anche di fronte a questi fatti vi sono due atteggiamenti possibili. Vediamo prima quello dei Voltaire e degli atei di ogni epoca: per costoro le catastrofi naturali sono la dimostrazione che Dio non esiste, o che, se c’è, non si prende cura dell’uomo.
La conseguenza filosofica è chiara: siamo solo “bambocci di carne”, agglomerati di atomi, figli del caso e della necessità, macchine complesse destinate ai vermi... In quest’ottica, si badi bene, che l’uomo muoia prima o dopo, per terremoto o per un embolo, a gruppi di 5 o di 10, non cambia molto. Perché ti stupisci che io non mi curi di te- dice all’Islandese la Natura dell’ateizzante Leopardi- che io ti perseguiti con il freddo e il caldo, i terremoti e gli tsunami? Tu non sei niente, non vali niente, sei solo parte di un immenso meccanismo cieco che tutto stritola, e che non distingue tra uomini e formiche.
Diciamoci la verità: se l’uomo non è altro che materia, e solo materia, perché addolorarci così tanto per un terremoto che uccide migliaia di uomini e non per una pioggia che allaga un formicaio?
Questa, se fossero coerenti, dovrebbe essere la posizione dei membri dello Uaar che urlano contro de Mattei: “terremoto del Giappone e tsunami sono l’ equivalente di una tempesta che distrugge una tonnellata di mele, o che stermina un formicaio”. Come un “colpo di fortuna”, per dirla con R. Dawkins, ha generato l’universo e l’uomo, così liberi “colpi di sfiga” si incaricano di tanto in tanto di devastare Terra e individui.
De Mattei, al contrario, propone una visione diversa, una visione cattolica. Non piace? Liberissimi. Ma non occorre urlare contro il retrogrado che dovrebbe dimettersi perché il suo pensiero non sarebbe “scientifico”.
Come ragiona de Mattei? Sentiamolo: “se Dio permette i terremoti e altre sciagure esistono ragioni che Egli conosce e che noi non conosciamo”; perciò dobbiamo “accettare la volontà di Dio dinanzi alle catastrofi naturali, pur facendo tutto quanto è in nostro potere per evitarle”.
Traduco: nascono figli Down? Facciamo di tutto per evitarli, ma se ci nasce, accettiamolo e amiamolo così. Avvengono catastrofi naturali: studiamo ogni modo per evitarle, ma se accadono, ciò non dimostra che l’universo sia, per utilizzare una espressione della Margherita Hack, solo una grande scorreggia (“il Big Bang è la più grande scorreggia dell'universo da cui è nato tutto quello che noi possiamo osservare”).
Spieghiamo allora il punto di partenza di questo ragionamento: Dio esiste ed è Padre. Questo non è sempre ben chiaro, e ben visibile.
Eppure, nonostante l’apparente indifferenza e ostilità del cosmo e delle forze naturali verso l’uomo, non è altrettanto vero che proprio l’evoluzione cosmica si è organizzata in modo tale da produrre quelle straordinarie e improbabilissime condizioni necessarie al “miracolo” della vita, come scriveva il genetista ateo Francis Crick, e al miracolo, ben più grande, dell’uomo?
Per un credente, insomma, Dio c’è e l’uomo è immortale. Per questo occorre cercare di capire, almeno in piccola parte, perché, nonostante questo, il male accada. Scrive de Mattei, utilizzando anche le parole di mons. Manzella: “La grandezza della Divina Provvidenza si manifesta soprattutto nella capacità di Dio di trarre il bene dal male fisico e morale dell’universo, quel male che egli non causa, ma che permette per un fine superiore…Nessuno può dire con certezza se il terremoto di Messina o quello del Giappone sia stato un castigo di Dio…Per quale fine in concreto Dio ha operato in un caso speciale? Per quale fine Messina e Reggio sono state distrutte? Chi potrebbe dirlo? E possibile fare delle congetture, non è possibile affermare alcuna cosa con certezza. Intanto per noi, al nostro scopo, basta la sicurezza, che le catastrofi possono essere, e talora sono esigenza della giustizia di Dio”.
Ancora: “Le grandi catastrofi sono certamente un male, però non sono un male assoluto, ma una male relativo, dal quale sorgono beni di ordine superiore e più universali. La luce della fede ci insegna che le grandi catastrofi, o sono un richiamo paterno della bontà di Dio, o sono esigenze della divina giustizia, che infligge un castigo meritato, o sono un tratto della divina misericordia, che purifica le vittime aprendo loro le porte del Cielo. Perché il Cielo è il nostro destino eterno”.
Analogamente, Alessandro Manzoni, descrivendo don Rodrigo colpito dalla peste, fa dire a Fra Cristoforo: “può essere castigo o misericordia”. Oppure castigo e misericordia insieme.
In verità il credente non gioca a fare il Padreterno, non sa perché Dio permetta la nascita di un figlio Down o un terremoto, ma immagina che un significato che gli sfugge, ci sia. Così come hanno fatto tutti i popoli, che hanno sempre dato un significato metafisico al “diluvio universale”.
La giornalista Flavia Amabile, de La Stampa, ritenendo di dire cosa acuta, ha scritto che il discorso di De Mattei è condotto “in modo piuttosto anomalo per il suo ruolo", secondo "un punto di vista non particolarmente basato sulla scienza”.
Forse la Amabile dovrebbe tenere presenti tre cose.
La prima: che a radio Maria de Mattei non parla come vicepresidente del Cnr, ma come cattolico.
La seconda: che la spiegazione scientifica del male morale, non esiste, e quella del male naturale, non basta. Se bastasse, bisognerebbe dire che il figlio Down è solo un errore di trascrizione genetica, cioè un essere naturalmente inferiore; e che il terremoto non è altro che un aggiustamento, più o meno casuale, della crosta terrestre. Un’altra scorreggina, insomma… Ma questa spiegazione “scientifica” non soddisfa, perché l’uomo non è una formica né una mela, e anela al perché metafisico di ciò che accade. Per questo di fronte al Down è capace di vedere in profondità, la dignità immortale di un uomo come gli altri, e di fronte al dramma di un terremoto, non può che implorare Dio, o anche maledirlo.
Infine, la Amabile dovrebbe sapere che i più grandi scienziati della storia (Copernico, Galilei, Keplero, il fondatore della geologia Stenone, Galvani, Volta, Mendel, Pasteur, Maxwell, Planck…) erano religiosi, credevano cioè al peccato, all’anima, a Dio, alla Transustanziazione, e persino all’Apocalisse (vedi Newton), senza che per questo qualcuno si sognasse accusarli di “un punto di vista non particolarmente basato sulla scienza”. Nessuno di loro avrebbe mai rinunciato a chiedersi il perché ultimo del problema del male. Forse anche perché giornalisti di un certo tipo, a quei tempi, per loro fortuna, non c’erano…
A leggere il titolo dell'articolo apparso su "Avvenire" del 26/3/2011, Michele Aramini appare arruolato nell'esercito compatto che fa capo ad Avvenire e che invoca a gran voce l'immediata approvazione del progetto di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento.
Una legge "giusta" è il titolo dell'articolo, che richiama alcuni passaggi dell'articolo:
"Le leggi debbbono essere giuste: sono tali quando realizzano e incrementano i diritti veri della persona umana e non ogni tipo di richiesta, anche se questa per nobilitarsi si fa chiamare diritto ... nella materia di cui si discute la legge per essere giusta deve garantire il diritto a vivere. Più precisamente essa deve tutelare l'interesse e il diritto della persona a vivere fino al termine naturale della propria esistenza".
In un passo successivo Aramini accenna al tema delle decisioni sulle persone deboli:
"Altro elemento importante perché la legge sia giusta sono le disposizioni volte a tutelare le persone più deboli e al mantenimento delle decisioni del fine vita nell'ambito delle scelte di interesse pubblico. E' proprio l'ambito pubblico, con il suo favor vitae, che permette di proteggere il valore della vita di tutti, fino al suo termine naturale, mentre lo scivolamento nell'ambito privato affiderebbe il fine vita alle scelte più arbitrarie".
Se si rilegge per intero l'articolo, però, ci si accorge che Aramini non afferma affatto che quel progetto di legge sia "giusto", che cioè risponda ai criteri da lui indicati; per di più l'Autore è consapevole che
"l'eutanasia rimane l'obbiettivo reale di alcuni tra quelli che avrebbero voluto una legge capace di introdurla in Italia, magari solo in alcuni casi, in modo da rompere la presunzione della vita che regge oggi il nostro ordinamento, legittimando più tardi interventi legislativi più forti in suo favore".
E allora: Aramini sa che la battaglia vera che si sta combattendo alla Camera dei Deputati è la battaglia sull'eutanasia; sa che il diritto alla vita o si difende interamente o non lo si difende per niente, perché, una volta caduta la presunzione a favore della vita dell'ordinamento, la breccia è destinata ad allargarsi. Cosa pensa davvero Aramini di questo progetto? Lo spiega in un articolo su "La Bussola Quotidiana", quotidiano on line:
"Considerando ciò che è accaduto alla legge 40, che è stata fatta oggetto di una sistematica opera di smantellamento dei punti qualificanti, sia attraverso il rimando alla Consulta sia attraverso singole sentenze di tribunali c’è da essere preoccupati sul destino della nuova legge sulle Dat".
E soprattutto:
"Penso che la legge sia necessaria per bloccare ogni possibile deriva eutanasica. Piuttosto si deve avere la preoccupazione di produrre un testo di qualità, semplice, chiaro che non presti il fianco a interpretazioni incerte o opposte. Visto che il testo dovrà tornare al Senato, vale la pena di revisionarlo proprio in questa luce, al fine di fornire disposizioni facilmente comprensibili e univoche".
In definitiva: dando per scontato che i "cattivi" sono certi magistrati, il progetto di legge è scritto in modo tale da permettere interpretazioni favorevoli all'eutanasia!
Occorre riscriverlo!
Giacomo Rocchi
P.S. Avvenire avrebbe pubblicato un articolo del genere?
Graham Green, il giallo di uno scrittore ignorato di Andrea Monda, 02-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
All'inizio de Il nocciolo della questione, per alcuni critici il suo capolavoro, il romanziere inglese Graham Greene cita una frase del poeta francese Charles Pèguy: “Al cuore stesso della cristianità nessuno è così competente come il peccatore in materia di cristianità. Nessuno se non il santo”. In effetti questa affermazione insieme alla definizione di Flannery O'Connor per cui ogni romanzo racconta l'opera della Grazia in un territorio occupato prevalentemente dal diavolo potrebbe essere il “manifesto” della poetica di uno scrittore come Graham Greene, grande romanziere e grande peccatore.
La forza della sua narrativa si poggia tutta sulla frizione incandescente che avviene nel cuore dell’uomo tra peccato e santità, e quindi sul mistero della Grazia; in quest’ottica allora è vero che, come osserva la scrittrice americana, il peccato e anche diavolo diventano in qualche modo “una necessità drammatica dello scrittore”, del resto “il mistero dell’esistenza è in parte peccato” e “la narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate di impolverarvi, non dovreste tentare di scrivere narrativa”. Nei suoi romanzi ricchi di avventura e di esotismo, Greene non ha disdegnato di “impolverarsi” e ha offerto al lettore, con dolente sincerità, il suo sguardo sull’uomo; uno sguardo offerto con il gusto dell’ironia e del paradosso, ma al tempo stesso molto severo e lucido senza per questo annullare un umanissimo (e quindi cristianissimo) senso di pietà e di compassione, perché è verissimo quanto, con estrema sintesi, ha affermato Charles Moeller nella sua grandiosa opera in cinque volumi su Letteratura moderna e Cristianesimo e cioè che l’intera opera dello scrittore inglese è una glossa alla sentenza evangelica “non giudicare”.
Greene non giudica ma è stato giudicato e, nonostante il grande successo di pubblico (grazie anche alla continua trasposizione cinematografica a cui sono stati sottoposti, a volte anche con la sua collaborazione in fase di scrittura, la maggior parte dei suoi romanzi maggiori), è stato condannato dalla critica alla peggiore di tutte le sorti possibili: l'oblio. Di questo destino Greene ne ha sorriso, considerando più interessanti i giudizi dei lettori rispetto a quelli dei critici, ma viene da chiedere, a venti anni esatti di distanza dalla sua morte, avvenuta il 3 aprile 1991 a Corsier-sur-Vevey sulla Costa Azzurra, il perché di questo destino.
Probabilmente non è solo il cattolicesimo ad aver nuociuto alla fortuna critica di Greene: egli è innanzitutto “colpevole” per aver commesso un peccato imperdonabile, quello cioè di essersi dedicato per lo più a romanzi di avventura e di spionaggio, di aver scelto il giallo, la spy-story e il thriller come canale della sua fantasia e vena poetica (e il successo cinematografico è apparso come condizione aggravante). Imparentato, da parte di madre, con Robert Luis Stevenson, Greene ha ereditato dal grande romanziere scozzese l’idea della letteratura come narrazione, del romanzo con al centro una storia da raccontare; nel secolo di Joyce e Svevo, Greene rivendica l’importanza di autori come Zane Gray (l’oscuro ma popolarissimo scrittore “western” viene citato come modello ispiratore ne Il terzo uomo dal protagonista, alter-ego dell’autore, il romanziere Rollo Martins).
Da questo punto di vista il destino di Greene è molto simile a quello di Chesterton. Oltre al fatto biografico che la lettura delle opere del secondo contribuì alla conversione al cattolicesimo del primo, entrambi scelgono la via insolita del racconto poliziesco per declinare la propria riconquista della fede cattolica, anche se in maniera diversa: se Chesterton sceglie la figura del detective, Greene si concentra sul personaggio della spia; se il primo inventa padre Brown, il prete che scova il criminale per perdonarlo, il secondo si cimenta per lo più con squallidi agenti segreti per raccontare gli abissi della meschinità e della fragilità umana, quel “territorio del diavolo”, ambiente privilegiato dalla Grazia nel suo operare. Se Chesterton sceglierà, nel momento del battesimo cattolico, di chiamarsi Lazzaro, il resuscitato, Greene opterà invece per il nome Tommaso in onore dell’apostolo scettico e incredulo.
Sul binomio fede-incredulità e quello, ad esso collegato, grazia-peccato, si muove tutta la produzione letteraria di Greene, soprattutto quella del periodo migliore, intorno agli anni ’40, che conosce pagine altissime soprattutto nei romanzi così detti “cattolici”: dalla Roccia di Brighton (1938) a La fine dell’avventura (1951) passando per i due capolavori de Il potere e la gloria (1940) e Il nocciolo della questione (1948). Sono molti altri i titoli che si potrebbero citare per un autore prolifico come Greene, da Il terzo uomo a Il fattore umano, da Il nostro agente all'Avana a Un americano tranquillo per non dimenticare i racconti che prossimamente verranno raccolti e pubblicati da Mondadori nella collana de I Meridiani, il giusto tributo ad uno scrittore “colpevole” soltanto di aver regalato infinite ore di felicità ai suoi milioni di lettori.
Su Avvenire del 31/3/2011 Domenico Delle Foglie esprime i timori che potrebbero conseguire all'approvazione del progetto di legge sulle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento:
"Una legge "buona e giusta" quella sulle Dat? Si è lavorato al Senato e si sta lavorando alla Camera perché sia così. Ricordiamoci, però, che ogni legge è sottoposta al vaglio delle maggioranze – a volte trasversali, come in questo caso, e comunque transitorie in un regime di alternanza politica. E per tutte le maggioranze, presenti e future, dovrebbe valere il criterio di garantire, a ogni singola legge, una volta approvata, un periodo di rodaggio. È civile e necessario, insomma, che a queste disposizioni non venga riservato il trattamento ostile e la propaganda deformante già riservati, ad esempio, alla legge 40 sulla fecondazione artificiale, altra normativa "non cattolica" ma accettata dai credenti per chiudere l’era di "provetta selvaggia". Abbiamo già visto una parte dell’opinione pubblica, più ideologizzata e meno disponibile ad accettare il voto (trasversale, torniamo a ricordarlo) di un libero Parlamento, allearsi con una frazione della magistratura per tentare di demolire o, comunque, manomettere la legge sin dal giorno seguente la sua entrata in vigore"
La tesi è sempre quella: la legge 40 sulla fecondazione artificiale era "buona e giusta", ma un manipolo di "cattivi" (composta dalle minoranze battute in Parlamento e da magistrati ideologizzati), l'ha demolita e manomessa.
Insomma: i risultati devastanti della legge "buona, ma non cattolica"? Non è colpa nostra!
Ma è soltanto una questione di "colpa"?
Cosa insegna l'esperienza della legge 40? Che i "paletti" messi all'interno di una legge di compromesso su "diritti non negoziabili" vengono divelti!
Cosa deve fare, allora il legislatore?
Delle Foglie mostra di non aver capito: sostiene che la legge deve essere ugualmente approvata e che i "cattivi" devono essere ammoniti della necessità di un "periodo di rodaggio" ...
A noi, invece, sembra di aver capito: Delle Foglie sa che i "paletti" (apparenti) verranno divelti a partire dal "giorno seguente della sua entrata in vigore"; sa, quindi, che la legge verrà utilizzata per realizzare l'eutanasia su incoscienti, disabili, anziani ...; prevede che la "norma simbolo", quella che stabilisce il divieto di sospensione di alimentazione e idratazione artificiale, verrà quanto meno aggirata (la Camera ha già approvato un'eccezione, così vaga da poter essere allargata a dismisura) ...
Delle Foglie sa tutto questo ... e si prepara a gridare: "Non è colpa nostra!"
Giacomo Rocchi
Avvenire.it, 2 aprile 2011 - La gazzarra è il problema, la politica di più - Il teatro c'è dateci la storia di Davide Rondoni
Non ce l’abbiamo con il Parlamento ridotto a teatro. Ce l’abbiamo con il fatto che quel teatro, quella gazzarra stanno raccontando una storia di impotenza. Di vanità. Una storia di immobilità. Una brutta storia. Una storia che non dovrebbe essere la nostra, adesso. Proprio in questi momenti. Con questi problemi alle porte, e dentro le porte.
L’espressione «il teatro della politica», a me non ha mai scandalizzato. Non solo perché noi italiani siamo temperamenti che tendono al 'teatrale' in tutti i campi del vivere. Ma anche perché la politica è inevitabile teatro di passioni, di contrasti, di tensioni. Chiunque ha avuto anche solo una pur minima frequentazione di riunioni di condominio, o consigli di classe, o di facoltà, beh, si sarà accorto di quanto sia facile per gli italiani – tutti, non solo i politici – inscenare con maggiore o minore talento le proprie passioni o le difese dei propri interessi.
Ricordo mio nonno, un romagnolo liberale, seduto davanti allo schermo della televisione durante non so quale votazione parlamentare bofonchiare: «Onorevoli? Lavandaie!». In modo colorito, dunque, già quaranta anni fa gli italiani esprimevano – come dal loggione di un teatro di lirica – approvazione o disappunto davanti allo spettacolo della politica. Fa parte della nostra storia, della nostra natura. Già gli antichi romani non si facevano mancare scenette e sceneggiate. Il problema dunque non è la teatralità di certi gesti. Ma il fatto è che ci stanno raccontando una storia poco interessante.
Gli schiamazzi non coprono, non riescono a coprire un’amara verità: ci stanno offrendo una storia mediocre. Una storia lenta, una storia poco avvincente. Il fatto stesso che si passi da gesti coloriti a gesti che invece sono volgari od offensivi è il segno che – come dicono gli amanti del teatro – la storia messa in scena non 'tiene'. Non c’è pathos, ma agitazione. Non c’è passione, ma surriscaldamento. Non ci sono grandi maschere, comiche o tragiche, ma macchiette. E la storia non va. Ristagna. Solita zuppa. E infatti, come è stato notato, gli spettatori abbandonano.
Al di là della cerchia stretta dei fan, si allarga il deserto di interesse e di coinvolgimento con la politica. Possibile che i nostri attori principali non se ne accorgano? Troppo facile e sbagliato addossare la responsabilità di tutto questo a uno solo, o a un singolo schieramento. Lo stanno scrivendo a più mani il copione, sono vari e variamente disposti i drammaturghi. Alcuni di loro dicono che questo spettacolo a loro stessi non piace. E però lo fomentano. Incanalano la storia messa in scena verso esiti scontati, ripetitivi. Noiosi e vani. E così in questa specie di impotenza, di impotenza doppia – del governo a fare il governo, delle opposizioni a fare le opposizioni – cresce la stizza, la frustrazione. La scena della doppia impotenza, della raddoppiata immobilità non offre una storia interessante. In un momento in cui il nostro Paese avrebbe invece bisogno di un’altra velocità. Di scattare in avanti su problemi gravi e diffusi.
Se fossimo davanti al solito momento effervescente, teatrale, pure colorito della politica italiana, non ci sarebbe da rammaricarsi tanto. Non ci sarebbe da preoccuparsi. Ma l’impressione è che invece si stia consumando qualcosa di diverso: le avvisaglie della chiusura del teatro. Le convulsioni della crisi finale. Si rischia la riduzione degli spazi dove viene gestita la democrazia a robetta poco interessante. Di questa politica si potrebbe dire quel che diceva il grande poeta Baudelaire a proposito di alcuni spettacoli a cui assisteva in certi teatri: la cosa più interessante è guardare il lampadario. E se cominciano in tanti a guardare il lampadario, può voler dire solo due cose: che si fa largo una agghiacciante perdita di stima nella democrazia, o che la vera storia va in scena altrove, in altri palazzi, in altri occulti teatri.
In entrambi casi non è un buon segno per questa Italia che avrebbe bisogno di una storia più movimentata e meno caotica, più slanciata al futuro e meno ripiegata. Non di meno teatro, dunque, c’è bisogno. Ma di una storia più bella.
A Parigi si è disputato su Dio, ma prima ancora sull'uomo - Il dirompente intervento di Fabrice Hadjadj contro l'ideologia eugenista dei padri fondatori dell'UNESCO. Peccato che di quanto si è detto al "Cortile dei gentili" si è saputo troppo poco. Grande iniziativa, ma male pubblicizzata di Sandro Magister - http://chiesa.espresso.repubblica.it/
ROMA, 1 aprile 2011 – Il Cortile dei gentili che si è tenuto nei giorni scorsi a Parigi ha palesato un clamoroso deficit sul piano della comunicazione.
Nessun ufficio stampa. Nessun testo messo a disposizione dei media, né prima, né durante, né dopo. Solo i presenti potevano ascoltare dal vivo le parole dei relatori, oppure coloro che si sintonizzavano su Radio Notre-Dame o su KTO TV, le uniche emittenti cattoliche che trasmettevano in diretta i lavori.
Persino il videomessaggio di Benedetto XVI della sera del 25 marzo è stato male pubblicizzato. Il testo era pronto da vari giorni., ma la sala stampa vaticana l'ha distribuito, in cinque lingue, solo la mattina successiva.
Se uno entra nel sito web del Vaticano – per altri versi ricchissimo – e va al pontificio consiglio della cultura che ha promosso e organizzato l'evento, sul Cortile dei gentili non trova niente di niente.
E neppure in www.parvisdesgentils.fr – il sito creato per l'occasione – si trova una sola riga delle cose dette. Ci sono solo uno scarno programma e pochi cenni sui relatori.
Per un Cortile nato per promuovere il dialogo su Dio tra tutti gli uomini di buona volontà, al di là di tutti i confini, questa parsimonia comunicativa è una evidente contraddizione.
Il pontificio consiglio della cultura e il suo presidente, il cardinale Gianfranco Ravasi, hanno agito efficacemente nella fase preparatoria dell'evento, per pubblicizzarlo.
Ma hanno latitato quando dall'annuncio si è passati alla realizzazione.
*
Eppure, fin dalle prime battute, a Parigi non si sono dette affatto cose scontate.
Basta vedere cosa è accaduto nella sessione inaugurale, il 24 marzo, nella sede dell'UNESCO, il braccio culturale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite.
Con una tribuna e una platea piene di alti funzionari e di diplomatici, c'era da aspettarsi una seduta retorica e sonnolenta.
Invece no. Ad esempio Pavel Fischer, ex ambasciatore della Repubblica Ceca in Francia, ha toccato le menti e i cuori dei presenti evocando la sua personale esperienza di credente schiacciato dalla macchina dell'ateismo scientifico, negli anni dell'impero comunista.
Va notato che la Repubblica Ceca è una delle regioni d'Europa dove l'atesimo è oggi fenomeno di massa. È lì che Benedetto XVI si è recato nel 2008 e ha maturato l'idea di dar vita a un Cortile dei gentili. È a Praga che il Cortile terrà uno dei suoi futuri incontri.
Ma l'intervento più dirompente è stato quello del filosofo francese Fabrice Hadjadj (nella foto), di famiglia ebrea, con trascorsi d'ultrasinistra, ora convertito alla fede cattolica.
Hadjadj ha criticato a fondo l'ideologia dell'UNESCO e dei suoi padri fondatori proprio nella sede dell'organizzazione, alla presenza dei suoi dirigenti.
E l'ha criticata proprio sulla visione dell'uomo. Sul contrasto fra il "trasumanar" del Paradiso di Dante – l'apertura dell'uomo al Cielo – e il "transumanesimo" del primo direttore generale dell'UNESCO, Julian Huxley, cioè la riduzione dell'uomo a oggetto tecnico, da migliorare con l'eugenetica.
Questi sono i suoi passaggi salienti dell’intervento di Fabrice Hadjadj
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BREVE RIFLESSIONE SUL "TRANSUMANO" di Fabrice Hadjadj
[...] Possiamo riprendere una parola inventata da Dante e dire che l'uomo è fatto per "trasumanar". Ma come "trasumanar"? E che cosa intendere per "transumanesimo"? Questa parola deve risuonare in modo speciale tra queste mura. Perché il sostantivo, "transumanesimo", è stato coniato nel 1957 dal biologo Julian Huxley, che fu il primo direttore generale dell'UNESCO. Ciò che è interessante è che questo primo direttore generale dell'UNESCO non intendeva affatto il "transumanesimo" alla maniera di Dante. Il suo pensiero va anzi radicalmente contro quello della "Divina Commedia". Ma ha il vantaggio di rendere manifesta la sola alternativa che si pone oggi nel mondo moderno.
Fratello di Aldous Huxley, l'autore del "Mondo nuovo [A Brave New World]", ci si potrebbe aspettare che Julian Huxley fosse vaccinato contro ogni tentazione eugenista. Invece è tutto il contrario. Non che Julian Huxley fosse incoerente, no, egli era di una coerenza estrema. Nel 1941, nel momento stesso in cui i nazisti gasavano i malati mentali, Julian Huxley scriveva con una certa audacia: "Una volta pienamente assicurate le conseguenze che implica la biologia evoluzionista, l'eugenetica diventerà inevitabilmente una parte integrante della religione del futuro, o del complesso di sentimenti, quale che sia, che potrà nel futuro prendere il posto della religione organizzata". Queste affermazioni sono state scritte nel 1941. Ma è nel 1947 che sono pubblicate in francese, quando lui è già direttore generale dell'UNESCO. Non una riga fu cambiata nell'occasione. Certo, Huxley era antinazista, socialdemocratico e soprattutto antirazzista (il che comunque non gli impediva di scrivere nel testo già citato: "Considero come assolutamente probabile che i negri autentici hanno una intelligenza media leggermente inferiore a quella dei bianchi o dei gialli"), ma Huxley pretendeva sostituire le religioni tradizionali con le biotecnologie.
Certo, non si tratta qui di fare il processo a Julian Huxley. Vorrei solo mettere in evidenza una ideologia così diffusa che non ha risparmiato questo luogo e che ha anche avuto come illustre rappresentante il suo primo direttore generale. Se, nel 1957, questo primo direttore generale dell'UNESCO inventa il sostantivo "transumanesimo", lo fa per non parlare più di "eugenismo", parola diventata difficile da utilizzare dopo l'eugenismo nazista. Tuttavia, è la stessa cosa che si vuole: la redenzione dell'uomo attraverso la tecnica. Cito il testo del 1957 che inventa il termine; esso pone questo "nuovo principio": "La qualità delle persone, e non la sola quantità, è ciò che dobbiamo ottenere: di conseguenza, una politica concertata è necessaria per impedire all'ondata crescente della popolazione di sommergere tutte le nostre speranze di un mondo migliore". Il "mondo migliore" di Julian non è così lontano dal "Nuovo mondo" di Aldous. Si tratta appunto di migliorare la "qualità" degli individui, come si migliora la "qualità" dei prodotti, e dunque, probabilmente, di eliminare o di impedire la nascita di tutto ciò che apparirebbe come anormale o deficiente.
Capite che è la definizione stessa dell'uomo che è in gioco nel nostro incontro. E dunque l'avvenire stesso dell'uomo. L'uomo cerca un aldilà. È per essenza transumano. Ma come si realizza il "trans" del transumano? Con la cultura e l'apertura al trascendente? O con la tecnica e la manipolazione genetica? [...] Certo, l'UNESCO è un'organizzazione mondiale votata alla protezione e allo sviluppo delle culture. Ma come ogni organizzazione attuale è anche divorata dalla logica tecnocratica, cioè dal desiderio di risolvere dei problemi invece che di riconoscere il mistero. Prova ne è l'ambiguità di cui testimonia il suo primo direttore generale.
Ebbene, ecco la mia semplice domanda: dobbiamo prendere come direttore Julian Huxley o dobbiamo prendere Dante? La grandezza dell'uomo è nella facilità tecnica di vivere? Oppure è in questa lacerazione, in questa apertura che è come un grido verso il Cielo, in questo appello verso ciò che ci trascende realmente? [...]
Questa è l'opportunità del Cortile dei gentili: prendere atto di questa situazione nuova. Non si tratta solo di "dialogo tra credenti e non credenti". Si tratta di porre la questione dell'uomo, di riconoscere che ciò che fa la sua specificità non è di essere un super-animale più potente degli altri, ma di essere questo ricettacolo che raccoglie ogni creatura con amore, per rivolgerla, con la parola, con la preghiera, con la poesia, verso la sua sorgente misteriosa.
L’intervento integrale in lingua francese
"L'homme passe infiniment l’homme"
Brève réflexion sur le transhumain. "Parvis des Gentils", Paris, UNESCO, le 24 mars 2011
par Fabrice Hadjadj
1. Pourquoi sommes-nous rassemblés ici ? Est-ce pour une cérémonie protocolaire, un peu guindée, où chacun aura rempli sa fonction mais où personne ne sera venu avec son cœur ? Est-ce pour ouvrir une nouvelle « fenêtre de dialogue », comme s’il s’agissait encore d’accroître nos moyens de communication ou de faire figure d’homme ouvert et tolérant ? Peut-être suis-je en train de rompre le ronronnement des convenances. Cependant, mon but n’est pas de provoquer, mais de poser une question simple. Mon but n’est pas de faire l’excentrique, mais d’être un homme qui s’adresse à d’autres hommes, par-delà les étiquettes et les ordres du jour. Or, être homme, c’est d’abord ceci : non pas seulement vivre, mais s’interroger sur ses raisons de vivre. Et cette interrogation surgit d’autant plus crûment que l’homme se situe à ce point de tension déchirante : il désire la joie dans la vérité et l’amitié, et cependant il sait qu’il va mourir. Oui, tous, ici, que nous soyons ministre ou appariteur, nous aspirons moralement à une béatitude ensemble. Et en même temps, tous, ici, que nous soyons ambassadeur ou agent de sécurité, nous sommes physiquement voués à la décrépitude. En sorte que sous la lumière des projecteurs, malgré la puissance des micros, beaucoup de ténèbres, beaucoup de silence nous environnent…
2. Ce questionnement est certainement le propre de l’homme depuis l’origine. Il est l’animal qui s’étonne d’exister. Sommes-nous des singes évolués, des primates parvenus au comble de la sophistication ? La chose est douteuse. Car le comble de la perfection pour le primate serait dans l’agilité suprême à se déplacer de branche ou dans l’aisance absolue pour se procurer des bananes. Elle n’est pas dans cette capacité d’être pantois, cette faculté qui vous laisse les yeux écarquillés, stupéfait, démuni devant le vertige d’être vivant. Elle n’est pas dans cette pente à la contemplation qui, par exemple, vous fait si bien vous émerveiller des rayures du tigre, que vous oubliez de vous protéger contre ses griffes.
Certains disent que l’émergence de l’homme, au cours de l’évolution, serait due à sa plus grande capacité d’adaptation au monde. En même temps, l’homme fait figure de grand inadapté : au lieu de vivre paisiblement selon l’instinct, il cherche un sens, il déchiffre le monde comme une forêt de symbole, il désire un au-delà, un au-delà non pas forcément comme un autre monde, mais comme une manière de pénétrer dans le secret de ce monde, de l’étreindre dans son mystère, de le boire à sa source.
Nous avons ainsi tous, ici, ministre ou agent de sécurité, le sentiment d’être des passagers ou des passants. Non seulement parce que nous sommes mortels ; mais aussi, parce que dans notre vie même, nous désirons un dépassement, pas nécessairement un dépassement vers un ailleurs, car ce ne serait que du tourisme, et le tourisme, en matière de spiritualité, est plus fréquent qu’on ne l’imagine. Nous désirons plutôt un dépassement dans l’intensité de notre manière d’être ici et maintenant, les uns avec les autres, cherchant à être enfin, les uns avec les autres, sans hypocrisie, dans une vérité et une amitié profonde (avouons-le, dès que l’on gratte un peu le vernis du décorum, nous sommes loin encore de cette vérité et de cette amitié, parce qu’elle supposerait que tous les masques tombent et que nous soyons spirituellement mis à nu).
Nietzsche le rappelle : « Ce qui est grand dans l’homme est de n’être pas un but mais un pont : ce qui peut être aimé dans l’homme est d’être un passage et une chute. » Avec une telle phrase, Nietzsche fait penser à Rousseau, selon qui l’homme se distingue des autres animaux non pas par sa perfection, mais par sa « perfectibilité », et il semble surtout reprendre une affirmation de Blaise Pascal : « Apprenez que l’homme passe infiniment l’homme. »
3. Ce questionnement de l’homme qui cherche un au-delà prend aujourd’hui, dans ce lieu, une signification particulière. Car nous vivons aujourd’hui la crise radicale de l’humanisme. Sans doute est-ce bien la crise majeure à laquelle nous devons faire face aujourd’hui : non pas tant une crise financière ou écologique ou religieuse, mais une crise anthropologique et même métaphysique. Nous nous trouvons à un point unique dans l’histoire, si bien les appels à un nouvel humanisme, comme à un retour aux Lumières, ne peuvent être que des signes d’aveuglement.
Quand on prétend fonder l’humanisme sur l’homme lui-même, il se passe la même chose que lorsqu’on prétend ériger un édifice en dehors de tout appui extérieur : il s’effondre. Pour que l’édifice s’élève, il a besoin d’un sol. Pour que l’homme s’élève, il a besoin d’un Ciel. Ce que j’appelle un Ciel, c’est une espérance. Les autres animaux s’engendrent par instinct. L’homme a besoin de raisons pour donner la vie. Sans ces raisons, sans une espérance, sans doute ne se suicidera-t-il pas, parce qu’il y a en lui cette inertie qui l’entraîne à continuer sa course comme un solide dans l’espace vide, mais du moins il ne donnera plus la vie, parce qu’il ne voit pas pourquoi faire des enfants, si c’est pour la pourriture. L’espérance n’est pas une cerise sur le gâteau, elle doit se déclarer à même notre chair, à même notre sexe. Les Juifs le savent bien : c’est dans leur sexe que se trouvent le signe de l’Alliance avec l’Eternel, parce que, si je ne crois pas en cette Alliance, pourquoi continuer l’aventure humaine, pourquoi s’obstiner à alimenter le charnier ? Voilà ce qui singularise l’homme entre tous les animaux : il doit s’élever vers le Ciel avant de pouvoir bien coucher avec sa femme.
C’est en cela – très simplement – que l’homme passe infiniment l’homme. Il cherche ses raisons de vivre au-delà de lui-même. Il aspire à une joie qu’il ne possède pas encore vraiment et dont il attend l’accomplissement dans quelque chose, disons-le, de « surnaturel ». Nous pouvons reprendre ici un verbe inventé par Dante, et dire que l’homme est fait pour « transhumaner ».
4. Mais comment « transhumaner » ? Que faut-il entendre par « transhumanisme » ? Ce mot doit résonner spécialement entre ces murs. Car le substantif, « transhumanisme », a été forgé en 1957 par le biologiste Julian Huxley, qui fut le premier directeur général de l’UNESCO. Ce qui est très intéressant, c’est que ce premier directeur général de l’Unesco n’entendait pas le « transhumanisme » à la manière de Dante. Sa pensée va même radicalement contre celle de la "Divine Comédie". Mais elle l’avantage de nous manifester la seule alternative qui se pose aujourd’hui dans le monde moderne.
Frère d’Aldous Huxley, l’auteur du "Meilleurs des mondes [A Brave New World]," on pourrait s’attendre à ce que Julian Huxley fût vacciné contre toute tentation eugéniste. Or, c’est tout le contraire. Ce n’est pas que Julian Huxley fût inconséquent, non, il était d’une extrême cohérence. En 1941, au moment même où les nazis gazaient les malades mentaux, Julian Huxley écrivait avec une certaine audace : « Une fois pleinement saisies les conséquences qu’implique la biologie évolutionnelle, l’eugénique deviendra inévitablement une partie intégrante de la religion de l’avenir, ou du complexe de sentiments, quel qu’il soit, qui pourra, dans l’avenir, prendre la place de la religion organisée. » Ces propos ont été écrits en 1941. Mais c’est en 1947, alors qu’il est déjà directeur général de l’UNESCO, qu’ils sont publiés en français. Pas une ligne n’a été changée à l’époque. Certes, Huxley était antinazi, social-démocrate et surtout antiraciste (ce qui d’ailleurs ne l’empêchait pas d’écrire dans le texte déjà cité : « Je considère comme absolument probable que les nègres authentiques ont une intelligence moyenne légèrement inférieure à celle des Blancs ou des Jaunes »), mais Huxley prétendait remplacer les religions traditionnelles par la religion des biotechnologies.
Bien sûr, il ne s’agit pas de faire ici le procès de Julian Huxley. Je voudrais seulement mettre en relief une idéologie si répandue qu’elle n’a pas épargné ce lieu, qu’elle a même eu pour illustre représentant son premier directeur général. Si, en 1957, ce premier directeur général de l’UNESCO invente le substantif « transhumanisme », c’est pour ne plus parler d’« eugénisme », mot rendu difficile à manipuler depuis l’eugénisme nazi. Cependant, c’est la même chose qui est visée : la rédemption de l’homme par la technique. Je cite le texte de 1957 qui invente le terme ; il pose ce « nouveau principe » : « La qualité des personnes, et non la seule quantité, est ce que nous devons viser : par conséquent, une politique concertée est nécessaire pour empêcher le flot croissant de la population de submerger tous nos espoirs d’un monde meilleur. » Le Better World de Julian n’est pas si éloigné du Brave New World d’Aldous. Il s’agit bien d’améliorer la « qualité » des individus, comme on améliore la « qualité » des produits, et donc, probablement, d’éliminer ou d’empêcher la naissance de tout ce qui apparaîtrait comme anormal ou déficient.
5. Vous voyez que c’est la définition même de l’homme qui est en jeu dans notre rencontre. Et donc l’avenir même de l’homme. L’homme cherche un au-delà. Il est par essence transhumain. Mais comment s’accomplit le trans du transhumain ? Est-ce par la culture et l’ouverture au Transcendant ? Ou est-ce par la technique et la manipulation génétique ? Est-ce à travers le mystère de la parole ? Ou est-ce par la volonté de puissance ? Certes, l’UNESCO est une organisation mondiale vouée à la protection et au développement des cultures. Mais aussi, comme toute organisation actuelle, elle est dévorée par la logistique technocratique, c’est-à-dire par le désir de résoudre des problèmes au lieu de reconnaître le mystère. Preuve en est l’ambiguïté dont témoigne son premier directeur général.
Eh bien, voilà ma question simple : devons-nous prendre pour directeur Julian Huxley ou bien devons-nous prendre Dante ? La grandeur de l’homme est-elle dans la facilité technique de vivre ? Ou bien est-elle dans cette déchirure, dans cette ouverture comme un cri vers le Ciel, dans cet appel vers ce qui nous transcende réellement ? Remarquez qu’un transhumanisme dont l’homme serait le producteur n’est pas un vrai transhumanisme : il ne tourne pas vers l’au-delà de l’humain, mais sans vers l’en-deçà, réduisant l’homme à un objet technique performant. Or, je le répète, la merveille de l’homme n’est pas dans sa performance, sans quoi il ne serait que prouesse mécanique et il faudrait mettre au rebut tous les faibles. Sa merveille est dans le mystère de sa présence étonnée. Elle n’est pas dans son efficience, mais dans l’épiphanie de son visage, quel qu’il soit, même si ce visage est difforme, mais si c’est le visage d’un crucifié.
6. Notre modernité en est donc arrivée à ce point extrême, parce que nous avons désormais la possibilité de réaliser concrètement le transhumanisme en termes techniques et de considérer les hommes que nous sommes comme des bricolages archaïques et obsolètes. Mais cette dernière extrémité est aussi une grâce. Elle nous permet, par opposition, de mieux accueillir ce qui fait notre humanité : non pas un développement horizontal de notre puissance, mais une élévation verticale de notre parole.
Telle est l’opportunité du Parvis des Gentils, qui est de prendre acte de cette situation nouvelle. Il ne s’agit pas seulement de « dialogue entre croyants et non-croyants ». Il s’agit de poser la question de l’homme, et de reconnaître que ce qui fait sa spécificité n’est pas d’être un super-animal plus puissant que les autres, mais d’être ce réceptacle qui reccueille toute créature avec amour, pour la tourner, par sa parole, par sa prière, par sa poésie, vers sa source mystérieuse.
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24.3.2011
«Io, surfista senza un braccio vi racconto la mia fede» di Raffaella Frullone, 04-04-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Giovanissima, bella, bionda con la tavola da surf fa miracoli. Non stiamo parlando semplicemente di una surfista prodigio, ma di una ragazza che non ha mai smesso di lottare per essere una campionessa, perché scivola tra le onde anche dopo che uno squalo l’ha assalita e le ha staccato un braccio. E per questo ringrazia Dio.
Bethany è nata sull’isola hawaiana di Kauai nel febbraio del 1990 e ha iniziato a fare surf da piccolissima ereditando la passione per la tavola dai genitori e condividendola con i fratelli. A otto anni era la più forte surfista under16 dell'isola, a 12 era la più forte surfista under16 dell'arcipelago, tutto insomma faceva pensare che Bethany sarebbe presto diventata la numero uno in assoluto.
A soli 13 anni mostrava doti e capacità non comuni: equilibrio e fluidità insieme ad una straordinaria sensibilità nel sentire e interpretare l’evoluzione dell’onda. Un talento che Bethany rafforzava ogni giorno con 6 ore di allenamento. Ancora non lo sapeva, ma quella disciplina quotidiana le avrebbe cambiato la vita.
Il 31 ottobre 2003 si trovata a Tunnels, dove stava svolgendo la sessione di allenamento mattutina. Erano solo le 7.30 e tra un’onda e l’altra si stava riposando sdraiata sulla tavola dasurf con un braccio a penzoloni nell’acqua. All’impcovviso il dramma, uno squalo tigre di 8 metri la assale strappandole il braccio sinistro e trascinandola sul fondo. Nonostante il dolore lancinante Bethany riesce a scalciare via lo squalo e a tornare in superficie, dove fa soltanto in tempo a chiede aiuto, prima di svenire.
Arriverà in ospedale incosciente e priva del 70% del sangue che aveva nel corpo. I medici la soccorrono immediatamente ma altrettanto immediatamente si rendono conto che per il braccio non c’ è nulla da fare, la ferita viene ricucita e il moncone amputato. Nel nosocomio intanto cominciano ad arrivare gli amici e i familiari, in attesa trepidante del risveglio di Beth e quasi convinti che non sarebbe mai più tornata tra le onde.
Ed ecco che il miracolo comincia a prendere forma. Appena ripesa coscienza Bethany dirà a sua madre: «Non cambia nulla, Dio ha un progetto sulla mia vita, che è quello della tavola da surf, questa cosa mi darà l’opportunità di dire a tutti la grandezza del Signore. Io sono una surfista e continuerò ad esserlo».
Le parole di Bethany non erano soltanto un modo per reagire al trauma, ma un programma di vita.
Otto giorni più tardi infatti era sulla spiaggia, e dopo soli 15 giorni si allenava per capire come mantenere l’equilibrio con un braccio solo, come rinforzare la muscolatura in modo asimmetrico, come ridisegnare uno stile. Disciplina che la porterà dopo poco più di un anno a vincere il campionato nazionale.
E se vederla scivolare e saltare tra le onde, agile e sicura anche senza un braccio sembra incredibile, ancor di più straordinaria è la grandissima esperienza vissuta da Bethany «Se qualcuno mi chiede cosa rappresenta per me il Signore io rispondo semplicemente: tutto. Quando sono stata attaccata dallo squalo non avevo molto tempo per decidere, sapevo solo pregare, pregare incessantemente il Signore. E mentre ero lì, sotto l’acqua, all’improvviso ho sentito un a grande pace e una grande tranquillità. In quel momento, nonostante il dolore ho sentito la presenza di Dio».
Un’esperienza che Bethany decide di raccontare in un libro dal titolo “Soul surfer: A True Story of Faith, Family, and Fighting to Get Back on the Board” (Anime surfiste: una storia vera di fede, famiglia e la battaglia per tornare sulla tavola),uscito nel 2007. Un libro in cui la giovane promessa del surf racconta del suo intimo rapporto con il Signore, delle difficoltà a trovare un equilibrio, non soltanto fisico, della fiducia nel progetto di Dio. Il volume ha avuto un enorme successo tra giovani hawaiani, tra i giovani sportivi, tra i ragazzi che avevano subito traumi o amputazioni, tra chi voleva conoscere la fonte della forza di Bethany.
Non solo. Dall’incidente inizia per Bethany un vero percorso di apostolato portato avanti attraverso il libro, ma soprattutto il suo sito internet www.bethanyhamilton.com e il suo blog attorno a quali sono impegnati una serie di volontari che rispondono personalmente a chi vuole comprendere meglio la vita di Beth, ma soprattutto la sua ”connection to God”.
Oggi la storia di Bethany Hamilton è anche un film. Il regista Sean McNamara ha trasformato il libro in una pellicola per il grande schermo, grazie all'interpretazione della giovane Anna Sophia Robb (nel ruolo di Bethany) e di Dennis Quaid ed Ellen Hunt nel ruolo dei suoi genitori. Il film sarà nelle sale negli Stati Uniti dal prossimo 8 aprile.
Ai giornalisti che le chiedono se era orgogliosa di quello che aveva fatto, Bethany risponde in questo modo: «Cosa dovrei fare... ringraziare lo squalo perché mi ha fatto diventare forse anche più famosa di quello che potevo essere diventando una surfista? Non sono orgogliosa né del film, né del fatto che mi chiedano di posare per una linea di abbigliamento o di firmare un profumo. Sono orgogliosa di essere quello che sono, e sono felice di poter vivere la mia vita con pienezza. Invito tutti i ragazzi che vivono un'esperienza traumatica come la mia, qualunque essa sia, a fare quello che ho fatto io: zittire la rabbia e dare sfogo alla propria energia positiva. Volevo solo fare surf, lo avrei fatto anche con una gamba sola e se non avessi avuto le gambe avrei trovato il modo di fare surf sulle braccia...».
EDITORIALE - Macerie ideologiche di Pigi Colognesi - lunedì 4 aprile 2011 – ilsussidiario.net
L’edificio più grande del mondo è il Pentagono. Il secondo si trova a Bucarest ed è il Palazzo del popolo, fatto erigere dal dittatore comunista Nicolae Ceausescu in soli tre anni, dal 1984 al 1987. Ora si chiama Palazzo del parlamento, perché una delle sue tremila stanze - sì, tremila, di cui molte enormi - ospita attualmente le sedute dei deputati rumeni.
Questo palazzo è un mostruoso e ingombrante emblema di come funzioni l’ideologia. Prima di tutto dimostra che l’effetto principale di ogni approccio ideologico è la totale impossibilità di vedere come stanno veramente le cose. Ceausescu, padrone incontrastato dello stato rumeno attraverso il partito comunista, aveva deciso di innalzarsi uno smisurato mausoleo; seguiva personalmente tutti i dettagli, chiamava continuamente a rapporto gli oltre duecento architetti per dettare la disposizione dei locali, l’altezza dei gradini di uno scalone, il tipo di marmo da usare o i disegni dei tappeti.
Gli sembrava di poter fare tutto ciò che volesse; il potere raggiunto e saldamente, nonché sanguinosamente, mantenuto gli ha fatto credere che avrebbe potuto in fretta mostrare al mondo il suo strabiliante gioiello. Non si era accorto che la realtà, là fuori, stava cambiando, non aveva sentito gli scricchiolii del suo regime e di quelli dei “paesi fratelli” del blocco sovietico, non aveva visto le crepe che l’insoddisfazione della sua gente stava inserendo nel monolite del proprio potere. E quando è venuto il fatidico 1989 - il palazzo era finito, ma mancavano dei dettagli e la solenne inaugurazione non aveva ancora avuto luogo - Ceausescu è stato travolto dalla caduta del muro. Tradito dai suoi stesi uomini, è stato l’unico leader comunista a finire fucilato.
L’ideologia, quindi, ottunde la vista. Resta, però, dentro qualcosa che non lascia tranquilli. Quando siamo ideologici, c’è qualcosa che ci dice che stiamo barando, che non guardiamo lealmente la realtà. E questo si esprime attraverso una strana paura della realtà stessa. In Ceausescu questa paura ha aggiunto livelli paranoici: si narra che il suo palazzo abbia decine di vie di fuga sotterranee (un tunnel condurrebbe addirittura a un aeroporto fuori città di molti chilometri) e locali col tetto apribile per scappare in elicottero. Non gli è servito a nulla. Ma soprattutto l’ideologia diventa necessariamente violenta. Per fare il suo mostruoso palazzo, Ceausescu ha distrutto centinaia di case, scacciandone gli abitanti, ha costretto migliaia di persone a lavorare forsennatamente nell’immenso cantiere, ha persino obbligato le poche monache che erano sopravvissute alla persecuzione religiosa a tessere immensi tendaggi secondo una tecnica conosciuta solo da loro.
Ho visitato il palazzo di Ceausescu settimana scorsa. E mentre la guida sciorinava numeri favolosi - le tonnellate di marmi o tappeti presenti, la smisurata larghezza e altezza della sala dedicata alla firma dei trattati, la quantità di cristallo impiegata per i lampadari - pensavo al colpevole accecamento da cui era stato afferrato quell’uomo. E ai piccoli palazzi-maceria che ogni giorno produce la mia ideologia.
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CULTURA - IDEE/ Sloterdijk, il "nipotino" di Nietzsche che vuol rifare il Superuomo di Antonio Allegra - lunedì 4 aprile 2011 – il sussidiario.net
Peter Sloterdijk è uno dei protagonisti del dibattito filosofico attuale, un autore con notevole talento stilistico e provocatorio, difatti molto letto con punte da vero bestseller almeno in Germania, ma anche dotato di indubbio rigore teorico e prestigio. Dopo l’irruzione sulla scena culturale con Critica della ragione cinica (1983), da svariati anni le sue opere hanno messo a fuoco l’idea di una trasformazione radicale della condizione umana: si tratta di un tema presente fin dall’ambiziosa trilogia di Sfere (dal 1998), poi esplicitato in una celebre conferenza del 1999 (Regole per il parco umano, raccolta in Non siamo ancora stati salvati, del 2001) e oggi di nuovo ripresentata con Devi cambiare la tua vita (2009), da poco tradotto.
Non si tratta di un tema innocuo o ispirato ad un ideale lineare e poco impegnativo di “trasformazione”; al contrario, l’obiettivo è di ascendenza superomistica e nietzscheana. Non a caso qualche anno fa è nata una furibonda e istruttiva controversia: secondo molti, Sloterdijk ha affermato l’esigenza di un’evoluzione tecnocratica o di un vero e proprio allevamento dell’uomo in stirpe differenti. È stata questa, in sostanza, l’accusa che Habermas gli ha mosso, in una polemica virulenta tra protagonisti di primissimo piano. Ovviamente, che il contesto originario della discussione fosse quello tedesco non è ininfluente per le risonanze e i retropensieri della contesa, che toccava corde sensibili.
Quello che è certo è che le tesi di Sloterdijk contengono aspetti davvero radicali. A suo avviso l’impatto della modernità richiede ormai di congedarsi dall’antiquato sogno umanistico e di elaborare senza remore tradizionali una ambizione postumana. Regole per il parco umano in questo senso è emblematico: in un quadro in cui l’umanesimo viene dichiarato fallito nel suo obiettivo reale, che viene identificato con il controllo e l’addomesticamento delle spinte sostanzialmente bestiali presenti nell’uomo, e dunque ci si congeda da esso, ciò che ne risulta è un’esplicita intenzione di costruzione o produzione di uomini nuovi, ove riforme genetiche, pianificazione biologica, selezione prenatale, sono, apertamente, possibilità antropotecniche tra le altre.
È interessante, tuttavia, cogliere in quest’ultimo libro degli accenti parzialmente diversi. Il sottotitolo apparentemente resta nel quadro di idee appena tracciate: sull’antropotecnica. Si tratta ancora e sempre di una produzione dell’uomo. E tuttavia, tale produzione si orienta in direzione delle venerabili idee della conversione (metanoia), del lavoro su di sé, della pratica filosofica nel senso più profondo: uno sforzo difficile di autoperfezionamento ed elevazione. Con una punta di malignità, si potrebbe forse ipotizzare che Sloterdijk si sia in parte e tacitamente ritratto dal lato più scandaloso implicato dalle proprie idee, entrando viceversa in rapporto almeno analogico con le riflessioni dell’ultimo Foucault: la filosofia come pratica piuttosto che teoresi, caratterizzata da prescrizioni quasi rituali volte alla costruzione del soggetto piuttosto che dall’enfasi cognitiva. Un quadro interessante, che se non altro mostra che disfarsi del soggetto è più difficile di quanto molti non pensino; e che mostra la ripresa di un certo “aristocraticismo disciplinato”, non lontano - ad esempio - dalle esperienze degli ordini religiosi (Sloterdijk ricorda che i primi monaci si dicevano “atleti di Cristo”). In un certo senso l’autore tedesco rivaluta l’ascesi come sforzo antigravitazionale, per così dire: elevazione anziché abbassamento.
Resta vero che l’implicazione reale di discorsi del genere è anche quella delle disastrose illusioni di creazione dell’uomo nuovo. Da un lato il nazionalsocialismo, dall’altro le elaborazioni pedagogiche all’interno della visione bolscevica. Non è neanche il caso di ricordare gli esiti reali e tragici di questa ideologia. Sloterdijk cerca adesso, en passant, di smarcarsi da questa ipoteca, ma senza tuttavia mettere fino in fondo e sul serio in discussione il suo presupposto costruttivista.
E il motivo è chiaro. Può essere espresso formulando una domanda radicale: è in generale possibile una verticalità nello scenario in cui si muove l’autore tedesco? Come in Nietzsche, l’uomo tende verso il proprio superamento - ma, nel quadro del nichilismo, non ha a rigore a disposizione un senso dell’alto e del basso, un orientamento che permetta il discernimento. In codesto quadro, in effetti, è anzitutto scomparso il vertice superiore e il polo d’attrazione per eccellenza, il divino. La tensione agonistica, addirittura atletica, di cui ci parla Sloterdijk in quest’ultimo libro, rischia di restare uno sforzo immobile o implosivo; la sottolineatura pur appropriata del ruolo della ritualità, della ripetizione (dell’allenamento, appunto), è in sé assolutamente neutra. L’evoluzione stessa è qui per principio neutra: la stessa definizione di un über è in effetti un esempio di wishful thinking.
Più chiaramente: in un’epoca che non ha un’immagine dell’uomo riproporre la tradizione greca della fioritura umana o quella cristiana del cammino di perfezione ed elevazione, risulta contraddittorio o velleitario. La trasformazione ha un senso se possiede un orientamento, altrimenti non è che girare a vuoto. E “mettersi in forma”, in tutti i sensi dell’espressione, è possibile solo se di questa forma si ha teleologicamente un’idea. Altrimenti resta solo, come si diceva, uno sforzo genericamente costruttivista.
Sloterdijk va comunque letto cogliendone lo spessore al di là della provocazione. Il tema del postumano o transumano ha oggi una presenza davvero significativa, che trova anche altre numerose espressioni teoriche, più o meno serie: è necessario prenderlo in considerazione, pur nei frequenti limiti. Si tratta infatti di uno degli aspetti teoricamente ed eticamente cruciali della scena contemporanea, poiché in esso ne è dell’immagine che abbiamo e proponiamo dell’uomo.
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IL CASO/ Il dramma di Wadil: una famiglia cattolica lo vuole ma i genitori musulmani si ribellano... - Andrea Avveduto - lunedì 4 aprile 2011 – il sussidiario.net
Si chiamano missionarie della Carità. Fanno parte della congregazione fondata da Madre Teresa di Calcutta nel 1950. Da molti anni queste suore vestite di bianco vivono “povere tra i poveri” anche nei territori palestinesi. Nelle zone più drammatiche, dove lo stato non fornisce alcuna assistenza sociale e a parlare di welfare state c'è il rischio di passar per matti. Stanno per lo più in orfanotrofi improvvisati, strutture fatiscenti ma dignitose che accolgono tutti i bambini lasciati in strada dai genitori. In queste terre i bambini abbandonati sono spesso il frutto di un gesto di amore di donne musulmane per le quali è proibito dalla legge avere figli fuori dal matrimonio. A volte - come in questo caso - sono creature fragili con gravi problemi di salute.
Lui si chiama Wadil. I suoi occhi azzuri ti colpiscono per la vivacità che sprigionano, e il suo corpo per tutti i limiti che la sua particolare condizione gli ha imposto fin da subito. Afflitto da una malattia rarissima alle articolazioni, i suoi problemi cominciano già dalla nascita. Per i genitori, una coppia musulmana con altri figli alle spalle, non è un figlio, è un problema. Decidono di liberarsene. Dopo il parto lo affidano alle suore che lo accolgono nella loro comunità. Certi che non cercheranno mai di imporre il loro credo al bambino. Ogni tanto bussano alla porta del convento per sapere come sta.
Wadil intanto cresce, circondato da mamme premurose con il velo. Per sei anni in cerca di una famiglia che lo possa prendere con sé. Ma non è semplice: l’autorità palestinese pone all'adozione dure restrizioni che hanno come discriminante - nella maggior parte dei casi - la religione di appartenenza sia del bimbo che della famiglia adottiva. In pratica, Wadil potrebbe venire accolto solo da un’altra famiglia musulmana, che tarda ad arrivare. Un giorno di qualche mese fa giunge finalmente una richiesta da una famiglia portoghese, e cattolica. La coppia chiede alle suore di portare il bimbo con sé in Portogallo.
Ora che Wadil può cominciare ad andare a scuola, la presenza costante di una mamma e di un papà potrebbe essere la salvezza del bambino. La famiglia d’origine viene informata direttamente dalle suore. Gli chiedono se accettino la proposta. La risposta è un secco no. I genitori non hanno ancora perduto la “patria potestà”, e difficilmente potrebbero abituarsi all'idea di un figlio educato da una coppia cattolica. Abbandonato o no, non possono correre il rischio che diventi cristiano. O comunque un apostata. Meglio che rimanga in Palestina. Fanno pressioni anche al ministero perché neghi l'autorizzazione. L’autorità palestinese chiede una somma enorme di denaro alla coppia portoghese. Denaro di cui, evidentemente, non dispone. Inizia una battaglia legale ancora in corso, dall'esito incerto. Ma per il bimbo, che oggi non può far altro che aspettare, è una lotta contro il tempo.
Non sappiamo come andrà a finire. L'ultima parola spetterà al giudice. Che si pronuncerà sugli interessi degli uni e degli altri: da una parte la famiglia palestinese che non ha intenzione di lasciare un figlio in mano a dei cattolici, dall’altra una coppia che vorrebbe potergli dare un'istruzione e una possibilità di vivere. E in mezzo Wadil.
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Ma le neuroscienze sono davvero scientifiche? di Giampaolo Ghilardi, 04-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it/
In un articolo apparso su Tutto Scienze, inserto de La Stampa del 30 marzo scorso, veniva pubblicato un intervento di Idan Segev, Professore di Neuroscienze Computazionali presso l’Università di Gerusalemme in cui, tra diversi altri temi, si faceva cenno ad alcune perplessità che in ambito neuroscientifico si sono sollevate a carico della possibilità dell’esistenza del libero arbitrio nell’uomo. Di neuroscienze si discuterà anche in questi giorni, lunedì 4 e martedì 5 aprile a Milano, in occasione del Brain Forum che lì si terrà con l’alto patronato della Presidenza della Repubblica.
Non c’è facoltà scientifica oggi, o è molto raro trovarne, che non vanti un insegnamento in neuroscienze, i manuali di neurofisiologia più accreditati ne portano il nome e oggi si chiamano appunto manuali di neuroscienze. Sono insomma un punto ormai imprescindibile dell’odierno panorama culturale e scientifico, ciò nonostante non vi è grande chiarezza su cosa siano queste discipline e ancor più su che grado di oggettività e razionalità possano vantare; sono semplicemente un qualcosa che lentamente si è affermato come ospite stabile di tutti i simposi scientifici.
Ciò che si può dire in prima battuta è che questo è un pacchetto di discipline, non una sola, che convergono quanto al proprio oggetto, che si potrebbe definire il cervello e i sistemi ad esso relativi, ciascuna con un proprio approccio più o meno empirico. Non stupisca che l’approccio possa essere anche “meno” empirico poiché, tra le discipline coinvolte, figura anche una certa matematica impegnata nella ricerca degli adeguati modelli computazionali per tradurre in linguaggio aritmetico l’economia degli impulsi neurali che si vanno via via registrando e, come noto, la matematica non è una disciplina empirica in senso stretto. Tutto questo per dire che attorno alla nozione di neuroscienze gravitano un numero non esiguo di discipline, anche tra loro molto diverse, ognuna delle quali con una propria epistemologia, ovvero con proprie condizioni veridicità che non rendono il concerto neuroscientifico sempre armonico e semplice a seguirsi.
Stigma di questa nuova disciplina, che è piuttosto una polifonia di voci ancorché si persista a designarla come unica, è una certa enfasi da “magnifiche sorti e progressive” come se tutto ciò che sino ad oggi è rimasto enigma irrisolto o mistero impenetrabile sia ad un passo dall’essere sciolto per suo tramite. Sia chiaro, è questa una presunzione che da sempre accompagna ogni nuova scienza, che nasce con la sana ambizione di rispondere a quanto rimasto inevaso dal sapere precedente, salvo poi riuscire, nella migliore delle ipotesi, a riformulare le domande non già a svilupparne le risposte.
Ora sull’antico e dibattuto tema del libero arbitrio, ad esempio, le neuroscienze propongono la propria tesi, che sostanzialmente ne nega l’esistenza; intendiamoci, non è una tesi proprio nuovissima, già Democrito di Abdera nel V secolo A.C. l’aveva sostenuta e dopo di lui molti altri, la novità non sta infatti nella tesi quanto piuttosto nel modo con cui questa viene argomentata.
Il precursore di questa tesi in ambito neuroscientifico è Benjamin Libet, un neurofisiologo americano, che a partire dal 1985 cominciò a studiare l’elettrofisiologia degli atti volontari, notando in sintesi la presenza di un potenziale elettrico (readiness potential) in anticipo di 300 millisecondi rispetto alla consapevolezza dell’azione che si sarebbe andati a compiere di lì a pochi millisecondi. Libet concluse pertanto che il libero arbitrio sarebbe un’illusione, mentre di fatto ciascuno di noi sarebbe già giocato a livello cerebrale prima di aver anche solo la cognizione di ciò che starebbe per fare. Il massimo di libertà che ci resterebbe concessa sarebbe giusto quella di dire no alle intenzioni che per altra via si sarebbero fatte strada dentro di noi, indipendentemente dalla nostra volontà.
L’autore, conscio delle enormi conseguenze morali e giuridiche connesse a queste affermazioni, ritenne di trovare coerente con questa tesi il fatto che i codici morali delle principali civiltà siano esplicitati per lo più nel senso del divieto, secondo la formula del non-fare.
Nel corso degli anni si è tentato di riprodurre in diversi modi e con tecnologie sempre più avanzate e raffinate gli esperimenti di Libet, per accertarsi che il dato da lui rinvenuto fosse reale e a tutt’oggi questi filoni di ricerca godono di buona salute, ma è l’argomento di Libet un argomento reale contro la possibilità del libero arbitrio nell’uomo?
Si consideri l’argomento nel suo scheletro logico (non entro nel merito delle molte e pertinenti obiezioni che gli sono state mosse sul piano metodologico, la più cogente quella secondo cui non è in alcun modo possibile ed empiricamente verificabile il nesso tra il potenziale elettrico e l’azione successiva, e non meno stringenti quelle sui metodi per cronometrare il tempo dell’insorgenza a livello introspettivo della consapevolezza delle proprie azioni). L’argomento in sé dice che un evento elettrico è registrabile in anticipo rispetto alla consapevolezza delle nostre azioni, pertanto queste sarebbero l’esito di quello. Posta in questi termini l’argomentazione del neurofisiologo somiglia molto a quel sofisma già notato da Hume e ribadito da Kant secondo cui post hoc ergo propter hoc, vale a dire ciò che segue nell’ordine del tempo consegue anche nell’ordine delle cause, il che non è vero. Anche ammesso che qualcosa avvenga in un tempo antecedente a qualcosa d’altro questo non costituisce argomento alcuno per ritenere l’antecedente in relazione di causalità con ciò che viene dopo. La carica elettrica registrata 300 millisecondi prima della consapevolezza delle nostre azioni in nessun modo può esserne ritenuta la causa, anche potendo connettere in un modo tutt’oggi da scoprire (e che le neuroscienze ancora non sanno spiegarci) questa carica con il successivo corso dell’azione, nulla vieta, anzi molto inclina a pensarlo, che questa sia leggibile nei termini di un orientamento verso l’azione che, divenendo consapevole, potrà compiersi oppure no laddove la si sia giudicata opportuna.
Sono diversi i campi in cui le neuroscienze ambiscono a dare contributi risolutivi per lo più intesi secondo un determinismo di massima, tale per cui ogni emozione, intenzione, stato psichico o comunque dominio del mentale sarebbe ora spiegabile in termini di sinapsi o di biochimica o genetici, ma ogni volta che si approfondiscono queste supposte spiegazioni sempre riduzionistiche si resta quanto meno perplessi nel constatarne le deficienze logiche ed epistemologiche, ovvero la mancanza di vera profondità scientifica. Se la scienza, quella più autentica almeno, è la conoscenza delle cause, si deve osservare che purtroppo molto spesso dietro il prisma delle neuroscienze si trovano congetture e tesi di limitato spessore scientifico, che non scalfiscono il livello profondo delle cause, ma si limitano (e non sempre con successo) al piano del come, poi gabellato a rango di spiegazione ultima.
Chiaramente questa non è una condanna, è possibile ed auspicabile che le neuroscienze si profilino come una scienza autentica, animata da un genuino desiderio di conoscenza; occorre però per questo un atto di umiltà previa ad ogni disciplina che si volesse scientifica e che pertanto non pretenda di poter esaurire mediante il ricorso alle proprie specificità l’oggetto delle sue attenzioni. La tendenza a voler neuralizzare ogni ambito del mentale, per non dire dello psichico e dello spirituale, è anti-scientifica, poiché se è vero che non si dà anima senza corpo nel regno della biologia, è ancor più vero che l’una non si riduce all’altra, così come le risposte alla domanda sul come funzioni il corpo non possono essere contrabbandate come risposte alle questioni inerenti l’anima e la sua esistenza; sono ordini di interrogativi diversi che possono essere posti in dialogo a patto di comprendere la diversità dei piani su cui si collocano e che non si lasciano trattare gli uni con gli strumenti degli altri. L’elettro-fisiologia dei moti della coscienza è forviante allo stesso modo che lo studio delle intenzioni di un orbitale elettronico.