giovedì 14 aprile 2011

1)    Avvenire.it, 13 aprile 2011 - UDIENZA DEL MERCOLEDI' - La santità come conformità a Cristo
2)    Il Papa: «La santità, misura della vita cristiana» di Massimo Introvigne, 13-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3)    12/04/2011 – CINA - Arrestati e pestati a sangue due sacerdoti cattolici sotterranei nell’Hebei di Jian Mei
4)    PUÒ ESISTERE UN DIRITTO ALLA MORTE? - Intervista al prof. Giuseppe Zeppegno di Antonio Gaspari
5)    Questa Ue è senza futuro Prendiamone atto e ricominciamo di Riccardo Cascioli, 13-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
6)    La seconda rivoluzione d'Egitto. Sempre di velluto? di Massimo Introvigne, 13-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it/
7)    LETTURE/ Da Solzeniczyn a Grossman, sono i "giusti" ad alimentare la speranza degli uomini di Giovanni Cominelli, mercoledì 13 aprile 2011, il sussidiario.net
8)    NON LASCIARMI/ Una love story tra cloni per riflettere sulla vita e la scienza di Maria Luisa Bellucci - mercoledì 13 aprile 2011, il sussidiario.net
9)    Quando la Cassazione si accanisce sul paziente di Tommaso Scandroglio, 13-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
10)                      Se la vera trasgressione fosse la castità? di Raffaella Frullone, 14-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
11)                      Libri di testo, il problema esiste di Marco Invernizzi, 14-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
12)                      J’ACCUSE/ C'è un "diritto" a morire che vuole spegnere la voglia di vivere – Redazione - giovedì 14 aprile 2011 – il sussidiario.net
13)                      CULTURA - IDEE/ Da san Tommaso e don Giussani la più grande lezione sul cuore e la giustizia di Francesco Ventorino - giovedì 14 aprile 2011
14)                      La Denuncia di Carlo Bellieni - Negli Stati Uniti si teorizza di lasciare ai genitori la decisione di far morire il figlio se la sua vita sarà minata da malattia o handicap. Un criterio che sta entrando nei protocolli medici – Avvenire, 14 aprile 2011
15)                      Dieci anni di eutanasia, e l’Olanda non si ferma più di  Lorenzo Schoepflin, Avvenire, 14 aprile 2011
16)                      Quando la Cassazione protegge la vita di Ilaria Nava, Avvenire, 14 aprile 2011
17)                      I medici accettino le loro responsabilità di Assuntina Morresi, Avvenire, 14 aprile 2011
18)                      Metodi naturali, facciamo chiarezza di Medua Boioni Dedé*, 14-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
19)                      Una lezione di santità dal remoto Pakistan - Il martirio di Shahabz Bhatti, ministro delle minoranze religiose. "Fino all’ultimo respiro continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità". Il suo testamento spirituale pubblicato da "La Civiltà Cattolica" di Sandro Magister
20)                      «Dat»: regole chiare per prevenire l’assalto di Fabrizio Assandri, Avvenire, 14 aprile 2011

Avvenire.it, 13 aprile 2011 - UDIENZA DEL MERCOLEDI' - La santità come conformità a Cristo

Cari fratelli e sorelle,

nelle Udienze generali di questi ultimi due anni ci hanno accompagnato le figure di tanti Santi e Sante: abbiamo imparato a conoscerli più da vicino e a capire che tutta la storia della Chiesa è segnata da questi uomini e donne che con la loro fede, con la loro carità, con la loro vita sono stati dei fari per tante generazioni, e lo sono anche per noi. I Santi manifestano in diversi modi la presenza potente e trasformante del Risorto; hanno lasciato che Cristo afferrasse così pienamente la loro vita da poter affermare con san Paolo "non vivo più io, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20). Seguire il loro esempio, ricorrere alla loro intercessione, entrare in comunione con loro, "ci unisce a Cristo, dal quale, come dalla Fonte e dal Capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso del Popolo di Dio" (Conc. Ec. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium 50). Al termine di questo ciclo di catechesi, vorrei allora offrire qualche pensiero su che cosa sia la santità.

Che cosa vuol dire essere santi? Chi è chiamato ad essere santo? Spesso si è portati ancora a pensare che la santità sia una meta riservata a pochi eletti. San Paolo, invece, parla del grande disegno di Dio e afferma: "In lui – Cristo – (Dio) ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità" (Ef 1,4). E parla di noi tutti. Al centro del disegno divino c’è Cristo, nel quale Dio mostra il suo Volto: il Mistero nascosto nei secoli si è rivelato in pienezza nel Verbo fatto carne. E Paolo poi dice: "E’ piaciuto infatti a Dio che abiti in Lui tutta la pienezza" (Col 1,19). In Cristo il Dio vivente si è fatto vicino, visibile, ascoltabile, toccabile affinché ognuno possa attingere dalla sua pienezza di grazia e di verità (cfr Gv 1,14-16). Perciò, tutta l’esistenza cristiana conosce un’unica suprema legge, quella che san Paolo esprime in una formula che ricorre in tutti i suoi scritti: in Cristo Gesù. La santità, la pienezza della vita cristiana non consiste nel compiere imprese straordinarie, ma nell’unirsi a Cristo, nel vivere i suoi misteri, nel fare nostri i suoi atteggiamenti, i suoi pensieri, i suoi comportamenti. La misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua. E’ l’essere conformi a Gesù, come afferma san Paolo: "Quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo" (Rm 8,29). E sant’Agostino esclama: "Viva sarà la mia vita tutta piena di Te" (Confessioni, 10,28). Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione sulla Chiesa, parla con chiarezza della chiamata universale alla santità, affermando che nessuno ne è escluso: "Nei vari generi di vita e nelle varie professioni un’unica santità è praticata da tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio e … seguono Cristo povero, umile e carico della croce, per meritare di essere partecipi della sua gloria" (n. 41).

Ma rimane la questione: come possiamo percorrere la strada della santità, rispondere a questa chiamata? Posso farlo con le mie forze? La risposta è chiara: una vita santa non è frutto principalmente del nostro sforzo, delle nostre azioni, perché è Dio, il tre volte Santo (cfr Is 6,3), che ci rende santi, è l’azione dello Spirito Santo che ci anima dal di dentro, è la vita stessa di Cristo Risorto che ci è comunicata e che ci trasforma. Per dirlo ancora una volta con il Concilio Vaticano II: "I seguaci di Cristo, chiamati da Dio non secondo le loro opere, ma secondo il disegno della sua grazia e giustificati in Gesù Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere nella loro vita e perfezionare la santità che hanno ricevuta" (ibid., 40). La santità ha dunque la sua radice ultima nella grazia battesimale, nell’essere innestati nel Mistero pasquale di Cristo, con cui ci viene comunicato il suo Spirito, la sua vita di Risorto. San Paolo sottolinea in modo molto forte la trasformazione che opera nell’uomo la grazia battesimale e arriva a coniare una terminologia nuova, forgiata con la preposizione "con": con-morti, con-sepolti, con-risucitati, con-vivificati con Cristo; il nostro destino è legato indissolubilmente al suo. "Per mezzo del battesimo - scrive - siamo stati sepolti insieme con lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti… così anche noi possiamo camminare in una vita nuova" (Rm 6,4). Ma Dio rispetta sempre la nostra libertà e chiede che accettiamo questo dono e viviamo le esigenze che esso comporta, chiede che ci lasciamo trasformare dall’azione dello Spirito Santo, conformando la nostra volontà alla volontà di Dio.

Come può avvenire che il nostro modo di pensare e le nostre azioni diventino il pensare e l’agire con Cristo e di Cristo? Qual è l’anima della santità? Di nuovo il Concilio Vaticano II precisa; ci dice che la santità cristiana non è altro che la carità pienamente vissuta. "«Dio è amore; chi rimane nell'amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1Gv 4,16). Ora, Dio ha largamente diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di Lui. Ma perché la carità, come un buon seme, cresca nell’anima e vi fruttifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e, con l'aiuto della sua grazia, compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all'Eucaristia e alla santa liturgia; applicarsi costantemente alla preghiera, all'abnegazione di se stesso, al servizio attivo dei fratelli e all'esercizio di ogni virtù. La carità infatti, vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr Col 3,14; Rm 13,10), dirige tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine. Forse anche questo linguaggio del Concilio Vaticano II per noi è ancora un po' troppo solenne, forse dobbiamo dire le cose in modo ancora più semplice. Che cosa è essenziale? Essenziale è non lasciare mai una domenica senza un incontro con il Cristo Risorto nell'Eucaristia; questo non è un peso aggiunto, ma è luce per tutta la settimana. Non cominciare e non finire mai un giorno senza almeno un breve contatto con Dio. E, nella strada della nostra vita, seguire gli "indicatori stradali" che Dio ci ha comunicato nel Decalogo letto con Cristo, che è semplicemente l'esplicitazione di che cosa sia carità in determinate situazioni. Mi sembra che questa sia la vera semplicità e grandezza della vita di santità: l’incontro col Risorto la domenica; il contatto con Dio all’inizio e alla fine del giorno; seguire, nelle decisioni, gli "indicatori stradali" che Dio ci ha comunicato, che sono solo forme di carità. Perciò il vero discepolo di Cristo si caratterizza per la carità verso Dio e verso il prossimo" (Lumen gentium, 42). Questa è la vera semplicità, grandezza e profondità della vita cristiana, dell'essere santi.

Ecco perché sant’Agostino, commentando il capitolo quarto della Prima Lettera di san Giovanni, può affermare una cosa coraggiosa: "Dilige et fac quod vis", "Ama e fa’ ciò che vuoi". E continua: "Sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; vi sia in te la radice dell'amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene" (7,8: PL 35). Chi è guidato dall’amore, chi vive la carità pienamente è guidato da Dio, perché Dio è amore. Così vale questa parola grande: "Dilige et fac quod vis", "Ama e fa’ ciò che vuoi".

Forse potremmo chiederci: possiamo noi, con i nostri limiti, con la nostra debolezza, tendere così in alto? La Chiesa, durante l’Anno Liturgico, ci invita a fare memoria di una schiera di Santi, di coloro, cioè, che hanno vissuto pienamente la carità, hanno saputo amare e seguire Cristo nella loro vita quotidiana. Essi ci dicono che è possibile per tutti percorrere questa strada. In ogni epoca della storia della Chiesa, ad ogni latitudine della geografia del mondo, i Santi appartengono a tutte le età e ad ogni stato di vita, sono volti concreti di ogni popolo, lingua e nazione. E sono tipi molto diversi. In realtà devo dire che anche per la mia fede personale molti santi, non tutti, sono vere stelle nel firmamento della storia. E vorrei aggiungere che per me non solo alcuni grandi santi che amo e che conosco bene sono "indicatori di strada", ma proprio anche i santi semplici, cioè le persone buone che vedo nella mia vita, che non saranno mai canonizzate. Sono persone normali, per così dire, senza eroismo visibile, ma nella loro bontà di ogni giorno vedo la verità della fede. Questa bontà, che hanno maturato nella fede della Chiesa, è per me la più sicura apologia del cristianesimo e il segno di dove sia la verità.

Nella comunione dei Santi, canonizzati e non canonizzati, che la Chiesa vive grazie a Cristo in tutti i suoi membri, noi godiamo della loro presenza e della loro compagnia e coltiviamo la ferma speranza di poter imitare il loro cammino e condividere un giorno la stessa vita beata, la vita eterna.

Cari amici, come è grande e bella, e anche semplice, la vocazione cristiana vista in questa luce! Tutti siamo chiamati alla santità: è la misura stessa della vita cristiana. Ancora una volta san Paolo lo esprime con grande intensità, quando scrive: "A ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo… Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo" (Ef 4,7.11-13). Vorrei invitare tutti ad aprirsi all’azione dello Spirito Santo, che trasforma la nostra vita, per essere anche noi come tessere del grande mosaico di santità che Dio va creando nella storia, perché il volto di Cristo splenda nella pienezza del suo fulgore. Non abbiamo paura di tendere verso l’alto, verso le altezze di Dio; non abbiamo paura che Dio ci chieda troppo, ma lasciamoci guidare in ogni azione quotidiana dalla sua Parola, anche se ci sentiamo poveri, inadeguati, peccatori: sarà Lui a trasformarci secondo il suo amore. Grazie.


Il Papa: «La santità, misura della vita cristiana» di Massimo Introvigne, 13-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Il 13 aprile si è compiuta una tappa significativa nella storia del Magistero di Benedetto XVI. Dopo due anni, termina il ciclo dedicato ai santi nel corso del quale il Papa ha dato una grande lezione di metodo a chiunque s’interessi alla storia della Chiesa. Di ogni santo ha ricostruito la vita e le opere con attenzione al metodo storico e alle scienze umane, senza tacere le eventuali aree problematiche. Ma, nello stesso tempo, non ha svolto opera di mero storico accademico – non è questo, si potrebbe dire, il suo mestiere – ma ha letto ogni santo nel contesto corale della Chiesa in cammino nella storia, chiedendosi sempre che cosa quel santo ha da dire a noi oggi, come può aiutarci a vivere meglio la nostra vita cristiana.

Arrivato al termine di questo ricchissimo ciclo, su cui certamente i commentatori avranno da lavorare per anni, il Papa ha offerto «qualche pensiero su che cosa sia la santità». «Che cosa vuol dire – si è chiesto – essere santi? Chi è chiamato ad essere santo? Spesso si è portati ancora a pensare che la santità sia una meta riservata a pochi eletti. San Paolo, invece, parla del grande disegno di Dio e afferma: “In lui – Cristo – (Dio) ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità” (Ef 1,4). E parla di noi tutti». Quasi tutti i mercoledì, parlando dei singoli santi, Benedetto XVI è ritornato negli ultimi anni sul tema della vocazione universale alla santità, un caposaldo dell’insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano II e del venerabile Giovanni Paolo II (1920-1005).

Se «al centro del disegno divino c’è Cristo», in cui «il Dio vivente si è fatto vicino, visibile, ascoltabile, toccabile», allora «tutta l’esistenza cristiana conosce un’unica suprema legge, quella che san Paolo esprime in una formula che ricorre in tutti i suoi scritti: in Cristo Gesù. La santità, la pienezza della vita cristiana non consiste nel compiere imprese straordinarie, ma nell’unirsi a Cristo, nel vivere i suoi misteri, nel fare nostri i suoi atteggiamenti, i suoi pensieri, i suoi comportamenti. La misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua».

Lo insegnano, ciascuno con parole proprie, tutti i santi che il Papa ci ha presentato in questi due anni. Lo ribadisce «il Concilio Vaticano II, [che] nella Costituzione sulla Chiesa, parla con chiarezza della chiamata universale alla santità, affermando che nessuno ne è escluso: “Nei vari generi di vita e nelle varie professioni un’unica santità è praticata da tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio e … seguono Cristo povero, umile e carico della croce, per meritare di essere partecipi della sua gloria” (n. 41)».

È importante che queste affermazioni non rimangano pura teoria, soltanto belle parole. Dunque, prosegue il Papa, «rimane la questione: come possiamo percorrere la strada della santità, rispondere a questa chiamata? Posso farlo con le mie forze? La risposta è chiara: una vita santa non è frutto principalmente del nostro sforzo, delle nostre azioni, perché è Dio, il tre volte Santo (cfr Is 6,3), che ci rende santi, è l’azione dello Spirito Santo che ci anima dal di dentro, è la vita stessa di Cristo Risorto che ci è comunicata e che ci trasforma». Anche qui il richiamo del Papa è a un testo della Lumen gentium del Concilio Vaticano II: «I seguaci di Cristo, chiamati da Dio non secondo le loro opere, ma secondo il disegno della sua grazia e giustificati in Gesù Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere nella loro vita e perfezionare la santità che hanno ricevuta» (ibid., 40).

La chiamata alla santità nasce in ognuno di noi con il Battesimo. «La santità ha dunque la sua radice ultima nella grazia battesimale, nell’essere innestati nel Mistero pasquale di Cristo, con cui ci viene comunicato il suo Spirito, la sua vita di Risorto. San Paolo sottolinea in modo molto forte la trasformazione che opera nell’uomo la grazia battesimale e arriva a coniare una terminologia nuova, forgiata con la preposizione “con”: con-morti, con-sepolti, con-risucitati, con-vivificati con Cristo; il nostro destino è legato indissolubilmente al suo. “Per mezzo del battesimo - scrive - siamo stati sepolti insieme con lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti… così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6,4)». E tuttavia non c’è nulla di automatico: «Dio rispetta sempre la nostra libertà e chiede che accettiamo questo dono e viviamo le esigenze che esso comporta, chiede che ci lasciamo trasformare dall’azione dello Spirito Santo, conformando la nostra volontà alla volontà di Dio».

Ancora, il Papa si preoccupa del rischio che queste rimangano soltanto parole. Nella pratica, «come può avvenire che il nostro modo di pensare e le nostre azioni diventino il pensare e l’agire con Cristo e di Cristo? Qual è l’anima della santità? Di nuovo il Concilio Vaticano II precisa; ci dice che la santità cristiana non è altro che la carità pienamente vissuta». La carità è amore di Dio, ma questo si manifesta nel «compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’Eucaristia e alla santa liturgia; applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di se stesso, al servizio attivo dei fratelli e all’esercizio di ogni virtù».

«Forse – commenta il Papa – anche questo linguaggio del Concilio Vaticano II per noi è ancora un po’ troppo solenne, forse dobbiamo dire le cose in modo ancora più semplice. Che cosa è essenziale? Essenziale è non lasciare mai una domenica senza un incontro con il Cristo Risorto nell’Eucaristia; questo non è un peso aggiunto, ma è luce per tutta la settimana. Non cominciare e non finire mai un giorno senza almeno un breve contatto con Dio. E, nella strada della nostra vita, seguire gli “indicatori stradali” che Dio ci ha comunicato nel Decalogo letto con Cristo, che è semplicemente l’esplicitazione di che cosa sia carità in determinate situazioni». 

È quello che un tempo si chiamava piano di vita, il cui punto di partenza è l’amore di Dio preso sul serio e mostrato nella vita quotidiana. Il Papa si richiama a uno dei santi che gli è più cari, sant’Agostino (354-430). «Ecco perché – afferma –  sant’Agostino, commentando il capitolo quarto della Prima Lettera di san Giovanni, può affermare una cosa coraggiosa: “Dilige et fac quod vis”, “Ama e fa’ ciò che vuoi”. E continua: “Sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; vi sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene” (7,8: PL  35). Chi è guidato dall’amore, chi vive la carità pienamente è guidato da Dio, perché Dio è amore. Così vale questa parola grande: “Dilige et fac quod vis”, “Ama e fa’ ciò che vuoi”».

A che cosa serve, allora, ricordare tanti santi? In realtà, sempre noi «potremmo chiederci: possiamo noi, con i nostri limiti, con la nostra debolezza, tendere così in alto?». I santi sono la risposta. Forse non tutti parlano con lo stesso vigore al nostro cuore, ma tra i tanti che sono stati canonizzati troveremo certamente qualcuno capace di convincerci e di entusiasmarci. «La Chiesa, durante l’Anno Liturgico, ci invita a fare memoria di una schiera di Santi, di coloro, cioè, che hanno vissuto pienamente la carità, hanno saputo amare e seguire Cristo nella loro vita quotidiana. Essi ci dicono che è possibile per tutti percorrere questa strada. In ogni epoca della storia della Chiesa, ad ogni latitudine della geografia del mondo, i Santi appartengono a tutte le età e ad ogni stato di vita, sono volti concreti di ogni popolo, lingua e nazione. E sono tipi molto diversi. In realtà devo dire che anche per la mia fede personale molti santi, non tutti, sono vere stelle nel firmamento della storia».

Tutti, inoltre, abbiamo conosciuto nella nostra vita dei santi, che magari non saranno mai canonizzati ma che ci hanno confermato che la fede è credibile. «Vorrei aggiungere – ha detto il Papa – che per me non solo alcuni grandi santi che amo e che conosco bene sono “indicatori di strada”, ma proprio anche i santi semplici, cioè le persone buone che vedo nella mia vita, che non saranno mai canonizzate. Sono persone normali, per così dire, senza eroismo visibile, ma nella loro bontà di ogni giorno vedo la verità della fede. Questa bontà, che hanno maturato nella fede della Chiesa, è per me la più sicura apologia del cristianesimo e il segno di dove sia la verità».

Sì, «tutti siamo chiamati alla santità: è la misura stessa della vita cristiana. Ancora una volta san Paolo lo esprime con grande intensità, quando scrive: “A ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo… Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” (Ef 4,7.11-13)». «Vorrei – ha chiesto il Papa alla fine del lungo ciclo sui santi – invitare tutti ad aprirsi all’azione dello Spirito Santo, che trasforma la nostra vita, per essere anche noi come tessere del grande mosaico di santità che Dio va creando nella storia, perché il volto di Cristo splenda nella pienezza del suo fulgore. Non abbiamo paura di tendere verso l’alto, verso le altezze di Dio; non abbiamo paura che Dio ci chieda troppo, ma lasciamoci guidare in ogni azione quotidiana dalla sua Parola, anche se ci sentiamo poveri, inadeguati, peccatori: sarà Lui a trasformarci secondo il suo amore».


12/04/2011 – CINA - Arrestati e pestati a sangue due sacerdoti cattolici sotterranei nell’Hebei di Jian Mei

Da mesi padre Chen e padre Zhang sono detenuti e torturati, per costringerli ad aderire alla Chiesa ufficiale. I fedeli dell’Hebei ricordano nomi e storie di almeno 20 preti arrestati e torturati nella zona perché fedeli alla Chiesa cattolica.

Pechino (AsiaNews) – Dallo scorso gennaio sono stati arrestati e pestati in modo duro almeno due sacerdoti della Chiesa “sotterranea” (che sono in comunione con il Papa), della diocesi di Xuanhua (Hebei), vicino Pechino. Fonti di AsiaNews, che hanno chiesto l’anonimato, dicono che negli ultimi 20 anni sono almeno 20 i sacerdoti cattolici sotterranei della zona di Zhangjiakou, diocesi di Xuanhua e Xiwanzi, che sono stati torturati e hanno subito forti pressioni per convincerli a entrare nella Chiesa legata all’Associazione patriottica (Ap), controllata dal Partito Comunista cinese.

Secondo fonti di AsiaNews, il 9 aprile nella contea Yanqing di Pechino, funzionari hanno portato via padre Chen Hailong di Xuanhua. Ad oggi 12 aprile non è stato ancora rilasciato.

Padre Zhang Guangjun, pure della diocesi di Xuanhua, è stato arrestato e pestato a sangue da febbraio. Solo il 29 marzo ai suoi familiari è stato permesso di portarlo fuori per ricevere cure mediche. Egli aveva lividi alla testa e sulle gambe ed era stato torturato in carcere.

Padre Zhang è stato torturato per essersi rifiutato di concelebrare la messa con sacerdoti dell’Ap, come pure perché si rifiuta di registrarsi e prendere la “carta del sacerdote” come segno di accettazione della Chiesa autogestita e indipendente dal Vaticano. Secondo alcuni cattolici, egli aveva detto che “concelebrare con sacerdoti ‘patriottici’ non mi sarà mai possibile. Dopo questo, non mi aspetto di essere lasciato in libertà”.

Già il 13 gennaio padre Zhang era stato rapito da funzionari travestiti da tecnici per il controllo dell’impianto del gas. Fu portato in un albergo della contea Zhuolu dove per 5 notti gli hanno impedito di dormire. Dopo un breve periodo di libertà per il Nuovo anno lunare a febbraio, egli è stato di nuovo detenuto l’8 marzo, è stato percosso con forza e torturato.

Secondo le fonti di AsiaNews, dagli anni ’90 oltre 20 sacerdoti di Xuanhua e Xiwanzi sono stati arrestati, percossi, carcerati, mandati a sessioni di studio per costringerli a “registrarsi” e cessare di essere sacerdoti della Chiesa sotterranea.

“Noi – dice la fonte – siamo furiosi per le minacce, le violenze e i metodi inumani usati dai funzionari pubblici contro i sacerdoti”. “Poiché lo Stato invoca la costruzione di una società armoniosa e della libertà religiosa, noi, come cattolici cinesi, speriamo che il governo rilasci tutti i sacerdoti detenuti e rispetti la loro libertà di coscienza”.

Almeno 8 sacerdoti sono stati mandati a sessioni di studio obbligatorie: Tian Yongfeng, Pei Youming, Hu Huibing, Liang Aijun, Wang Yongsheng, Yang Quanyi, Gao Jinbao e Zhang Guilin.

Ecco l’elenco dei sacerdoti detenuti e torturati nella zona di Zhangjiakou, dagli anni ’90, compilata dai cattolici dell’Hebei.

Anni ’90: padre Wang Jiansheng e padre Cui Tai, detenuti per 3 anni; padre Zhang Li condannato al carcere.

Agosto 2006: padre Li Huisheng arrestato nella contea di Zhangbei, pestato a sangue e ricoverato in ospedale, condannato a 7 anni di carcere, sta ancora scontando la pena.

Inverno 2007: padre Wang Zhong arrestato nella contea di Guyuan, detenuto per 3 anni. Ora ha finito la pena ma è sottoposto a sorveglianza.

Settembre 2007: padre Yu Zhongxun è stato portato via per la seconda volta e torturato.

Luglio 2008: padre Zhang Jianlin è stato carcerato per 7 mesi, torturato in carcere. Ora è sottoposto a sorveglianza.

8 giugno 2009: padre Liu Jianzhong è stato arrestato, per 6 giorni gli impediscono di dormire e ogni giorno è costretto a stare in piedi e sottoposto a torture psicologiche per 18 ore. E’ stato 6 mesi in carcere.

14 giugno 2009: padre Zhang Cunhui è rapito da funzionari mentre si reca a dire la messa, costretto per 8 mesi a seguire sessioni di studio.

30 maggio 2010 (domenica della Trinità): funzionari arrestano i padri Wang Jiancheng e Li De mentre si recano a dire la messa. Padre Li è liberato dopo 2 mesi in carcere, durante i quali è private del sonno e sottoposto a torture psichiche. Padre Wang è liberato dopo 6 mesi e ora è sotto sorveglianza.

Febbraio 2011: padre Ren He della dioces di Xiwanzi è portato via e detenuto.


PUÒ ESISTERE UN DIRITTO ALLA MORTE? - Intervista al prof. Giuseppe Zeppegno di Antonio Gaspari

ROMA, martedì, 12 aprile 2011 (ZENIT.org).- Nell’ambito dell’intenso dibattito che si è scatenato in Italia circa il cosiddetto “diritto di morire”, spicca un libro titolato “La vita e i suoi limiti. Questioni bioetiche” scritto dal prof. Giuseppe Zeppegno ed edito dalle Camilliane.
Partendo dai casi Welby ed Englaro, il volume esamina le motivazioni filosofiche, antropologiche e bioetiche messe in campo per giustificare e promuovere il riconoscimento legislativo di forme camuffate di eutanasia.
L’autore ripercorre il lento processo storico che portò all’affermarsi della cosiddetta “morte dolce“ e analizza il mutato significato che il concetto ha assunto nel corso del tempo.
Il libro in questione spiega, inoltre, il perché la morale cattolica, assunta e precisata dal Magistero ecclesiale, si oppone all’eutanasia.
Circa il dibattito in corso l’analisi si sofferma sulla situazione dello stato vegetativo, ingiustamente ritenuto da molti mera permanenza biologica. In merito alle situazioni di terminalità, il libro precisa la diversità tra l’aiutare a morire (intervento attivo o omissivo finalizzato a provocare la morte) e l’aiutare nel morire.
“L’aiutare nel morire – scrive l'autore – ha il pregio di riconoscere i limiti della vita umana e della medicina che, cessata ogni speranza di guarigione, non abbandona il malato, né lo sottopone a terapie sproporzionate, ma continua a prendersene cura accompagnandolo con la necessaria palliazione”.
Giuseppe Zeppegno, sacerdote della diocesi di Torino, è direttore scientifico del Master Universitario in Bioetica nella Sezione di Torino della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e docente all’Istituto Superiore di Scienze Religiose. Ha ricoperto e ricopre incarichi di docenza anche presso il Ciclo istituzionale, il Ciclo di specializzazione in Teologia Morale e il Centro di formazione al Diaconato Permanente.
Autore prolifico di libri ed articoli scientifici, è anche assistente ecclesiastico regionale dell’A.C.O.S. (Associazione Cattolica Operatori Sanitari) e assistente ecclesiastico dell’A.M.C.I. (Associazione, Medici Cattolici Italiani).
ZENIT lo ha intervistato.
Esiste un diritto alla morte?
Zeppegno: Il diritto di morire è uno degli argomenti più controversi e dibattuti dalla letteratura bioetica soprattutto di matrice anglosassone. La questione analizzata inizialmente dalle riviste specialistiche e in ambito giuridico, catalizzò infine l’interesse dell’opinione pubblica. Il dibattito acquistò notevoli consensi anche in Italia dagli anni Novanta dello scorso secolo. Sempre più spesso, infatti, nello scenario politico e culturale italiano si fecero insistenti le voci di quanti, sostenendo che certe situazioni di vita debole non sono degne di essere vissute, proposero di sospendere i sostegni vitali indicandoli come terapie mediche sproporzionate per l’effettiva situazione clinica dei pazienti.
Quali sono gli argomenti sollevati dai sostenitori del diritto alla morte? E perché non sono sostenibili?
Zeppegno: Diversi filoni della filosofia classica e, in epoca moderna, autori come M. Eyquem de Montaigne (1533-1592) appoggiarono l’idea che è cosa migliore darsi volontariamente la morte quando la vita offre solo più dolori intollerabili. Si inaugurò così un pericoloso pendio scivoloso dove nascita, vita e morte non hanno un valore in sé, ma sono affidati all’apparente potere dell’uomo di essere arbitro indiscusso della vita. Questo modo di pensare, presentissimo anche nella cultura contemporanea, è suffragato da un’esasperata concettualizzazione del principio d’autonomia. Molti ritengono infatti che le persone devono poter autoprogettarsi e agire completamente svincolati da ogni norma morale e da ogni idea universale di bene. Sembra invece assurdo credere che la massima espressione della moralità possa coincidere con la distruzione dell’agente morale.
È altrettanto deleteria la diffusa utilitaristica convinzione che il soggetto, mortificato dalla disabilità e limitato nelle sue capacità, sia un peso inutile per la società. Una società incapace di vera solidarietà è destinata infatti a decadere sempre più in un nichilismo esasperato e distruttivo. Invece, un’assistenza sanitaria capace di interagire con le famiglie per accompagnare adeguatamente chi è in difficoltà, contribuisce alla realizzazione di un mondo più vivibile perché più ricco di umanità e di fiducia nell’altro e nelle sue capacità di sostegno.
Perché la Chiesa cattolica si oppone a tutte le forme di eutanasia? Che cosa dice il Magistero circa l’intangibilità della vita umana?
Zeppegno: Il Magistero, rispondendo alla chiamata rivolta da Gesù agli apostoli, ha il compito di formare le coscienze dei fedeli circa l’agire morale e intervenire ogni qual volta la vita e la dignità dell’uomo sono umiliate e minacciate. Tutto ciò che riguarda il vissuto umano infatti non è estraneo all’evangelizzazione. La Chiesa sentì pertanto nel secolo scorso l’urgenza d’opporsi all’arroganza delle teorie eugenetiche dei regimi totalitari che rivendicavano il diritto di dare la morte agli esseri umani la cui vita era ritenuta indegna di essere vissuta. Con altrettanta forza, ha manifestato ferma opposizione al contemporaneo eugenismo applicato alla vita nascente e terminale. Congiuntamente all’ordinamento civile democratico, affermatosi progressivamente dalla fine del secolo XVIII, ha riconosciuto i diritti innati, radicati nella natura umana, non negoziabili perché preesistenti a ogni diritto positivo e non sottoponibili ai patti sociali e ai poteri politici. Tali diritti, mai apparentemente negati, sono stati calpestati dai regimi totalitari. Rivalutati nel mondo occidentale al termine del secondo conflitto mondiale, sono stati gradualmente nuovamente rinnegati da leggi che consentono l’aborto, il suicidio assistito e l’eutanasia. I documenti magisteriali al contrario sono concordi nell’affermare la doverosità del rispetto della vita in ogni sua fase. Scevri da ogni esasperato vitalismo, riconoscono che quando la guarigione non può più avvenire e ogni terapia di sostegno risulta inutile, è giusto arrendersi alla normale fragilità umana rifiutando i mezzi troppo onerosi e, a maggior ragione, l’accanimento terapeutico. La doverosa desistenza che si applica in questi casi non ha nulla a che fare con l’eutanasia. È infatti abissale la diversità tra l’aiutare a morire (intervento attivo o omissivo finalizzato a provocare la morte) e l’aiutare nel morire. Quest’ultima possibilità ha il pregio di riconoscere i limiti della vita umana e della medicina che, cessata ogni speranza di guarigione, non abbandona il malato, né lo sottopone a terapie sproporzionate, ma continua a prendersene cura accompagnandolo con la necessaria palliazione.
Il Parlamento italiano sta discutendo una proposta di legge sul fine vita. Qual è il suo parere sul testo delle legge passata al Senato?
Zeppegno: Il decreto Calabrò, approvato in Senato il 26 marzo 2009, è purtroppo “ingessato”, costruito ad hoc sul caso Englaro e troppo poco attento alle diversissime situazioni dei malati che versano in gravi situazioni di cronicità o sono in fase di terminalità. È stato approntato e discusso in fretta e furia sull’onda dell’emozione per tentare di arginare gli sviluppi insidiosi dell’amara vicenda Englaro. “Risolto” il “caso Eluana” e terminato l’iter al Senato, il decreto, passato alla Camera, ha languito a lungo tra i meandri parlamentari. È necessario che diventi, apportate le opportune modifiche, una legge ponderata e atta a chiarire definitivamente i diritti dei più deboli e i doveri della società nei loro confronti. Sull’opportunità di una tale legge si è molto discusso con alterne e contraddittorie risposte. A molti, ancora oggi, sembra del tutto inutile. Mesi fa anch’io sarei stato dello stesso parere ritenendo sufficienti le normative giuridiche e deontologiche già esistenti. Sono ora convinto che sia opportuno arrivare al più presto a una definizione parlamentare per evitare che sulla questione, in assenza di nuove indicazioni giuridiche, singoli giudici consolidino con i loro pronunciamenti pericolose derive eutanasiche.
Sembra che il dibattito tra favorevoli e contrari all’eutanasia risolva tutte le questioni, ma non le sembra che manchi una visione grande, buona e bella dell’uomo moderno? Non le sembra il momento di superare le ideologie utilitariste e riduzioniste dell’umanità, considerando quanto male hanno già fatto nel passato?
Zeppegno: Il relativismo e il permissivismo libertario oggi dilaganti sono animati dalla convinzione che la ricerca di una verità riconoscibile universalmente sia improponibile perché intollerante del soggettivistico pluralismo valoriale. Si accontentano della “prassiologia”, di un pensiero debole e senza fondamento. Le scelte operate non sono argomentate con la graduale e faticosa ricerca dell’intelligenza della realtà e dalla verifica del principio di non contraddizione, ma sono autogiustificate immediatamente dalle singole capacità persuasive, dalla correttezza dei criteri linguistici adottati, da una novella retorica, dove acquista stima e attendibilità chi ha maggiori capacità di proporre e imporre le sue libere sensazioni, mai definitivamente codificabili perché sempre destinate a essere riformulate alla luce delle successive emozioni del momento. Non posso non condividere il rifiuto ecclesiale di definire “scientifico” questo non-metodo che non può portare nulla di buono all’armonica crescita della convivenza umana. Sono altresì convinto che sia compito dei credenti intervenire nel dibattito pubblico anche su questioni pertinenti con l’attenzione che ogni cittadino deve avere per ciò che riguarda il bene comune (difesa dei diritti degli oppressi, giustizia nelle relazioni internazionali, difesa della vita e della famiglia, libertà religiosa e libertà di educazione...). Credo infine che solo l’apertura alla metafisica e l’interdisciplinare e sereno confronto tra teologia, filosofia e scienze umane, potranno identificare concretamente le strade per cercare costantemente, in un clima di solidarietà e giustizia, il vero bene dell’uomo in ogni situazione di vita.



Questa Ue è senza futuro Prendiamone atto e ricominciamo di Riccardo Cascioli, 13-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

La polemica reazione del ministro Maroni alla mancata solidarietà degli altri paesi dell’Unione Europea sull’emergenza profughi pare rientrata. L’11 aprile Maroni aveva detto senza mezzi termini che “a questo punto è meglio uscire dalla Ue”. Il giorno successivo è stato il leader della Lega Nord, Umberto Bossi, a stemperare la polemica parlando di “rabbia” passeggera, dopo un intervento (a quale titolo?) del presidente della Repubblica Napolitano che invitava a non esasperare le tensioni tra Italia e Ue.

Eppure la “provocazione” di Maroni andrebbe quanto meno presa sul serio. Non perché sia giusta una rappresaglia per il mancato aiuto sulla questione profughi, ma perché la “profonda delusione” in materia denunciata ieri anche dal segretario di Stato Vaticano, cardinale Tarcisio Bertone, è la spia di qualcosa che nell’Unione Europea chiaramente non funziona. E non si tratta di questo o quel meccanismo istituzionale, ma il motivo stesso per cui una tale Unione deve esistere.

Non può non risaltare infatti l’evidente sproporzione tra la massiccia invadenza delle istituzioni comunitarie in materie – come la famiglia e la vita – che peraltro sono di pertinenza esclusiva dei singoli stati e la preoccupante e imbarazzante assenza in questioni politicamente decisive. Da una parte troviamo una ossessiva pretesa di intervenire nelle legislazioni nazionali in fatto di aborto, unioni gay, e diritti umani vari; dall’altra un’incapacità di leggere gli avvenimenti epocali e di prospettare un indirizzo al di fuori degli angusti confini comunitari.

In questi giorni è stata più volte lamentata la mancanza di solidarietà degli altri Paesi Ue verso l’Italia, ma come ha scritto nei giorni scorsi Robi Ronza, la questione del Trattato di Schengen e dei permessi temporanei è molto discutibile; e se qualche paese si gira dall’altra parte è anche vero che l’Italia cerca di giocare con furbizia.

Dove sta allora il problema? Nell’immediato sta nel fatto che l’Unione Europea non sente neanche la necessità di individuare dei criteri e di adottare meccanismi istituzionali comunitari per fare fronte a situazioni d’emergenza, come quella rappresentata ad esempio dall’immigrazione: è chiaro che non basta dare dei soldi ai paesi di confine, e poi se la sbrighino loro. Serviva forse una struttura elefantiaca come la Ue per fare una cosa che si potrebbe tranquillamente decidere anche senza?

Ma in un orizzonte geografico e temporale più ampio il problema sta nel fatto che questa Europa è incapace di vedere, comprendere e confrontarsi con la realtà che la circonda. Un clamoroso esempio è stato offerto dalle crisi dei paesi nordafricani e del Medio Oriente che durano ormai da mesi, ma sulle quali la Ue non ha mai avuto nulla da dire: né un piano di aiuto, né una lettura profonda degli avvenimenti, né un indirizzo politico che, ad esempio, contribuisca a fare evolvere le crisi verso soluzioni maggiormente rispettose della dignità umana. Il nulla, e sì che stiamo parlando di paesi che sono ai nostri confini. L’emergenza profughi è soltanto una conseguenza di questa cecità. L’avventurismo militare franco-britannico in Libia un’altra.

Del resto una visione politica nasce da un patrimonio di valori ed esperienze figlio di una identità culturale ben definita. E qui sta il nocciolo del problema europeo: una volta che si è rifiutato di guardare e prendere sul serio le proprie radici storiche e culturali, non c’è nulla su cui poggiare per guardare al futuro. Resta soltanto la faticosa negoziazione giorno per giorno, problema per problema, con decisioni anche contraddittorie suggerite da interessi immediati e transitori. E resta l’arroganza e invadenza di burocrati e tecnocrati che da Bruxelles, in questo vuoto, pretendono di dettare i comportamenti quotidiani dei cittadini europei.

Una Unione Europea è necessaria e auspicabile. Ma questa Europa, è evidente, non ha futuro; c’è bisogno di ricominciare partendo proprio da quelle domande che si sono volute fin qui censurare: cos’è che ci fa Europa? Quali sono le radici della nostra civiltà e qual è la nostra vocazione? L'Italia, invece di minacciare l'uscita dalla Ue, dovrebbe cominciare a porre con chiarezza queste domande.


La seconda rivoluzione d'Egitto. Sempre di velluto? di Massimo Introvigne, 13-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it/

Tra i Paesi mediorientali protagonisti delle rivolte del 2011 contro i regimi dittatoriali, l’Egitto è quello di gran lunga più importante. A differenza delle rivolte in Tunisia e in Libia, che hanno preso di sorpresa tutti i commentatori, quella egiziana era in qualche modo attesa. Contro il regime del presidente Hosni Mubarak, un tipico esempio di dittatore laico-nazionalista impopolare e corrotto, c’erano già state proteste duramente represse, nel 2000 e nel 2003, e un lungo sciopero generale nel 2008. Da tre o quattro anni molti si chiedevano che cosa impedisse alla rivoluzione di scoppiare.

Il 6 giugno 2010 un giovane attivista che protestava via Internet, Khaled Said (1982-2010), è arrestato ad Alessandria in un Internet caffè. Muore poco dopo durante la detenzione, e tutti accusano la polizia. Un dirigente egiziano di Google che vive a Dubai, Wael Ghoneim, fonda su Facebook il gruppo «Siamo tutti Khaled Said», che ottiene un enorme successo. Di ritorno in Egitto, sarà arrestato il 27 gennaio 2011. Il caso Khaled Said è solo una delle cause prossime della rivolta. C’entrano anche gli evidenti brogli nelle elezioni del novembre 2010 e soprattutto l’esempio della Tunisia, che spinge gli attivisti di «Siamo tutti Khaled Said» e di altri gruppi diffusi su Facebook e su Internet a proclamare un giorno nazionale di protesta per la giornata (festiva) del 25 gennaio 2011, che ha un grande successo non previsto dagli stessi organizzatori.

Il movimento - che ha certo aspetti positivi nella sua denuncia della corruzione e delle ingiustizie diffuse - è ampiamente spontaneo. Non lo organizza l’Occidente, che ha buoni rapporti con il regime di Mubarak. Non lo organizzano i Fratelli Musulmani, la principale associazione fondamentalista, la cui dirigenza nei primi giorni della rivolta si mostra semmai molto riservata. È semai il movimento giovanile dei Fratelli Musulmani a trascinare nella rivolta dirigenti inizialmente riluttanti. Nelle zone lontane dal Cairo, specie nel delta del Nilo, dove godono di un’indiscussa egemonia politica i Fratelli Musulmani prendono però a poco a poco la guida delle manifestazioni.

Ma al Cairo tutto è molto più confuso. Lottando contro la polizia che interviene con i manganelli e il gas lacrimogeno, e lasciando sul terreno anche qualche morto, i manifestanti occupano la centrale Piazza Tahir e ne tengono il controllo fino a una seconda grande manifestazione organizzata per il 1° febbraio 2011. Il 2 febbraio i miliziani del regime cercano di riprendersi la piazza con coltelli e bastoni, ma sono respinti, anche perché i primi reparti militari cominciano a schierarsi con i manifestanti.

Ma chi sono i manifestanti, esattamente? Essi hanno in comune un solo punto programmatico: Mubarak se ne deve andare. Salvo questo, sono divisi su tutto. I Fratelli Musulmani vogliono più islam. I seguaci del tecnocrate Mohammed El Baradei, già direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Agenzia Atomica dell’ONU e discusso premio Nobel per la pace nel 2005, vogliono meno islam. Gli attivisti islamici, che considerano Mubarak troppo laico, vogliono la liberazione degli arrestati come sospetti della strage di Capodanno di Alessandria contro i cristiani copti. Ma in Piazza Tahir ci sono anche copti che vogliono la libertà religiosa. C’è chi chiede ai grandi industriali di riorganizzare l’economia egiziana e chi lancia slogan socialisti.

La corruzione del regime di Mubarak e la gestione fallimentare della crisi economica tengono unita la piazza, ma non emerge una chiara dirigenza. Il 3 febbraio un gruppo di leader della società civile – fra cui il più noto industriale egiziano, Naguib Sawiris, proprietario in Italia di Wind – forma un gruppo di contatto per proporre soluzioni. Ma né loro né El Baradei, rientrato in Egitto, convincono la folla di Piazza Tahir. Più popolare è il dirigente di Google Wael Ghoneim, rilasciato dal carcere il 7 febbraio. Ma emerge ben presto che non ha alcuna esperienza politica, né - forse - un progetto.

La protesta però cresce in modo incontrollabile e l’11 febbraio l’Esercito comunica che Mubarak si ritira e lascia il potere a un Consiglio Supremo delle Forze Armate - guidato dal generale Mohamed Hussein Tantawi, per vent’anni ministro della Difesa di Mubarak -, che resterà al potere provvisoriamente in attesa di libere elezioni politiche annunciate per il settembre 2011. Il governo provvisorio comprende anche alcuni civili, tra cui il costituzionalista Yehya Abdel-Aziz al-Gamal, un uomo di El Baradei, e un copto, Mounir Fakhry Abd El Nour, che diventa ministro del Turismo. Il mondo saluta la vittoria dei «ragazzi di Facebook». Ma è tutto oro quello che luccica?

L’11 febbraio, più che a una vittoria dei rivoltosi, si è assistito a un colpo di Stato. I militari si sono liberati dell’ormai impresentabile Mubarak. La loro mossa è stata in parte popolare, specie fuori del Cairo, dove il disordine regnava sovrano, edifici pubblici erano assaltati e negozi saccheggiati. La popolazione, che pure non amava la polizia di Mubarak, chiedeva che “una” polizia rimettesse le cose a posto. L’imposizione dell’ordine pubblico è però una mossa ambigua, da parte di una categoria - quella dei militari egiziani - che ha sempre operato nella segretezza. Ne sono venuti segnali contraddittori. I militari hanno subito aperto una pagina Facebook e hanno annunciato che, fedeli all’originalità della «rivoluzione», comunicheranno soprattutto con questo strumento. Ma un blogger che criticava l’Esercito è stato prontamente arrestato e condannato a tre anni di carcere. Hanno dato garanzie alla minoranza cristiana. Ma le violenze contro i copti non si sono fermate e l’11 aprile tutti i sospetti dell’attentato di Alessandria sono stati scarcerati. Il 19 marzo un referendum di riforma costituzionale è stato facilmente approvato, ma la maggior parte dei commentatori giudica le modifiche insufficienti per instaurare un regime compiutamente democratico. Né è stata messa in discussione la legge islamica come fondamento dell’ordine costituzionale egiziano.

Negli ultimi giorni molti manifestanti sono tornati in Piazza Tahir chiedendo le dimissioni di Tantawi, troppo legato al vecchio regime, e il nuovo governo dei militari – salutato inizialmente come espressione della «rivoluzione» – non ha esitato a usare la mano pesante (due morti), anche se nello stesso tempo ha accolto le domande perché si proceda legalmente contro Mubarak e i suoi principali collaboratori. Uno di questi, l’ex presidente del Senato Safwat Al Sherif è stato arrestato l’11 aprile. Non sembra che i militari desiderino rimanere al potere a lungo. Ma neppure accettano di perdere i privilegi di cui hanno fino ad ora goduto. Per le elezioni di settembre annunciano di essere aperti a una supervisione internazionale che eviti i brogli. Ma non c’è molto tempo perché le forze politiche si organizzino.

I più organizzati - anche se dovranno cambiare pelle e nome per presentarsi alle elezioni - sono i vecchi collaboratori di Mubarak, il meno impopolare dei quali - il segretario della Lega Araba Amr Moussa - è sceso per tempo in Piazza Tahir e ha abbandonato la sua carica internazionale per dedicarsi a tempo pieno alla politica egiziana. A contendere il potere a Moussa forse non sarà tanto El Baradei - stimato ma non popolare - quanto il gruppo dei partiti islamici, al cui interno si manifesta una competizione fra i Fratelli Musulmani, nettamente maggioritari e che promettono di presentarsi alle elezioni tramite un partito non confessionale, «Libertà e Giustizia», e un gruppo –i l Wasat («Centro») - che si è staccato dai Fratelli fin dal 1996 presentandosi come più aperto al dialogo con l’Occidente, mentre dovrebbe partecipare alle elezioni anche il partito Nahda («Risveglio»), risultato di una scissione conservatrice dei Fratelli cui nelle ultime settimane hanno aderito importanti dirigenti del movimento.

In effetti, all’interno dei Fratelli Musulmani esistono conflitti generazionali e di leadership fra chi rimane legato al modello fondamentalista originario e chi ammira il conservatorismo islamico del primo ministro turco Erdogan.

In verità, chi parla di una contrapposizione fra un «mubarakismo senza Mubarak» e i Fratelli Musulmani semplifica un quadro più complesso. Negli ultimi anni - pur escludendoli dal potere politico - Mubarak aveva governato in tacita intesa con i Fratelli Musulmani, cui aveva lasciato l’egemonia sulla società civile, moltiplicando i segni d’islamizzazione e di discriminazione verso la minoranza cristiana. L’alleanza fra gli eredi «critici» di Mubarak e i Fratelli Musulmani è dunque nelle cose e si è già manifestata con il referendum costituzionale del 19 marzo. Una «democrazia» in coabitazione fra «mubarakismo senza Mubarak» e islam politico assomiglierebbe forse troppo al vecchio regime per i gusti di chi continua ad andare a manifestare in Piazza Tahir. Ma non sembra ci siano grandi alternative. I ragazzi di Piazza Tahir che chiedono una seconda rivoluzione reclamano gesti simbolici di rottura con il regime – come il processo al vecchio dittatore – ma non sembrano avere un progetto alternativo per il nuovo Egitto. Che rischia dunque di assomigliare al vecchio, con un po’ più di democrazia e - a seconda del risultato elettorale dei Fratelli Musulmani e degli altri partiti islamici - un po’ più d’islam e di ostilità a Israele, e nessun cambiamento nella discriminazione dei cristiani.


LETTURE/ Da Solzeniczyn a Grossman, sono i "giusti" ad alimentare la speranza degli uomini di Giovanni Cominelli, mercoledì 13 aprile 2011, il sussidiario.net

Gabriele Nissim è presidente del Comitato per la foresta dei giusti nonché autore di libri che hanno descritto i protagonisti di azioni giuste e talora eroiche contro i totalitarismi moderni.
Il suo ultimo libro La bontà insensata.  (Mondadori, 2011) non è propriamente un saggio storico. Non vi mancano storie di personaggi e di eventi, ma in filigrana vi si legge l’autobiografia di un itinerario intellettuale e spirituale. Come molti della sua generazione, Nissim ha condiviso attivamente speranze, miti, illusioni di quell’universo che parve loro (a noi!), all’epoca, in infinita espansione: il ’68. E quando dalla cultura dei diritti civili e delle libertà in salsa permissiva, il movimento sul finire del secondo “biennio rosso” del ’900 virò, all’indietro, verso gli archivi della storia del movimento operaio degli anni ’20 e ’30 del Novecento e ne saccheggiò analisi, categorie, visioni, anche Gabriele Nissim si avviò per quella strada. Ma lo studio più ravvicinato del sottosuolo del dissenso nei Paesi dell’Est lo ha portato già sul finire degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80 verso un ribaltamento radicale della mitologia “rivoluzionaria”.
Questa rottura epistemologica non è accaduta principalmente per linee filosofiche interne, anche se la meditazione dei libri di Hannah Arendt ha certamente aperto orizzonti nuovi. Ha avuto un ruolo decisivo il confronto con esperienze di anti-totalitarismo militante in Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria, Unione sovietica... Nissim ha incontrato in quegli anni i gruppi perseguitati o mal tollerati del dissenso che dopo il 1989 sarebbero saliti a posti di responsabilità in quasi tutti i Paesi dell’Est. L’idea rivoluzionaria prometteva “cieli nuovi e terra nuova”, popolati, naturalmente, da una nuova specie umana, che oltrepassava l’homo sapiens: l’homo novus. L’uomo attuale è un animale imperfetto: il comunismo gli leverà le imperfezioni, a forza di ruvido scalpello, così come Michelangelo fa emergere la sublime Pietà Rondanini dalla pietra grezza. Sarà necessario sacrificare alcune generazioni, annientare alcuni milioni di uomini reali e rinviare al futuro la soddisfazione dei bisogni elementari presenti, ma, alla fine, il Male sarà eliminato dalla storia e dall’anima dell’uomo.
Del resto, lo aveva già detto Hegel: l’Assoluto percorre la storia con passo pesante, calpestando i fiori sul sentiero. La piena separazione del Bene dal Male, il trionfo del Bene e lo schiacciamento del Male è il sogno antico del dualismo iranico, del messianismo ebraico, del millenarismo di Gioachino da Fiore, dell’utopismo cinque-secentesco, dell’hegelismo, del marxismo e del positivismo e, più recentemente, del neo-millenarismo biotecnologico. E’ la tensione ineliminabile del cuore dell’uomo all’Assoluto che, non sorvegliata, finisce per approdare a qualche specie di vitello d’oro. Rispetto a quelle suggestive e tragiche costruzioni teoriche, questo libro non offre un palazzo alternativo. Molti filosofi e pensatori politici lo hanno già fatto, Nissim cita per tutti Hannah Arendt.
Ma a me viene in mente Albert Camus, che nei primi anni ’60, poco prima di morire, invoca l’adozione di “un pensiero politico modesto, cioè liberato da ogni forma di messianismo e sgombro della nostalgia del paradiso terrestre”. Lo scritto di Nissim offre storie di personaggi come Moshe Bejski, artefice del Giardino dei Giusti di Gerusalemme, Guelfo Zamboni, console generale d’Italia a Salonicco durante l’occupazione tedesca, Khaled Abdul Wahab, frequentatore di bordelli tunisini e salvatore di donne ebree, Zofia Kossak, polacca cattolica e antisemita, ma protettrice di ebrei, Vasilij Grossman, grande scrittore, ma anche silente all’epoca della ideazione staliniana del “complotto dei medici ebrei” contro l’URSS, Pavel Florenskij, che ha resistito a Stalin fino a morirne, il poeta Mandelstam, lo scrittore Solzenicyn, Vàclav Havel... Quali sono i pensieri che li accomunano? Dice Bejski, in un colloquio con Nissim, pochi mesi prima di morire in ospedale a Gerusalemme: “...non riusciremo mai a debellare dalla Storia il male che gli uomini commettono nei confronti di altri uomini”. Dopo Auschwitz, è arrivato altro. E sta ancora accadendo...
Allora, dove sta il fondamento della speranza? La risposta: “possiamo sempre contare sull’opera degli uomini giusti, che in ogni epoca hanno il coraggio di affrontare il male e che ogni volta salvano il mondo”. Gli uomini giusti: non sono, quasi mai, degli eroi. Sono persone quotidiane, con il loro male e loro paure, a volte anche un po’ mascalzoni, possono essere persino antisemiti, fascisti, nazisti, stalinisti. Il bene non è sempre luminoso. Spesso abita una terra grigia. Eppure uomini e donne, cosiffatti, decidono di compiere verso un altro uomo un atto di “bontà insensata”, secondo la splendida definizione che ne dà Vasilij Grossman. Donde viene questa capacità di opporsi, di dire no? Viene da una teoria, da una filosofia del Bene, da una fede, da una teologia? Viene dal “cuore dell’uomo”. E questo quid incomprimibile, che tiene aperta la storia degli uomini, che dà la forza di “non partecipare personalmente alla menzogna”, come invitò a fare Solzenicyn, all’indomani del suo arresto; che fa apparire la solitudine del giusto come un luogo creativo di una rinnovata posizione di fronte al mondo, come scrive Jan Patocka, il filosofo cecoslovacco duramente perseguitato dal regime; che crea la “polis parallela”, come ha scritto V. Havel, che non ha pretese di avanguardia rivoluzionaria, ma che è rivoluzionaria.
Al fondo sta la fedeltà alla verità, il vivere la verità: “meglio essere in disaccordo con il mondo che con la propria coscienza”. Non è forse vero che “la verità vi renderà liberi”? Certo che anche qui sotto sta un’antropologia, un’idea del mondo, che è anche quella dell’Autore: disponiamo nel nostro cammino umano di un piccolo spazio, solo nostro, quello della nostra responsabilità e libertà. E’ un’antropologia del limite e della finitudine. E’ lo spazio dei nostri “giorni contati”. Qui la nostra libertà si incontra con il nostro destino. Il bello di questo libro è che queste verità profonde ed elementari non scaturiscono da un trattato di filosofia politica, ma da persone reali, da testimoni del nostro tempo. Perciò e’ un libro profondamente didattico ed educativo.
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NON LASCIARMI/ Una love story tra cloni per riflettere sulla vita e la scienza di Maria Luisa Bellucci - mercoledì 13 aprile 2011, il sussidiario.net

Vorrei, nella mia vita, poter incontrare un amore come quello di Kathy e Tommy. Dolce nell’affetto, puro nell’essenza, assoluto nelle intenzioni. Che non chiede altro in cambio se non il tempo per essere vissuto. Come un castello di sabbia spazzato via dal mare, il loro amore combatte il destino malinconico delle loro vite. Perché Kathy - una strepitosa Carey Mulligan -, Tommy (Andrew Garfield) e Ruth (Keira Knightley) non sono persone normali, bensì cloni creati per donare gli organi. Il che rende la loro esistenza tragica, sterile di fronte alle opportunità della vita, relegati come sono sull’unico binario che la scienza ha scelto per loro.
In Non lasciarmi, tutto ha inizio ad Hailsham, nella campagna inglese - come ci racconta con un lungo flashback l’ormai ventottenne Kathy - dove lei e i suoi due amici vengono cresciuti da tutori severi nelle regole ed esigenti nello studio della letteratura, dell’arte, della geografia. Totalmente ignari della vera vita e del mondo oltre la recinzione del collegio, i ragazzi di Hailsham non conoscono il loro destino. È Miss Lucy a svelarglielo.
Una volta usciti da quel luogo di grigia perfezione, nessuno di loro sarà padrone della propria vita. Alcuni di essi inizieranno il ciclo di donazioni, che terminerà con il completamento - la morte - entro i trent’anni di vita. Altri, come Kathy, potranno procrastinare questo momento diventando assistenti, ovvero accompagnando all’ultimo trapianto i donatori.
Tutta la storia è pervasa da un’atmosfera cupa, statica, alienante nella rassegnazione in cui Kathy, Tommy e Ruth sopravvivono. Non c’è un secondo del film in cui non ci si chieda per quale motivo non scappino dall’esistenza che qualcun altro - la scienza - ha scelto per loro. Verrebbe quasi da alzarsi e urlarlo, ma non ce la si fa, si resta inchiodati alla poltrona, consapevoli che quell’urlo resterebbe sordo.
Questa domanda, che vive più come un’implorazione, risuona inquietante nel primo tempo, in cui il regista, attraverso le parole di Kathy, ripercorre gli anni dell’infanzia e adolescenza ad Hailsham. La malinconia e il grigiore di quei giorni entrano nello spettatore, che impara a condividere il senso di alienazione e rassegnazione dei tre ragazzi. Alienazione verso la propria vita e rassegnazione verso un’esistenza che non possono modificare. Perché è come se non avessero altra scelta, come se vivessero in un universo parallelo sterile e arido nelle prospettive future, ma non nei sentimenti.
Forse è proprio per questo, per il rafforzarsi di sentimenti unici nel loro bisogno di essere vissuti, che la stessa domanda di prima - per quale motivo non scappino - diventa sempre più urgente e incessante nella seconda parte del film. Quando, trascorsi gli anni di Hailsham, la storia decolla insieme all’amicizia, già evidente, all’amore e alle gelosie che uniscono e dividono Kathy, Tommy e Ruth. E quando ormai ci si rende conto che il loro destino è ineluttabile, la domanda non è più “perché non scappate”, bensì “perché sta succedendo proprio a loro?”.
Kathy e Tommy, che si amano da sempre, ma si ritrovano solo quando il loro tempo sta per scadere, sabbia che scorre troppo rapida nelle clessidre della loro vita. Nelle loro mani che si stringono per non lasciarsi più, nei loro occhi che si incontrano e nei sorrisi malinconici e innamorati sta il senso del titolo del film. Nonostante il loro amore sia sterile perché, in quanto cloni, non possono procreare. Nonostante la loro vita una parvenza di senso ce l’abbia, quella di strappare alla morte altri esseri umani. Nonostante siano rapinati di quanto abbiano di più prezioso, il tempo. Nonostante tutto questo, l’eternità del loro amore sta in quel loro consapevole e complice ultimo sguardo.
Noi spettatori soffriamo con loro ed è crudele il regista nel chiederci di provare ancora più dolore vivendo la storia attraverso gli occhi di Kathy, che, della rassegnazione incarna il senso di consapevolezza, mentre Tommy la fragilità, l’incapacità di gestire la cattiveria del mondo e Ruth l’invidia, la necessità di rubare agli altri il sentimento che lei non riesce a provare.
Ci si chiede che razza di scienza sia quella che crea altri esseri umani con il solo scopo di usarli - uccidendoli - per salvare altre vite. Soprattutto nel mondo descritto dal regista Mark Romanek e da Kazuo Ishiguro nell’omonimo libro da cui il film è tratto, in cui gli uomini “reali”, quelli da cui sono stati estratti i cloni, sembrano privi di sentimento. Come se l’esistenza non viva più del cuore pulsante delle emozioni, ma sia ridotta ad un semplice scambio di organi.
Noi spettatori, però, stiamo dalla parte loro. Di Kathy, Tommy e Ruth. Come quella barca arenata che a un certo punto del film si staglia su di una spiaggia bianchissima. La stiamo a guardare all’infinito da quanto è meravigliosa nella sua rovinosa fragilità. Giace lì, silenziosa, ma, ad ascoltarla bene, sembra poterla sentire urlare di dolore.
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Quando la Cassazione si accanisce sul paziente di Tommaso Scandroglio, 13-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Il fatto. Giovedì 7 Aprile la Cassazione ha depositato una sentenza che ha fatto molto parlare. Si tratta della condanna a varie pene detentive – ormai prescritte – per tre medici dell'ospedale San Giovanni di Roma che avevano operato una donna quarantenne affetta da tumore con metastasi diffuse. La paziente, perfettamente informata sugli alti rischi di un’operazione, durante un primo intervento aveva subito un’importante emorragia causata da una laparoscopia addominale e poi era spirata a seguito di un successivo intervento praticato al fine di riparare a tale danno. Il reato configurato è quello di omicidio colposo. Dove sta la colpa secondo i giudici di Roma? A causa delle “indiscusse e indiscutibili della paziente [...] non era possibile fondatamente attendersi dall'intervento (pur eseguito in presenza di consenso informato della paziente, madre di due bambine e pertanto disposta a tutto pur di ottenere un sia pur breve prolungamento della vita) un beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita”. I medici dunque erano colpevoli di trattamenti che configurano “forme di inutile accanimento diagnostico-terapeutico”. Questi i fatti che ci permettono di svolgere qualche riflessione, astraendo dal caso concreto per tentare di individuare alcuni principi ispiratori della buona prassi medica e della buona prassi giuridica.

Cosa è l’accanimento terapeutico? Per accanimento terapeutico si deve intendere un trattamento di documentata inefficacia perché sproporzionato agli obiettivi. Cioè si fa una proporzione tra costi sopportati e benefici sperati, soprattutto in termini di aspettativa di vita, dato che spesso tale categoria concettuale interessa situazioni cliniche in cui il malato è in uno stadio terminale di una patologia. I criteri per decidere se esista questa proporzione sono dei più vari: il tipo di terapia, il grado di difficoltà e rischio della stessa, le spese da sopportare (andare all’estero e sottoporsi ad un intervento che costa decine di migliaia di euro trascinando la famiglia nella povertà più nera per allungare la vita di qualche settimana potrebbe configurare accanimento terapeutico), le possibilità concrete di applicazione, le condizioni dell’ammalato che possono rendere eccessivamente gravoso per il paziente una certa cura, etc. Come si potrà intuire dato che la variabili in gioco sono quasi infinite tutti questi criteri ed altri ancora dovranno essere declinati nel caso particolare per comprendere, alla luce anche della letteratura scientifica, se il gioco vale la candela.

A chi spetta decidere se esista questa proporzione tra mezzi e risultati? Al medico sentito il paziente e, se quest’ultimo è incosciente, al medico ascoltati i familiari. Prendiamo spunto dal primo caso: un paziente in stadio terminale della malattia e cosciente che i suoi giorni stanno volgendo al termine acconsente a sottoporsi ad un intervento medico, anche assai gravoso, perché vuole allungare la propria vita di quel tanto che gli permetterebbe ad esempio di redigere testamento (non biologico), di mettere a posto i propri affari, di rappacificarsi con qualcuno, di prepararsi spiritualmente a morire, etc. Questo configurerebbe accanimento terapeutico? No, dato che secondo il paziente c’è proporzione tra mezzi adoperati seppur importanti sul versante clinico e risultati sperati, cioè allungamento della vita seppur di poco. Nel caso oggetto della pronuncia della Cassazione è vero che la donna voleva più tempo per stare con i propri figli – desiderio rispettabilissimo – ma a quanto pare, viste le condizioni gravissime in cui versava la stessa, la speranza di allungare anche di poco la propria vita non era concretamente realizzabile. Non si chiede dunque al medico che ci fornisca la certezza del buon esito del trattamento – il medico non è legato al paziente da alcun vincolo contrattuale né di mezzi né tantomeno di risultati – però almeno una possibile speranza di riuscita.

Schizofrenie giurisprudenziali. Detto ciò comunque ci pare che la Cassazione operi con due pesi e due misure a volte, a corrente alternata potremmo dire. Da una parte, vedi caso Eluana e Welby, il consenso del malato – anche se per la donna di Lecco tale consenso era inesistente e si è dovuto ricostruirlo a posteriori in modo artefatto – è un limite invalicabile, un molok intoccabile e sacro, che il medico deve supinamente rispettare e mai valicare, anche nel caso in cui il rifiuto di trattamenti medici o addirittura di mezzi di sostentamento vitale, quali acqua e cibo, porterà alla morte del paziente. Dall'altra, ed è il nostro caso, si ignora il consenso del malato sostituendosi a lui nel determinare i suoi migliori interessi. A ciò si aggiunga che per Eluana si ricostruì un consenso inesistente e la si fece morire, qui di fronte ad un consenso esistente, perchè formale, lo si supera negando qualsiasi chanches di sopravvivenza: sembra proprio che la Cassazione sia animata da una volontà a senso unico eutanasica. Infine annotiamo che nel caso Welby il rifiuto fu espresso dal paziente, qui il rifiuto, se fosse stato possibile, sarebbe stato posto dai giudici: dall’autodeterminazione all’eterodeterminazione dunque. Si toglie lo scettro della decisione al diretto interessato e ci si sostituisce a lui perché, così si fa intendere, egli non è in grado di comprendere quale è il suo miglior bene. Ecco in questo caso, dobbiamo amaramente ammetterlo, la posizione delle toghe romane è stata coerente con il caso Eluana, dato che anche in quel frangente i giudici agirono per il “best interest” della paziente. O forse per il best interest di una certa ideologia necrofila.


Se la vera trasgressione fosse la castità? di Raffaella Frullone, 14-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

E se la forma più originale di trasgressione sessuale fosse la castità? E se tornasse ad essere di moda?

Lo spunto per riflettere su quella che gran parte del mondo non solo non considera una virtù, ma anzi un vetusto e anche un po’ retrogrado retaggio del passato ce lo regala la vicenda di una donna ricchissima e bellissima, Kathleen Pratt, che sembrava avere avuto tutto dalla vita. Invece…


“Vivo in una villa lussuosa, guido una Cadillac, come vedete indosso diamanti e gioielli, ma sono qui per dirvi che tutto questo non conta veramente niente”. Bionda, slanciata, perfettamente pettinata e truccata, Kathleen Pratt incontra gruppi di adolescenti ogni due settimane nelle vicinanze delle cascate del Niagara e non usa mezzi termini: “Vi sembra antiquato essere vergini, suona old fashioned? Bè, forse dovreste ricredervi perché non solo essere vergini è un punto a vostro favore,  ma vi mette nella condizione di dare e ricevere il meglio nelle vostre vite”.

Kathleen ha l’Aids, ha contratto il virus quando aveva 17 anni da quello che allora non era nemmeno il suo fidanzatino, un incontro quasi casuale, attimi di passione, distrazione, leggerezza, e un virus che potrebbe uccidere. La malattia le impedisce di tenere gli stessi ritmi di prima, ma Kath non rinuncia ad incontrare i ragazzi: “La cosa che dà senso alla mia vita oggi è soltanto evitare che altri teenager facciano i miei stessi errori e rovinino per sempre le loro vite”.

La cosa che colpisce è che la Pratt, per combattere l’HIV,  non propone un programma di contraccettivi, non promuove l’uso sfrenato del preservativo ma, a costo di sembrare demodée, parla di verginità, castità, astinenza. “E’ importante far comprendere loro quanto sia grande il dono del proprio corpo, della fisicità, dell’affettività. Sono orgogliosa di partecipare al programma di astinenza organizzato dalla contea del Niagara perché mi rendo conto che i giovani sono alla ricerca di qualcuno che sia sinceramente interessato a condurli sulla via della felicità”. Una volta un ragazzo di 16 anni mi ha scritto: “Quello che hai detto è stata una scoperta, nessuno mi aveva parlato così prima, ha cambiato la mia vita. Nessuno mi aveva detto che per avere il meglio dovevo diventare migliore io”.

Negli Stati Uniti, eldorado di ogni tipo di trasgressione, ci sono centinaia di adolescenti che non hanno paura di praticare, parlare e promuovere l’importanza della castità. Non si tratta di quattro  sparuti giovani nostalgici legati alle tradizioni andate, ma un vero e proprio gruppo organizzato attorno ad Harvard. Si chiamano “Il club dell’amore puro” e si presentano come un esercito internazionale di adolescenti e giovani “che promuovono la virtù della castità”.

L’appuntamento, anche in questo caso, è su internet all’indirizzo www.chastity.com . “La nostra generazione ha trovato la via più facile per allontanarci dall’amore cui aneliamo – si legge nella home page - Ma se cerchi l’amore vero, preparati al sacrificio. Solo allora capirai che la pace e la gioia che derivano dalla castità valgono più  di tutti i piaceri del mondo. Attraverso le nostre pagine troverai le ragioni più grandi e oneste che ti faranno capire perché vale la pena aspettare. Niente strategia della paura, nessun senso di colpa, soltanto domande sull’autentico, vero amore”.

Il sito contiene tutte le informazioni per chi vuole avvicinare o anche solo conoscere meglio il tema della castità. Innanzitutto ci sono le domande frequenti relativi al fidanzamento, al rapporto sessuale, l’omosessualità, il controllo delle nascite. Una pagina è interamente dedicata a link e libri per approfondire, le tecniche per allenare e mantenere la castità, i modi in cui comportarsi e vestirsi e c’è anche un test per capire quando si è in presenza del vero amore. Il tuo a misura di adolescente, leggero nella forma, ortodosso nel contenuto.

Sono proprio i più giovani, con il loro entusiasmo e la loro capacità empatica, il motore dell’iniziativa, i principali passaparole, che hanno permesso a The pure love club di contare migliaia di ragazzi liberamente casti sparsi in ben 40 paesi in tutto il mondo. Ecco come ne parlano:
“Passavo ore a raccontare dell’amore con le amiche,  ci chiedevamo quando sarebbe arrivato il giorno in cui avremmo fatto l’amore e ci saremmo sentite donne. – racconta July, 18 anni –  Quando ho sentito parlare di castità mi sono messa a ridere,  io volevo amare ed essere riamata, non c’era nulla di male. Solo che ho cominciato a vedere attorno a me tante storie che non funzionavano, nonostante il sesso, allora ho voluto saperne di più, e ho capito che l’amore non è solo passione, ma un’appartenenza che va oltre l’unione dei corpi”.

“Non è facile. L’affetto che provo per la mia ragazza a volte è così forte che sento di volermi  fondere con lei, la castità mi sembrava una proposta lontana dal nostro tempo, dalla vita di un giovane oggi, la percepivo come una rinuncia insopportabile e inutile. Però nello stesso tempo avevo sperimentato che i tanti flirt che avevo avuto mi avevano lasciato un enorme senso si vuoto e insensatezza, così ho voluto approfondire. – spiega Mark, 21 anni –   E ho capito che quando decidi di condurre una vita pura, la castità non è un fardello, ma la corona del tuo trionfo”.


Libri di testo, il problema esiste di Marco Invernizzi, 14-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Libri di testo per le scuole orientati ideologicamente.  La polemica è tornata di attualità in questi giorni con la proposta di 19 parlamentari del Pdl (prima firmataria Gabriella Carlucci) che hanno presentato un disegno di legge che propone una Commissione parlamentare d’inchiesta sull’imparzialità dei libri di testo. Certamente la via parlamentare non è la più idonea per affrontare la questione, tuttavia l’iniziativa ha almeno il merito di aver risollevato un problema culturale reale che venne alla luce per la prima volta negli anni Novanta, sulla scia della vittoria elettorale del centro-destra nel 1994.

Sembrò allora – era da poco caduto il Muro di Berlino (1989) – che potesse essere rimessa in discussione una egemonia culturale della sinistra, prima comunista poi relativista. Nacque un Osservatorio composto da intellettuali e uomini di cultura che cominciarono a esaminare i diversi libri di testo adottati nelle scuole, mostrandone la dipendenza ideologica; si organizzarono convegni e venne fatto un lavoro importante di schedatura di testi, ma poi l’iniziativa si arenò. Sorsero, ed è la cosa più importante in prospettiva, alcuni (pochi) libri di testo, soprattutto di storia, preoccupati di raccontare la verità, lontani dalle ideologie e ancorati alla realtà. Ma il problema in sostanza è rimasto: i libri di testo che circolano nelle scuole sono sempre quasi totalmente orientati a sinistra.

Si possono fare tante considerazioni al proposito, ma l’unica che vorremmo evitare ai nostri lettori è il grido un po’ scandalizzato di protesta. Esistono tanti libri orientati ideologicamente perché i professori li adottano e i genitori non protestano.

Il primo lavoro da fare è informare sul contenuto di questi libri, cioè fare conoscere la realtà per capire veramente di che cosa si stia parlando. Su La Bussola Quotidiana contiamo di potere avviare un contributo di questo tipo.

In secondo luogo, bisogna ritornare realisticamente al lavoro cominciato e mai concluso negli anni Novanta: analisi, denuncia delle menzogne se ci sono e nella misura in cui ci sono, e poi soprattutto finanziare e così favorire la stesura di nuovi testi, farli conoscere perché possano essere adottati e curarne la distribuzione. Sono i soliti problemi dell’editoria, ma innanzitutto c’è un grande e irrisolto problema culturale: nulla vieta a chi non è ideologicamente orientato a sinistra di scrivere libri diversi, nulla vieta a editori grandi e piccoli di stanziare fondi perché questi libri vedano la luce. Ci sono  molte persone che scriverebbero questi libri se trovassero editori disposti a finanziarli, anche modestamente.

Il principale problema è proprio questo ed è innanzitutto culturale. Lo si capisce dalle parole del direttore editoriale Aaron Buttarelli del marchio Le Monnier - gruppo Mondadori Education, proprietà di Berlusconi - che ha editato il libro La Storia, scritto dal trio Della Peruta-Chittolini-Capra e accusato di partigianeria ideologica di sinistra secondo quanto afferma il Corriere della Sera del 13 aprile.

Buttarelli ha detto testualmente: “Noi garantiamo piena libertà all’autore di esprimere la sua interpretazione anche di epoche recenti, mai nessuna censura. Lo faremmo solo se, per assurdo, ci fosse l’apologia del nazismo”. Sembra incredibile, ma ha detto proprio così. Una casa editrice che non si colloca nell’area culturale della sinistra si preoccupa soltanto di evitare l’apologia del nazismo, che è come fare l’apologia del politicamente corretto o del nulla, se preferite, anche perché nessuno oggi farebbe l’apologia del nazismo. Così possiamo immaginare Le Monnier pubblicare l’apologia o almeno giustificare il Gulag (come si può leggere sul famigerato Camera-Fabietti edito da Zanichelli), oppure tollerare la giustificazione per esempio del genocidio degli Armeni, che non è stato compiuto da nazisti, e altre amenità del genere.

Insomma, il principale problema sta proprio nella testa e nel cuore di chi ha il pane ma non ha fame, ha i mezzi economici ma non si preoccupa di usarli per cercare e raccontare la verità.
Perché se per la sinistra relativista la verità non esiste, per molte case editrici non di sinistra, ricche di mezzi e scarse di idee, il problema della verità non è proprio neppure all’ordine del giorno.


J’ACCUSE/ C'è un "diritto" a morire che vuole spegnere la voglia di vivere – Redazione - giovedì 14 aprile 2011 – il sussidiario.net

Mentre l’Italia sembra lacerarsi tra chi, in nome di una presunta libertà, invoca un altrettanto presunto diritto a morire - e, si badi non a un lasciarsi morire, - e chi, partendo da basi giuridiche esistenti, costituzionali, civilistiche e penali, altrettanto tenacemente invoca il diritto alla vita di chi non può o non può più provvedere a sé stesso, i disabili, dai gravissimi ai meno gravi, continuano a vivere e a scegliere di voler vivere la loro quotidianità.
Una quotidianità afflitta da insormontabili difficoltà, umiliazioni, mortificazioni, povertà e spesso solitudine - un vero inferno in Terra - ma affrontata con grande dignità e celata sotto un’apparente straordinaria “normalità” in grado di spiazzare il più determinato dei sostenitori eutanasici.
I disabili e chi li rappresenta non vogliono etichette, non corrono a cercare cartelli con cui schierarsi, non hanno il dilemma se scegliere di appartenere alla “fazione” dei pro life piuttosto che a quella della morte a oltranza in caso di incapacità. Loro “cercano” semplicemente di vivere. I “deboli”, si fa per dire, vedono sulla carta riconosciuti i loro diritti con tanto di norme, dichiarazioni, convenzioni, Carte internazionali, ma nella realtà dei fatti, in quel loro “quotidiano”, tutto questo svanisce, per trasformarsi in un orrore e una battaglia volta al riconoscimento di un dignitoso giornaliero.
Mentre di sera i lunghi monologhi di seguitissimi talkshow si affannano a dimostrare che esistono vite non degne di considerazione, la mattina, i protagonisti di quelle stesse vite lottano per riottenere qualche ora di fisioterapia negata per problemi di “budget”, per l’assegnazione di una carrozzella di postura, indispensabile per poter “vedere” e “vivere” la vita al di là della segregazione ed emarginazione che molti preferirebbero… Insomma, i disabili combattono, ma non per diritti che, attenzione, potrebbero apparire estrapolazioni di sofisticati concetti filosofici destinati ai pochi che hanno la preparazione culturale per condividerli e intenderli, ma semplicemente per il loro riconoscimento come persone.
Il rispetto, la dignità, la solidarietà e, soprattutto, la non discriminazione di persone, quali appunto i disabili richiedono una risposta immediata, energica e inequivocabile. La disabilità non può essere intesa come sinonimo di emarginazione, segregazione, allontanamento e fonte di afflizione, ma piuttosto deve essere accettata accolta e condivisa come tale da tutti i consociati poiché obbligo giuridico. Il principio (si badi e non un mero valore) di solidarietà, l’obbligo giuridico di soccorrere e aiutare gli incapaci, i deboli, vanno coniugati e assicurati a tutti i cittadini a prescindere dal loro stato di salute e dal grado intellettivo e/o di disabilità, non esistendo alcuna distinzione giuridica tra vite degne o non degne di essere vissute. Si è eguali perché tutti aventi pari dignità in quanto appartenenti al genere umano.
La solidarietà è sinonimo giuridico di legame, vincolo, unione, caratterizza cioè il presupposto ontologico di una “comunità”, dove chi compie atti di solidarietà e chi li riceve assumono ruoli potenzialmente interscambiabili e hanno un legame che è garantito e tutelato dallo Stato. In sostanza, il principio di solidarietà garantisce uguaglianza nel godimento dei diritti fondamentali, si badi però che non va confuso con i concetti di beneficenza e assistenza e tanto meno con l’azione del volontariato.
Questi, infatti, rispondono a un onere morale, giustificato su base emozionale, inteso come spinta verso chi, più debole, è più bisognoso. Ma tale spinta emotiva è del tutto soggettiva e può essere propria a chi, con elevata sensibilità etica e morale, si prodiga per aiutare chi non può o non può più fare da solo, ma non ha imposizione giuridica, non tutti fanno parte di associazioni di volontariato, né tanto meno sono obbligati a essere dei volontari: si contraddirebbe addirittura l’accezione del termine stesso.
Ogni cittadino italiano dovrebbe sapere che la solidarietà è allo stesso tempo un diritto e un dovere, giuridicamente inderogabile, che tutti devono rispettare, competendo poi alle istituzioni dello Stato deputate rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Ponendo i “principi fondamentali” al vertice delle fonti del nostro ordinamento giuridico, ne deriva che il principio personalista caratterizza la nostra Costituzione, per cui lo Stato esiste in funzione della persona, quindi dovere primario dello Stato è consentire alla persona l’esercizio e la realizzazione dei propri diritti inviolabili. Vengono di conseguenza valorizzati e collocati al vertice della gerarchia i beni indissolubilmente legati all’individuo, tra cui la vita, la dignità, l’uguaglianza e la salute, elevando lo stesso individuo al centro dell’universo giuridico, in una prospettiva collettiva e solidale, dunque per certi versi, finanche pluralista.
Ma se tutto questo è vero, che tipo di messaggio sta arrivando agli adolescenti oggi con un dibattito tanto acceso su cosa fare dei disabili? Se fatichiamo a riconoscere in modo obiettivo il dovere di solidarietà e uguaglianza, quali principi e doveri avrà un futuro uomo e cittadino della nostra nazione e del mondo? E se un giorno il disabile grave, quel giovane lo avrà accanto, magari in famiglia, per esempio un nonno, un genitore, un fratello o un figlio, potranno essere condannate le probabili richieste di allontanamento?
La disabilità è un termine che in ogni modo deve essere scritto e letto al plurale, non esiste la disabilità come categoria univoca, se non come astrazione arbitraria da situazioni di vita che nulla hanno in comune tra loro, determinata secondo coordinate culturali con cui ognuno di noi deve fare i conti.

(Rosaria Elefante, Presidente Associazione Nazionale Biogiuristi Italiani)
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CULTURA - IDEE/ Da san Tommaso e don Giussani la più grande lezione sul cuore e la giustizia di Francesco Ventorino - giovedì 14 aprile 2011

“Esiste un bene che saremmo lieti di possedere perché ci è caro per sé e non per i vantaggi che ne conseguono?”. La questione insorge in uno dei dialoghi di Platone, La Repubblica. Glaucone riflette sul bene e sul male, interroga il suo maestro Socrate. “Ho una grande voglia di sentire - soggiunge - cosa sia giusto e ingiusto e che potere hanno per sé sull’anima dell’uomo”. Perché sembra che gli uomini facciano le leggi dando “nome di legittimo e giusto a ciò che è stabilito dalla legge”. Sarebbe, dunque, questa “l’origine della giustizia e la sua essenza”?
Ecco come è posta fin dalle origini del pensiero occidentale la domanda sul fondamento della legge umana e sulla sua giustizia. Domanda, questa, quanto mai attuale. Pietro Barcellona, che si è dedicato molto a questo tema e con il quale ho condiviso le riflessioni confluite poi nel volume La lotta tra diritto e giustizia (Marietti 2008), aveva già da tempo messo il dito sulla piaga. “Mai come nella fase attuale, si è sentito da più parti il prepotente bisogno di affermare che ci sono diritti dell’uomo che gli Stati e i poteri costituiti non possono violare né sacrificare, e tuttavia niente consente più di attribuire forma e effettualità a questi diritti. […] La mancanza di ogni fondamento metafisico e di ogni legittimità trascendente rende l’ordine giuridico contingente e artificiale, privo di qualsiasi riferimento a un ordine naturale comunque riconducibile all’armonia del cosmo. Ogni comando è per sua natura arbitrario, senza giustificazione, né misura. Consumata definitivamente l’idea di fare affidamento su una qualche verità eterna e immutabile, su una qualche ragione universale, non resta che affidarsi alla labile contingenza degli accordi contrattuali e dei patti sociali, con i quali i singoli individui decidono di fissare un argine ai loro illimitati desideri” (Il declino dello Stato. Riflessioni di fine secolo sulla crisi del progetto moderno, Dedalo 1998).
Un siffatto atteggiamento mentale genera ogni sorta di menzogna, giacché il pensiero non aderisce più alla verità della realtà e le parole sono stravolte, puntellano un progetto sulla società il quale non ha altro punto di riferimento che il proprio potere.
“Una questione fondamentale che si pone per il sistema democratico - ha scritto Benedetto XVI quando era ancora il cardinale Ratzinger - è se la volontà di una maggioranza possa veramente e legittimamente tutto. Può essa rendere legittima qualsiasi cosa, vincolando poi tutti, oppure la ragione si trova al di sopra della maggioranza, così che non può mai diventare realmente un diritto ciò che è contro la ragione?” (Chiesa, ecumenismo e politica, Paoline 1987).
Nel famoso dialogo che ebbe a Monaco nel 2004 con Jürgen Habermas, lo stesso Ratzinger ha evidenziato l’urgenza di una nuova fondazione dell’etica e del diritto nella società contemporanea: “Il compito di porre il potere sotto il controllo del diritto rimanda, di conseguenza, all’ulteriore questione di come nasce il diritto e di come deve essere il diritto affinché sia strumento della giustizia e non del privilegio di coloro che detengono il potere di legiferare” (Ragione e Fede in dialogo, Marsilio 2005).
Come nasce dunque il diritto? Fra le risposte a questa domanda, non va sottovalutata quella di Tommaso d’Aquino. Nella sua Summa Teologica egli ha posto nella ragione dell’uomo la misura e il criterio della bontà del suo agire: “Il bene umano consiste nell’essere conforme alla ragione, e il male nell’essere contrario alla ragione” (I-II, q. 18, a. 5, c.).
Si può avere l’impressione che un asserto del genere preluda a quella autonomia della ragione che sta alla base della dottrina morale kantiana, ma si tratta, in realtà, di tutt’altra prospettiva. Ha ragione, Kant, quando afferma che il principio della moralità risiede nella ragione. Ma per l’Aquinate la ragione non va intesa come emancipata da ogni legame e quindi come istanza assoluta e indipendente, bensì come facoltà data all’uomo per conoscere ciò che è, e in quanto tale partecipe della luce intellettuale di Dio. È dunque in un senso molto particolare che la ragione umana fonda, in Tommaso, la moralità dell’agire dell’uomo: la fonda in quanto coglie con le proprie risorse naturali quella legge eterna che è l’ordine e la misura che la ragione divina dà a tutte le cose: “La ragione dell’uomo deve il fatto di essere la regola della volontà umana, e quindi la misura della sua bontà, alla legge eterna che è la ragione di Dio. Perciò sta scritto: «Molti dicono: Chi ci farà vedere il bene? Quale sigillo è impressa su noi la luce del tuo volto, o Signore». Come per dire: la luce della ragione che è in noi, in tanto può mostrarci il bene, e regolare la nostra volontà, in quanto è luce del tuo volto, cioè derivante dal tuo volto” (I-II, q.19, a.4, c.).
Tutto questo presuppone una fiducia nella ragione umana, come immagine di quella divina. La ragione è l’esigenza profonda e la capacità di verità e di felicità che c’è nel cuore dell’uomo e il criterio con cui misurare i mezzi necessari al suo compimento.
Le leggi umane possono dirsi giuste, dunque, “nella misura in cui si uniformano alla retta ragione” (I-II, q.93, a.3, c.). Quando esse se ne scostano, allora non hanno più la natura della legge, ma piuttosto quella della violenza.
Già Agostino, nel IV libro del De civitate Dei, aveva posto un interrogativo inquietante: “Una volta che si è rinunciato alla giustizia, che cosa sono gli Stati, se non una grossa accozzaglia di malfattori?” (Remota itaque iustitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia?). Non è forse vero, del resto, che i malfattori stessi formano dei piccoli Stati? Uomini comandati da un capo e tenuti assieme da un patto comune, si spartiscono un bottino secondo una legge tacita. Se questo male si allarga a un numero più grande di scellerati, se dilaga in un’intera regione, conquista città e soggioga popoli, allora assume più apertamente il nome di regno: non certo per la rinuncia alla cupidigia, semmai per la tranquilla impunità. Questa la franca risposta che un pirata aveva dato ad Alessandro Magno. Gli sembrava giusto, aveva chiesto il Macedone, infestare i mari? Per quale motivo continuava a nuocere? E quello, con spregiudicata fierezza: «Per lo stesso motivo per cui tu infesti la terra; ma poiché io lo faccio con una barca insignificante, mi chiamano malfattore, e poiché tu lo fai con una potente flotta, ti chiamano imperatore»”.
La legge umana è pertanto opus rationis: merita di essere riconosciuta e osservata se esprime un’approssimazione progressiva della ragione del legislatore a quell’ordine naturale che ha il suo fondamento ultimo nella ragione divina. È questo cammino di approssimazione che spiega la diversità di opinioni fra gli uomini circa tutto ciò che non è “giusto” - cioè iuxta rationem - con immediata evidenza.
Don Luigi Giussani ha avuto l’arguzia di dirlo con parole esistenzialmente più comprensibili ed efficaci. Ne Il senso religioso (Rizzoli 1997) conduce il lettore attraverso un’appassionante analisi introspettiva, che egli chiama “esperienza originale” o “esperienza elementare”, a scoprire cos’è il “cuore”. Esso risulta come “un complesso di esigenze e di evidenze con cui l’uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste”. Queste esigenze che emergono come evidenti alla coscienza dell’uomo, quando egli incomincia ad affrontare la realtà e conseguentemente a riflettere su se stesso, sono riconducibili alla ratio tomistica. Infatti la ragione per Tommaso d’Aquino - come abbiamo visto - è l’esigenza e la capacità di vero e di buono che c’è dentro il cuore di ogni uomo.
La modernità dell’approccio di Giussani, che affida tutto ad una evidenza interiore, mentre mira a trovare credito nel suo interlocutore, non gli impedisce di sottolineare che alla nostra esperienza elementare risulta altrettanto evidente che questo “criterio originale”, pur essendo “immanente a noi”, non ce lo diamo da noi, ma ci viene “dato” con la nostra natura: una madre eschimese, una madre della Terra del Fuoco, una madre giapponese, danno alla luce esseri umani che tutti sono riconoscibili come tali, sia come connotazioni esteriori che come “impronta interiore”. Questo criterio originale si rivela, dunque, squisitamente personale e nello stesso tempo universale.
La sistematica negazione di questo fondamento universale del vero e del giusto espone l’uomo al totalitarismo nelle sue varie forme giuridiche o politiche. Ha scritto Hannah Arendt: “il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più” (Le origini del totalitarismo, Einaudi 2004). Ma l’accettazione di un fondamento metagiuridico del diritto positivo è legata a quella capacità propria della ragione umana di cogliere il vero e il buono delle cose. Pochi, oggi, sembrano disposti a sottoscriverlo. Ancora una volta, è compito dei cristiani ricordare all’uomo la sua grandezza.
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La Denuncia di Carlo Bellieni - Negli Stati Uniti si teorizza di lasciare ai genitori la decisione di far morire il figlio se la sua vita sarà minata da malattia o handicap. Un criterio che sta entrando nei protocolli medici – Avvenire, 14 aprile 2011

Davvero le richieste di leggi per accelerare il fine vita dei pazienti gravi vanno nell’interesse del paziente? O c’è un difetto che le mina alla base? C’è chi mostra il lato nascosto della medaglia. Si tratta di un articolo sull’ultimo numero del prestigioso American Journal of Bioethics, intitolato «Una vita in grado di dare? La soglia per la sospensione delle cure ai neonati disabili», di Dominic Wilkinson, docente all’Università di Oxford. L’autore spiega così il suo pensiero: «In alcuni casi per i genitori e i medici è giustificabile decide re di lasciar morire  un bambino, anche se la sua vita meriterebbe di essere vissuta». Avete capito bene: non si tratta di lasciar morire chi avrebbe poi una vita tutta fatta di sofferenza (anche se non si capisce chi decida chi misuri la sofferenza altrui e anche se sappiamo bene che le cure inutili possono essere rifiutate); ma addirittura chi avrà una vita che anche questo tipo di filosofi reputa «accettabile», seppur minata da una malattia. In quali casi? Sostanzialmente quando i genitori sentono eccessivo il peso dell’assistenza al bambino malato. Insomma: uno sbilanciamento della bilancia della giustizia a favore dell’adulto e a spese del bambino; prevale il criterio «del peso sui familiari e sull’economia generale». E, come Wilkinson spiega, questo criterio è già preso in considerazione nei protocolli – e ne esistono – che lasciano al genitore molta discrezionalità sulla vita del neonato prematuro o sofferente. vvio che i genitori debbano essere sempre e bene informati, e che possano scegliere il meglio per il loro figlio; ma questo non significa che possano decidere di lasciarlo morire se ci sono ancora serie speranze, perché loro non ce la fanno più in previsione di un handicap del piccolo; oltretutto alla nascita mancano il tempo e la serenità per un’informazione corretta. E come ameremmo che chi stende protocolli partisse inesorabilmente dalla richiesta di aiuti per le famiglie dei malati. Ma anche quando i protocolli sono meno «evoluti», le cose non ci rassicurano. «La visione ufficiale prevalente – dice Wilkinson, spiegando di volerla superare con quanto finora detto – è che il trattamento può essere sospeso solo se il peso della vita futura supera i benefici». E cita vari protocolli che invitano a fare un conto tra vantaggi e svantaggi e se i secondi sono maggiori dei primi la cura può essere arrestata.
Anche qui è chiaro come l’interesse del paziente sia trascurato: una vita triste con più sconfitte che vittorie è frequente, e non per questo non merita di essere vissuta. Perché per i neonati tante finte cautele in molti protocolli? Non si farebbe mai per un adulto il conto a tavolino dei pro e dei contro: invece in diversi Paesi il padre può decidere di non iniziare le cure salvavita per i neonati (e non ci dicano che «il padre è sempre il miglior tutore degli interessi del piccolo»: tanti episodi di cronaca lo smentiscono). Cos’hanno i neonati meno degli adulti? E cosa hanno gli adulti disabili mentali meno degli altri, dato che anche a loro vengono riservate meno cure che agli altri, come ben mostrava la rivista Lancet nel luglio 2008? Esistono davvero delle vite non «in grado di dare»? Noi «sani» pensiamo di aver in mano il giudizio su quale vita lo sia; finché qualcuno non giudicherà che la nostra non lo è più.


Dieci anni di eutanasia, e l’Olanda non si ferma più di  Lorenzo Schoepflin, Avvenire, 14 aprile 2011
Compie dieci anni la legge che ha depenalizzato eutanasia e suicidio assistito in Olanda. Era infatti il 10 aprile del 2001 quando il Senato olandese, con 46 voti a favore e 28 contrari, dette il via libera al testo già passato alla Camera nel novembre precedente con 104 sì e 40 no. La legge entrò poi ufficialmente in vigore quasi un anno dopo, ma è quel 10 aprile 2001 lo spartiacque, l’anno zero della "buona morte" nei Paesi Bassi, l’inizio della discesa lungo un piano inclinato che, a distanza di dieci anni, sembra non volersi fermare.
L’approvazione della legge in Olanda arrivò dopo vent’anni di serrato dibattito sulla prassi medica nel fine vita e dopo che alcuni casi giudiziari avevano segnato delle tappe fondamentali sulla strada della legalizzazione di eutanasia e suicidio assistito.
Nel 1971 la dottoressa Geertruida Postma uccide con una iniezione di morfina la propria madre, una settantottenne paralizzata che aveva espressamente chiesto di morire. Durante il processo, è la stessa donna ad ammettere che la sofferenza fisica della madre era seria, ma «nulla di più, era la sofferenza psicologica a essere insopportabile». La dottoressa Postma viene riconosciuta colpevole di omicidio e condannata a una settimana di carcere più un anno di libertà vigilata. Una sentenza non certo esemplare e che incoraggia i sostenitori dell’eutanasia attiva. Non va dimenticato che la portata di quella sentenza fu  ancor più grande in considerazione del fatto che il Codice penale olandese prevede dodici anni di reclusione per chiunque uccida una persona che manifesta il desiderio di morire.
Nel 1984 viene posta un’altra pietra miliare sulla strada che conduce l’Olanda verso l’eutanasia legale. Questa volta si tratta di un’assoluzione piena per il dottor Schoonheim, un medico che due anni prima aveva praticato un’iniezione letale su una paziente di novantacinque anni. Schoonheim aveva agito in accordo col figlio della donna e dopo essersi consultato con altri due medici. Nell’epilogo del caso Schoonheim, un ruolo primario era stato recitato dalla Koninklijke Nederlandsche Maatschappij tot bevordering der Geneeskunst (la Knmg, la Reale società medica olandese), che aveva emanato linee guida volte ad alleggerire la posizione di quei medici che avessero agito per ridurre le sofferenze dei pazienti, fosse anche causandone le morte.
Da allora, le discussioni si fanno sempre più accese e si registra uno stillicidio di casi analoghi, la soluzione dei quali segna sempre un ulteriore passo avanti verso la legge oggi vigente in Olanda. Nel 1994 si conclude il processo che vedeva sotto accusa il dottor Chabot, reo di aver aiutato a morire una donna cinquantenne depressa, preparandole una dose di sostanze letali ingerite dalla signora alla presenza dello stesso Chabot. Il medico viene riconosciuto colpevole per aver agito senza garantire alla donna la visita di un altro specialista, ma nessuna pena gli viene inflitta.
Nel 1995 un epilogo simile si registra per i casi Prins e Kadijk, episodi che erodono ulteriormente l’argine già indebolito delle limitazioni in tema di eutanasia e suicidio assistito. Si tratta questa volta di eutanasia infantile, praticata su bimbi con prospettive di vita limitate nel tempo. I due medici vengono sì riconosciuti formalmente colpevoli, ma la Corte suprema conferma la bontà delle decisioni delle corti distrettuali di Alkmaar e Groningen, che avevano optato per non comminare alcuna pena poiché si era agito in accordo coi genitori e in modo scientificamente e medicalmente «responsabile».
Sono questi dunque tutti casi che hanno spinto in modo decisivo verso l’approvazione di una legge che negli anni ha visto sempre più ampliare il proprio raggio d’azione, con un costante aumento del numero di morti procurate registrati.
Proprio in tema di eutanasia infantile l’Olanda è divenuta la pioniera grazie al dottor Eduard Verhagen, che nel 2005 elaborò il celebre «Protocollo di Groningen», vera e propria sistematizzazione dei criteri per procedere all’uccisione di neonati ritenuti non adatti a vivere. Nel marzo 2010 vengono raccolte più di 125mila firme per estendere il diritto di accesso all’eutanasia agli ultrasettantenni,
indipendentemente dalle loro condizioni di salute. A giugno vengono pubblicate nuove linee guida della Knmg, nelle quali si stabilisce che si può procedere all’eutanasia su pazienti incoscienti che abbiano in precedenza espresso il desiderio di morire ma si trovino impossibilitati a confermarlo.
Due mesi fa la Nvee, l’Associazione olandese per il diritto a morire, ha dichiarato di voler aprire entro il 2012 una clinica per aiutare i pazienti – compresi dementi e malati psichici – che non trovano un medico disposto a praticare loro l’eutanasia. Il mese scorso, infine, si è concluso con la condanna a dieci mesi di carcere il processo che vedeva incriminato il presidente di un’associazione impegnata nella promozione del diritto a morire: l’uomo aveva collaborato all’uccisione di una donna alla quale i medici avevano negato l’accesso all’eutanasia. Dieci anni dopo, insomma, l’Olanda non riesce più a fermarsi. E da noi c’è chi la indica a esempio...


Quando la Cassazione protegge la vita di Ilaria Nava, Avvenire, 14 aprile 2011
L’ultima importante pronuncia sul tema è stata quella della Corte di Cassazione, che con la sentenza 39 del 2011 – venerdì scorso – ha chiarito che il medico deve attenersi alle regole di prudenza e alle valutazioni compiute in scienza e coscienza anche a fronte del consenso informato del paziente. La Cassazione ha così condannato per omicidio colposo tre medici che avevano operato una donna malata di tumore. Così la quarta sezione penale ha aggiunto un ulteriore tassello al frammentario panorama giurisprudenziale che riguarda temi al centro del dibattito attuale come il consenso informato e il ruolo del medico.
Tra i precedenti da segnalare in proposito, l’importante pronuncia a sezioni unite della Cassazione che aveva annullato una decisione della Corte d’appello di Bologna. In quell’occasione la Corte, più che trattare la consistenza giuridica del consenso informato, affrontò principalmente gli eventuali profili di responsabilità del medico che agisca in maniera differente rispetto al consenso prestato dal paziente.
Gli ermellini affermarono che ove il medico «sottoponga il paziente a un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, e tale intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis si sia concluso con esito fausto, nel senso che dall’intervento stesso è derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, in riferimento anche alle eventuali alternative ipotizzabili, e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte del paziente medesimo, tale condotta è priva di rilevanza penale» (Cassazione 2437/08).
Nel maggio del 2008 la Cassazione ha affrontato un caso relativo al dissenso espresso attraverso un cartellino con scritto "niente sangue" inserito nel portafogli di un testimone di Geova giunto all’ospedale in stato di incoscienza. I giudici hanno ribadito la necessità del consenso informato stabilendo però dei precisi paletti: «Il dissenso del medesimo deve essere oggetto di manifestazione espressa, inequivoca, attuale, informata. Esso deve, cioè, esprimere una volontà non astrattamente ipotetica ma concretamente accertata; un’intenzione non meramente programmatica ma affatto specifica; una cognizione dei fatti non soltanto "ideologica", ma frutto di informazioni specifiche in ordine alla propria situazione sanitaria; un giudizio e non una "precomprensione": in definitiva, un dissenso che segua e non preceda l’informazione avente a oggetto la rappresentazione di un pericolo di vita imminente e non altrimenti evitabile, un dissenso che suoni attuale e non preventivo» (23676/2008).
Anche la Consulta ha avuto modo di chiarire che il consenso informato non trova il suo fondamento soltanto nella tanto sbandierata autodeterminazione del paziente, ma anche nel suo diritto alla salute, che come ci ricorda l’articolo 32 della Costituzione è un fondamentale diritto dell’individuo e anche interesse della collettività. «Il consenso informato riveste natura di principio fondamentale in materia di tutela della salute in virtù della sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute».
(Sentenza 30 luglio 2009, n 253). Princìpi che la legge attualmente in discussione alla Camera vuole codificare  in maniera chiara ed equilibrata, raccogliendo l’eredità giurisprudenziale sul consenso informato e mettendo le giuste garanzie nel caso questo sia prestato in maniera anticipata, evitando che qualche giudice possa compiere una arbitraria ricostruzione della volontà della persona come accaduto a Eluana Englaro



Non è vero che con una recente sentenza, la Cassazione ha detto «stop» a interventi chirurgici in casi estremi: ha piuttosto ribadito che il consenso informato sottoscritto dal paziente non toglie al medico le proprie responsabilità, perché spetta solo a lui l’ultima parola sull’adeguatezza delle terapie per i propri malati.
I fatto sono noti: tre chirurghi hanno operato una signora, gravemente malata di cancro, per tentare di stabilizzare la sua condizione e consentirle di vivere un po’ più a lungo di quanto diagnosticato. La signora voleva fortemente questo intervento, che però è andato male, e a seguito del quale lei è morta. Il procedimento giudiziario nei confronti dei tre li ha trovati colpevoli di omicidio colposo – condanna andata comunque in prescrizione – e l’intervento è stato giudicato un accanimento terapeutico, in violazione del codice deontologico professionale.
Non entriamo nel merito del caso specifico, sul quale non spetta a noi stabilire la responsabilità dei medici coinvolti, e l’opportunità di operare o meno in quel frangente. È invece sul significato che la Cassazione ha dato al consenso informato che è bene fare qualche ulteriore riflessione: a seconda del ruolo che gli si dà, infatti, possono derivare concezioni della professione medica assai diverse tra loro.
In altre parole: il consenso informato può essere considerato una dichiarazione di volontà del malato che il medico, o il servizio sanitario, ha l’obbligo di soddisfare? Meglio ancora: una richiesta consapevole di un paziente, pure ragionevole e pienamente comprensibile dal punto di vista umano, ma dubbia da quello medico, se esaudita, può sollevare i medici dalla responsabilità sull’opportunità dell’intervento stesso?
Secondo la Cassazione, no: questa sentenza riconosce che il consenso è un assenso, necessario, del paziente alla terapia proposta dal suo medico curante. Un «sì» consapevole e informato, perciò libero, ma non uno strumento di medicina difensiva da parte dei medici, un alibi per evitare la responsabilità ultima di giudicare e stabilire i percorsi terapeutici opportuni dei propri malati.
In altre parole, il consenso informato non può essere inteso come la certificazione, vincolante, della domanda di una specifica terapia da parte di un malato, per mettere al riparo i medici dai rischi di decisioni importanti e difficili, ma è l’unico strumento a disposizione per un rapporto fiduciario, non sbilanciato e non paternalistico, come avveniva in passato, fra medico e paziente.
Se il consenso informato si trasformasse in una dichiarazione di volontà da soddisfare, la professione medica si ridurrebbe a una prestazione di servizi «on demand», infinitamente lontana dalla tradizione ippocratica che ne ha disegnato la figura nel mondo occidentale.
Uno strumento tanto importante quanto delicato: la stessa formulazione dei consensi, la spiegazione che se ne dà, per quanto chiara ed esaustiva possa essere, non sempre può essere compresa in tutti i dettagli da una persona comune, non esperta del settore. La fiducia del paziente nei confronti del suo medico curante è innanzitutto nella sua onestà intellettuale nello spiegare nella massima trasparenza possibile il percorso terapeutico proposto, e l’assenso o meno a una cura dipende anche e molto dal modo in cui questa viene presentata.
I medici, notoriamente, esercitano una responsabilità enorme, quotidianamente: solo riconoscendola e accettandola possono poi, giustamente, chiedere a loro volta strumenti anche legislativi per proteggere e tutelare la loro serenità professionale.


Metodi naturali, facciamo chiarezza di Medua Boioni Dedé*, 14-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

In seguito alle polemiche e alle ambiguità seguite alla mancata pubblicazione del sussidio Youcat per la Giornata Mondiale della Gioventù, ci sembra opportuno chiarire alcune questioni legate al tema della fertilità di coppia e della procreazione responsabile. Abbiamo chiesto a Medua Boioni Dedè, già Presidente e tra i fondatori della confederazione italiana centri regolazione naturale fertilità, di fare chiarezza sui termini della questione...


Quando si tratta il tema della regolazione della fertilità di coppia troppo spesso vengono usati come sinonimi dei termini che tali non sono! Noi insegnanti della regolazione naturale della fertilità (i c.d. metodi naturali) ci scontriamo quotidianamente, anche nell’ambito delle nostre comunità ecclesiali, con il problema di un corretto linguaggio per trasmettere i valori presenti in questa proposta di vita.
I termini in questione sono: “i mezzi contraccettivi o anticoncezionali” e “i metodi di regolazione naturale della fertilità o metodi naturali”.

Già a partire dai termini “mezzi” e “metodi” ci troviamo di fronte a significati profondamente diversi.
Un mezzo è qualcosa che serve al raggiungimento di un determinato fine e quindi è funzionale al risultato. Al contrario un metodo è un percorso dell’agire umano basato su princìpi e regole. 
Quindi, il primo - il mezzo -  richiama alla mente la tecnologia, ed è logico attribuirlo alla contraccezione, mentre il metodo richiama la scienza (si parla infatti di metodo scientifico!) e fa riferimento specificatamente ai metodi naturali.

Riflettendo su questi significati si può cogliere già una prima differenza di prospettiva delle due proposte. E’ quindi una vera contraddizione in termini parlare di “metodi contraccettivi”.
Il termine di contraccettivo fa chiaramente riferimento a ciò che è contro il concepimento (v. trad. inglese) e in italiano richiama anche ciò che è contro l’accettazione.In sintesi quindi un mezzo contraccettivo è uno strumento tecnico, artificiale, esterno al corpo con la funzione di manipolare la fertilità per evitare un concepimento. E’ espressione di una mentalità anti-vita che vede nel concepimento, e quindi nel bambino che ne è il frutto, un pericolo da evitare se non addirittura da eliminare (v. iud o spirale, pillola del giorno dopo, RU 486, aborto volontario…senza dimenticare che anche la normale pillola contraccettiva può, talvolta, agire anche come abortivo).

Il metodo naturale è invece uno strumento di conoscenza, cioè un modo che la coppia ha di conoscere quando è presente la fertilità e quando è assente. A partire da questa conoscenza la coppia può scegliere liberamente e responsabilmente di realizzare il gesto sessuale in periodo fertile o meno, secondo le finalità che intende realizzare in tema di procreazione.
Anche sul termine di naturale si incorre spesso in equivoci che riducono il significato ad una semplice prospettiva ecologica (assenza di danni fisici per la salute), oppure viene inteso in senso psico-sessuologico (assenza di mezzi di barriera nel rapporto sessuale).

Il termine “naturale” è invece più pregnante: sta a significare una piena rispondenza del metodo alle caratteristiche proprie della natura umana, e si realizza in una scelta di vita in cui la coppia impegna tutti i dinamismi spirituali che costituiscono il carattere personale dell’essere umano: ragione, volontà, libertà, autodominio, chiamati a guidare le pulsioni istintuali, le passioni, le emozioni e i sentimenti per porli a servizio del bene della persona e della coppia.

Pertanto i metodi di regolazione della fertilità sono naturali perché rispettosi della biologia dell’uomo e della donna, della loro libertà, della loro dignità, della capacità dell’uomo e della donna di essere padroni di sé, perché si conoscono e cercano di vivere in armonia con la propria natura umana, secondo il progetto di Dio inscritto in loro.

Già da quanto fin qui affermato possiamo comprendere quanto le due scelte siano profondamente diverse tra loro sul piano antropologico ed etico.Per concludere: la proposta dei metodi naturali è un valido strumento di paternità responsabile a disposizione delle coppie?

La mia esperienza di 32 anni di insegnamento di questi metodi mi ha permesso di constatare la estrema validità scientifica dello strumento conoscitivo che le coppie possono avere a disposizione, purché l’apprendimento avvenga in modo corretto, attraverso una delle circa 800 insegnanti di questi metodi che svolgono il loro servizio sul territorio nazionale, e il comportamento sessuale delle coppie sia in sintonia con le loro scelte in tema di procreazione.

*già Presidente e tra i fondatori della Confederazione italiana centri regolazione naturale fertilità


Una lezione di santità dal remoto Pakistan - Il martirio di Shahabz Bhatti, ministro delle minoranze religiose. "Fino all’ultimo respiro continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità". Il suo testamento spirituale pubblicato da "La Civiltà Cattolica" di Sandro Magister

ROMA, 14 aprile 2011 – Per i cattolici del Pakistan è "il martire". Il suo nome è Shahbaz Bhatti. È stato ucciso lo scorso 2 marzo da terroristi islamici perché "cristiano, infedele e bestemmiatore". Era il ministro delle minoranze religiose.

Un mese dopo, al termine dell'udienza generale di mercoledì 6 aprile, Benedetto XVI ha ricevuto suo fratello, Paul Bhatti, medico, per molti anni in Italia, rientrato in patria proprio per proseguire la sua missione e nominato consigliere speciale del primo ministro del Pakistan per le minoranze religiose.

Con Paul ha incontrato il papa anche il grande imam di Lahore, Khabior Azad, amico personale di Shahbaz.

La Bibbia che Shahbaz aveva sempre con sé è ora a Roma nel memoriale dei martiri dell'ultimo secolo, nella basilica di San Bartolomeo all'Isola Tiberina.

Su ciò che la sua uccisione ha significato in Pakistan e nel mondo intero, uno degli articoli più informati e allarmati è senz'altro quello uscito su "La Civiltà Cattolica" con la data del 2 aprile 2011.

Un articolo tanto più rilevante dal momento che questa rivista dei gesuiti di Roma è stampata con il previo controllo e l'autorizzazione della segreteria di stato vaticana. Quindi riflette il pensiero della Santa Sede al riguardo.

In Pakistan, su una popolazione di 185 milioni di abitanti, i cristiani sono il 2 per cento, un milione dei quali sono cattolici. Ma anche tra i musulmani vi sono delle minoranze in pericolo: sciiti, sufi, ismailiti, ahmadi.

La legge contro la bestemmia è un'arma impugnata contro le minoranze. Fu introdotta dagli inglesi nel 1927 e mantenuta in vigore nel 1947, dopo l'indipendenza e la separazione del Pakistan dall'India. Per trent'anni non fu applicata. Ma a partire dal 1977, dopo il colpo di stato militare di Zia-ul-Haq, in Pakistan l'islamizzazione è andata crescendo e alla legge contro la bestemmia – rimessa in auge con aggravanti – si sono aggiunte altre norme basate sulla sharia. Ad esempio, occorrono quattro testimoni perché sia provata la violenza sessuale su una donna, che altrimenti è considerata adultera. Oppure, altro esempio, un musulmano che violenta una cristiana, ma poi la obbliga a sposarlo e a convertirsi all’islam, non è più perseguibile per stupro.

Per chi bestemmia Maometto è stata introdotta la pena di morte, e per la profanazione del Corano l'ergastolo. La commissione Giustizia e Pace dei vescovi cattolici del Pakistan ha calcolato che dal 1987 al 2009 sono state 1032 le persone ingiustamente colpite dalla legge contro la bestemmia.

Una di queste è Asia Bibi, una cattolica di 45 anni madre di cinque figli, condannata all’impiccagione nel novembre 2010 e in attesa della sentenza di appello. Fu accusata da altre donne del suo villaggio che erano al lavoro con lei nei campi, tra le quali era scoppiata una lite per l'utilizzo dell'acqua. Anche se venisse assolta o graziata, Asia non si sentirebbe al sicuro, perché vari esponenti musulmani l'hanno minacciata comunque di morte.

Un nuovo caso definito dai vescovi pakistani "di abuso della legge contro la bestemmia per vendette personali" ha colpito nei giorni scorsi un altro cristiano, Arif Masih, nel villaggio di Chak Jhumra.

Una giornata di preghiera per Asia Bibi, Arif Masih e tutte le altre persone arrestate per la medesima accusa sarà celebrata il 20 aprile, mercoledì santo, in Pakistan e in altri paesi. A Roma, nella cappella del parlamento italiano, il cardinale Jean-Louis Tauran celebrerà una messa, che sarà anche in memoria di Shahbaz Bhatti.

Le denunce di bestemmia si fondano sulla parola dell’accusatore, che non può però riferire i contenuti precisi dell’offesa per non essere imputato del medesimo delitto. I giudici temono a loro volta di essere uccisi, come talora è già avvenuto, se assolvono un imputato. Quindi tendono spesso a ritardare la sentenza, senza però concedere la libertà su cauzione. Inoltre, come regola generale, un non islamico, in tribunale, deve avere avvocato e giudice dei musulmani.

Queste e altre informazioni sono riportate nelle note dell'articolo della "Civiltà Cattolica".

Eccolo qui di seguito quasi per intero, per gentile concessione della rivista.

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L’ASSASSINIO DI SHAHBAZ BHATTI di Luciano Larivera S.I.


[...] C'è uno stato, il Pakistan, il cui arsenale atomico continua a crescere. Ma la cui stabilità politica è minacciata ogni giorno, e in modo sistematico, da violenza e odio etnico e religioso. Il suo tragico esempio è l’avvertimento, per altri paesi islamici, di come il virus dell’intolleranza religiosa possa andare fuori controllo e condurre progressivamente una democrazia al collasso. [...] Per questo non si può dimenticare un eroico e generoso politico pakistano, Shahbaz Bhatti. Un cristiano mite e serio.

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"Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia. Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio e nella crocifissione di Gesù. Fu il suo amore che mi indusse a offrire il mio servizio alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo soltanto tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.

"Mi è stato chiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solamente un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino di me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considero un privilegiato qualora – in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia.

"Io dico che, finché avrò vita, fino all’ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri. Credo che i cristiani del mondo che hanno teso la mano ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005 abbiano costruito dei ponti di solidarietà, di amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere i cuori e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un cambiamento in positivo: la gente non odierà, non ucciderà nel nome della religione, ma si ameranno gli uni gli altri, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione.

"Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani, qualunque sia la loro religione, vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù e io potrò guardarlo senza provare vergogna".

È il testamento spirituale di Shahbaz Bhatti, ministro federale delle minoranze religiose del Pakistan, nato il 9 settembre 1968 e assassinato lo scorso 2 marzo da un commando estremista nella capitale Islamabad. Era membro del principale partito di governo, il PPP, Partito Pakistano del Popolo. Poche settimane prima aveva chiesto: "Pregate per me. Sono un uomo che ha bruciato le sue navi alle sue spalle: non posso e non voglio tornare indietro in questo impegno. Combatterò l’estremismo e mi batterò a difesa dei cristiani fino alla morte". Bhatti abitava con la madre e altri familiari. Aveva deciso di non sposarsi per consacrarsi alla sua missione. Non aveva scelto il sacerdozio "perché voleva stare in mezzo alla gente, a contatto diretto con le persone e le loro difficoltà, cosa che spesso i sacerdoti non riescono a fare nel suo paese".

Il 2 marzo il ministro si trovava con l’autista e una nipote nell’auto di servizio, non blindata nonostante le richieste. Il commando terrorista ha strappato Bhatti fuori dalla vettura e lo ha massacrato con 30 colpi di arma da fuoco. L’assassinio è da attribuire ai talebani pakistani del Punjab. Hanno agito indisturbati e hanno lasciato sul luogo del delitto alcuni volantini firmati Tehrik-e-Taliban-Punjab. Il ministro non aveva voluto la scorta, memore che il suo amico e collega di partito Salmaan Taseer, governatore del Punjab e musulmano, era stato ucciso proprio da un membro della sua scorta, senza che gli altri uomini a sua protezione intervenissero. Era avvenuto due mesi prima, il 4 gennaio. E il suo assassino è stato trasformato in eroe, con una gara tra avvocati per difenderlo gratis.

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Taseer e Bhatti perseguivano l’ideale di Muhammad Ali Jinnah, padre fondatore del Pakistan, di un paese dove, rispetto ai musulmani sunniti, le minoranze religiose (sciiti, musulmani sufi, ismailiti, ahmadi, cristiani, sikh, indù, zoroastriani, bahai…) godano di uguali diritti. Entrambi sono stati "puniti" per aver lottato per l’abolizione o almeno la riforma della legge sulla blasfemia, la radice dei problemi dei cristiani pakistani. Voci estremiste chiedono che venga considerata blasfemia qualsiasi richiesta di modificare la "legge nera". Tale legge sembra intoccabile. E se ne fa un uso strumentale, soprattutto nel più popoloso Punjab, per dirimere controversie personali anche tra musulmani. C’è l’impunità per chi la fa applicare in forme extragiudiziali. Ma come ha osservato di recente il direttore della sala stampa vaticana, p. Federico Lombardi, questa legge "in sé è veramente blasfema, perché in nome di Dio è causa di ingiustizia e morte". [...] Bhatti voleva tenere in vita la commissione per la revisione della legge sulla blasfemia, voluta dal presidente Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto, e presente nel suo programma elettorale per il voto del 6 novembre 2008.

Un’ulteriore colpa del governatore musulmano e del ministro cattolico è di aver chiesto la liberazione di Asia Bibi, una cattolica di 45 anni madre di cinque figli, condannata all’impiccagione nel novembre 2010 per avere offeso il Profeta Maometto, ma in attesa della sentenza di appello. Bhatti non alimentava clamore mediatico sulla vicenda di Asia Bibi, per non rinfocolare la reazione fondamentalista. E, in generale, i cattolici si dissociano dalle iniziative che tendono a innescare un conflitto con le istituzioni pakistane. Ciò nonostante, in occasione dell’8 marzo, giornata internazionale della donna, la Chiesa cattolica pakistana e i cristiani indiani hanno lanciato l’ennesimo appello per la liberazione di Asia Bibi, che rischia di essere uccisa in carcere. Inoltre hanno affermato che questa donna simboleggia tutte le altre, dietro le sbarre o in apparente libertà, oppresse da disparità, intolleranza e violenza a causa del sesso o della fede professata.

Dopo i funerali di stato nella capitale, il "martire" Bhatti è stato sepolto, alla presenza di 10.000 persone di ogni credo, a Khushpur nei pressi di Faisalabad, in Punjab. In questo villaggio cattolico fondato dai domenicani, il ministro passò la sua fanciullezza. Con l'ultimo rimpasto di governo, il premier Yousaf Raza Gilani del PPP aveva confermato l’incarico a Bhatti, viste anche le insistenze occidentali, nonostante il taglio dei ministri da 60 a 22 per contenere la spesa pubblica, e le pressioni dei partiti islamici di coalizione per eliminare quel dicastero. Bhatti era, inoltre, il solo non musulmano nel governo federale del Pakistan.

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Benedetto XVI, lo scorso settembre, lo aveva incontrato nella sua qualità di ministro; e, nel discorso al corpo diplomatico del 10 gennaio, il pontefice aveva menzionato la legge contro la blasfemia in Pakistan, incoraggiando "di nuovo le autorità di quel paese a compiere gli sforzi necessari per abrogarla". Inoltre aveva reso omaggio al sacrificio coraggioso del governatore Taseer. Ma una parte dei pakistani non intende ascoltare le parole del papa. In particolare, i partiti religiosi considerano gli interventi di Benedetto XVI un’ingerenza nella politica interna. I fondamentalisti controllano la mente dei loro seguaci, fomentando odio e violenza. Eppure i cristiani hanno buoni rapporti con la maggioranza dei musulmani. Dopo l’Angelus dello scorso 6 marzo, il papa ha rivolto questo appello e ulteriori gesti per confortare i cattolici pakistani traumatizzati dall’omicidio: "Chiedo al Signore Gesù che il commovente sacrificio della vita del ministro pakistano Shahbaz Bhatti svegli nelle coscienze il coraggio e l’impegno a tutelare la libertà religiosa di tutti gli uomini e, in tal modo, a promuovere la loro uguale dignità".

La gigantografia di Bhatti dal 5 marzo è esposta sulla facciata del ministero degli esteri italiano, per non dimenticare l’uomo e per affermare l’impegno della diplomazia italiana a difesa della libertà religiosa nel mondo. Il ministro degli esteri Franco Frattini, intervistato da "Avvenire" il 3 marzo, ha riferito una confidenza avuta da Bhatti, nel suo modesto ufficio di Islamabad lo scorso novembre: "Mi disse che i suoi avversari stavano cercando di togliere i fondi al ministero per le minoranze religiose, un modo per ridurlo all’insignificanza e, quindi, alla chiusura. E mi disse di aiutarlo a far conoscere il suo lavoro nella comunità internazionale, perché soltanto così avrebbe potuto salvare il suo ministero". Frattini ha poi aggiunto: "Adesso i codardi di quell’Europa che rifugge dalla condanna del fondamentalismo religioso verseranno le loro lacrime di coccodrillo, alleati di quei codardi che in Pakistan conoscono solamente il sangue degli attentati […]. Penso a coloro che in Europa sono molto attenti al 'politically correct', fino al punto di non utilizzare mai, nei documenti ufficiali, le parole 'cristiani perseguitati'. La ritengo una codardia politica che oggi, di fronte a un nuovo martire, è ancor più scandalosa". [...]

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Davanti a questo crimine terroristico, i vescovi pakistani hanno subito dichiarato e confermato che "si tratta di un perfetto, tragico esempio dell’insostenibile clima di intolleranza che viviamo in Pakistan. Chiediamo al governo, alle istituzioni, a tutto il paese, di riconoscere e affrontare con decisione tale questione perché si ponga fine a questo stato di cose in cui la violenza trionfa". Essi hanno anche inviato la richiesta alla Santa Sede perché Bhatti sia proclamato martire, ucciso "in odium fidei". Lo stesso imam della moschea Badshahi a Lahore, Khabior Mohammad Azad, sconvolto per la morte del suo "buon amico" Bhatti, ha denunciato che "la gente non ha più il diritto di esprimere le proprie opinioni" e che "quanti hanno rivendicato l’assassinio non sono musulmani, né esseri umani", perché "l’islam è una religione di pace, che insegna a rispettare le minoranze".

Purtroppo gli omicidi motivati dalla religione sono perorati pubblicamente da estremisti islamici come atti che fanno piacere ad Allah e che garantiscono l’immediata salvezza. Ma lo stato pakistano non riesce a prevenire e a sanzionare la violenza contro le minoranze. Anzi, l’odio religioso è alimentato addirittura nelle scuole pubbliche pakistane. Nei testi ufficiali di studio sono esclusi i riferimenti alle minoranze religiose, non considerate parte della nazione. Oltre alla istruzione deformata, ci sono predicatori nelle moschee, in televisione e su internet che proclamano la lista dei nemici da abbattere e così alimentano la "cultura" dell’intolleranza religiosa. Adesso all’indice c’è la deputata Sherry Rehmam, che nel 2010 aveva proposto una modifica della legge sulla blasfemia, senza ricevere l’appoggio del suo partito, il PPP, che l’ha costretta a ritirare l’iniziativa. Vive semi-nascosta e riceve continue minacce di morte. Per altri non resta che cercare asilo all’estero.

Oltre ai cristiani, in Pakistan, sono legalmente discriminati gli ahmadi in quanto non-musulmani ma eretici, e per questo boicottano le elezioni. Ci sono tensioni tra le due scuole sunnite dei Deobandi e dei Barelvi. E la violenza religiosa è sistematica e può colpire tutti. Così, ad esempio, il 4 marzo dieci musulmani sufi, in quanto considerati eretici da altri musulmani, sono stati uccisi nei pressi di un loro luogo sacro vicino a Peshawar. Ma le manifestazioni di piazza delle minoranze o dei musulmani moderati non fanno paura, e la loro voce si perde, oltre che essere esposte ad attentati suicidi. Il 5 marzo, un musulmano, Mohammad Imran, è stato assassinato in un villaggio vicino a Rawalpindi. Era stato scarcerato per mancanza di prove con l’accusa di aver offeso Maometto. Il 15 marzo è morto in carcere Qamar David, un cristiano condannato ingiustamente all’ergastolo per blasfemia. Aveva ricevuto percosse e maltrattamenti dalle guardie penitenziarie. E la sua morte, per arresto cardiaco, desta molti dubbi tra i cristiani. Cadono vittime degli estremisti anche gli attivisti dei diritti umani, come Naeem Sabir, ucciso nella provincia del Beluchistan lo scorso 1° marzo.

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Il Pakistan soffre di innumerevoli lacerazioni etniche e politiche. Il clima di intolleranza è alimentato dagli estremisti omicidi e da leader religiosi radicali, ma anche da avvocati, giornalisti, politici per loro fini egemonici. Nel Beluchistan sono ancora attivi i movimenti separatisti, anche perché la distribuzione della ricchezza è molto disuguale sul territorio pakistano. L’etnia pasthun, pur non cercando la secessione e l’annessione con una parte del territorio afghano, è sempre più dominata dall’ideologia fondamentalista e antigovernativa. Poi ci sono le tensioni con l’India per il Kashmir. C’è inoltre insofferenza nei confronti del governo filoindiano di Hamid Karzai in Afghanistan. Con Pechino, l’alleato più stretto di Islamabad in chiave anti-indiana, si è rafforzata la cooperazione per costruire centrali nucleari. La relazione del Pakistan con gli Stati Uniti è invece sempre più difficile. E il sentimento antiamericano è diffuso anche perché, in territorio pakistano, l’azione della CIA è parzialmente indipendente dalle autorità nazionali, e proseguono gli attacchi dei droni statunitensi contro i talebani afghani e i membri di Al-Qaeda nel Pakistan occidentale.

Inoltre gli estremisti religiosi si sono infiltrati nelle forze armate e nei servizi segreti, che sostengono i talebani afghani ma sono in conflitto con parte dei talebani pakistani, coordinati a loro volta con gli jihadisti che lottano per l’annessione del Kashmir indiano al Pakistan. La costellazione dei gruppi estremisti è ampia e nebulosa. Dietro il paravento di attività educative e caritative, il loro reclutamento si rafforza nelle madrasse, le scuole coraniche, e nei campi dei profughi afghani o degli sfollati dopo le alluvioni della scorsa estate. Per di più le forze armate hanno un forte potere di veto sul governo; ma non sembrano disposte a un colpo di stato, magari su ispirazione islamista, perché la soluzione dei problemi sociali ed economici del paese è fuori della loro portata, e i militari non vogliono rischiare l’impopolarità. Purtroppo il governo e la magistratura spesso sembrano aver capitolato davanti alle ingerenze degli estremisti e dei servizi segreti pakistani. La legge antiblasfemia, nelle sue varie applicazioni, giustifica il terrore politico e scoraggia i pakistani liberali. I musulmani moderati sono stritolati dall’autorità delle forze armate, dal fanatismo religioso e dall’ingerenza dei paesi stranieri, quando favoriscono corruzione, abuso di potere e crimini contro i diritti umani, come la tortura. Le rivendicazioni sociali stanno quindi diventando appannaggio dei fondamentalisti, che però non hanno gli strumenti culturali, tecnici e burocratici per risolvere i problemi di cronico sottosviluppo economico del paese.

L’intimidazione e l’impunità delle violenze estremiste e delle rappresaglie militari sono i cardini su cui si regge il caos pakistano. La stessa fragile identità nazionale rischierebbe di svaporare se queste due pratiche guidassero la costituzione materiale del paese. Inoltre, benché improbabile, non si può escludere che la crescente anarchia pakistana permetta a gruppi jihadisti di impossessarsi di materiale e armi atomiche, di cui gli USA non sembrano conoscere interamente l’allocazione. È il Pakistan il boccone più ghiotto per al-Qaeda, che sta nutrendo ideologicamente l’estremismo interno, affermando che il governo civile di Islamabad è illegittimo, perché irreligioso, e andrebbe distrutto. Così, purtroppo, l’esecutivo e il PPP sembrano ostaggio dei partiti fondamentalisti e degli estremisti.

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Tuttavia Paul Bhatti, fratello dell’ucciso, è stato nominato consigliere speciale del premier per le minoranze religiose. Se nella "Terra dei puri" arriverà quello che resta della "primavera democratica" araba, il nuovo patto sociale pakistano, per bloccare la spirale autodistruttiva, richiede il rapido ristabilimento di un sistema giudiziario penale funzionante. Ciò include necessariamente la riforma radicale della legge antiblasfemia, che giustifica l’uso extragiudiziale della violenza, anche contro chi si converte dall’islam. Nel medio e lungo periodo è indispensabile un sistema scolastico pubblico universale e aperto a un’educazione più moderna, anche per creare valide competenze lavorative. Nuove idee di giustizia e veritiere ricostruzioni della storia del paese possono fare capitalizzare la ricchezza del pluriforme popolo pakistano. Ciò impone che la spesa pubblica non possa essere drenata in modo sproporzionato dalle spese militari, e che la pace con l’India e in Afghanistan sia ritenuta necessaria per lo sviluppo sostenibile del Pakistan. Nel paese non è in atto un conflitto religioso ma politico, col rischio di guerra civile. E il dialogo interreligioso è impotente quando una religione è usata come strumento di potere, di oppressione e di sottosviluppo.

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La rivista da cui è stato ripreso l'articolo, stampata con il previo controllo e l'autorizzazione della segreteria di stato vaticana:

> La Civiltà Cattolica


«Dat»: regole chiare per prevenire l’assalto di Fabrizio Assandri, Avvenire, 14 aprile 2011
La strategia di chi avversa la norma sulle «Dichiarazioni anticipate di trattamento» è già decisa: dopo l’approvazione alle Camere niente referendum, meglio l’attacco per via giudiziaria. Ma per evitare i ricorsi a tribunali e Consulta, il provvedimento può ancora essere chiarito in alcuni punti chiave

Fatta la legge, trovato l’inganno. Sul modello di quanto avvenuto con la legge 40, Beppino Englaro ha già lanciato la pietra. «Voglio vedere quando a qualcuno capiterà qualcosa di simile a quello che ha passato dalla mia famiglia – ha detto nel corso di un confronto sul fine vita a Torino giovedì scorso – se non impugnerà davanti alla magistratura il proprio diritto di decidere».
Il riferimento è, ovviamente, al ddl Calabrò in discussione alla Camera. Per questo è lecito domandarsi se il testo all’ordine del giorno il 27 aprile sia sufficientemente stringente, al punto da non offrire il fianco a interpretazioni di segno contrario. Il dibattito sembra ruotare attorno agli articoli 3 e 7. In ogni caso, la parola va per primo al parlamentare Pdl Domenico Di Virgilio, relatore della legge a Montecitorio.
Qualche dubbio, intanto, lo esprime sulla data in calendario: «La legge il 27 è al quarto punto dell’ordine del giorno, per cui potrebbe slittare ancora...».
Entrando nel merito, Di Virgilio sottolinea che «la legge è perfettibile, ma i suoi paletti sono immodificabili. Da un lato il "no" all’eutanasia, all’accanimento o all’abbondono terapeutico, dall’altro la non vincolabilità delle dichiarazioni anticipate di trattamento». Rispetto al testo uscito dal Senato, Di Virgilio segnala alcune migliorie: «Come il comma 5 dell’articolo 3, che prevede la possibilità di interrompere idratazione e alimentazione se non più assimilabili dall’organismo».
Qualche dubbio lo solleva Paola Binetti (Udc), che fa riferimento anche ai biotestamenti raccolti dai Registri comunali in giro per l’Italia (a questo proposito,l’associazione radicale Luca Coscioni sembra aver accelerato la corsa proprio a ridosso della discussione in Parlamento). «Di per sé, ricorrendo in tribunale, è difficile che il magistrato non tenga conto delle volontà espresse dal paziente. Bisogna però vedere se sono richieste conformi alla legge oppure no: non è cosa sempre scontata, come dimostra il caso Eluana».
D’altra parte, non avrebbe senso «una legge totalmente blindata, perché l’ultima parola va lasciata al medico, che deve applicare le sue conoscenze al caso specifico».
Per questo, ciò di cui c’è bisogno è una legge «sufficientemente stringente». Il testo attuale, secondo la Binetti, «è perfetto dal punto di vista dei principi, mentre l’articolato potrebbe prestarsi a un accanimento giudiziario e per questo va reso più chiaro». Per la Binetti significa esplicitare prima di tutto proprio il comma 5 dell’articolo 3, di cui parlavamo sopra. «Bisogna precisare meglio che nutrizione e idratazione non vanno mai sospese. Punto. Solo in seconda battuta si può citare il caso in cui è necessario interromperle».
Non solo: «All’articolo 7 bisogna dire più chiaramente che non sussiste l’obbligo del medico di applicare la dichiarazione. Su questo, sarebbe meglio tornare alla versione della legge prevista in Senato». Infine all’articolo 2, dove si parla di salute psicofisica, «sarebbe importante introdurre anche il termine "vita", perché non basta il riferimento alla salute».
A proposito dei Registri comunali dei biotestamenti, il parlamentare Pdl Gabriele Toccafondi ritiene che la circolare dei ministri Maroni, Sacconi e Fazio sia sufficiente a determinare «una volta votata la legge, che quei Registri sono del tutto inutili, mettendo così fine all’attuale anarchia». Secondo Toccafondi, «sarebbe stato meglio non arrivare a una legge in materia, ma dopo il caso Eluana è improrogabile, per mettere un argine a una deriva eutanasica. Bisogna poi tenere conto che non possiamo fare una legge come se scrivessimo su una pagina bianca. Ci sono elementi, come ad esempio le dichiarazioni anticipate, che dobbiamo inserire proprio in seguito a chi ha usato giudici e Registri per esercitare una forzatura normativa».
Pur non avendo problemi a votare la legge così com’è, qualche riserva la esprime anche lui sull’articolo 3: «Mi sembra di buon senso stabilire che in certi casi può essere sospesa l’alimentazione, ma temo che qualcuno possa usare questo punto come una breccia per forzare la mano di qualche giudice».  
Anche secondo il giurista Luciano Eusebi, docente all’Università Cattolica, «bisogna chiarire meglio, rispetto al testo uscito dalle commissioni, che le dichiarazioni anticipate sono sì utili al medico per le sue valutazioni ma non possono avere un valore a prescindere dal contesto. È infatti in base a una serie di elementi che il medico può valutare se la terapia è proporzionata oppure no, nell’interesse del malato. Non bisogna contraddire la logica dell’alleanza terapeutica».