giovedì 28 aprile 2011

Nella rassegna stampa di oggi:

  1. Il giorno dopo la pillola è ancor più amara di Tommaso Scandroglio, 28-04-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
  2. Se l'assoluzione diventa un diritto civile di Mario Palmaro, 28-04-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
  3. "Habemus Papam" di Nanni Moretti ovvero il dubbio senza interlocutore - Una capacità smarrita di Emilio Ranzato (©L'Osservatore Romano 28 aprile 2011)
  4. IL CASO/ Basta il parere degli esperti per decidere se vivere o morire? Di Assuntina Morresi, giovedì 28 aprile 2011 – il sussidiario.net
  5. La rifondazione dell'Europa comincia dall'Ungheria? - Newsletter n.347 | 2011-04-28 - http://www.vanthuanobservatory.org/
  6. Siamo quasi in 7 miliardi Avremmo dovuto essere in 9 di Colin Mason e Steven W. Mosher *, 28-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
  7. Chi tradisce la tradizione. La grande disputa - Si infiamma la discussione su come interpretare le novità del Concilio Vaticano II, soprattutto sulla libertà di religione. I tradizionalisti contro Benedetto XVI. Un saggio del filosofo Martin Rhonheimer a sostegno del papa di Sandro Magister
  8. Il colpo di mano dell'«amministratore di sostegno» - Sicuri che una legge non serve, o che può attendere? Nel vuoto normativo attuale, a fissare regole con possibili effetti eutanasici non ci sono solo le sentenze del caso Englaro ma anche i decreti dei tribunali che hanno deformato una figura giuridica alla quale viene ora attribuita l'autorità di negare al paziente terapie salva-vita, di Ilaria Nava, Avvenire, 28 aprile 2011
  9. Per tutelare la vita serve un testo senza ambiguità - Nel confronto alla Camera,e nel successivo passaggio al Senato, c'è spazio per interventi di messa a punto quanto ad aspetti specifici della legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento. Un testo indifferibile, ma che può essere ripulito da qualche possibile «zona grigia», di Alberto Gambino, Avvenire, 28 aprile 2011
  10. Ungheria, aborto «danno sociale». Per Costituzione - Dietro il testo appena approvato la piaga delle interruzioni forzate di gravidanza imposte dal comunismo - di Giovanni Bensi, Avvenire, 28 aprile 2011
  11. «Attenti a una cultura che sostiene e approva ogni scelta individuale» di Bruno Dallapiccola, Corriere della Sera, 28 aprile 2011
  12. Un testamento sconsigliabile - Accelerazione alla Camera per la legislazione sul modo di morire, Il Foglio del 28 aprile 2011
  13. Controindicazioni di una legge che non fermerà l'eutanasia di Adriano Pessina - 22 marzo 2011 - © FOGLIO QUOTIDIANO
  14. Tutti i rischi di una cattiva legge di Stefano Semplici, da http://www.europaquotidiano.it
  15. 28/04/2011 - LIBIA – VATICANO - Vescovo di Tripoli: "Questa guerra è senza senso. Il governo italiano dia le dimissioni" - Su Tripoli cadono bombe a tutte le ore della notte. La popolazione disperata fugge in strada e chiede l'intervento del papa per porre fine alla guerra. Il Vicario apostolico avverte: "Se la guerra continuerà si scaveranno dei fossati incolmabili fra la popolazione con conseguenze imprevedibili".


 

Wojtyla beato, una sfida all'uomo di Luigi Negri, giovedì 28 aprile 2011, il sussidiario.net


 

La beatificazione di Giovanni Paolo II - ampiamente favorita dal suo più stretto collaboratore, amico e successore Benedetto XVI - è la beatificazione di un grande uomo e di un grande cristiano, nella sintesi più mirabile di questi due fattori. Essere un grande uomo senza essere cristiano sarebbe una tensione inesaudita. Un cristianesimo senza umanità, infatti, è l'ideologia religiosa che più di una volta, nella storia della Chiesa, ha preteso di sostituirsi alla radicale semplicità e forza dell'esperienza della fede.

Giovanni Paolo è stato un grande uomo figlio di un grande popolo. La sua grandezza è stata la profondità con cui ha percepito la grande domanda di senso - di verità, di bellezza, di bene, di giustizia -, l'ansia del cuore umano di cui ha parlato per tutta la sua vita don Luigi Giussani. Wojtyla ha percepito queste grandi domande all'interno di una eccezionale tradizione di cultura e di civiltà come quella della Polonia cristiana, di cui è stato un figlio devoto e appassionato innanzitutto nell'arte, culmine originale di ogni forma di cultura e civiltà. Karol Wojtyla è stato poeta, artista e attore. Un fatto che non può essere separato dal suo diventare cristiano, sacerdote, vescovo e Papa, perché Giovanni Paolo II ha avuto sempre chiaro che solo nell'incontro con la presenza di Cristo morto e risorto e misteriosamente presente nella Sua Chiesa, l'umanità trova il suo compimento e la fede la sua concretezza storica ed esistenziale.

La sua vicenda di uomo e di cristiano ne fa il testimone inesausto dell'umanità che cerca Dio e di Dio che cerca e trova l'uomo, perché l'uomo possa diventare autenticamente se stesso. Perché è Cristo a rivelare tutta l'umanità sull'uomo: questa grande certezza il Papa ha declinato nei suoi 27 anni di insonne magistero, ma soprattutto nella testimonianza di una vita spesa di fronte al mondo senza mai farsi condizionare o frenare da nessuna considerazione di tipo naturale, scientifico o socio-politico.

Sin dai primi giorni del Suo pontificato, Giovanni Paolo II ha servito il rapporto tra Dio e l'uomo come dialogo fra Cristo, presente nel mistero della Chiesa, e il cuore umano. Che non può accontentarsi mai delle proprie misure, dei propri progetti e delle proprie ideologie; che - anzi - vive la tentazione permanente di eliminare Cristo e la Chiesa dall'orizzonte della sua coscienza e della storia, al prezzo di una sostanziale inconsistenza della sua identità e della perdita della sua libertà.

Il Beato Karol Wojtyla - grazie alla costanza della grande tradizione cristiana che da duemila anni urge la vita e la coscienza degli uomini nei punti anche drammatici o tragici della sua storia - è certamente un grande testimone del cattolicesimo del Terzo Millennio, un cattolicesimo che ha saputo liberarsi da tanti orpelli del passato, un cattolicesimo che proprio per il magistero del Papa Giovanni Paolo II è riuscito a liberarsi da riproposizioni di carattere sentimentale o moralistico che aggrediscono ancora oggi il cuore vivo della Chiesa.

Il cristiano oggi deve saper ritrovare la radicale semplicità della fede come esperienza di vita nuova, da vivere appassionatamente nelle circostanze di ogni giorno e verificando che la fede vale più della vita, perché solo la fede rende ragionevole e bella l'esistenza. Ma soprattutto, facendo esperienza di questa vita nuova, la Chiesa deve continuare l'opera sempre nuova di evangelizzazione che rende possibile l'incontro tra Cristo e il cuore, e con esso l'esperienza di una conversione totale. «Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo», diceva Gaio Mario Vittorino.

In questo senso la beatificazione del Servo di Dio Giovanni Paolo II è la più grande sfida a tutti gli uomini di buona volontà.

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«I cristiani "risorti" cambiano il mondo» di Massimo Introvigne, 27-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it/


 

Nell'udienza di mercoledì 27 aprile Benedetto XVI ha continuato le sue riflessioni sulla Pasqua, «cuore del mistero cristiano». Come La Bussola Quotidiana ha riferito nei giorni scorsi, quest'anno il Papa fa del tempo di Pasqua l'occasione per un dialogo serrato con le forme vecchie e nuove dell'ateismo.


 

Nella prima udienza generale successiva alla Pasqua, il Pontefice è dunque anzitutto tornato sul punto centrale del suo Messaggio pasquale: la Resurrezione è un fatto storico. Qualunque concezione della Resurrezione come un evento puramente spirituale, che «avviene» non nella realtà di quella tomba che da piena si fa vuota ma solo nei cuori dei discepoli, è storicamente falsa e non può essere quel fondamento su cui giochiamo tutta la nostra vita di cui ci parla san Paolo. Riprendendo un tema del suo libro «Gesù di Nazaret. Seconda parte», il Papa insiste pure sul fatto che la Pasqua è diversa dai miracoli di resurrezione, pure grandi, che Gesù opera nel corso della sua predicazione. Lazzaro e le altre persone che Gesù risuscita moriranno di nuovo. Solo Gesù non morirà più, e dunque la sua Resurrezione «non è un semplice ritorno alla vita precedente, come lo fu per Lazzaro, per la figlia di Giairo o per il giovane di Nain, ma è qualcosa di completamente nuovo e diverso. La risurrezione di Cristo è l'approdo verso una vita non più sottomessa alla caducità del tempo, una vita immersa nell'eternità di Dio. Nella risurrezione di Gesù inizia una nuova condizione dell'essere uomini, che illumina e trasforma il nostro cammino di ogni giorno e apre un futuro qualitativamente diverso e nuovo per l'intera umanità».


 

Ma ecco che l'ateo prospetta un'altra obiezione, quella che Karl Marx (1818-1883) formulava parlando di «alienazione» e che i nuovi atei, che forse non leggono più Marx, ripetono oggi in altri termini. Mantenere lo sguardo fisso sul Risorto, cioè su una persona che supera in modo così evidente la nostra dimensione quotidiana di uomini, non rischia forse di condurci a un atteggiamento spiritualista, che guardando soltanto al Cielo si disinteressa della Terra, della società, della politica? Apparentemente, nota Benedetto XVI, un brano della Lettera ai Colossesi di san Paolo sembrerebbe dare ragione a questa obiezione: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo seduto alla destra di Dio, rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (3,1-2). «A prima vista - afferma il Pontefice - leggendo questo testo, potrebbe sembrare che l'Apostolo intenda favorire il disprezzo delle realtà terrene, invitando cioè a dimenticarsi di questo mondo di sofferenze, di ingiustizie, di peccati, per vivere in anticipo in un paradiso celeste. Il pensiero del "cielo" sarebbe in tale caso una specie di alienazione».


 

Ma chi legge in questo modo il brano di san Paolo non ha capito che cosa sono veramente «le cose di lassù» e «le cose della terra». E non si tratta di un semplice problema esegetico: è in gioco l'essenziale della vita cristiana. Nello stesso contesto immediato della Lettera ai Colossesi, «ecco anzitutto quali sono "le cose della terra" che bisogna evitare: "Fate morire – scrive san Paolo – ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria" (3,5-6). Far morire in noi il desiderio insaziabile di beni materiali, l'egoismo, radice di ogni peccato. Dunque, quando l'Apostolo invita i cristiani a distaccarsi con decisione dalle "cose della terra", vuole chiaramente far capire ciò che appartiene all'"uomo vecchio" di cui il cristiano deve spogliarsi, per rivestirsi di Cristo».


 

Non si tratta di un rifiuto del mondo materiale e della politica ma dell'abuso delle cose del mondo e del potere che deriva dal peccato. «Come è stato chiaro nel dire quali sono le cose verso le quali non bisogna fissare il proprio cuore, con altrettanta chiarezza san Paolo ci indica quali sono le "cose di lassù", che il cristiano deve invece cercare e gustare. Esse riguardano ciò che appartiene all'"uomo nuovo", che si è rivestito di Cristo una volta per tutte nel Battesimo, ma che ha sempre bisogno di rinnovarsi "ad immagine di Colui che lo ha creato" (Col 3,10). Ecco come l'Apostolo delle Genti descrive queste "cose di lassù": "Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri (...). Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto" (Col 3,12-14)».


 

Le «cose di lassù» non sono soltanto i beni del Paradiso ma comprendono a pieno titolo una vita nuova su questa Terra, trasformata a immagine della Città Celeste anche attraverso la carità sociale e politica. San Paolo «è dunque ben lontano dall'invitare i cristiani, ciascuno di noi, ad evadere dal mondo nel quale Dio ci ha posti. E' vero che noi siamo cittadini di un'altra "città", dove si trova la nostra vera patria, ma il cammino verso questa meta dobbiamo percorrerlo quotidianamente su questa terra. Partecipando fin d'ora alla vita del Cristo risorto dobbiamo vivere da uomini nuovi in questo mondo, nel cuore della città terrena». La Pasqua dunque «è la via non solo per trasformare noi stessi, ma per trasformare il mondo, per dare alla città terrena un volto nuovo che favorisca lo sviluppo dell'uomo e della società secondo la logica della solidarietà, della bontà, nel profondo rispetto della dignità propria di ciascuno».


 

In questo senso, la Pasqua è il contrario di un'alienazione nel senso marxista del termine, anzi è la sola via possibile e realistica alla libertà. La Resurrezione di Gesù «porta la novità di un passaggio profondo e totale da una vita soggetta alla schiavitù del peccato ad una vita di libertà, animata dall'amore, forza che abbatte ogni barriera e costruisce una nuova armonia nel proprio cuore e nel rapporto con gli altri e con le cose. Ogni cristiano, così come ogni comunità, se vive l'esperienza di questo passaggio di risurrezione, non può non essere fermento nuovo nel mondo, donandosi senza riserve per le cause più urgenti e più giuste, come dimostrano le testimonianze dei Santi in ogni epoca e in ogni luogo».


 

La Pasqua - e, in un certo senso, solo la Pasqua - chiama a «far risorgere nel cuore del prossimo la speranza dove c'è disperazione, la gioia dove c'è tristezza, la vita dove c'è morte. Testimoniare ogni giorno la gioia del Signore risorto significa vivere sempre in "modo pasquale" e far risuonare il lieto annuncio che Cristo non è un'idea o un ricordo del passato, ma una Persona che vive con noi, per noi e in noi, e con Lui, per e in Lui possiamo fare nuove tutte le cose (cfr Ap 21,5)».


 


 

Il giorno dopo la pillola è ancor più amara di Tommaso Scandroglio, 28-04-2011, http://www.labussolaquotidiana.it


 

Vi sono pillole davvero difficili da mandar giù, soprattutto perché non di rado il loro incarto è la menzogna ideologica. Una di queste è sicuramente la cosiddetta pillola del giorno dopo. La vulgata corrente, che spesso la confonde con la RU486, pensa che questo preparato chimico abbia effetti solo contraccettivi. Se la prendi entro 72 ore dal rapporto sessuale non rimarrai incinta, così ci viene fatto credere.


 

Possibili effetti abortivi. Purtroppo il bugiardino del Norlevo e Levonelle, nomi commerciali della pillola del giorno dopo, parlano chiaro. Il primo usando l'espressione "bloccando l'ovulazione o impedendo l'impianto dell'ovulo eventualmente fecondato" ci informa che l'azione del preparato è duplice: contraccettiva e abortiva. Non dissimile il Levonelle che illustra l'efficacia della pillola "prevenendo l'ovulazione e la fecondazione e modificando la mucosa dell'utero rendendola inadatta all'impianto dell'ovulo fecondato". L' "ovulo fecondato" è un'accoppiata di termini escogitata – è proprio il caso di dire – per indorare la pillola. Infatti l' "ovulo fecondato" non è altro che l'embrione, cioè quella minuscola persona nata dall'incontro del gamete maschile con quello femminile. Gli effetti abortivi descritti dai foglietti illustrativi trovano poi conferma in molti studi scientifici che non escludono una possibile efficacia abortiva di questa pillola. Le stime non possono che essere approssimative, ma si ritiene che gli aborti procurati dalla pillola del giorno dopo siano tra i 60.000 e i 100.000 all'anno nella sola Italia. Naturalmente la donna non si accorge che ha abortito il proprio piccolo: siamo arrivati alla banalizzazione estrema dell'aborto. Manca addirittura la consapevolezza del gesto uccisivo da parte della donna, ultimo elemento di deterrenza che potrebbe impedire di levare la mano a danno di queste piccole vite.


 

Non fa il suo dovere. A margine, ma non troppo, appuntiamo poi il fatto che l'efficacia contraccettiva è bassissima: la pillola del giorno dopo è in grado di ridurre la probabilità di rimanere incinta in termini assoluti solamente del 2-3% (Renzo Puccetti, Specialista in Medicina Interna, Membro della European Medical Association - Research Unit, referente per l'area Bioetica della Società Medico-Scientifica Promed Galileo.).


 

In Italia. Oggi nel Bel Paese vengono vendute quasi 370mila confezioni all'anno, più di mille al giorno dunque (ben più di un milione in Francia). Il 55% delle prescrizioni riguardano minorenni: il picco interessa il sabato sera, momento in cui i ragazzi più si "divertono". Se alle teenagers piace questa pillolina, ai farmacisti e medici molto meno tenuto conto dei suoi effetti abortivi. A questo proposito riportiamo un dato interessante: su tutto il territorio nazionale è attivo il "Soccorso civile [sic] Pillola del giorno dopo": più di 100 medici disposti a fornire la pillola in questione in qualsiasi giorno, 24 ore su 24. Basta una telefonata e si prende appuntamento. Negli ultimi due anni hanno chiamato circa 8.000 tra donne e uomini per chiedere assistenza. Un recente rapporto di questo centro, non sospetto quindi di partigianeria anti-pillola, ci informa che l'85% dei medici a cui le ragazze si sono rivolte per chiedere il preparato hanno sollevato obiezione di coscienza, diritto tutelato proprio dalla legge 194 che ha introdotto nel nostro paese l'aborto procurato.


 

Nel resto del mondo. Come è accolta nel resto del mondo questa pillola? Spigolando qua e là: non serve prescrizione medica in Spagna, Francia e Inghilterra. Si distribuisce gratuitamente su tutto il territorio iberico, nelle scuole francesi, negli ospedali svizzeri, nel Galles e in alcune città inglesi. Ovviamente in tutti questi casi poco importa che la richiedente sia maggiorenne o minorenne. A questo proposito oltremanica tira un vento molto liberal in tema di distribuzione della pillolina anti-bebè: infatti a più di 1.000 ragazze tra gli 11 e i 12 anni è stata prescritta la pillola contraccettiva dai medici di famiglia, ad altre 200 ragazze tra gli 11 e i 13 sono stati iniettati o impiantati dispositivi contraccettivi. Nella maggior parte dei casi non si sono informati i genitori. L'intento è quello di diminuire le gravidanze tra le adolescenti che invece aumentano. Lo testimonia, oltre ai dati forniti dal National Health Service (il Sistema sanitario nazionale inglese), anche una ricerca confezionata ad hoc dalla Nottingham University. Si è provveduto alla distribuzione gratuita alle adolescenti della pillola del giorno dopo per alcuni anni. Risultato: le gravidanze si impennano così come le malattie sessualmente trasmissibili che in questo campione rispetto al trend nazionale sono aumentate del 12% . Questi dati si spiegano facilmente perché la ragazza, facendo affidamento sulla presunta efficacia della pillola di impedire il concepimento, aumenta il numero di rapporti sessuali esponendosi altresì a maggiori rischi per la sua salute. Insomma: più ti senti sicuro alla guida più premi sull'acceleratore.


 

E domani? Venendo agli scenari prossimi venturi: in Irlanda l'Irish Medicines Board ha annunciato di voler rendere disponibile la pillola del giorno dopo anche senza ricetta. Tra l'altro per i farmacisti conterranei di Joyce non sarà possibile avvalersi dell'obiezione di coscienza, così come non è possibile per i colleghi statunitensi a seguito di una decisione dell'Amministrazione Obama che ha cambiato la precedente disciplina prevista da Bush. Negli States la disciplina normativa cambia da stato a stato però è notizia recente che la Teva Pharmaceutical Industries ha chiesto alla Food and Drug Administration di consentire ai minori di 17 anni di poter acquistare il Norlevo senza ricetta. Infine in Giappone la vendita partirà a maggio. E viste le stime di cui sopra questa pillolina in un anno provocherà più morti dello tsunami di qualche settimana or sono. Ma sarà uno tsunami tanto letale quanto silenzioso.


 


 

Se l'assoluzione diventa un diritto civile di Mario Palmaro, 28-04-2011, http://www.labussolaquotidiana.it


 

Un sacerdote cattolico può negare l'assoluzione a un penitente? Sembrerebbe di no, almeno a leggere certa stampa laica. A Treviso una donna, determinata a sposare civilmente un uomo divorziato, si è vista rifiutare l'assoluzione dal confessore. Apriti cielo: la Repubblica, usando le tinte fosche del dramma, descrive la signora che esce "dal confessionale con le lacrime agli occhi", e parla di "fedele trevigiana messa alla porta".


 

Il superiore del convento, da un lato, e il reggente della penitenzieria apostolica, dall'altro, hanno spiegato che il comportamento del religioso non ha nulla di anomalo, e che anzi «quel sacerdote non poteva comportarsi diversamente». Normale amministrazione dei sacramenti, insomma. Ma allora, come è possibile che la Chiesa venga processata in pubblica piazza mediatica, per aver agito in coerenza con ciò che continua a fare da secoli? Lo "scandalo" del mondo secolarizzato ha i suoi perché, e converrà provare a metterli in fila.


 

In primo luogo, l'uomo moderno è stato abituato a ragionare con le categorie dei diritti, abolendo completamente la prospettiva dei doveri. In questa visione distorta, Dio non ha diritti, mentre l'uomo detiene i cosiddetti diritti civili, che implicano la perfetta sovrapposizione tra desiderio e sua realizzazione. Se un fedele desidera confessarsi, significa che desidera l'assoluzione: ergo, qualcuno gliela deve dare. Il fedele è come un consumatore, la Chiesa eroga un servizio a richiesta. Il fedele è un cliente, che com'è noto, ha sempre ragione anche quando a torto. Ovviamente, questa non è più la Chiesa, ma la sua caricatura; e tuttavia, i maitre à penser della cultura laica esigono dal Papa e dai preti questa "attualizzazione" del cattolicesimo alle esigenze della modernità.


 

Seconda osservazione: quando parlano di dottrina cattolica, i giornali laici dimostrano un'ignoranza enciclopedica, alimentata da un atteggiamento pretestuoso: tutto serve per gettare una cattiva luce sul cattolicesimo e, soprattutto, sulla sua esigente morale in materia sessuale e familiare. Se il confessore avesse rifiutato l'assoluzione a un evasore impenitente, quelli di Repubblica l'avrebbero portato in trionfo, perché per loro "divorziare è bello", mentre non pagare le tasse è imperdonabile.


 

Terza, fondamentale considerazione: se questi falsi scandali contro la Chiesa stanno diventando sempre più frequenti, lo dobbiamo all'esistenza di un "cattolicesimo senza dottrina". Un cattolicesimo che ha deciso di abolire alcuni spezzoni delle verità insegnate della Chiesa, con la scusa che "tanto queste cose la gente le sa", argomento perfetto per fare in modo che la gente smetta di saperle. Ma ogni volta che una verità cattolica viene taciuta o non viene testimoniata, lo spazio di libertà della Chiesa si riduce. Se, ad esempio, per decenni si abolisce la categoria teologia del "castigo di Dio", quando poi un buon cattolico la rispolvera, subisce il linciaggio mediatico. Se si ripete per decenni che l'inferno è vuoto, quando poi qualcuno torna a parlare della salvezza delle anime viene chiesta la sua perizia psichiatrica. Se taluni sacerdoti sviliscono la confessione, trasformandola in una chiacchierata dal lieto fine garantito, ecco che il prete che rifiuta l'assoluzione per mancanza del proposito di non più peccare viene messo in croce dai media. Man mano che la Chiesa rinuncia a ribadire opportune et importune soprattutto le verità più scomode, il mondo moderno erode il territorio della libertas Ecclesiae e la riduce al silenzio.


 

Come sempre, insomma, l'apologetica fronteggia due minacce: da un lato, l'animosità dei nemici della Chiesa; dall'altro, lo stato confusionale interno al mondo cattolico, incarnato da quei cattolici che hanno pensato fosse buona cosa sostituire – metaforicamente - i tarallucci al pane azimo delle ostie. Come se la Chiesa fosse stata fondata da Cristo perché tutto finisse, appunto, a tarallucci e vino. Come se i cristiani fossero stati chiamati a portare nel mondo zucchero piuttosto che sale. Una religione dell'amore, ma senza il sacrificio. Un cattolicesimo rappresentato, più che da Roma, da Woodstock, dove i confessori assolvono tutti, a prescindere. E dove Gesù perdona la peccatrice, ma le raccomanda di tornarsene a peccare come e più di prima. Per fare contenta Repubblica.


 


 

"Habemus Papam" di Nanni Moretti ovvero il dubbio senza interlocutore - Una capacità smarrita di Emilio Ranzato (©L'Osservatore Romano 28 aprile 2011)


 

Il cardinale francese Melville (Michel Piccoli) è solo uno dei tanti chiamati a riunirsi in conclave. E tale, probabilmente, vorrebbe rimanere. Nonostante una vita dedicata alla preghiera e una fede ancora solida, quando a sorpresa viene eletto Papa non sa se riuscirà a onorare un compito così gravoso.

Il ripensamento è però tardivo, la fumata bianca c'è già stata, il mondo intero aspetta soltanto di conoscere l'identità del nuovo Pontefice. Sospeso clamorosamente l'annuncio, bisogna correre in fretta ai ripari. Si prova dunque a chiamare in Vaticano il noto psicanalista Brezzi (Nanni Moretti).

Un po' per i vincoli posti alla sua indagine introspettiva, un po' per l'handicap di conoscere già la peculiarità del paziente, Brezzi preferisce però delegare l'incarico alla ex moglie (Margherita Buy), a sua volta psicanalista, che nulla ovviamente sa di Melville. Mentre l'insolito ospite rimane "prigioniero" in Vaticano per questioni di discrezione, intrattenendosi giovialmente con i cardinali, Melville farà perdere le proprie tracce, cominciando a girovagare per Roma alla ricerca di una risposta interiore.

Ciò che si imputava a Moretti fino a qualche anno fa, ossia di indulgere in un eccessivo narcisismo, di monopolizzare l'attenzione dello spettatore con la sua personalità, oggi gli si sta rivolgendo contro. Nel senso che non riesce più a sottrarsi dallo schermo senza compromettere il risultato complessivo dei suoi lavori. A Moretti, insomma, non sta riuscendo ciò che è riuscito a Woody Allen a partire da metà carriera, ossia relegare efficacemente il proprio alter-ego cinematografico a comprimario, a spettatore, o addirittura cancellarlo del tutto.

Lungi dall'essere opere comiche o leggere, pur se costellate da tanti momenti esilaranti di cui tutti conserviamo nella memoria almeno una battuta, i suoi film fino a Caro diario hanno descritto la solitudine e il disorientamento dell'individuo in un'Italia prima reduce dalle laceranti divisioni politiche, quindi adagiata in una bambagia piccolo borghese priva di valori e falsamente confortante.

I tic, le manie, le nevrosi del suo personaggio di sempre diventavano così le lenti attraverso cui guardare una realtà che perdeva i suoi punti di riferimento, senza permettere allo spettatore di giudicare se erano le prime a deformare la seconda o viceversa, in una dialettica fra oggettivo e soggettivo molto stimolante. Era un cinema orgogliosamente autistico e perfettamente autonomo, proprio perché faceva del suo ripiegamento su se stesso - ivi compreso quel narcisismo in fin dei conti funzionale - un aspetto fondamentale della propria poetica. Si trattava, inoltre, di un'unità di sguardo che felicemente si sposava con la pulizia stilistica dei film più maturi, con un'economia di linguaggio che in La messa è finita raggiungeva un culmine quasi bressoniano.

Dopo Aprile, flusso di coscienza che replicava pallidamente Caro diario, Moretti ha cominciato però a optare per un cinema più composito, forse più complesso ma non altrettanto riuscito, frutto di un lavoro di squadra in sede di sceneggiatura probabilmente inopportuno. In particolare, l'idea di spostare fuori da sé il fulcro delle crisi di volta in volta raccontate non ha pagato, e Habemus Papam lo conferma.

Chiedere a Moretti di impersonare questo Pontefice sconquassato dai dubbi sarebbe stato troppo, ma ci si aspettava che svolgesse almeno il ruolo di contraltare dialettico, che conducesse fino in fondo quella battaglia che una battuta iniziale del film sembrava propiziare: "Il concetto di anima e quello di inconscio non possono coesistere".

Invece, chissà perché, forse per un eccessivo pudore, Moretti si tira indietro anche da questo compito, lasciandolo alla ex moglie interpretata da Margherita Buy, un personaggio e un'attrice piuttosto sprecati. Anziché creare un parallelismo fra le due rinunce, produce in tal modo un doppio effetto negativo. Da una parte lo psicanalista rimane inutilmente da solo con i cardinali, dando vita a siparietti anche divertenti ma spogliati del significato che avevano un tempo nel cinema morettiano, e che non diventano mai, dunque, proiezione di qualcosa di più ampio. Dall'altra il Papa dubbioso perde un interlocutore che non sia la sua enigmatica coscienza, e viene abbandonato al centro di una drammaturgia troppo inerte. Di conseguenza solo la sentita interpretazione di Piccoli lo rende intenso e, a tratti, persino commovente.

L'amara allegoria finale affidata al teatro di ?echov - asilo di esistenze sprecate e di utopistici riscatti - è anche appropriata, ma è troppo ermetica e colta. Tanto da apparire un escamotage più che una soluzione veramente ispirata. Nel frattempo, anche qui lo sguardo non si è mai allargato. Il vacillare di Melville non è diventato una paralisi morale del mondo, come invece il sapore apocalittico dell'epilogo vorrebbe adombrare. I momenti riusciti del film si concentrano dunque in singole intuizioni: la solennità del conclave in contrasto con gli umanissimi comportamenti dei suoi protagonisti; la canzone che si diffonde contemporaneamente per gli appartamenti vaticani e per le strade di Roma; l'ombra della controfigura del Pontefice, in parte inquietante, in parte rassicurante. Infine, l'idea di fondo di mischiare le carte di un mondo millenario senza però volerle stravolgere.

Gli ingredienti messi in scena, quindi, ci parlano ancora di un autore che non fa fatica a stagliarsi sulla media del cinema italiano contemporaneo. A essersi smarrita è la capacità di comporre quegli ingredienti in un congegno efficace. Almeno da quando Moretti ha smesso di scriversi i film da solo. E di accogliere per intero dentro di sé le crisi che ci racconta.


 


 

IL CASO/ Basta il parere degli esperti per decidere se vivere o morire? Di Assuntina Morresi, giovedì 28 aprile 2011 – il sussidiario.net


 

Chi è contrario a che ognuno possa scegliere liberamente come vivere? Nessuno. Siamo tutti favorevoli a che tutti possano condurre la propria vita come meglio credono. E secondo la vulgata comune, si può far quel che si vuole finché le proprie scelte non limitano quelle altrui. Solo a quel punto possono sorgere problemi.

Ma i fatti spesso ci dicono che le cose non sono poi proprio così semplici. Prendiamo un paio di notizie che la settimana scorsa sono venute dalla Gran Bretagna.

La prima. Una clinica inglese è stata autorizzata a praticare iniezioni mensili per bloccare la pubertà a ragazzini di 12 anni che si dichiarano confusi sulla loro identità sessuale. Non è corretto – come invece si è letto un po' dappertutto - parlare di terapie, perché i farmaci somministrati in questo caso non servono per curare un disturbo psichico, o per indirizzare lo sviluppo fisico nei confronti di un sesso: si tratta semplicemente di "prendere tempo", per permettere a questi adolescenti di "scegliere" meglio il sesso che sentono più corrispondente. La notizia, per come è stata riportata, non diceva di patologie di ambiguità sessuale (delle quali si è occupato lo scorso anno pure il Comitato Nazionale di Bioetica), magari quelle in cui sono i medici stessi ad avere difficoltà, alla nascita, ad assegnare il sesso: qua si parla, molto genericamente, di ragazzi "confusi", lasciando intendere che ci si riferisce, piuttosto, a disposizioni d'animo e a sensazioni personali.

Anche la seconda notizia riguarda i giovani. Per prepararsi all'esame di maturità, gli studenti inglesi devono sapere cos'è l'eutanasia, e si serviranno di un video che raccoglie pareri e testimonianze pro e contro: ci sarà Philip Nitschke, il medico australiano soprannominato "Dottor Morte", come pure l'ex medico Michael Irwin, "orgoglioso di aver aiutato almeno nove persone a togliersi la vita" in una clinica svizzera, insieme pure ad associazioni pro-life, quelle cioè di parere opposto, decisamente contrarie al diritto a morire. I ragazzi dovrebbero quindi essere in grado di farsi un'idea in base a un'informazione completa, "oggettiva", ed eventualmente "scegliere" da che parte stare.

Potremmo commentare a lungo sia la mostruosità dell'intervento medico nel primo caso, che il pericolo di mettere dei ragazzi di fronte a tragedie di fine vita, spesso riportate in modo ideologico. Adesso, però, è altro su cui ci interessa riflettere.

Queste due notizie, molto diverse, sottendono una medesima idea di "libera scelta": suggeriscono, innanzitutto, che tutte le circostanze della nostra vita possono essere oggetto di una scelta, persino l'essere maschio o femmina, e il vivere o il morire. Niente, cioè, accade, niente è dato: tutto ciò che fa parte della nostra esistenza, soprattutto se non ci piace, se ci far star male, se ci fa sentire fortemente a disagio, si può cambiare, sovvertire, insomma: tutto può essere il frutto di una nostra decisione.

E per "scegliere" al meglio, che si fa? Ci si affida agli "esperti": si guarda un video, girato rigorosamente in "par condicio" (opinioni pro e contro pesate col bilancino) e poi si decide. E se ancora non è possibile fare lo stesso per essere maschio o femmina, se ancora, cioè, non si può crescere un po' uomo e un po' donna per chiarirsi meglio le idee e scegliere meglio cosa diventare– magari qualcuno suggerirebbe pure questo – allora si ferma tutto. Anziché osservare e ascoltare lo sviluppo del proprio corpo e della propria persona, per chiarirci le idee nel caso fossero confuse, sospendiamo la vita, e pensiamoci su.

Ma possiamo chiamare tutto questo libera scelta?

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La rifondazione dell'Europa comincia dall'Ungheria? - Newsletter n.347 | 2011-04-28 - http://www.vanthuanobservatory.org/


 

Una rondine non fa primavera, ma uno Stato europeo, e non dei minori, che si dà una Costituzione eurocompatibile che rispetta sia la Carta europea dei diritti fondamentali sia la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo è un esempio da seguire.


 

Lunedì 18 aprile 2011, in conformità con gli impegni presi dal primo ministro Viktor Orban quando nell'aprile 2010 vinse in modo eclatante le elezioni politiche (2/3 dei seggi alla Camera dei deputati), la Costituzione ungherese è stata modificata nello spirito e nella lettera. Il testo del 1990, adottato subito dopo la caduta del Muro di Berlino, è stato giudicato troppo liberale e ancora caratterizzato da residui comunisti.


 

Il potere è stato ripartito tra i tre principali partiti :


 

La Fidesz, partito di centro destra, i cui rappresentanti nel Parlamento europeo fanno parte del Partito Popolare Europeo ;


 

I Socialisti, completamente screditati dopo la gesione disastrosa del Primo ministro Ferenc Gyurcsany che aveva mentito sull'entità del deficit del blancio dello Stato, cosa che nel 2008 lo aveva spinto a chiedere al fondo Monetario Internazionale un aiuto di 20 miliardi di euro per salvare il Paese dalla bancarotta;


 

Il partito Jobbik, di estrema destra, che ha come obiettivo la difesa dei valori e dell'identà dell'Ungheria.


 

La nuova Costituzione proposta dal Premier e dalla Fidesz è stata approvata con 262 voti contro 44 e una astensione. Il testo è stato approvato dal Presidente della Repubblica ungherese, Pal Schmitt, il 25 aprile scorso ed entrerà in vigore il 1 gennaio 2012. Durante il dibattito in aula l'opposizione non ha espresso alcun intervento. Il che non le ha impedito finora di sostenere gli oppositori a questa nuova legge fondamentale.


 

Quali sono i cambiamenti della Costituzione :


 

1- Il primo riguarda il riferimento alle radici cristiane dell'Ungheria. Il Preambolo dice infatti che «La Costituzione si inscrive nella continuità della Santa Corona» e ricorda «il ruolo del cristianesimo» nella «sua storia millenaria ».


 

Ci si stupisce delle reazioni negative a questo testo, dato che al momento della redazione del Trattato costituzionale dell'Unione Europea, tutti i paesi membri hanno approvato il riferimento alla nostra eredità cristiana, tranne la Francia. La petizione europea, promossa dalla Fondation de Service politique con quzalche deputato europeo avea ottenuto nel 2004 1,4 millioni di firme ed era stata sostenuta da circa 60 associazioni in rappresentanza di 50 milioni di aderenti. Un primato nella storia europea. Questa petizione era stata registrata dalla Commissione sulle petizioni, ma la Commissione europea non si è degnata di darle corso come avviene di solito quando le petizioni vengono registrate.


 

Il riferimento alle radici cristiane non è una questione di opinione, ma una verità storica. Bisogna ricordare che la nazione ungherese si è organizzata a partire dal battesimo di Santo Stefano, incoronato re di Ungheria, al punto che chi detiene la sua corona detiene anche il potere. E' questo il motivo per cui la Corona di Santo Stefano si trova oggi al Parlamento ungherese, il che gli dà la legittimità di fare le leggi.


 

2- La seconda modifica riguarda l'unione tra due persone: «La Costituzione protegge l'istituzione del matrimonio, considerato come l'unione naturale tra un maschio e una femmina e come il fondamento della famiglia».


 

Questo riferimento riprende, nel suo spirito, la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo che, nonostante le pressioni per introdurre l'unione tra due persone dello stesso sesso, rimane un testo di riferimento per tutti gli Stati. La nuova Costituzione ungherese non rimette in questione l'unione tra persone dello stesso sesso e non le considera equivalenti al matrimonio.


 

3- La terza modifica riguarda la vita di tutti gli esseri umani prima della nascita: «Dal momento del concepimento, la vita merita di essere protetta come un diritto umano fondamentale» e «la vita e la dignità sono inviolabili », riprendendo in un certo modo il primo articolo della Carta europea dei diritti fondamentali: «la dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e protetta».


 

Alcuni si sono indignati di questo ritorno all'ordine morale. Dobbiamo dedurne che l'ordine umano è un ordine amorale? La nuova Costituzione ungherese è eurocompatibile? si chiedono gli oppositori. Se non lo fosse, allora vorrebbe dire che tutti i testi di riferimento sono lettera morta, considerato che l'Unione europea si è costruita a partire dal rispetto dei diritti dell'uomo la cui universalità è espressa nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948, riconosciuta come patrimonio comune dell'umanità, e non sui diritti astratti e soggettivi rivendicati senza riferimento ad un patrimonio comune.


 

Certo, la decisione appartiene ai legislatori. Ma questi votano in nostro nome. Tacere sarebbe da parte nostra un atto di irresponsabilità. Le leggi ci riguardano tutti. E' nostro dovere incontrare i nostri deputati e senatori per dire loro che teniamo al rispetto dei nostri principi fondamentali.


 


 

Élizabeth Montfort


 

Già Deputata al Parlamento Europeo


 

Portavoce della Fondation de Service Politique (Paris)


 

(Fonte : www.libertepolitique.com. Traduzione e riduzione di Benedetta Cortese)


 


 

Siamo quasi in 7 miliardi Avremmo dovuto essere in 9 di Colin Mason e Steven W. Mosher *, 28-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it


 

Il numero degli abitanti della Terra sta mandando in subbuglio i media. A un certo momento dell'ultima tranche dell'anno in corso o al più all'inizio del prossimo – la data esatta è ancora un po' vaga – al mondo vi saranno contemporaneamente, per la prima volta nella storia, sette miliardi di persone.


 

Per gli opinionisti progressisti è l'occasione per versare fiumi d'inchiostro.

National Geographic si è preso lo spazio dell'intero anno solare per mettere sotto esame critico l'aumento demografico, dando la stura a un'infinità tra articoli, filmatini azzimati e servizi fotografici allarmistici sui presunti disastri della "sovrappopolazione" prossimi venturi, e il livello di allerta di numerose organizzazioni è già posizionato sulla modalità panico totale.


 

Persino in un recente convegno dell'American Association for the Advancement of Science, accantonata ogni obiettività scientifica e abbracciata la "scienza-spazzatura", ci si è messi a intonano i consueti peana contro la crescita esponenziale della popolazione mondiale e l'impatto che essa esercita sull'ambiente. E così, a poche ora dalla conclusione del simposio, su Internet è divampato l'incendio dei titoli shock: se Yahoo News affermava che Nel 2050 il pianeta potrebbe essere "irriconoscibile", il quotidiano Teheran Times si chiedeva angosciato Riuscirà l'umanità a reggere una popolazione di più di 10 miliardi di persone? (all'attenzione del giornale sembra essere peraltro sfuggito il fatto che, grazie alla campagna di sterilizzazione organizzata nel Paese per volere degli ayatollah, in Iran le nascite sono oggi inferiori a quelle necessarie a mantenere il livello demografico attuale).


 

Ma il Population Research Institute la vede diversamente. Mentre nel secolo scorso la popolazione mondiale andava quadruplicando, l'aumento delle persone ha costantemente voluto dire aumento della prosperità. Oggigiorno gli esseri umani sono più ricchi, più sani e meglio educati che mai. E la percentuale delle persone ancora intrappolate nella povertà continua a decrescere.


 

Quel che sul serio ci preoccupa per il futuro non è dunque un numero di bambini troppo grande, bensì un numero troppo piccolo. I tassi della natalità umana stanno infatti crollando in tutti i continenti. Non solo, cioè, i numeri della popolazione terrestre non si raddoppieranno mai più, ma è pure probabile che non andremo mai nemmeno granché oltre i più o meno 8 miliardi di abitanti.


 

Ovviamente, senza l'aborto avremmo già toccato quota 8 miliardi di esseri umani sul pianeta.


 

Peggiori di qualsiasi tribù primitiva, infatti, noi moderni abbiamo sviluppato la cattiva abitudine di uccidere la nostra stessa prole, e di farlo a ritmi impressionanti.


 

Come afferma il più recente rapporto stilato dall'Alan Guttmacher Institute, ogni anno nel mondo si praticano 42 milioni di aborti volontari. Analogamente, il rapporto 2011 del think tank Planned Parenthood afferma che nel passato recente il numero degli aborti è stato ancora più alto: «Fra 1995 e 2003 il numero degli aborti procurati è sceso nel mondo da 46 milioni ad approssimativamente 42. Nel mondo circa una gravidanza su cinque finisce in aborto».


 

Ma la questione vera è che in realtà non sappiamo affatto se questi numeri siano affidabili. Dopo tutto, il Guttmacher Institute non ha modo di ottenere statistiche accurate relative a molti Paesi dove i tassi di aborto sono assai elevati. Il solo governo cinese impone alle donne del Paese tra i 10 e i 14 milioni di aborti l'anno. Il totale dell'aborto mondiale potrebbe insomma essere ben superiore ai 42 milioni stimati dalla fonti succitate.


 

Ammettiamo però che il Guttmacher Institute sia tutto sommato corretto, e così proviamo a fare qualche facile conticino. Al ritmo di 40 milioni di aborti l'anno, impiegheremmo solamente 25 anni per eliminare un miliardo di persone.


 

Dato che il businesss dell'aborto è iniziato sul serio solo attorno agli anni 1960, ciò significa che a tutt'oggi abbiamo più o meno eliminato il doppio secco di quella cifra, vale a dire circa due miliardi di esseri umani non ancora nati.


 

Riflettiamoci sopra.

Nel corso dell'ultimo mezzo secolo, dimessamente e senza fanfare, nelle città così come nei paesi più normali, e in decine di Paesi del globo, sono stati uccisi qualcosa come due miliardi di bambini. Bambini morti senza nome, spesso senza che nessuno li ambia pianti e riconosciuti come tali solo a volte.


 

Il secolo XX è stato violento in tutte le forme possibili. 37 milioni di persone sono state uccise durante la Prima guerra mondiale. Più di 60 milioni sono morte nella Seconda. Sei milioni di ebrei e altri sei milioni di cattolici sono deceduti nei campi di sterminio hitleriani. 20 milioni sono stai ammazzati per mano della autorità sovietiche. 65 milioni sono state eliminate dal Partito comunista cinese e altri 42 milioni sono morte di fame durante il Grande balzo in avanti voluto da Mao. E via di questo passo.


 

Ma tutti quei numeri impallidiscono di fronte alla cifra inequivocabile dei bambini che sono stati soppressi in quello stesso mezzo secolo.


 

È questo, cioè, il gigantesco evento demografico che davvero rileva. Mentre il genere umano si appresta dunque a celebrare, probabilmente in autunno, il settemiliardesimo bambino della Terra, varrebbe la pena di ricavare un minuto per ricordare il miliardo o due di bimbi che invece sono caduti - e ancora continuano a cadere - vittime dei coltelli degli abortisti.


 

Riposino in pace.


 


 


 

(traduzione di Marco Respinti)


 

* Colin Mason è direttore del settore media del Population Research Institute di Front Royal, in Virginia, di cui Steven W. Mosher è presidente.


 


 

Chi tradisce la tradizione. La grande disputa - Si infiamma la discussione su come interpretare le novità del Concilio Vaticano II, soprattutto sulla libertà di religione. I tradizionalisti contro Benedetto XVI. Un saggio del filosofo Martin Rhonheimer a sostegno del papa di Sandro Magister


 

ROMA, 28 aprile 2011 – Nel memorabile discorso che Benedetto XVI rivolse alla curia romana il 22 dicembre del 2005, su come interpretare il Concilio Vaticano II, c'è un punto che continua ancora oggi a essere fonte di conflitto.


 

Riguarda la libertà di religione.


 

Su questo punto il Concilio innovò in modo deciso. Affermò ciò che in precedenza vari papi avevano negato: la libertà di ogni cittadino di praticare la propria religione, anche se "falsa".


 

L'enciclica "Quanta cura" di Pio IX del 1864 aveva condannato esplicitamente tale libertà. Solo all'unica vera religione, la cristiana cattolica, spettava pieno diritto di cittadinanza in uno stato. La pratica di altre fedi poteva essere solo tollerata, entro certi limiti.


 

Il Concilio Vaticano II, invece, mise al centro dei doveri di uno stato non la verità ma la persona. E affermò che ad ogni persona deve essere pienamente riconosciuto il diritto di praticare la sua religione, quale che sia.


 

*


 

Questa innovazione del Concilio fu subito vista da molti come una drastica rottura rispetto alla tradizione della Chiesa.


 

Con grande giubilo per chi vedeva nel Vaticano II un radioso "nuovo inizio" epocale.


 

Con grande costernazione per chi vi vedeva un nefasto abbandono della retta dottrina.


 

Per l'arcivescovo Marcel Lefebvre e i suoi seguaci, il rifiuto di questa innovazione – assieme ad altre compiute dal Concilio – portò addirittura allo scisma.


 

Ma anche dentro la Chiesa cattolica c'era chi riteneva questa svolta errata e inaccettabile.


 

Non sorprende, quindi, che Benedetto XVI abbia dedicato tutta la parte finale del suo discorso del 22 dicembre 2005 proprio all'analisi di questa innovazione conciliare. Che non fu di "rottura" – disse – ma di "riforma nella continuità".


 

Papa Joseph Ratzinger spiegò che il Concilio, affermando la libertà di religione,

accoglieva sì "un principio essenziale dello stato moderno" che vari papi avevano in precedenza osteggiato. Ma facendo ciò non aveva rotto con "il patrimonio più profondo della Chiesa". Anzi, si era rimesso "in piena sintonia" non solo con l'insegnamento di Gesù sulla distinzione tra Dio e Cesare, ma "anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi", poiché essi sono morti proprio "per la libertà di professione della propria fede: una professione che da nessuno stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza".


 

*


 

Passati quasi sei anni, che effetto ha avuto quel discorso di Benedetto XVI, mirato a interpretare non solo la dichiarazione sulla libertà religiosa ma l'intero Concilio Vaticano II alla luce del criterio: "riforma nella continuità"?


 

Nel campo progressista, i fautori del Concilio come "nuovo inizio" epocale – in particolare gli autori della sua storia più letta al mondo – hanno concluso che papa Ratzinger ha dato loro ragione, sia pure con tutte le cautele. Questo, almeno, è quanto hanno sostenuto gli italiani Alberto Melloni e Giuseppe Ruggeri, l'americano Joseph A. Komonchak, il francese Christophe Theobald, il tedesco Peter Hünermann e altri, in una loro opera collettiva pubblicata nel 2007:


 

> Confermato: il Concilio fu "svolta epocale". La scuola di Bologna annette il papa (11.12.2007)


 

Nel campo tradizionalista, invece, la reazione è stata negativa.


 

I lefebvriani persistono nel loro scisma, nonostante la revoca della scomunica dei loro quattro vescovi, compiuta da Benedetto XVI nel 2009.


 

E i cattolici più legati alla tradizione, pur professandosi in comunione con la Chiesa, appaiono anch'essi sempre più a disagio.


 

Avevano scommesso sull'azione restauratrice di Benedetto XVI e ora si sentono abbandonati. Negli ultimi mesi alcuni loro esponenti di rilievo – da Brunero Gherardini a Roberto de Mattei ad Enrico Maria Radaelli – hanno messo per iscritto la loro delusione, come www.chiesa ha documentato:


 

> I grandi delusi da papa Benedetto (8.4.2011)


 

> I delusi hanno parlato. Il Vaticano risponde (18.4.2011)


 

La critica ultima che alcuni dei maggiori pensatori tradizionalisti rivolgono all'attuale papa è di ostinarsi a difendere in blocco il Concilio Vaticano II, quando invece esso è la causa di tutti i mali della Chiesa presente.


 

Alcuni errori dogmatici – scrivono – si annidano infatti proprio nei testi del Concilio, e non soltanto nelle loro successive interpretazioni e applicazioni.


 

La "rottura" con la tradizione operata dal Vaticano II in materia di libertà di religione ne sarebbe, a loro giudizio, una prova lampante.


 

La Chiesa – dicono – non può insegnare oggi ciò che tanti papi hanno più volte condannato come contrario alla fede. Ne va di mezzo l'infallibilità del suo magistero.


 

*


 

Ma è proprio così? Qual è la "tradizione" da cui il Concilio si è distaccato, nella dichiarazione "Dignitatis humanae" sulla libertà religiosa?


 

E qual è invece la tradizione perenne della Chiesa – il suo "patrimonio più profondo" – a cui il Concilio si è riallacciato, come ha detto Benedetto XVI nel suo discorso del 22 dicembre 2005?


 

A queste domande risponde il professor Martin Rhonheimer in un saggio sull'ultimo numero di "Nova et Vetera", la rivista pubblicata in Svizzera, a Friburgo, sotto la direzione del cardinale Georges Cottier, già teologo della casa pontificia, e del teologo domenicano Charles Morerod, rettore della Pontificia Università San Tommaso.


 

L'articolo, pubblicato su "Nova et Vetera" in lingua francese, è seguito da un'ampia appendice che replica alle critiche piovute su di esso – da parte di esponenti tradizionalisti – dopo una sua precedente diffusione in tedesco e in spagnolo.


 

Sia l'articolo che l'appendice mostrano come l'ermeneutica della "riforma nella continuità" sostenuta da Benedetto XVI sia la sola capace di spiegare l'indubbia novità segnata dal Vaticano II in materia di libertà di religione senza con ciò compromettere l'infallibilità della Chiesa nella dottrina della fede.


 

E mostrano anche che cosa c'era di caduco e di perenne nella condanna della libertà di religione da parte di Pio IX e di altri papi.


 

L'elemento caduco, storico, che il Vaticano II abbandonò, era la concezione della religione di stato, dello stato che garantisce la verità religiosa e reprime l'errore. Mentre l'elemento perenne, dogmatico, che infatti il Concilio tenne fermo, era la condanna del relativismo, dell'idea cioè che tutte le religioni siano ugualmente valide e vere.


 

Il professor Rhonheimer, svizzero, sacerdote dell'Opus Dei, insegna etica e filosofia politica alla Pontificia Università della Santa Croce, a Roma.


 

I visitatori di www.chiesa hanno già avuto modo di leggerne gli scritti durante la disputa pro o contro l'uso del preservativo, nata da un passaggio del libro-intervista di Benedetto XVI "Luce del mondo":


 

> Il professor Rhonheimer scrive. E il Sant'Uffizio gli dà ragione (22.11.2010)


 

Ecco qui di seguito un ampio estratto sia dell'articolo sia dell'appendice pubblicati dal professor Rhonheimer su "Nova et Vetera".


 

C'è da aspettarsi che le migliori menti, fra i tradizionalisti, raccoglieranno la sfida e continueranno la discussione.


 

__________


 


 


 

L'"ERMENEUTICA DELLA RIFORMA" E LA LIBERTÀ DI RELIGIONE


 

di Martin Rhonheimer


 


 

Come è noto, il 22 dicembre 2005, papa Benedetto XVI si è espresso, nel suo discorso in occasione della presentazione degli auguri di Natale alla curia romana, contro un'interpretazione largamente diffusa del Vaticano II, secondo la quale la Chiesa postconciliare sarebbe una Chiesa diversa dalla Chiesa "preconciliare". Benedetto XVI qualifica questa interpretazione erronea del Concilio "ermeneutica della discontinuità e della rottura".


 

Questa espressione è stata ripresa con zelo dai cattolici fedeli sostenitori del papa. L'idea che il papa abbia opposto nel suo discorso l'ermeneutica della discontinuità e l'ermeneutica della continuità si è largamente diffusa. [...] Si deve tuttavia contraddire questa affermazione. Nel discorso citato, papa Benedetto XVI non ha affatto opposto l'ermeneutica erronea della discontinuità a una "ermeneutica della continuità". Ha spiegato piuttosto che all'"ermeneutica della discontinuità si oppone l'ermeneutica della riforma". E qual è "la natura della vera riforma"? Essa consiste, spiega il papa, "in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi".


 


 

La relazione con lo stato


 


 

Il Concilio Vaticano II deve essere compreso quindi alla luce della categoria ermeneutica di "riforma", e non semplicemente di "continuità". In effetti, la "riforma" contiene sia elementi di continuità che certi elementi di discontinuità. Tuttavia, come sottolinea Benedetto XVI, continuità e discontinuità si trovano a dei livelli differenti. Identificare e distinguere tra questi differenti livelli costituisce la vera posta. [...]


 

Anticipando in forma profetica le discussioni attuali, Benedetto XVI esemplifica "l'ermeneutica della riforma" con la dottrina conciliare sulla libertà religiosa. Benedetto XVI esprime qui esattamente la differenza di livelli che gli insegnamenti preconciliari non avevano avuto la capacità di individuare a motivo di precisi condizionamenti teologici e storici. Così, Gregorio XVI e Pio IX, per non citare che questi due papi, avevano identificato il fondamentale diritto alla libertà di religione, di coscienza e di culto del cittadino moderno con una negazione della vera religione. E questo poiché essi non potevano immaginare che una verità religiosa e una vera Chiesa potessero esistere senza che quest'ultima non fosse anche sostenuta dallo stato e dalla politica, e rispettata dal diritto civile. In effetti, un gran numero dei loro avversari liberali rivendicavano la libertà di religione presentando l'argomento esattamente contrario: una tale libertà è necessaria perché non c'è affatto una verità religiosa.


 

La Chiesa del XIX secolo considerava come un disconoscimento della religione cristiana, e come "indifferentismo" e "agnosticismo", la visione "liberale" secondo cui lo stato non avrebbe né la competenza né l'obbligo, da una parte, di farsi garante del valore sociale della vera religione e di rinunciare a riconoscere ad altre religioni il diritto di esistere, e, dall'altra parte, di limitare con pubbliche censure la libertà di espressione e di stampa al fine di proteggere la vera religione.


 

Nel magistero preconciliare, l'insegnamento della verità unica della religione cristiana andava di pari passo con l'insegnamento della funzione e del dovere dello stato, che aveva l'obbligo di far praticare la vera religione e di proteggere la società dalla diffusione dell'errore religioso. Ciò implicava l'ideale di uno "stato cattolico" nel quale, nel migliore dei casi, la religione cattolica è l'unica religione di stato, il cui ordine giuridico è sempre al servizio della protezione della vera religione.


 

È precisamente in rapporto a questo insegnamento dei papi del XIX secolo che si trova il punto di discontinuità, sebbene si manifesti nello stesso tempo una continuità più profonda ed essenziale, come spiega Benedetto XVI nel suo discorso: "Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa". Questo principio essenziale dello stato moderno e nello stesso tempo la riscoperta di questo patrimonio profondo della Chiesa costituiscono, secondo Benedetto XVI, il chiaro rigetto di una religione di stato: "I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede".


 

La "libertà di coscienza" è sempre stata compresa dal mondo moderno come libertà di culto, cioè come diritto dell'individuo e delle diverse comunità religiose ad esprimere liberamente la loro fede, in forma pubblica e comunitaria, nel quadro dell'ordine e della morale pubblica, senza che lo stato abbia il diritto di intervenire per impedirlo. Ora, questo corrisponde esattamente alle rivendicazioni dei primi cristiani nell'epoca delle persecuzioni. Essi non rivendicavano la promozione da parte dello stato della verità religiosa, ma piuttosto la libertà di poter confessare la loro fede senza essere vessati dallo stato. Si deve al Concilio Vaticano II d'aver insegnato questo diritto fondamentale della persona umana a confessare la sua fede senza ostacoli.


 

È proprio a questo che ha dovuto cedere il passo l'antica rivendicazione della protezione politico-giuridica dei cosiddetti "diritti alla verità" e della repressione ad opera dello stato dell'errore religioso. Checché se ne dica, non si può negare che è precisamente questa dottrina del Vaticano II che è stata condannata da Pio IX nell'enciclica "Quanta cura".


 

Benedetto XVI conclude la sua esemplificazione dell'"ermeneutica della riforma" tramite la dottrina sulla libertà religiosa con questa constatazione pregnante: "Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche". Queste correzioni non significano una discontinuità al livello della dottrina della fede cattolica e della dottrina morale, che è oggetto del magistero autentico della Chiesa, il quale – anche in quanto magistero ordinario – reclama l'infallibilità. In questo senso, Benedetto XVI parla di una semplice "discontinuità apparente", poiché nel liberarsi dell'antico fardello d'una dottrina dello stato superata, la Chiesa "ha mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi".


 

In breve, la dottrina del Vaticano II sulla libertà religiosa non implica alcun riorientamento del dogma, ma piuttosto un riorientamento della dottrina sociale della Chiesa e, più precisamente, una correzione del suo insegnamento sulla funzione e i doveri dello stato. Gli stessi principi immutabili sono dunque ripresi in maniera nuova nel nuovo contesto storico. Sullo stato non c'è nessuna dottrina di fede cattolica e dogmatica; e non può essercene, eccezion fatta per gli elementi già presenti nella Tradizione apostolica e nella Sacra Scrittura. Da questi scritti è totalmente assente l'idea di uno "stato cattolico" che sarebbe il braccio secolare della Chiesa. Essi testimoniano piuttosto una separazione tra la sfera religiosa e quella politico-statuale.


 

La parziale rimozione del vero dualismo cristiano tra potere temporale e spirituale, così come il loro amalgama, apparvero più tardi, come conseguenza di situazioni storiche contingenti, tra le quali, in primo luogo, l'imposizione del cristianesimo come religione di stato nell'impero romano e la lotta contro l'arianesimo (che di nuovo rivendicava una divinizzazione dello stato), in secondo luogo l'integrazione, nel corso del basso Medioevo, della Chiesa nelle strutture del governo imperiale e, in terzo luogo, in reazione a quest'ultima, la dottrina politico-canonica dell'alto Medioevo della "plenitudo potestatis", della pienezza di potere del papa, una dottrina dalla quale si è tratta l'idea moderna di uno stato sovrano confessionale cattolico, al quale Pio IX era ancora molto legato e al quale si è puntualmente opposto un suo corrispettivo protestante.


 

La dottrina del Vaticano II rappresenta qui una chiara svolta rispetto al passato. Una volta definitivamente liberata dal fardello storico, la dottrina del Concilio sulla libertà religiosa consiste essenzialmente in una dottrina sui doveri e i limiti dello stato, così come sul diritto civile fondamentale – un diritto della persona e non della verità – grazie al quale sono limitate la sovranità e le competenze dello stato in materia di religione. Essa è, inoltre, una dottrina sulla libertà della Chiesa a esercitare liberamente – al pari di ogni altra religione – la sua missione di salvezza anche nello stato secolare, una dottrina stabilita sulla base dei fondamentali diritti dei corpi sociali alla libertà religiosa. Infine, la dottrina conciliare afferma il dovere che ha lo stato di garantire, in maniera neutrale e imparziale e sempre nel rispetto dell'ordine e della morale, le condizioni necessarie affinché ciascun cittadino possa praticare la propria religione.


 


 

Tentativi di riconciliazione: un fallimento?


 


 

È precisamente questa nuova dottrina politico-giuridica che sostiene che lo stato non è più il braccio secolare della Chiesa guardiana della verità religiosa, ciò che i tradizionalisti oggi rifiutano. [...]


 

In realtà, sebbene abbia sempre rifiutato l'idea della conversione forzata, la Chiesa non ha in generale respinto l'idea della costrizione in materia religiosa. L'enciclica "Quanta cura" di Pio IX del 1864 non prendeva di mira gli atei liberali, ma l'influente gruppo dei cattolici liberali riuniti attorno al politico francese Charles de Montalembert. Si trattava in particolare di cattolici osservanti che difendevano l'esistenza dello stato pontificio (Montalembert è all'origine del principio "libera Chiesa in un libero stato" che più tardi sarà ripreso, sia pure in forma differente, da Cavour) e che, al congresso di Malines dell'agosto 1863, avevano rivendicato il riconoscimento dal parte della Chiesa della libertà di associazione, di stampa e di culto.


 

Ma queste rivendicazioni entravano in collisione con la posizione "tradizionale" della Chiesa, ricevuta in eredità dall'alto Medioevo, secondo la quale la Chiesa possiede il diritto di usare la costrizione – con l'aiuto di misure giuridiche penali – per preservare i cristiani dall'apostasia. "Abbracciare la fede è un atto di libertà", scrive Tommaso d'Aquino, "ma conservarla quando la si è abbracciata è una necessità" (Summa theologiae II-II, 10, 8, ad 3). I teologi che hanno preparato la "Quanta cura" si rifanno a questo principio. Lo si è interpretato in tal modo che si è considerato un obbligo dello stato, concepito come braccio secolare della Chiesa, preservare i fedeli, tramite la censura e il diritto penale, dalle influenze dannose alla fede e dall'apostasia.


 

È per questa ragione che Pio VI aveva condannato la "Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino" della Rivoluzione francese, nel suo breve "Quod aliquantum" del 1791. Essa rappresenta l'apostasia pubblica di un'intera nazione. Per i cattolici, rivendicare la libertà religiosa può valere in uno stato di infedeli o di ebrei. Ma poiché la Francia è una nazione cristiana e i cittadini francesi sono dei cristiani battezzati, non può esservi una libertà civile generale di confessare una religione diversa dalla vera religione cattolica. Pio VI lo precisa: i non battezzati "non possono essere costretti a obbedire alla fede cattolica; gli altri invece 'sunt cogendi', devono esserlo".


 

Nel suo discorso del 2005, Benedetto XVI prende le difese della prima fase, quella "liberale" della Rivoluzione francese, che egli distingue anche così dalla seconda, la fase giacobina, plebiscitaria e radical-democratica, che portò al Terrore della ghigliottina. Facendo ciò, riabilita ugualmente la "Dichiarazione dei diritto dell'uomo e del cittadino" del 1789, sorta dallo spirito del parlamentarismo rappresentativo e dal pensiero costituzionale americano.


 


 

La prospettiva del Concilio


 


 

Il Vaticano II ha avuto il merito di superare la tipica equiparazione effettuata dalla dottrina preconciliare tra la libertà religiosa, l'"indifferentismo" e l'"agnosticismo". Si tratta, per quanto riguarda il magistero della Chiesa, di una tappa storica che non può essere compresa che alla luce dell'"ermeneutica della riforma" preconizzata da Benedetto XVI.


 

Vale la pena di prendere seriamente in considerazione questa esigenza e non stemperarla in falsi schemi di continuità, che finirebbero per alterare la continuità vera e di conseguenza l'essenza stessa della Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica.


 

Che ne è allora della "dottrina cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l'unica Chiesa di Cristo", che secondo le dichiarazioni del Concilio sulla libertà religiosa dovrebbe essere "intangibile"? Effettivamente, questa affermazione è spesso citata per suggerire la "continuità senza rottura" nella tradizione della Chiesa, concernente, tra l'altro, la libertà religiosa. Su questo punto il Concilio sembra in effetti essere rimasto ambivalente.


 

Ma questa affermazione non è così ambivalente come sembra, poiché questi doveri morali – come dice il testo sopra citato – hanno come presupposto "l'immunità da qualsiasi costrizione nella società civile". L'antica dottrina sui doveri dello stato come braccio secolare della Chiesa non sembra più reggere, di fronte ai discorsi sui doveri "dei singoli e delle società verso la vera religione e l'unica Chiesa di Cristo".


 

Quali siano questi doveri, è intanto un'altra interpretazione ugualmente corretta di questa frase contestata a suggerirlo. Si tratta del Catechismo della Chiesa cattolica – un documento del magistero della Chiesa – che al n. 2105 afferma, citando il passaggio sopra menzionato, che è dovere tanto dell'individuo che della società "rendere a Dio un culto autentico". Che la Chiesa realizza "evangelizzando senza posa gli uomini", affinché essi possano penetrare di spirito cristiano "la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della comunità in cui vivono". A ogni cristiano si chiede di far conoscere "l'unica vera religione che sussiste nella Chiesa cattolica ed apostolica".


 

Questo è il modo – conclude l'articolo del Catechismo della Chiesa cattolica – col quale la Chiesa manifesta "la regalità di Cristo su tutta la creazione e in particolare sulle società umane". La prospettiva del Vaticano II è dunque l'annuncio del Vangelo da parte della Chiesa e dell'apostolato dei fedeli, mirante a penetrare di spirito cristiano le strutture della società. Non una parola, invece, sullo stato che in quanto braccio secolare della Chiesa sarebbe titolato a proteggere il "diritto alla verità" anche con la forza, e tramite questa stabilire la regalità di Cristo sulla comunità degli uomini. La discontinuità è evidente. E più evidente ancora è la continuità, là dove essa è veramente essenziale e dunque necessaria.


 


 

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APPENDICE. CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ: CHE NE È DELL'INFALLIBILITÀ DEL MAGISTERO?


 


 

Le reazioni di alcuni teologi alle riflessioni sopra esposte hanno rilevato che la mia interpretazione metterebbe in dubbio l'infallibilità del magistero della Chiesa, e dunque che essa non è accettabile poiché le mie osservazioni suggerirebbero una reale rottura nella continuità del magistero ordinario universale. [...]


 

Al fine di mostrare perché io considero tale critica come erronea e i suoi relativi timori come infondati, procederò [...] in cinque tappe.


 


 

1. La questione dell'infallibilità


 


 

L'infallibilità del magistero – afferma il Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica al n. 185 – "si attua quando il romano pontefice, in virtù della sua autorità di supremo pastore della Chiesa, o il collegio dei vescovi, soprattutto riunito in un concilio ecumenico, proclamano con atto definitivo una dottrina riguardante la fede o la morale". Allo stesso modo, l'infallibilità del magistero universale del collegio dei vescovi si attua "quando il papa e i vescovi, nel loro ordinario magistero, concordano nel proporre una dottrina come definitiva". Questa infallibilità non riguarda solo il dogma in senso stretto, ma la totalità della dottrina della fede e della morale, ivi compresa l'interpretazione della legge morale naturale e ogni altra proclamazione che abbia un rapporto storico o logico intrinseco con la fede, senza la quale il dogma non potrebbe essere correttamente compreso o conservato.


 

Il primo caso – definizione "ex cathedra" o concilio ecumenico – manifestamente non si verifica con la questione della libertà di religione. In effetti, il primo e finora unico concilio che si sia espresso su questo soggetto è stato il Concilio Vaticano II. Spetta giustamente a questo concilio di aver riconosciuto la libertà di religione. Allo stesso modo, nemmeno il magistero ordinario universale sembra essere qui in atto, poiché mai in precedenza il papa e i vescovi avevano condannato la libertà religiosa e proclamato questa condanna come una dottrina definitiva della Chiesa. Questo è stato piuttosto il caso di qualche papa isolato, in un lasso di tempo di un centinaio d'anni, e mai di una rivendicazione esplicita di voler presentare una dottrina definitiva in materia di fede o di costumi (anche se è così che questo è stato implicitamente compreso dai papi del XIX secolo).


 

Di primo acchito, dunque, sembra per lo meno molto improbabile che la discontinuità rilevata sopra nella dottrina della Chiesa sulla libertà di religione possa mettere in qualche modo in questione l'infallibilità del magistero, ivi compreso il magistero ordinario universale. Questa prima constatazione dovrebbe essere confermata da ciò che segue.


 


 

2. La sostanza dottrinale della condanna della libertà religiosa da parte di Pio IX


 


 

Se la si considera sotto il profilo della sua condanna sia dell'indifferentismo sia del relativismo religioso, dell'opinione secondo cui non c'è una verità religiosa esclusiva così come dell'opinione che tutte le religioni sono per principio uguali e che la Chiesa di Cristo non è l'unica via di salvezza, è innegabile che la condanna della libertà religiosa emessa da Pio IX toccava effettivamente un aspetto centrale del dogma cattolico. Tale è parsa in ogni caso la vera posta, in quell'epoca. Se dico "tale è parsa" è perché – come il Vaticano II ha mostrato – la dottrina della verità esclusiva della religione cristiana e dell'unicità della Chiesa di Gesù Cristo come via di salvezza eterna non è in realtà minimamente intaccata dall'accettazione della libertà di religione e di culto.


 

Come insegna il Vaticano II, il diritto alla libertà di religione e di culto non implica in alcun modo che tutte le religioni si equivalgono. Questo diritto è in effetti un diritto delle persone e non concerne la questione di sapere in quale misura ciò che le persone credono contraddica alla verità. In altri termini, riconoscere che i fedeli di tutte le religioni godano del medesimo diritto civile alla libertà di culto non significa che, poiché è un diritto di tutti, allora tutte le religioni debbano essere "ugualmente vere".


 

Che fosse questo ciò che significava la libertà di religione o la libertà di culto, era appunto, come si è mostrato sopra, la convinzione dei papi del XIX secolo e della teologia dominante in quell'epoca. Per essi ciò voleva anche dire che abbandonare il principio secondo il quale lo stato di un paese cattolico ha per compito e per dovere di proteggere e favorire la verità cattolica, di negare il diritto di esistere a ogni confessione religiosa deviante o, al massimo, di tollerarla entro certi limiti e nella misura del ragionevole, finiva con l'ammettere "ipso facto" che non c'è una sola vera religione e Chiesa, ma che tutte le religioni si equivalgono. Ora, va da sé che all'epoca la Chiesa non poteva accettare una tale visione delle cose, e d'altra parte non lo può neppure oggi. Tuttavia, oggi la Chiesa ha modificato la sua concezione della funzione dello stato e dei suoi doveri verso la vera religione, una concezione che in realtà non è affatto di natura puramente teologica né ha a che fare con la natura della Chiesa e la sua fede, ma concerne la natura dello stato e la sua relazione con la Chiesa. Si tratta dunque, al più, di una questione concernente un aspetto della dottrina sociale della Chiesa.


 

Così, quando Benedetto XVI afferma che il Concilio Vaticano II "con il decreto sulla libertà religiosa ha riconosciuto e fatto suo un principio essenziale dello stato moderno", manifesta chiaramente una concezione della natura e dei doveri dello stato molto diversa e opposta alla concezione dello stato di Pio IX, come pure alla visione tradizionale della sottomissione del potere temporale al potere spirituale. Una tale discontinuità non significa rottura con la Tradizione dottrinale dogmatica della Chiesa, né una deviazione dal "depositum fidei" e da "quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est", da ciò che è creduto dovunque, sempre e da tutti, secondo il canone di Vincenzo di Lérins. Di conseguenza, non può esserci contraddizione, qui, neppure con l'infallibilità del magistero ordinario universale della Chiesa, dal momento che una tale contraddizione non è di per sé possibile.


 

È vero che la dottrina sul potere temporale elaborata a partire dalla Tradizione apostolica, e specialmente dalla Sacra Scrittura – che comprende le lettere di san Paolo – contiene degli elementi essenzialmente di diritto naturale che per questo sono anche oggetto del magistero infallibile della Chiesa. Si tratta in particolare della dottrina che insegna che ogni potere viene da Dio, che i governanti e le autorità civili fanno parte dell'ordine della creazione, e che in coscienza, e dunque per ragioni morali, ciascuno deve obbedienza all'autorità civile e deve riconoscere ad essa anche il diritto di adottare delle misure penali. Sarebbe tuttavia eccessivo affermare che questi principi contenessero anche delle indicazioni sulla relazione tra la Chiesa e lo stato, sui doveri dello stato verso la vera religione o sul diritto della Chiesa di far valere le sue pretese sul braccio secolare dello stato, come strumento sia di condanne puntuali che di loro conseguenze civili. Non fu che nel corso del tempo e sotto l'influsso di diverse situazioni e bisogni storici che tali posizioni o dottrine si sono costituite, principalmente in relazione alla battaglia della Chiesa per la "libertas ecclesiae", la libertà della Chiesa rispetto al controllo e alla tutela civile e politica. Questo fu un processo estremamente complesso, delle cui diverse tappe ho trattato in altre pubblicazioni.


 

A questo proposito bisogna anche sottolineare che la discontinuità rilevata da Benedetto XVI a livello dell'applicazione dei principi non implica alcuna rottura nella continuità dell'intelligenza del mistero della Chiesa. Al contrario, Benedetto XVI constata che "la Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi". Si coglie qui, mi sembra, la vera preoccupazione di Benedetto XVI per una "ermeneutica della discontinuità e della rottura" che vede nella Chiesa del Vaticano II un'altra Chiesa, una nuova Chiesa. Secondo il papa, i sostenitori di una "ermeneutica della discontinuità e della rottura" avrebbero considerato il Concilio "come una specie di costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova". In realtà, spiega Benedetto XVI, i padri conciliari non avevano ricevuto un tale mandato. Parlando di continuità e di discontinuità a differenti livelli – da una parte quello del dogma, dell'intelligenza del mistero della Chiesa, della comprensione sempre più vera e profonda del "depositum fidei" da parte della Chiesa e, dall'altra parte, il livello dei modi sempre concreti e contingenti della sua applicazione – "l'ermeneutica della riforma" difesa da Benedetto XVI non constata alcuna rottura nella comprensione della Chiesa. La Chiesa vi è compresa piuttosto come "un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del popolo di Dio in cammino".


 


 

3. Diritto naturale o diritto civile? Il cuore della dottrina del Vaticano II sulla libertà religiosa


 


 

Come argomenta un'altra obiezione, [...] il Vaticano II proclama nella sua dichiarazione "Dignitatis humanae", al n. 2, che "il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l'hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione". Ora, ciò significa che per il Concilio Vaticano II anche la libertà religiosa è un diritto naturale. Facendo ciò, il magistero infallibile della Chiesa si estende fino all'interpretazione della legge morale naturale e del diritto naturale. Di conseguenza, conclude l'obiezione, non può esserci qui né discontinuità né contraddizione, e sarebbe dunque falso affermare che il Vaticano II ha esplicitamente insegnato ciò che Pio IX ha condannato, cioè il diritto alla libertà di religione e di culto.


 

In effetti, il Catechismo della Chiesa cattolica, al n. 2106, lo dice chiaramente: "Tale diritto [alla libertà religiosa] si fonda sulla natura stessa della persona umana". È dunque certamente giusto dire che il Concilio Vaticano II considera la libertà religiosa come facente parte del diritto naturale. Ma è ugualmente vero dire che "Dignitatis humanae" al n. 2 rivendica che "questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell'ordinamento giuridico della società". La prospettiva del Vaticano II non è dunque semplicemente e unicamente quella del diritto naturale, ma è sempre anche quella della libertà religiosa "come diritto civile", cioè, in fin dei conti, come diritto alla libertà di culto. Di fatto, tale era anche la prospettiva di Pio IX, poiché la libertà di religione che egli condannava non era altro che il diritto civile alla libertà di culto rivendicata, tra gli altri, dall'ala cattolico-liberale. È dunque corretto dire che la rivendicazione da parte del Vaticano II della libertà religiosa come esigenza propria del diritto naturale, vale a dire il diritto civile alla libertà di culto, non è altro che ciò che era stato condannato nell'enciclica "Quanta cura" di Pio IX e nel suo allegato, il "Syllabus" degli errori.


 

Il diritto naturale in quanto tale non è dunque toccato affatto dalla discontinuità che è qui in questione. La contraddizione non scatta che al livello della rivendicazione del diritto civile, e non è quindi che di ordine politico. La dottrina del Vaticano II e la "Quanta cura" con il suo "Syllabus errorum" non si contraddicono dunque al livello del diritto naturale, ma al livello della sua applicazione giuridico-politica nelle situazioni e di fronte a dei problemi concreti. D'altra parte, la novità introdotta dal Vaticano II non poggia soltanto sul suo insegnamento della libertà religiosa come diritto naturale, ma anche sulla necessità che essa sia riconosciuta come un diritto civile, come libertà di culto. In altri termini, dalla concezione ben attestata della libertà religiosa come diritto naturale, il Vaticano II ha saputo trarre una nuova conseguenza concernente l'ordine giuridico positivo dello stato. Ebbene, Pio IX non aveva tratto questa stessa conseguenza; egli la considerava al contrario come nociva e falsa poiché – a suo avviso – implicava necessariamente l'indifferentismo religioso e il relativismo, tanto dal punto di vista dottrinale quanto nelle sue conseguenze pratiche. Viceversa, se il Concilio Vaticano II ha potuto farlo, è perché partiva da una concezione differente dello stato e della sua relazione con la Chiesa, il che gli ha permesso di spostare l'accento dal "diritto alla verità" al diritto della persona, del cittadino considerato in quanto individuo e della sua coscienza religiosa.


 

Così, ancora una volta, non è qui in gioco l'infallibilità del magistero ordinario nella sua interpretazione del diritto naturale, perché dire "applicazione" non è lo stesso che dire "interpretazione". In effetti, quest'ultima punta essenzialmente su ciò che concerne la legge morale naturale e la norma morale corrispondente, ma non si pronuncia sulla maniera in cui la legge naturale o il diritto naturale devono essere applicati, né si preoccupa delle conseguenze che bisogna trarne a partire da una situazione storica data. Che il magistero si esprima talvolta su una tale applicazione è inevitabile e può essere anche utile. Ciò detto, non si può tuttavia affermare che si tratterebbe in questi casi di "interpretazioni" magisteriali del diritto naturale o della legge morale naturale suscettibile di essere oggetto di infallibilità. Si tratta di realizzazioni e applicazioni concrete che, nell'epoca in cui sono fatte, possono essere impegnative per i fedeli cattolici, ed esigere la loro obbedienza. Ma non si tratta in alcun modo di insegnamenti che non potrebbero essere ricusati da decisioni magisteriali posteriori.


 


 

4. Discontinuità nella dottrina o unicamente in rapporto all'orientamento pratico-politico, disciplinare?


 


 

Per sfuggire al supposto pericolo d'una contraddizione dottrinale, si potrebbe tuttavia rifugiarsi dietro l'argomento che le condanne di Pio IX non sono state delle condanne dottrinali, ma unicamente disciplinari. Nel qual caso non ci sarebbe dunque una discontinuità dottrinale.


 

Ora, in primo luogo, nel discorso del papa del 2005 non si tratta di una opposizione tra, da una parte, delle affermazioni dottrinali e, dall'altra parte, delle decisioni di carattere pratico e disciplinare. In realtà, Benedetto XVI distingue ben di più tra i "principi" e "la maniera di metterli in pratica". In secondo luogo, considero questa obiezione come errata anche dal punto di vista storico, poiché nel XIX secolo tale questione era chiaramente di natura dottrinale. In effetti, Pio IX comprendeva la sua condanna della libertà religiosa come una necessità di ordine dogmatico e non solamente come una misura disciplinare (come sarà il caso più tardi del "Non expedit", un documento col quale il papa proibiva ai cattolici italiani di impegnarsi politicamente nell'Italia laica). Come abbiamo già detto, la rivendicazione della libertà religiosa o l'affermazione che la Chiesa non ha il diritto di imporre ai fedeli, con l'aiuto del "braccio secolare", delle pene o delle misure coercitive temporali era percepita all'epoca come un'eresia, o almeno come una maniera di arrivarci. Mi sembra dunque tanto storicamente quanto oggettivamente errato interpretare la condanna della libertà religiosa da parte delle autorità dell'epoca come una semplice misura di ordine pratico-disciplinare.


 

In effetti, per Pio IX era in pericolo la salvaguardia stessa dell'essenza della Chiesa, della sua rivendicazione di essere l'unica verità e causa di salvezza. Così, riconoscere la libertà di religione significava per lui negare queste verità; significava ugualmente indifferentismo e relativismo religioso. È proprio in questo che risiede anche la grandezza di questo papa che, a partire dalle posizioni teologiche del suo tempo – delle quali tuttavia non ha saputo discernere il carattere storico – ha agito certamente in uno spirito di fedeltà eroica alla fede e ha resistito come una roccia nella tempesta di un relativismo scatenato. I tempi non erano evidentemente ancora maturi perché la Chiesa si ponesse in questa battaglia difensiva in modo nuovo e differenziato.


 

È nel rigetto dell'indifferentismo e del relativismo religioso che si trova il cuore sempre valido tuttora di questa condanna del XIX secolo. Tuttavia, che questa battaglia contro l'indifferentismo e il relativismo religioso sia divenuta una battaglia contro il diritto civile alla libertà di religione e di culto, è stato dovuto alla concezione secondo la quale lo stato è il garante della verità religiosa e la Chiesa possiede il diritto a servirsi dello stato come del suo braccio secolare per assicurare le sue responsabilità pastorale. Ora, una tale concezione dello stato non riposava minimamente sui principi della dottrina della fede e della morale cattoliche ma piuttosto sulle tradizioni e le pratiche del diritto ecclesiastico di origine medievale così come sulle loro giustificazioni teologiche.


 

A ciò bisogna aggiungere che la discontinuità magisteriale in quanto tale non è qui in gioco. Per Benedetto XVI non si tratta in primo luogo della continuità del magistero, ma di quella della Chiesa e della comprensione della Chiesa. Egli si oppone all'idea di una rottura tra la Chiesa "preconciliare" e "postconciliare", quale è presentata dai sostenitori di una "ermeneutica della discontinuità e della rottura". Nelle dichiarazioni magisteriali – in particolare in quelle attinenti questioni politiche, economiche e sociali – si trovano molti elementi che dipendono da congiunture storiche. Il magistero della Chiesa nel campo dell'insegnamento sociale contiene anche, accanto a principi immutabili e fondati sulla dottrina della fede, una massa di concretizzazioni che sono spesso, retrospettivamente, piuttosto dubbie. Non si tratta qui di un tipo di "insegnamento" simile all'insegnamento cattolico in materia di fede e di costumi, dove la Chiesa interpreta la legge naturale anche in maniera obbligante, come nei casi delle questioni concernenti la contraccezione, l'aborto, l'eutanasia e altre norme morali nel campo bioetico. In questi ultimi casi, non si tratta di semplici applicazioni della legge naturale e situazioni concrete, ma della determinazione di ciò che appartiene precisamente alla legge naturale e della norma morale corrispondente. In questo campo, il magistero ordinario universale è anche infallibile.


 

Le concezioni dominanti nel XIX secolo riguardo al ruolo e ai doveri del potere temporale verso la vera religione – concezioni fondate su dei modelli medievali e della tarda antichità cristiana ma che hanno acquistato la loro forma definitiva soltanto all'interno dello stato confessionale moderno – possono rivendicare solo con estrema difficoltà per esse stesse il privilegio di riposare sulla Tradizione apostolica o di essere un elemento costitutivo del "depositum fidei".


 

Allo stesso modo, queste concezioni quasi neppure appartengono alle verità che possiedono una relazione storica o logica necessaria con le verità della fede o del dogma, verità che all'occorrenza sarebbe necessario mantenere al fine di conservare e d'interpretare correttamente il "depositum fidei".


 

Anzi, sembrerebbe che all'origine il cristianesimo abbia persino adottato una posizione alquanto opposta. È nato e si è sviluppato in un ambiente pagano; si è concepito, a partire dal Vangelo e dall'esempio di Gesù Cristo, come fondato essenzialmente sulla separazione tra religione e politica, e non ha richiesto dall'impero romano che la libertà di potersi sviluppare senza ostacoli. Riconoscendo e facendo suo attraverso il suo decreto sulla libertà religiosa un "principio essenziale dello stato moderno", afferma Benedetto XVI nel suo discorso, il Concilio Vaticano II "ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa. Essa può essere consapevole di trovarsi con ciò in piena sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso (cfr. Mt 22, 21), come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi".


 

Tuttavia, il richiamo al Vangelo e ai primi cristiani è un tema che non è menzionato unicamente da Benedetto XVI. Esso costituisce prima ancora il cuore dell'argomentazione di "Dignitatis humanae", che dedica due paragrafi, l'11 e il 12, a una riflessione sulle origini. Il Concilio spiega laconicamente: "La Chiesa pertanto, fedele alla verità evangelica, segue la via di Cristo e degli apostoli quando riconosce come rispondente alla dignità dell'uomo e alla rivelazione di Dio il principio della libertà religiosa e la favorisce". È proprio il richiamo al Vangelo, alla Tradizione apostolica e alla testimonianza dei primi cristiani i quali, come sottolinea Benedetto XVI, hanno "respinto chiaramente la religione di stato", ciò che caratterizza veramente la dottrina sulla libertà religiosa del Vaticano II. Così, la concezione dei compiti e dei doveri dello stato verso la vera religione, che faceva autorità per Pio IX, è stata tacitamente archiviata dall'atto di magistero solenne di un concilio ecumenico.


 


 

5. Fedeltà alla fede. Tradizione e modernità politica


 


 

Il Concilio Vaticano II ha liberato la Chiesa da una zavorra storica secolare, le cui origini non risalgono alla Tradizione apostolica e al "depositum fidei", ma piuttosto a delle decisioni concrete dell'epoca post-costantiniana del cristianesimo. Queste decisioni si sono alla fine cristallizzate in tradizioni canoniche e nelle loro interpretazioni teologiche corrispettive, grazie alle quali la Chiesa ha cercato di difendere la sua libertà, la "libertas ecclesiae", dagli attacchi incessanti delle potenze temporali: si pensi in particolare alla dottrina medievale delle due spade che, all'epoca, cercava di giustificare teologicamente e biblicamente la comprensione della "plenitudo potestatis" del papa. Tuttavia, nel corso dei secoli, queste tradizioni canoniche e le loro formulazioni teologiche hanno cambiato la funzione e il tono. In seguito e nella tradizione degli stati sovrani confessionali moderni, esse sono diventate una giustificazione dello stato cattolico ideale, nel quale "il trono e l'altare" esistevano in stretta simbiosi e l'uomo di stato cattolico con zelo sosteneva la causa dei "diritti della Chiesa" invece che dei diritti civili alla libertà religiosa. Questa simbiosi e questa visione unilaterale che portavano al clericalismo e a una società clericale non hanno mancato di oscurare il volto autentico della Chiesa.


 

Il Concilio Vaticano II ha osato qui un passo che ha fatto epoca. Tuttavia, ciò non ha cambiato la comprensione che la Chiesa ha di se stessa, né la dottrina della fede e della morale cattolica. Solo è stata ridefinita la maniera in cui la Chiesa concepisce la sua relazione al mondo e in particolare al potere temporale dello stato, una ridefinizione che in realtà si richiama alle origini, per così dire al carisma cristiano fondatore, e in particolare alle parole stesse di Gesù che invita a dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. Né l'infallibilità del papa né quella del magistero ordinario universale del collegio episcopale sono stati colpite o sminuite da un tale passo. Al contrario, attraverso la dottrina del Vaticano II sulla libertà di religione si manifesta ancora più chiaramente l'identità della Chiesa di Gesù Cristo e quanto il magistero della Chiesa in materia di fede e di morale possiede una continuità, malgrado tutte le discontinuità storiche: cosa che costituisce d'altra parte il fondamento e l'argomento più convincente della possibilità della sua infallibilità. Per questo mi sembra che ogni interpretazione che cerchi di ripianare, per mezzo di espedienti argomentativi complicati, una qualsiasi discontinuità a questo quadro d'insieme, non è di alcun sostegno alla difesa dell'infallibilità del magistero della Chiesa. Pur essendo motivata da ragioni pastorali in sé comprensibili e valide, ma alla prova dei fatti errata, una tale interpretazione complica inutilmente le cose. Per l'evidenza della sue intenzioni concrete riguardanti la politica ecclesiastica, può persino avere un effetto controproducente e così portare danno alla credibilità del magistero.


 

Invece, a quelli che, come i tradizionalisti riuniti attorno alla Fraternità Sacerdotale San Pio X dell'arcivescovo Lefebvre, non sanno più vedere nella Chiesa del Vaticano II "la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica" della Tradizione e parlano di rottura disastrosa con il passato, si può controbattere che effettivamente c'è qui una disputa insanabile sulla concezione della Chiesa, così come dello stato e dei suoi doveri. È per questo che questi tradizionalisti, per i quali manifestamente "la tradizione in quanto tale" e "le tradizioni ecclesiali" sono più importanti della Tradizione apostolica, la sola che sia in fondo normativa, difficilmente accetteranno i tentativi di mediazione sopra menzionati, poiché questi passano a lato del cuore del problema, che non è altro che la discontinuità realmente esistente. [...]


 

Il Concilio Vaticano II ci pone effettivamente davanti a una scelta: la scelta tra, da una parte, una Chiesa che cerca di affermare e di imporre la sua verità e i suoi doveri pastorali per mezzo del potere civile e, dall'altra parte, una Chiesa che riconosce – ciò che sostiene "Dignitatis humanae" al n. 1 – che "la verità non si impone che per la forza della verità stessa, la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore". Non si tratta qui di due Chiese distinte nel senso dogmatico o costitutivo, ma di due Chiese che comprendono in maniera diversa le loro relazioni con il mondo e con l'ordine temporale. Il Vaticano II non si pronuncia né per uno stato strettamente laico – nel senso della "laïcité" francese tradizionale – né per il la messa al bando della religione nella sfera privata, ma per una Chiesa che non pretende più di voler imporre la regalità di Cristo per mezzo del potere temporale e che per questo fatto stesso riconosce allo stato moderno secolare – non militante – la sua laicità politica.


 

È precisamente questa la prospettiva del Vaticano II. Essa è stata confermata dalla nota dottrinale a proposito di alcune questioni sull'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica della congregazione per la dottrina della fede del 21 novembre 2002. [...] La missione della predicazione del Vangelo da parte della Chiesa e ad opera dell'apostolato dei fedeli laici che vi si fondano consiste nel penetrare dello spirito di Cristo le strutture della società, e per questa via favorire la manifestazione della regalità di Cristo. Il regno di Cristo non comincia con la confessione pubblica della vera religione, ma con l'annuncio della Chiesa nel cuore degli uomini, fino a farlo penetrare con l'azione apostolica dei comuni fedeli in tutta la società umana, così come in tutte le sue strutture e realtà di vita.


 


 

Avvenire.it, 28 aprile 2011 - Il «compleanno» di Angelo, abortito - Un anno un soffio di Lucia Bellaspiga


 

Oggi sarebbe un bambino di un anno. Lo avrebbe compiuto proprio il giorno di Pasqua, se la sua vita non fosse stata considerata un "errore", una svista, un increscioso incidente. Perché Angelo, venuto al mondo il 24 aprile di un anno fa, non era un neonato, era un aborto. Eppure, nato per "caso", piangeva e sgambettava come gli altri, almeno finché ha avuto fiato.


 

Accadeva all'ospedale di Rossano Calabro, dove Maria (nome d'invenzione) si era recata a interrompere una gravidanza già molto avanzata, troppo perfino per la legge 194, secondo la quale dopo tre mesi l'aborto è vietato a meno che per la madre non sussista un pericolo di morte o nel suo bambino non vi siano anomalie tali da costituire «un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna». Se poi il feto è già così formato da poter avere vita autonoma, come ormai era Angelo, la legge restringe ancora più il campo: niente aborto se la madre non è in gravissimo pericolo di vita. E comunque dopo l'intervento quel bambino-a-tutti-gli-effetti va salvato.


 

Quale terribile anomalia, allora, aveva Angelo, se un medico del dipartimento di salute mentale di Cosenza ha valutato un «grave pericolo per la psiche» di sua madre? Anzi, poiché il piccolo, giunto alla sua ventiduesima settimana, poteva ormai avere vita autonoma anche fuori dal ventre materno, di cosa stava morendo la sua mamma, al punto da costringere i medici a sacrificare quel figlio ormai formato? Angelo aveva una palatoschisi, più nota come labbro leporino, imperfezione risolvibile con un piccolo intervento. Per quel labbro difettoso un medico con un colpo di penna lo ha declassato da figlio ad aborto, ed entro la sera del 24 aprile a «rifiuto speciale»: è tra gli altri rifiuti dell'ospedale che è stato dimenticato, in una ciotola di metallo gelato, e non più guardato nemmeno da chi – sempre per legge – avrebbe dovuto accertarne la morte, anzi, salvarne subito la vita. Lo hanno gettato senza un'occhiata, e lui in quella ciotola ha trascorso al freddo e al buio la sua prima notte sulla terra, senza sentire mai il calore di una mano o ricevere una goccia di latte. Per ventiquattr'ore ha pianto e sgambettato invano, come gli altri neonati fanno sotto gli occhi innamorati di chi li ha messi al mondo, finché a sentire il vagito non sono stati il cappellano dell'ospedale e una dottoressa. Inutile la corsa all'ospedale di Cosenza.


 

«Supponevamo una morte certa», si sono difesi i sanitari di fronte agli inquirenti, mentre i risultati dell'autopsia affondavano anche l'ultima speranza: se avesse ricevuto le cure attribuite a tutti i neonati prematuri, sarebbe vissuto. Ma Angelo non era un neonato, era soltanto un aborto.

Storia di un anno fa, d'accordo. Ma in questo tempo di Pasqua di Resurrezione, che è anche il suo compleanno, chiediamoci: in un anno che cosa è cambiato in Italia, il Paese in cui vige la legge 194, perché questo orrore non avvenga più? Si può almeno pretendere che la norma, comunque amara e triste, sia davvero applicata tutta? La comunità scientifica stabilisce che alla ventiduesima settimana le probabilità di vita nei bambini abortiti sono già buone e la Regione Lombardia nel 2008 decise di applicare la legge concretamente, indicando in 22 settimane e tre giorni il limite oltre il quale l'aborto è vietato se la vita della madre non è in estremo pericolo.


 

Ma alcuni medici hanno fatto ricorso contro l'atto della Lombardia, e in gennaio il Tar ha dato loro ragione (erano rappresentati da Vittorio Angiolini, il legale di Englaro per la morte di Eluana). «Il feto non soffre fino alla ventiquattresima settimana – ha sentenziato l'associazione Consulta di Bioetica, dando per scontato ciò che Angelo, con la sua morte lenta, sconfessa ancora oggi minuto dopo minuto –. L'autonomia del feto è una favola astratta costruita ad arte da chi opprime i deboli e gli svantaggiati...». Debole e svantaggiato, Angelo gridava inascoltato la sua caparbietà di vivere, e questa non è una favola.


 

Molti nostri medici ogni anno si recano in Africa a operare i bambini nati con palatoschisi, poi come prima cosa insegnano loro a fare le bolle di sapone, perché il soffio con il labbro leporino è un gioco impossibile. Angelo oggi avrebbe soffiato sulla prima candelina.


 


 

Il colpo di mano dell'«amministratore di sostegno» - Sicuri che una legge non serve, o che può attendere? Nel vuoto normativo attuale, a fissare regole con possibili effetti eutanasici non ci sono solo le sentenze del caso Englaro ma anche i decreti dei tribunali che hanno deformato una figura giuridica alla quale viene ora attribuita l'autorità di negare al paziente terapie salva-vita, di Ilaria Nava, Avvenire, 28 aprile 2011


 

Da qualche anno a questa parte si sono verificati casi di persone che hanno voluto esprimere in via anticipata i trattamenti a cui volevano o non volevano sottoporsi attraverso la nomina di un amministratore di sostegno. Si tratta di una figura introdotta con la legge 6/04 che prevede che «la persona che, per effetto di un'infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare». La legge stessa prevede che «l'amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata».

Ad esempio, con il decreto depositato il 5 novembre 2008 il giudice tutelare di Modena ha accolto la richiesta di un uomo che, ancora in buone condizioni di salute, ha chiesto di nominare la moglie «proprio amministratore di sostegno», ossia «garante delle sue volontà di fine vita», in caso di malattia invalidante. Le volontà da lui espresse prevedono che «l'individuato amministratore di sostegno potrà, in suo nome e avvalendosi di una già ottenuta autorizzazione del Giudice tutelare, negare il consenso a praticargli determinate terapie», in particolare «rianimazione cardiopolmonare, dialisi, trasfusione, terapia antibiotica, ventilazione, idratazione o alimentazione forzata e artificiale, in caso di malattia allo stato terminale, malattia o lesione traumatica cerebrale, irreversibile e invalidante, malattia che lo costringa a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione».

Lo stesso tribunale pochi mesi prima aveva già provveduto ad accogliere la richiesta di una donna affetta da una malattia neurodegenerativa, che aveva chiesto di nominare il marito amministratore di sostegno. La donna aveva lasciato per iscritto la propria volontà di rifiutare le terapie e il giudice, nell'accogliere tale domanda, specificò che tale intenzione avrebbe dovuto essere autorizzata anche in casi «rispetto a quali il Giudice si formi il convincimento, sulla base di elementi probatori convincenti, che la complessiva personalità dell'individuo cosciente era nel senso di ritener lesiva della concezione stessa della sua dignità la permanenza e la protrazione di una vita vegetativa». Un'affermazione, quest'ultima, che si ispira chiaramente a quanto stabilito dalla Cassazione nel 2007 con la sentenza Englaro, dove in mancanza di volontà scritte si è interpretato lo stile di vita e la personalità di Eluana per dedurne la volontà di morire. L'ultimo caso è quello del gennaio scorso, in cui il Tribunale di Firenze ha accolto il ricorso di Franco Santoni, un cittadino in piena salute che attraverso la moglie, nominata dal tribunale suo amministratore di sostegno potrà in futuro esercitare il diritto a far valere il suo biotestamento.

Ma questi sono solo tre dei diversi casi – almeno una decina – in cui i giudici hanno sancito la legittimazione della figura dell'amministratore di sostegno quale interprete ed esecutore delle volontà in caso di perdita della coscienza, autorizzando di fatto qualsiasi forma di rifiuto dei trattamenti sanitari, anche se espressa in anticipo e fuori contesto. Un rischio che la legge in via di approvazione alla Camera cerca di arginare, prevedendo forme certe (e quindi con esclusione, per la ricostruzione della volontà del soggetto, di «eventuali dichiarazioni di intenti o orientamenti espressi dal soggetto al di fuori delle forme e dei modi previsti dalla legge») e margini di valutazione per il medico che non è considerato mero esecutore delle volontà del paziente ma professionista la cui azione è volta alla cura della persona in dialogo con il fiduciario.


 


 

Per tutelare la vita serve un testo senza ambiguità - Nel confronto alla Camera,e nel successivo passaggio al Senato, c'è spazio per interventi di messa a punto quanto ad aspetti specifici della legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento. Un testo indifferibile, ma che può essere ripulito da qualche possibile «zona grigia», di Alberto Gambino, Avvenire, 28 aprile 2011


 

Una legge sull'alleanza terapeutica medicopaziente e sulle direttive anticipate di trattamento si rende indifferibile. L'incertezza in materia sta infatti provocando confusione tra medici e inquietudine tra pazienti.

Si pensi soltanto all'ultima decisione della Cassazione di venti giorni fa, con la quale si è stabilito che il medico non debba operare in quei casi-limite che configurano interventi sproporzionati, anche dinanzi a una richiesta espressa del paziente. Con la conseguenza drammatica che, a causa dell'oggettiva difficoltà di valutare quali trattamenti siano effettivamente proporzionati davanti a un quadro clinico estremamente complesso, taluni medici potrebbero finire coll'optare per il non intervento piuttosto che correre rischi di responsabilità risarcitorie. Ed è facile prevedere – per converso – che tale stato di cose porterà all'incremento di denunzie di pazienti e familiari per omissione di soccorso, con l'effetto di aumentare le richieste di risarcimento, questa volta a carico delle strutture sanitarie colpevoli di non avere prestato adeguata assistenza.

Anche per questo, dunque, risulta davvero urgente la promulgazione della legge sulle Dat e sul consenso informato.

Occorre allora mettere definitivamente a punto alcuni aspetti del disegno di legge attualmente pendente alla Camera dei deputati.

Quelli che seguono appaiono profili che meritano particolare adeguamento.

La riconducibilità del fine vita ai soli casi di morte prevista come imminente. L'esigenza di una legge sul fine vita è avvertita in particolare per evitare che si riproducano nel nostro ordinamento vicende come quella di Eluana Englaro, in cui a una paziente giovane, in stato vegetativo persistente – che avrebbe dunque vissuto ancora a lungo – è stata interrotta l'idratazione al fine di provocarne la morte.

Sottesa a tale drammatica scelta vi è la messa in discussione della dignità della vita delle persone in stato di incoscienza prolungata nel tempo. L'attuale disegno di legge, con una serie di affermazioni condivisibili, mira a tutelare la vita umana quale «diritto inviolabile e indisponibile, garantito anche nella fase terminale dell'esistenza e nell'ipotesi in cui la persona non sia più in grado di intendere e di volere» (articolo 1.1, lett. a).

Problematica appare, allora, l'indicazione di due categorie di pazienti, quelli «in stato di fine vita» e quelli «in condizioni di morte prevista come imminente», al fine di prescrivere per ambedue le situazioni l'astensione del medico da alcuni trattamenti (articolo 1.1, lett. f). Con tale distinzione si intende affermare che le situazioni di «fine vita» non coincidano con quelle di «morte imminente», comprendendo nel primo caso proprio situazioni di degenza persistente e presumibilmente irreversibile: perché allora trattarle come quelle di persone che stanno sul punto di morire? Se così fosse, si disattende la motivazione più profonda della legge: evitare che le persone in stato di lunga e, forse, irreversibile degenza postulino minori esigenze di cura rispetto a quelle degli altri pazienti.

Il ruolo sempre e soltanto curativo dei medici e l'inesigibilità di interventi interruttivi di trattamenti salvavita. Il disegno di legge considera chiaramente le attività del medico e di chi assiste le persone «esclusivamente finalizzate alla tutela della vita e della salute nonché all'alleviamento della sofferenza» (articolo 1.1, lett. c). Ora, tuttavia, non è chiarito cosa accadrebbe nel caso di (legittima) revoca, da parte del paziente cosciente e consapevole, rispetto a un trattamento sanitario in atto e, in particolare, se i trattamenti salvavita (tipo il ventilatore artificiale applicato a Welby) siano configurabili come trattamenti vitali (articolo 2.5). In questi casi, infatti, il medico non si limiterebbe a non somministrare più una terapia, secondo i legittimi voleri del paziente, ma opererebbe attivamente il distacco di un presidio salvavita. Essendo il ruolo del medico esclusivamente curativo (come bene espresso nell'articolo 1.1, lett. c), appare coerente specificare che la revoca al trattamento è inefficace quando implichi da parte del medico un atto interruttivo di presidi salvavita.

Il grado qualificato di colpa medica per i trattamenti straordinari. Proprio i princìpi ispiratori della legge, che vedono nel ruolo curativo del medico un pilastro portante, implicano necessità di chiarimenti in ordine alla sua responsabilità, drammaticamente sottolineata proprio dalla sentenza di Cassazione richiamata in premessa. In particolare, per tenere fede all'obiettivo della piena tutela della salute e della vita del paziente e di evitare inerzie o mancati interventi dettati dal timore di responsabilità risarcitorie, occorre chiarire la diversa soglia di responsabilità professionale del medico nel caso in cui si trovi davanti a interventi curativi di straordinaria portata. In questi casi dovrà rintracciarsi, per la punibilità del medico, il più impegnativo elemento della colpa grave.

Il superamento della regola del consenso informato nei casi di pazienti incapaci. In punto di consenso informato espresso da chi ha la tutela del paziente, occorre preliminarmente sgomberare il campo da un equivoco: mentre per il tema delle direttive anticipate di trattamento c'è da sanare un vulnus provocato da una certa giurisprudenza creativa, che, a partire dal caso Englaro, ha legittimato alcune forme di testamento biologico, diverso è il tema del consenso informato (che riguarda, dunque, la persona in stato di coscienza) rispetto al quale l'attuale giurisprudenza, in tema di incapacità legale del paziente, non arriva definitivamente ad assegnare un ruolo di sostituzione delle decisioni del malato in capo ai soggetti che ne hanno la tutela (tantomeno all'amministratore di sostegno come invece intende l'articolo 2.6 del progetto di legge). Il disegno di legge introduce quale regola generale "innovativa" che tutti i trattamenti siano somministrati soltanto a seguito della manifestazione del consenso anche con riguardo ai soggetti incapaci, per mezzo di loro rappresentanti legali (articoli 2.6 e 2.7). Tale regola non può però assurgere a principio assoluto, che rischia di "burocratizzare" il consenso informato, trasformandolo in un meccanismo formale, la cui assenza, in caso di incapacità del paziente, finirebbe coll'impedire al medico di agire in tutti i casi di urgenza oggi pacificamente consentiti dal codice deontologico (secondo il quale, il medico deve agire – anche contro la volontà del rappresentante legale – se vi è «grave rischio per la salute» dell'incapace e non soltanto se vi è «pericolo di vita» per «evento acuto» o «grave complicanza» come prevede in modo riduttivo l'articolo 2.9).

Gli strumenti di tutela effettiva per impedire prassi di abbandono terapeutico degli incapaci. Ancorché il disegno di legge preveda che la decisione di tutore, amministratore di sostegno e genitore sia comunque volta alla «salvaguardia della salute» del soggetto incapace (articoli 2.6 e 2.7; finalità cui è tenuto, nel testo della Commissione, anche il personale sanitario, articolo 2.8) potrebbero, tuttavia, verificarsi in concreto casi di diniego del consenso da parte del soggetto che ha la tutela, configurabili come illeciti civili, se non penali, ma che comunque non consentono di per sé al medico di attivare i trattamenti adeguati. Per scongiurare tali zone grigie, senza tutela effettiva, occorre allora chiarire che i casi di inerzia e di inadempimento dei soggetti legittimati a esprimere il consenso, tali da attivare l'obbligo di segnalazione al pm da parte del medico, al fine di ottenere l'autorizzazione giudiziaria (una puntualizzazione in tal senso è opportuna all'articolo 8.3), comprendono anche il dissenso che appaia contrastare con la tutela della vita e della salute del paziente.


 


 

Ungheria, aborto «danno sociale». Per Costituzione - Dietro il testo appena approvato la piaga delle interruzioni forzate di gravidanza imposte dal comunismo - di Giovanni Bensi, Avvenire, 28 aprile 2011


 

Una delle materie più controverse nella discussione sulla nuova Costituzione ungherese è il divieto di aborto, la difesa della vita «a partire dal feto». Questo atteggiamento è stato visto e denunciato dai sostenitori dell'aborto come un «attentato ai diritti della donna», come il prodotto di un «rigurgito clericale» che farebbe arretrare il Paese «al Medioevo». Certamente all'origine del rifiuto dell'aborto vi è l'imperativo di una coscienza cristiana, ma l'atteggiamento intransigente è dovuto anche alle caratteristiche sociali di Paesi come l'Ungheria ed altri dell'Europa orientale, che hanno dovuto subire la politica distorta dei regimi comunisti, dove l'aborto era praticamente quasi la sola forma conosciuta di contraccezione. È semplicemente l'esigenza di riparare a un danno sociale che spinge l'Ungheria alla severità verso l'aborto.

Secondo uno studio demografico ungherese, il numero degli aborti procurati in Ungheria è tre volte più alto che nei Paesi dell'Unione europea nel loro complesso, mentre «negli ultimi 100 anni lo sviluppo familiare in Ungheria ed Europa occidentale aveva mostrato tendenze simili».

Poco dopo la presa del potere da parte dei comunisti, nel 1949, il numero degli aborti era ancora limitato: 1.600 all'anno. Esso andò poi crescendo, anche come una via, per quanto illusoria, di ovviare alla condizioni di miseria in cui viveva la popolazione, fino a raggiungere gli 82.463 casi nel 1956, l'anno della rivolta antisovietica. Dopo la sua repressione, il nuovo regime di János Kádár liberalizzò ulteriormente l'aborto di cui un anno dopo, nel 1957, si ebbero subito 123.400 casi. E questo dato continuò ad aumentare fino al 1969 quando si ebbero 206.817 aborti.

Poi incominciò la discesa fino ai 43.200 casi del 2009. Ma una ricerca del «Programma nazionale di ricerca e sviluppo» ha mostrato che ancora oggi il 40% dei feti concepiti in Ungheria vengono abortiti e che la popolazione ungherese è in calo dal 1981. Una situazione che anche da un punto di vista laico richiede una stretta di freni. Questa situazione ha una corrispondenza nella maggior parte degli altri Paesi ex comunisti, a cominciare dalla stessa Russia. L'Unione Sovietica è stata il primo Paese a legalizzare l'aborto nel 1921. Un'iniziativa vista come una vittoria delle donne nella lotta per la loro liberazione secondo i dettami del marxismo-leninismo.

Ancora oggi, a 20 anni dalla caduta del comunismo, ha accertato Vladimir Kulakov, direttore del Centro scientifico russo di ostetricia e ginecologia, il 60% delle gravidanze in Russia termina con un aborto. Solo la Romania, fra i Paesi ex comunisti, ha più aborti pro capite.

Inoltre circa 6 milioni di donne russe sono sterili (su 38 milioni di donne in età atta a generare) e la autorità sanitarie ritengono che i reiterati aborti siano una «causa importante» di sterilità. Secondo Kulakov, il numero delle donne sterili è destinato a crescere, poiché circa uno su 10 aborti viene compiuto su giovani con meno di 20 anni. I dirigenti russi, il presidente Dmitrij Medvedev in primo luogo, lamentano il costante decremento demografico della Russia: anche questo Paese avrebbe bisogno di una stretta sugli aborti secondo il modello ungherese.

Statisticamente la Romania, il Paese colpito da una delle più dure varianti di comunismo, quello di Nicolae Ceausescu, ha il più alto indice di aborti nel mondo: attualmente 3 gravidanze su 4 terminano con un aborto. È difficile raccogliere dati accurati perché l'aborto è così facilmente accessibile in tutto il Paese, in cliniche sia di Stato che private, ma solo gli ospedali di Stato riportano i dati statistici sull'aborto. In Romania, una nazione con 23 milioni di abitanti, si calcola che vi siano circa 800mila aborti l'anno. Se questa proporzione si applicasse agli Stati Uniti, si arriverebbe a ben 8,5 milioni di aborti all'anno.


 


 

«Attenti a una cultura che sostiene e approva ogni scelta individuale» di Bruno Dallapiccola, Corriere della Sera, 28 aprile 2011


 

L'attuale dibattito riguardo la legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) non deve farci perdere di vista

il contesto nel quale esso si colloca. Se ciò accadesse, non riconosceremmo più i veri valori da affermare, e ci allontaneremo dalle persone che la legge vuol tutelare.

La questione principale, infatti, non e quella dello stato vegetativo persistente, né quella dei life sustaining treatment. I temi sostanziali sono quelli della tutela della vita e quello della relazione medico-paziente e, più in generale, della natura stessa dell'atto medico. Con un duplice rischio: affermare un giudizio sul valore della vita basato su un criterio puramente utilitaristico e sfruttare il principio del consenso informato e la doverosa lotta all'accanimento terapeutico per introdurre di fatto procedure eutanasiche.

Cosi, l'edonismo di matrice utilitarista rafforza l'opzione culturale secondo la quale, in nome dell'autonomia del soggetto, ogni scelta individuale debba essere sempre sostenuta e approvata, Le ricadute educative e sociali di un tale atteggiamento sono già ben percepibili in altri settori della vita civile e si può facilmente immaginare il cortocircuito logico, culturale e giuridico che produrrebbe un ulteriore e grave messa in questione del favor vitae. Non si tratta, dunque, di presidiare o invadere il fine-vita, ma di evitare che, a partire dal caso Englaro, si diffonda un giudizio di disvalore sulle vite più fragili, che finirebbe per causare l'abbandono delle persone gravemente disabili, povere socialmente meno tutelate.

Non bisogna dimenticare, poi, le profonde ripercussioni sul rapporto medico paziente generate dalla «crisi d'identità» della medicina clinica. Questa si ritrova oggi schiacciata tra l'utopia della medicina dei desideri e l'incongruità della medicina difensiva. Nell`una il paziente vede il medico come un tecnico al servizio dei suoi desideri o come un incapace, se non un nemico, quando non li realizza. Nell'altra il medico percepisce la diffidenza del paziente e anziché curarlo al meglio pensa a difendersi da azioni legali contro il suo operato.

In mancanza di una legge sulle Dat, il delicato crinale del fine-vita può far esplodere queste problematiche e snaturare l'atto medico. Ecco perché, pur essendo auspicabile un rapporto di fiducia e di alleanza tra il paziente, i suoi familiari e il medico, sorge la necessita di fissare alcuni punti saldi per garantire adeguatamente tutti i valori in gioco.

Benedetto XVI ci ricorda che «campo primario e cruciale del Ia lotta culturale tra l'assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell'uomo è oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale» (Caritas in Veritate 11.74). Il dinamismo della tecnica e la complessità del mondo del mondo moderno vanno governati se si vuol costruire il bene comune. La politica, dunque, nel promuovere lo sviluppo umano integrale, non può sfuggire al suo dovere di legiferare anche in campi precedentemente riservati al solo giudizio di coscienza. La legge sulle Dat appare un punto di equilibrio capace di difendere i più deboli e di chiarire la differenza tra causare la morte e accompagnare, indicando così a tutti che il valore della vita è il presupposto per la stabilità della società e per il godimento di ogni diritto individuale.


 


 

Un testamento sconsigliabile - Accelerazione alla Camera per la legislazione sul modo di morire, di Giuliano Ferrara - Il Foglio del 28 aprile 2011


 

La lettera di Berlusconi ai deputati è pregevole, ben concepita. Il presidente del Consiglio racconta ai suoi che anche a lui legiferare sul modo di morire improprio e che un'idea metodologicamente liberale delle norme etiche dovrebbe comportare, in una questione che riguarda insieme la tutela della vita e la tutela della libertà di scelta dell'individuo, il rispetto di una zona grigia in cui la decisione sulle procedure non si irrigidisce e non finisce per appartenere allo Stato, alla legge, allo spazio pubblico. Ma il leader della maggioranza aggiunge che questa discrezione, questa delega pietosa alla singolarità di ciascun caso di umanità e libertà, e impedita dall'attivismo giudiziario, che si è fatto largo e a suo modo fa norma in aperto spregio di ogni considerazione per i diritti della vita umana, e della cura medica ippocratica. Il caso Englaro insegna.

D'altra parte il conflitto assurdo tra libertà e vita è un segno dei tempi tra i più sinistri, anche a non voler essere profeti di sventura, come li definiva il Papa del rinnovamento conciliare dei cattolici, Giovanni XXIII. Il diritto alla vita e quello alla liberta, inscindibilmente connessi, furono la coppia celebre della nascita del mondo di idee liberale, ma con l'idea contraccettiva dell'amore, di cui le varie forme di aborto (pianificato, libero, forzato) sono espressione ormai moralmente sorda, il divorzio è stato pieno e, in un certo senso, definitivo per la mentalità corrente. Basta leggere la bella intervista di un vecchio saggio come Emanuele Macaluso, che sull'Espresso accanto a tante cose vitali affida poi a un viaggio eutanasico in Svizzera, con elegante noncuranza, la prospettiva della fine dei suoi giorni che per fortuna allontana con le sue scelte di ardente amore per l'esistenza. Il problema è che mentre una sentenza norma un caso, e solo così diventa precedente giurisprudenziale per fare a suo modo "legge", un testo normativo approvato dal parlamento é materia più difficile. Se preveda l'espressione di una volontà passiva per quando la volontà attiva non sarà più esprimibile, è contraddittorio o discutibile che neghi quella volontà chiaramente definita nei casi dell'idratazione e della nutrizione artificiali. La questione diventa spinosa, consente una dura campagna di delegittimazione della posizione del legislatore e anche del diritto di una maggioranza a schiacciare l`intenzione, sollecitata e formalizzata, del singolo cittadino.

I costituzionalisti e i giudici costituzionali avranno pretesti abbondanti per intervenire, e così, come denunciano non solo quei laici pazzi del Foglio ma anche autorevoli intellettuali e medici cattolici, le Dichiarazioni anticipate di volontà potrebbero trasformarsi nel varco aperto a decisioni eutanasiche. E' inoltre assai dubbio che un referendum sarebbe vinto da chi intende regolamentare l'atto finale di libertà di una persona. Siamo nel tempo della monte esorcizzata, della sua rimozione, e la cultura eutanasica, con la paura di ogni forma di accanimento e il terrore sacro del dolore, darebbe luogo a un dissenso esteso verso norme che "ti mantengono in vita a viva forza".


 


 

Controindicazioni di una legge che non fermerà l'eutanasia di Adriano Pessina - 22 marzo 2011 - © FOGLIO QUOTIDIANO


 

Un recente appello firmato da autorevoli personalità del mondo cattolico ha messo bene in luce i motivi per cui si ritiene urgente, oggi, varare la legge sulle "direttive anticipate di trattamento". Personalmente condivido i principi ispiratori di quell'appello, e le preoccupazioni che lo animano. Per questo motivo ritengo utile contribuire alla riflessione con qualche ulteriore annotazione. Va precisato che la legge che andrà in discussione ha un titolo molto ampio, che rende ragione di un fatto: al suo interno si collocano articoli che riguardano l'eutanasia, il suicidio assistito, le cure palliative, il fine vita, gli stati vegetativi, l'alleanza terapeutica, nonché, ovviamente, il consenso informato. Ciò che, secondo gli estensori della legge, dovrebbe attraversare questi argomenti è appunto il tema delle dichiarazioni anticipate di trattamento che un soggetto in grado di intendere e volere può redigere per esprimere dei desiderata rispetto a una situazione in cui non potrà dare il proprio consenso informato a prassi di cura e di assistenza.


 

Se guardiamo ai motivi che oggi vengono addotti dai sostenitori di questa legge, essi sono riconducibili all'impegno a favore della vita e della salute del cittadino, alla preoccupazione di vietare sia l'eutanasia, sia il suicidio assistito e di ripristinare la cosiddetta alleanza terapeutica. Sono motivi assolutamente condivisibili. Alcuni oppositori di questa legge, che in certi casi coincidono con coloro che per primi hanno caldeggiato, sotto un governo di diverso orientamento politico, l'introduzione del cosiddetto testamento biologico, lamentano le restrizioni poste all'esercizio della volontà del cittadino, chiedono che l'ultima parola non sia lasciata al medico, ma al paziente stesso, contestano l'articolo connesso all'impossibilità di rifiutare in anticipo alimentazione e idratazione e, in alcuni, più rari casi, si spingono a difendere esplicitamente anche l'introduzione dell'eutanasia e del suicidio assistito. Ora, partendo da una piena e incondizionata adesione ai principi ispiratori di questa legge, resta però da chiedersi se davvero si ottenga l'effetto sperato introducendo un riconoscimento giuridico delle direttive anticipate, che già ora potevano essere "prese in considerazione" dai medici (secondo quanto prescritto dal Codice deontologico e dalla cosiddetta Convenzione di Oviedo). A nessuno sfugge che in fondo questa legge consente ciò che già è consentito e vieta quanto è già vietato, lasciando l'ultima parola al medico. Perché allora una legge?


 

Ora, si dice, questa scelta è dovuta al fatto che con il caso Englaro si è creato un vuoto legislativo di fronte alla cosiddetta magistratura creativa che ha abusato in termini interpretativi delle pretese volontà espresse da Eluana e perciò bisogna chiarire i limiti entro cui la volontà pregressa di un cittadino può essere accolta dal medico e riconosciuta dalla società. Qui, a mio avviso, si colloca però una questione decisiva, che potrebbe capovolgere il disegno della legge stessa. Finora le dichiarazioni non avevano alcun riconoscimento giuridico e perciò l'ultima parola era lasciata al medico, il quale peraltro doveva evitare sia l'accanimento terapeutico, sia ogni forma di eutanasia. Se ci si fosse limitati a chiarire le fattispecie in cui si incorreva in un reato qualora si fosse prestato ascolto a dichiarazioni, spontanee e libere, che di fatto potevano contenere indicazioni atte a indurre comportamenti che potevano essere concausa della morte del paziente, si sarebbe ottenuto l'effetto di rafforzare la tutela della vita umana senza però dare eccessiva consistenza alla volontà pregressa del cittadino, facendo valere un atteggiamento fiduciario nei confronti della medicina e del medico. Ma facendo una legge che, come questa, riferendosi alla Costituzione e al principio del consenso informato conferma in modo autorevole il peso della volontà pregressa del cittadino, si apre facilmente una strada che può portare a stabilire almeno due situazioni non previste, ma prevedibili.


 

La prima è che, in nome di questo riconoscimento della volontà del cittadino, presente in questa legge, si tenti, ricorrendo ad ulteriore sede giuridica, di togliere i vincoli attualmente presenti e si aprano le porte sia all'eutanasia, sia al suicidio assistito. Non si può dimenticare, infatti, che questa legge non esclude affatto la legittimità del rifiuto di ciò che si può annoverare sotto la voce delle cure, per cui un cittadino, in previsione di trovarsi in uno stato vegetativo, potrebbe rifiutare preventivamente di ricevere degli antibiotici, o di poter usufruire di ossigeno e eventuale respiratore. La legge prevede soltanto che non vengano sospese alimentazione e idratazione. Chi si oppone ai principi ispiratori di questa legge troverebbe in questa impostazione, mi sembra, una breccia per poter dire che se il cittadino ha il diritto di rifiutare delle terapie, a maggior ragione può rifiutare ciò che non rientra nelle terapie.


 

In seconda battuta, si potrebbe sostenere che, una volta poste delle limitazioni alle scelte del cittadino, non avrebbe senso lasciare l'ultima parola al medico: se, infatti, ciò che si può chiedere è conforme alle legge, non determina alcun reato, risponde al principio per cui ogni trattamento medico richiede il consenso informato, allora non si capisce perché il medico possa poi decidere di seguire o no delle indicazioni scritte e certificate. Detto in altro modo, si potrebbe chiedere di trasformare le "dichiarazioni" in "direttive anticipate", vincolanti l'operato del medico. Del resto non si capirebbe perché istituire un registro nazionale di pure dichiarazioni che in ogni caso verrebbero valutate dal medico nelle varie situazioni.


 

Queste brecce presenti nella legge sono dovute al fatto che, sull'onda del caso Eluana, se ne è di fatto seguita la logica. A mio avviso, soltanto indebolendo il valore giuridico delle dichiarazioni anticipate e rafforzando i criteri che permettano di riconoscere e vietare i casi di suicidio assistito e di eutanasia si potrebbe evitare ogni futuro abuso interpretativo delle dichiarazioni stesse, che pure moralmente hanno un loro specifico valore. Se si riconoscono giuridicamente le dichiarazioni anticipate si ottiene lo stesso risultato? Personalmente penso di no.


 

Chi, come lo scrivente, condivide i principi ispiratori di questa legge, ritiene che il nodo teorico che rende difficilmente praticabile l'auspicata alleanza terapeutica stia proprio nella questione del peso giuridico da attribuire a una volontà non attuale e al venir meno di un quadro generale di fiducia nella medicina e nell'assistenza, minata da un'enfasi irrealistica posta sul principio dell'autonomia e della libertà, che rischia di trovare indiretta conferma in questa legge.


 

Il dibattito su come scrivere una legge che favorisca l'assistenza e impedisca l'eutanasia è un campo in cui sono legittime diverse interpretazioni e certamente non lo si può trasformare in una prova generale di "consenso", più o meno informato. Soprattutto è necessario non confondere mai le questioni di fine vita con quelle che riguardano le persone, giovani e meno giovani, che si trovano nelle condizioni di stato vegetativo o di minima coscienza: per loro la vita è un fatto e un fine, e non una fine. Ciò che sicuramente oggi ci è richiesto è quello di valorizzare le buone pratiche mediche e assistenziali che permettono di guardare con fiducia al gesto di affidarsi ad altri quando non saremo più in grado di essere noi il punto di riferimento per noi stessi e per coloro che ci amano. Perché, legge sì legge no, chi non vorrà fissare su un registro pubblico i suoi desideri merita di trovare lo sguardo attento e competente di un medico capace di comprendere il significato della proporzionalità dei trattamenti e della generosa perseveranza terapeutica.


 


 

Tutti i rischi di una cattiva legge di Stefano Semplici, da http://www.europaquotidiano.it


 

Si avvicina dunque, a Montecitorio, il momento delle votazioni sul cosiddetto testamento biologico. Sembra davvero che tutto sia stato detto. Ci sono però tre punti sui quali vale forse la pena di insistere ancora. E di farlo misurando la portata del consenso possibile. Questa opportunità, d'altronde, si offre perfino dove meno ci si aspetterebbe di trovarla, come nel comunicato datato 3 marzo dell'Associazione dei medici cattolici, che vorrei tentare di rileggere in questa prospettiva, ben sapendo che, di fronte alla rigidità delle contrapposizioni che occupano quasi per intero la scena del dibattito pubblico, si tratta comunque di un esercizio accademico più che di una concreta opzione politica.

Questo documento è interessante innanzitutto per il riconoscimento che alimentazione e idratazione artificiali sono, senza possibilità di equivoco, un trattamento sanitario, per quanto «di sostegno vitale» e non terapeutico. Sono, in quanto tali, «atti » compiuti dal medico come parte del suo irrinunciabile dovere di «prendersi cura del paziente». Fin qui, si potrebbe dire, nulla di nuovo.

Non solo per i medici cattolici, naturalmente, ma per tutti i medici, che hanno un preciso obbligo giuridico, oltre che morale, di garantire ai loro pazienti tale sostegno e ogni trattamento utile alla tutela della loro salute.

Neppure il testo approdato all'esame dell'aula della camera, in fondo, nega questa evidenza. In esso non si parla di quel che compriamo al supermercato, ma dell'alimentazione e dell'idratazione «nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente». Non si può negare che la foga polemica di alcuni interventi abbia alimentato equivoci su un punto che appare così chiaro.

Ebbene: i medici cattolici non solo se ne tengono onestamente e decisamente alla larga, ma si dimostrano anche avvertiti delle conseguenze che questo riconoscimento implica e che vengono semplicemente eluse nel testo che, come tutto lascia pensare, i deputati approveranno.

Il dato più significativo di questo comunicato è in effetti il silenzio sulla pretesa che su questo trattamento una persona non possa esprimere, ora per allora, la sua volontà, contando almeno sul dovere del medico di tenerne adeguatamente conto.

I medici cattolici non dicono che, poiché alimentazione e idratazione sono atti di sostegno vitale, allora non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento. L'obiezione è scontata: questa conclusione è implicita nel tono e nel contesto di questo intervento. Mi pare però almeno lecito domandarsi se i firmatari avrebbero potuto, proprio in quanto medici, fare diversamente.

Alimentazione e idratazione artificiali sono un trattamento sanitario e dunque ad esse sembra doversi necessariamente applicare il divieto sancito dalla nostra Costituzione di imporli a chi assolutamente non li vuole. Di più. Tutti i medici sanno che tale imposizione è una violazione e non l'adempimento di quanto previsto dal loro codice deontologico, che afferma senza alcun margine di discrezionalità che «il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale», quando quest'ultima viene rifiutata da un paziente pienamente consapevole delle conseguenze alle quali va incontro. I medici cattolici, che nel momento stesso in cui definiscono l'impianto generale dell'attuale proposta «una base accettabile» ammettono la legittimità e forse addirittura la necessità di correzioni e modifiche, ribadiscono piuttosto la richiesta che il "testamento" non abbia carattere vincolante per il medico. Certamente anche nel caso dell'alimentazione e dell'idratazione.

Ma non solo in questo caso. Vengo così al terzo e più importante punto. Si potrebbe pensare che, per questa via, ci si prepari ad un'ulteriore contrazione degli spazi dell'autodeterminazione. È possibile, ma la sfida è più alta. Questo disegno di legge è partito pensando alla situazione estrema dello stato vegetativo persistente e riguarda adesso tutti i soggetti che si trovano «nell'incapacità permanente di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario». Non poche migliaia, ma diverse centinaia di migliaia di persone. I malati di Alzheimer, tanto per essere chiari.

E proprio la concentrazione ossessiva sulla questione della nutrizione e sull'idea che fosse possibile sganciarla dal vincolo rigoroso del principio del consenso informato per la sua natura non terapeutica ha prodotto un paradosso. I medici cattolici, giustamente, evidenziano come nella pratica quotidiana della loro attività il rischio più concreto sia quello dell'abbandono piuttosto che dell'accanimento. Ebbene: la legge, almeno nella sua versione attuale, rischia di aumentare gli spazi di tale abbandono, perché nelle dichiarazioni anticipate sarà possibile esprimersi su qualsiasi tipo di trattamento e rimangono nell'ambiguità i criteri in base ai quali il medico deciderà di seguire o non seguire le indicazioni del paziente.

Chiedere attenzione su questo punto non significa tenere in poco conto il valore dell'autodeterminazione. Significa affrontare il problema vero di una legge di questo tipo.

Il rifiuto consapevole di un trattamento sanitario da parte dell'interessato è un limite invalicabile che il medico non può violare. Si tratta però di un rifiuto che può implicare il lasciarsi morire anche quando il medico è in grado di far guarire e continuare a vivere e a vivere bene.

Ecco perché può essere ragionevole, per tutti quei trattamenti che la scienza medica considera ordinari e proporzionati, chiedere un bilanciamento più prudente – non vincolante – quando manca il requisito dell'attualità della volontà. Senza che ciò comporti il puro e semplice azzeramento di quest'ultima. Affrontare seriamente questo problema e dimostrarsi finalmente capaci di non ridurlo alla dolorosa vicenda di Eluana Englaro potrebbe aiutare a trovare una soluzione più condivisa.

Gli autorevolissimi intellettuali cattolici che hanno proposto su Avvenire un vero e proprio appello al parlamento sostengono che questa legge «va fatta adesso». Eppure è una legge che definiscono «migliorabile». Perché dovremmo rinunciare a farlo?


 


 

28/04/2011 - LIBIA – VATICANO - Vescovo di Tripoli: "Questa guerra è senza senso. Il governo italiano dia le dimissioni" - Su Tripoli cadono bombe a tutte le ore della notte. La popolazione disperata fugge in strada e chiede l'intervento del papa per porre fine alla guerra. Il Vicario apostolico avverte: "Se la guerra continuerà si scaveranno dei fossati incolmabili fra la popolazione con conseguenze imprevedibili".


 

Tripoli (AsiaNews) – "La guerra che sta portando avanti la Nato è senza senso. La popolazione vuole la pace. Cosa ha fatto questa gente per meritare tutto questo?". È quanto afferma mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, vicario apostolico di Tripoli, che definisce folle l'azione di bombardamento "mirata a distruggere obiettivi militari". "Le bombe stanno colpendo ovunque – racconta il prelato – non ci fanno dormire e stanno provocando il panico fra la popolazione. Proprio questa notte vi sono state esplosioni a pochi chilometri dalla nostra zona".

Mons. Martinelli dice che la situazione è disperata e invita l'occidente a interrompere le azioni di guerra. "Per le strade – racconta – si vedono donne e bambini in lacrime e in questi giorni, molte donne musulmane sono entrate in chiesa piangendo, chiedendo l'intervento del papa affinché ponga fine al conflitto. "Le bombe – afferma il prelato – non risolvono nulla, Nato e ribelli devono interrompere l'intervento militare e accettare di aprire un dialogo diplomatico con il regime".


 

Il prelato critica le posizioni del governo italiano, che dopo aver appoggiato per anni Gheddafi e il suo regime ha scelto in questi giorni di partecipare alle azioni di bombardamento aereo. "Se il governo ha fatto questa scelta forse è meglio per tutti che rassegni le dimissioni – sottolinea il vescovo - Come si può affermare che tutto è normale e giusto? Se la guerra continuerà potrebbero scavarsi dei fossati incolmabili fra la popolazione libica e quella italiana, con conseguenze imprevedibili ". (S.C.)