Nella rassegna stampa di oggi:
- L'UDIENZA GENERALE, 27.04.2011 - CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA - Il Tempo Pasquale
- GB: storie di ordinaria discriminazione dei cristiani Di Gianfranco Amato - 26/04/2011 – da http://www.libertaepersona.org
- Nebraska: divieto di aborto dopo la 20esima settimana per dolore fetale - 29 ottobre, 2010, da http://www.uccronline.it/
- DOVE PORTA UN PROFITTO SENZA UMANESIMO - Martha C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica. Il Mulino, 2011 (14 euro) - di Alessia Affinito, 26 aprile 2011, da http://www.riscossacristiana.it
- Legge sul fine vita, le scomuniche non servono di Riccardo Cascioli, 27-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
- Radio Vaticana, notizia del 26/04/2011 - Messico: sette persone irrompono nella basilica di Guadalupe. Distrutta la statua della Madonna
- "La morte non si norma", di Pierluigi Castagnetti da da Europa Quotidiano 27.04.11
- Il valore della vita di Paola Binetti [27 aprile 2011], da http://www.liberal.it
- L'OSSERVATRICE ROMANA – di Barbara Palombelli, 27 aprile 2011, © FOGLIO QUOTIDIANO
- 27/04/2011 – VIETNAM - Il vescovo di Kontum fermato dalla polizia, con l'accusa di aver "battezzato persone" di J.B. An Dang
L'UDIENZA GENERALE, 27.04.2011 - CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA - Il Tempo Pasquale
Cari fratelli e sorelle,
in questi primi giorni del Tempo Pasquale, che si prolunga fino a Pentecoste, siamo ancora ricolmi della freschezza e della gioia nuova che le celebrazioni liturgiche hanno portato nei nostri cuori.
Pertanto, oggi vorrei riflettere con voi brevemente sulla Pasqua, cuore del mistero cristiano. Tutto, infatti, prende avvio da qui: Cristo risorto dai morti è il fondamento della nostra fede. Dalla Pasqua si irradia, come da un centro luminoso, incandescente, tutta la liturgia della Chiesa, traendo da essa contenuto e significato.
La celebrazione liturgica della morte e risurrezione di Cristo non è una semplice commemorazione di questo evento, ma è la sua attualizzazione nel mistero, per la vita di ogni cristiano e di ogni comunità ecclesiale, per la nostra vita. Infatti, la fede nel Cristo risorto trasforma l'esistenza, operando in noi una continua risurrezione, come scriveva san Paolo ai primi credenti: «Un tempo infatti eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità» (Ef 5, 8-9).
Come possiamo allora far diventare "vita" la Pasqua? Come può assumere una "forma" pasquale tutta la nostra esistenza interiore ed esteriore? Dobbiamo partire dalla comprensione autentica della risurrezione di Gesù: tale evento non è un semplice ritorno alla vita precedente, come lo fu per Lazzaro, per la figlia di Giairo o per il giovane di Nain, ma è qualcosa di completamente nuovo e diverso. La risurrezione di Cristo è l'approdo verso una vita non più sottomessa alla caducità del tempo, una vita immersa nell'eternità di Dio. Nella risurrezione di Gesù inizia una nuova condizione dell'essere uomini, che illumina e trasforma il nostro cammino di ogni giorno e apre un futuro qualitativamente diverso e nuovo per l'intera umanità. Per questo, san Paolo non solo lega in maniera inscindibile la risurrezione dei cristiani a quella di Gesù (cfr 1Cor 15,16.20), ma indica anche come si deve vivere il mistero pasquale nella quotidianità della nostra vita.
Nella Lettera ai Colossesi, egli dice: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo seduto alla destra di Dio, rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (3,1-2). A prima vista, leggendo questo testo, potrebbe sembrare che l'Apostolo intenda favorire il disprezzo delle realtà terrene, invitando cioè a dimenticarsi di questo mondo di sofferenze, di ingiustizie, di peccati, per vivere in anticipo in un paradiso celeste. Il pensiero del "cielo" sarebbe in tale caso una specie di alienazione. Ma, per cogliere il senso vero di queste affermazioni paoline, basta non separarle dal contesto. L'Apostolo precisa molto bene ciò che intende per «le cose di lassù», che il cristiano deve ricercare, e «le cose della terra», dalle quali deve guardarsi.
Ecco anzitutto quali sono «le cose della terra» che bisogna evitare: «Fate morire – scrive san Paolo – ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria» (3,5-6). Far morire in noi il desiderio insaziabile di beni materiali, l'egoismo, radice di ogni peccato. Dunque, quando l'Apostolo invita i cristiani a distaccarsi con decisione dalle «cose della terra», vuole chiaramente far capire ciò che appartiene all'«uomo vecchio» di cui il cristiano deve spogliarsi, per rivestirsi di Cristo.
Come è stato chiaro nel dire quali sono le cose verso le quali non bisogna fissare il proprio cuore, con altrettanta chiarezza san Paolo ci indica quali sono le «cose di lassù», che il cristiano deve invece cercare e gustare. Esse riguardano ciò che appartiene all'«uomo nuovo», che si è rivestito di Cristo una volta per tutte nel Battesimo, ma che ha sempre bisogno di rinnovarsi «ad immagine di Colui che lo ha creato» (Col 3,10). Ecco come l'Apostolo delle Genti descrive queste «cose di lassù»: «Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri (...). Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto» (Col 3,12-14). San Paolo è dunque ben lontano dall'invitare i cristiani, ciascuno di noi, ad evadere dal mondo nel quale Dio ci ha posti. E' vero che noi siamo cittadini di un'altra «città», dove si trova la nostra vera patria, ma il cammino verso questa meta dobbiamo percorrerlo quotidianamente su questa terra. Partecipando fin d'ora alla vita del Cristo risorto dobbiamo vivere da uomini nuovi in questo mondo, nel cuore della città terrena.
E questa è la via non solo per trasformare noi stessi, ma per trasformare il mondo, per dare alla città terrena un volto nuovo che favorisca lo sviluppo dell'uomo e della società secondo la logica della solidarietà, della bontà, nel profondo rispetto della dignità propria di ciascuno. L'Apostolo ci ricorda quali sono le virtù che devono accompagnare la vita cristiana; al vertice c'è la carità, alla quale tutte le altre sono correlate come alla fonte e alla matrice. Essa riassume e compendia «le cose del cielo»: la carità che, con la fede e la speranza, rappresenta la grande regola di vita del cristiano e ne definisce la natura profonda.
La Pasqua, quindi, porta la novità di un passaggio profondo e totale da una vita soggetta alla schiavitù del peccato ad una vita di libertà, animata dall'amore, forza che abbatte ogni barriera e costruisce una nuova armonia nel proprio cuore e nel rapporto con gli altri e con le cose. Ogni cristiano, così come ogni comunità, se vive l'esperienza di questo passaggio di risurrezione, non può non essere fermento nuovo nel mondo, donandosi senza riserve per le cause più urgenti e più giuste, come dimostrano le testimonianze dei Santi in ogni epoca e in ogni luogo.
Sono tante anche le attese del nostro tempo: noi cristiani, credendo fermamente che la risurrezione di Cristo ha rinnovato l'uomo senza toglierlo dal mondo in cui costruisce la sua storia, dobbiamo essere i testimoni luminosi di questa vita nuova che la Pasqua ha portato. La Pasqua è dunque dono da accogliere sempre più profondamente nella fede, per poter operare in ogni situazione, con la grazia di Cristo, secondo la logica di Dio, la logica dell'amore. La luce della risurrezione di Cristo deve penetrare questo nostro mondo, deve giungere come messaggio di verità e di vita a tutti gli uomini attraverso la nostra testimonianza quotidiana.
Cari amici, Sì, Cristo è veramente risorto! Non possiamo tenere solo per noi la vita e la gioia che Egli ci ha donato nella sua Pasqua, ma dobbiamo donarla a quanti avviciniamo. E' il nostro compito e la nostra missione: far risorgere nel cuore del prossimo la speranza dove c'è disperazione, la gioia dove c'è tristezza, la vita dove c'è morte. Testimoniare ogni giorno la gioia del Signore risorto significa vivere sempre in "modo pasquale" e far risuonare il lieto annuncio che Cristo non è un'idea o un ricordo del passato, ma una Persona che vive con noi, per noi e in noi, e con Lui, per e in Lui possiamo fare nuove tutte le cose (cfr Ap 21,5)
Grazie.
© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana
GB: storie di ordinaria discriminazione dei cristiani Di Gianfranco Amato - 26/04/2011 – da http://www.libertaepersona.org
Storie di ordinaria discriminazione dei cristiani in Gran Bretagna.
Questa volta è toccato a Colin Atkinson, elettricista sessantatreenne che lavora da quindici anni per la Wakefield and District Housing (WDH), una housing association finanziata con fondi pubblici. Per una singolare coincidenza, la triste vicenda si è svolta a ridosso della Dominica Palmarum ed ha riguardato un oggetto religioso realizzato proprio con foglie di palma. Colin Atkinson, infatti, è stato sottoposto ad un procedimento disciplinare, e rischia il licenziamento, per aver osato esporre sul cruscotto del furgone aziendale una croce fatta, appunto, con foglie di palma e non più grande di 8 pollici (20 cm.).
La WDH non è proprio una realtà insignificante nel panorama economico britannico. Ha più di 1.500 dipendenti, gestisce 32.ooo abitazioni, ed è la quinta struttura imprenditoriale, in ordine di importanza, che opera, a livello nazionale, nel settore dell'housing. Ma ha anche un'ulteriore caratteristica che la contraddistingue: una politica aziendale totalmente orientata al politically correct. Basta dare un'occhiata al sito ufficiale dell'azienda per notare come l'impegno vada dall'adesione incondizionata alle tematiche ecologiche, fino alla più oltranzista logica egualitaria. Proprio su questo punto, anzi, si legge come la WDH «abbracci ogni forma di diversità, riconoscendone i molteplici benefici», e come sia impegnata ad assicurare che i servizi siano sempre forniti «free from any form of discrimination». Piccolo dettaglio, si è dimenticata di assicurare lo stesso impegno antidiscriminatorio anche nei confronti dei propri dipendenti cristiani. Eppure, per dimostrare la spiccata propensione alla tolleranza ed all'accoglienza della diversità, la WDH, per esempio, ha dato la propria disponibilità ad allestire banchetti nelle manifestazioni del gay pride, ha contribuito alla celebrazione del Diversity Day, iniziativa contro ogni forma di discriminazione (tranne, evidentemente, quelle che riguardano i cristiani), ed ha organizzato un evento a favore dei transgender intitolato A World That Includes Transpeople. Per i solerti e attenti dirigenti della WDH, il povero elettricista con la sua indiscreta manifestazione di fede ha osato violare la ferrea politica aziendale improntata alla «neutralità» nei confronti delle opinioni e dei convincimenti personali dei dipendenti. Peccato che, nella pratica, la stessa WDH abbia mostrato un certo strabismo nell'applicazione del concetto di neutralità. Non si spiega, infatti, ad esempio, perché Denis Doody, il capoufficio di Atkinson, sia autorizzato ad affiggere un grande poster del rivoluzionario comunista Che Guevara sul muro di fronte alla propria scrivania, oppure perché ad un dipendente musulmano sia stato concesso di esporre un versetto del corano sul cruscotto dell'auto aziendale. Né si spiega perché sia consentito alle dipendenti islamiche indossare il burqa durante il lavoro. O meglio, si spiega solo perché lo sciagurato Colin Atkinson appartiene a quella categoria (i cristiani) ormai considerata alla stregua dei paria ed emarginata dalle tutele antidiscriminatorie dei burocrati dell'eguaglianza. Sfiora il ridicolo la dichiarazione resa da Jayne O'Connell, dirigente aziendale addetta alle pari opportunità: «La WDH adotta una politica di assoluta neutralità. Oggigiorno esistono differenti fedi e nuove culture emergenti. Pertanto occorre essere rispettosi di tutte le diverse opinioni religiose». Qualcosa però non torna nel ragionamento della O'Connell, visto che musulmani, sikh ed indù non solo non si sono minimamente sentiti offesi dal comportamento dell'elettricista cristiano, ma gli hanno pure espresso la loro piena solidarietà. Ghayasuddin Siddiqui, esponente del Muslim Institute, dopo aver dichiarato di non vedere nulla di male nel fatto che un cristiano esponga un simbolo della propria fede, ha invitato a non essere eccessivamente permalosi su questi temi, ed a mostrare una maggiore rispetto nei confronti dei sentimenti religiosi altrui.
Niranjan Vakhaira, Presidente dell'Hindu Charitable Trust di Leeds, pronunciandosi sul caso Atkinson, è stato più lapidario: «La croce non offende nessuno, e i datori di lavoro hanno decisamente sbagliato». Un portavoce del Sikh Education Council ha invece affermato: «I sikh credono nella libertà di espressione e nella libertà di opinione, quando tali libertà vengono esercitate con rispetto». E poiché Atkinson ha espresso la propria fede «con rispetto e senza offendere nessuno», i sikh gli hanno manifestato il loro pieno «support».
Musulmani, indù e sikh che danno lezioni di tolleranza, rispetto e democrazia agli occhiuti censori del politically correct. Così si è ridotta la Gran Bretagna in Pascha Domini 2011.
da Cultura Cattolica , 24 aprile 2011
Nebraska: divieto di aborto dopo la 20esima settimana per dolore fetale - 29 ottobre, 2010, da http://www.uccronline.it/
Una legge storica che vieta l'aborto dopo 20 settimane di gestazione sulla base del dolore fetale, è entrata in vigore nel Nebraska la scorsa settimana. I sostenitori della vita -riporta l'OpposingViews- hanno espresso il desiderio che anche altri Stati seguano l'esempio. «Questo è un momento storico per coloro che lavorano per proteggere le madri e i bambini non nati», ha detto Tony Perkins, presidente del Family Research Council. «Questa nuova legge rappresenta l'ondata di impulso che il movimento pro-life sta avendo, ed è un passo importante verso il futuro». The Abortion Pain Prevention Act (LB 1103), scritto dal senatore Mike Flood, è stato trasformato in legge dal governatore repubblicano Dave Heineman in aprile. Tra le motivazioni che hanno convinto gli esperti, c'è la testimonianza di Kanwaljeet "Sunny" Anand, un pioniere nello studio del dolore fetale, oggi professore presso l'Università di Arkansas per le scienze mediche, che nel 2004 ha richiesto il divieto di aborto dopo le 20 settimane di gestazione, poiché il feto subirebbe un "grave e lancinante dolore". E' stato inoltre dimostrato che il dolore fetale può anche essere più grave di quanto lo sia per gli esseri umani anziani, in quanto il sistema nervoso è immaturo e non ha ancora sviluppato meccanismi di adattamento che aiutano l'organismo a meglio sopportare il dolore. Si è inoltre verificato che i bambini non ancora nati, durante le osservazioni, «tentano di eludere certi stimoli dolorifici e rispondono ad essi con uno stress ormonale». Schmit-Albin ha inoltre rivelato che il suo gruppo è stato contattato da un certo numero di gruppi pro-life, interessati ad ottenere simili legislature statali nei loro rispettivi stati. E' molto probabile che, dopo le imminenti elezioni in America, siano numerosissimi i parlamentari pro-life che verranno eletti. Qui si trova il comunicato ufficilale del Family Research Council.
DOVE PORTA UN PROFITTO SENZA UMANESIMO - Martha C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica. Il Mulino, 2011 (14 euro) - di Alessia Affinito, 26 aprile 2011, da http://www.riscossacristiana.it
E' una tendenza che caratterizza l'Europa come gli Stati Uniti, quella di tagliare fondi alle facoltà umanistiche per destinarli a facoltà scientifiche e tecniche. Martha C. Nussbaum, tra i più interessanti filosofi viventi, affronta la questione nel suo ultimo libro, "Non per profitto", appena pubblicato in traduzione italiana. Da studiosa - i cui interessi si estendono dall'etica all'antropologia, dalla filosofia politica alla storia delle religioni - segue da tempo una linea di pensiero che collega in modo originale la tradizione classica agli esiti speculativi dei nostri giorni. La sua riflessione, questa volta, ha come sfondo la crisi che affligge l'economia mondiale dal 2008, spingendo a ridefinire le politiche pubbliche nazionali, con inevitabili ricadute anche per il sistema dell'istruzione.
Nel tentativo di conquistare fette più ampie di mercato, o di conservarle, i governi nazionali pensano di far quadrare i conti destinando le scarse risorse a percorsi formativi che consentirebbero un immediato riscontro in termini produttivi e occupazionali. Ma si tratta davvero di una scelta lungimirante? Tema quanto mai attuale, se si considera la declinazione italiana del fenomeno: mass media e politici non perdono occasione per denigrare facoltà che ritengono poco "redditizie", esaltando studi tecnico-scientifici che, a loro dire, fornirebbero il know how necessario allo sviluppo economico (dimenticando che questo non può prescindere, in ogni caso, da trasparenza e meritocrazia). Un tale approccio ha raggiunto livelli propagandistici, luoghi comuni confezionati ad arte vengono diffusi con sistematica cura sulla stampa nazionale. Abbiamo letto dell'urgenza di una rivalutazione del "lavoro manuale", della scarsa propensione che i giovani mostrerebbero verso mestieri poco gratificanti, della presunta forza sul mercato di percorsi professionalizzanti che ripagherebbero anni di studio "improduttivo" spesi per una laurea. Le statistiche parlano però di un'altra realtà: in Italia il numero dei laureati è drammaticamente inferiore rispetto a quello dei Paesi più industrializzati, un terzo della popolazione che si affaccia sul mercato del lavoro non cerca più un'occupazione perché stufo di impegnarsi invano, e la percentuale più elevata di iscrizioni, lungi dal riguardare facoltà umanistiche, interessa invece l'ambito economico-statistico.
Uno dei pregi del testo della Nussbaum è certamente quello di andare oltre l'aspetto sociologico della questione (e incomparabilmente al di là della superficialità con cui l'argomento viene affrontato dai nostri opinion leaders), per sviluppare un'accurata riflessione circa le sue implicazioni politiche. Esiste una relazione tra i percorsi formativi che si scelgono (o che si promuovono) e la "qualità" della cittadinanza? Possono politiche pubbliche miopi mettere in crisi la democrazia come finora concepita? Lo scenario preso in considerazione è quello statunitense ed indiano, che l'autrice conosce in profondità. La tesi principale è la seguente: per quanto paradossale possa apparire, l'interesse economico richiede l'apporto di studi umanistici allo scopo di realizzare una cultura di innovazione creativa e una cittadinanza consapevole e responsabile. In altre parole, per un'economia fiorente risultano indispensabili le stesse qualità formative che rafforzano anche la buona cittadinanza, e che gli studi umanistici sono deputati a fornire.
Sia gli Stati Uniti sia l'India - osserva la studiosa – tendono a rifiutare l'idea che il modo giusto di progredire per una nazione consista nella mera ricerca di massimizzazione economica, sebbene figure rappresentative del mondo dell'istruzione, in entrambi i Paesi, si comportino come se l'obiettivo di un percorso formativo fosse solo la crescita economica. L'aspetto controverso è rappresentato dal fatto che gli Stati Uniti non hanno mai avuto un modello di formazione scolastica puramente orientato alla crescita economica ma fondato, al contrario, sulle discipline umanistiche, punto di forza del loro sviluppo. Oggi, tuttavia, posto radicalmente in discussione: queste non sembrano più "funzionali" alla crescita economica, fino a conoscere, in alcuni casi, una ingiustificata svalutazione. E' esattamente per confutare tale svalutazione che l'autrice interviene.
Gli studi umanistici, come spiega nel libro, restano indispensabili per sviluppare capacità di ragionamento su una molteplicità di problemi, per imparare ad esaminare, a riflettere, a discutere e per giungere a delle conclusioni senza delegare alla tradizione o all'autorità. E' una formazione umanistica che consente di riconoscere nei concittadini persone con pari diritti e di guardare a loro con rispetto in quanto fini, non in quanto strumenti da manipolare per proprio tornaconto. Sono le discipline umanistiche a fornire la capacità di valutare criticamente le politiche di uno Stato; di pensare al bene di una nazione intera; di esaminare problematiche non solo secondo un insieme statistico ma includendo l'orizzonte umano; di giudicare gli uomini politici; di pensare l'infanzia o l'adolescenza, la malattia o la morte, e in definitiva di preoccuparsi della vita degli altri. La filosofa si sofferma più volte sugli aspetti della rivoluzione educativa introdotta in India da Rabindranath Tagore, cita le riforme nelle scuole pubbliche del Massachusetts pensate da Horace Mann, ricorda che John Stuart Mill uscì dai suoi stati depressivi grazie alla poesia di Wordsworth, elaborando in seguito una visione ispirata da una simpatia verso l'altro che aveva scoperto proprio attraverso la poesia.
Naturalmente quella della Nussbaum non è affatto un'apologia dello studio "astratto", slegato dalla vita delle persone. Al contrario, il suo obiettivo è spiegare che una formazione umanistica astratta non lo è per niente, dal momento che presenta concrete ricadute nella vita di ciascuno, e inevitabilmente in quella comunitaria. Nella sua argomentazione non mancano echi della riflessione del premio Nobel Amartya Sen, il quale in diverse occasioni ha osservato che la crescita non è quantificabile solo attraverso il Pil di un paese, ma include anche i valori, la cultura e possibilità di scelta che consentano di valorizzare il potenziale umano, secondo una concezione dello sviluppo da lui stesso definita "emancipatrice".
Certo la situazione non lascia spazio ad un ingenuo ottimismo, ed è difficile – spiega la Nussbaum - prevedere come procederanno le riforme orientate a valorizzare il solo sapere tecnico-scientifico, anche perché l'istruzione su base umanistica ha costi finanziari e pedagogici elevati. Attualmente negli States un ruolo importante nel finanziamento degli atenei è svolto ad esempio da ex studenti, laureati benestanti che hanno potuto apprezzare il valore di un'istruzione umanistica e oggi contribuiscono in prima persona alla sopravvivenza di dipartimenti e progetti di ricerca: "Essi amano la vita della mente, e vogliono che altri ne possano godere".
Legge sul fine vita, le scomuniche non servono di Riccardo Cascioli, 27-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Oggi si saprà se per la discussione sulla legge del fine vita alla Camera sarà confermato l'ennesimo rinvio, o se andrà a buon fine l'annunciato tentativo dell'Udc di riportare l'argomento in testa all'agenda dei lavori. In ogni caso non si può non notare come il tentativo di arrivare presto e bene al varo della legge si faccia sempre più a rischio.
Ne sono testimonianza i crescenti dubbi anche in seno al variegato movimento pro life, e il nervosismo che trapela dal fronte dei più convinti sostenitori della legge. Nervosismo dimostrato, ad esempio, dall'ultimo numero di "E' vita", l'inserto di Avvenire dedicato ai temi della vita, il cui titolo di apertura, giovedì scorso, recitava così: "Senza questa legge, arriva l'eutanasia". E in seconda pagina l'editorialista Domenico Delle Foglie si scagliava contro dei presunti "supercattolici" che vorrebbero leggi perfette e, seguendo questo idealismo irrazionale, fanno il gioco del fronte eutanasico.
Ora, se c'è una cosa che noi abbiamo sempre sostenuto è che ci sono ottime ragioni sia per sostenere la necessità di una legge (ma solo a certe condizioni), sia per ritenerla inutile o addirittura dannosa. Soprattutto siamo convinti che, legge o non legge, il problema vero che ci sta portando all'introduzione dell'eutanasia è culturale e riguarda tutta la società. Lanciare scomuniche reciproche o accusare di volere l'eutanasia chi non si allinea al pensiero ufficiale, è una grave scorrettezza e un atto di disonestà intellettuale, soprattutto da parte di chi - scrivendo sull'organo ufficiale della Chiesa italiana - pensa di mantenere serrate le fila con minacce ed etichette di diserzione. Pur in un dibattito serrato non dovrebbe mai venire meno la consapevolezza - e il riconoscimento - che siamo tutti dalla parte della vita
Detto questo, ad Avvenire non dovrebbe sfuggire il fatto che i dubbi sulla legge non provengono soltanto da frange di "intransigenti", ma anche da autorevoli membri dell'episcopato, peraltro tra i più esperti di Dottrina sociale e di Bioetica. A parlare finora è stato soprattutto monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste ed ex segretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, che in un'intervista alla Bussola Quotidiana e in incontri pubblici, ha detto di considerare la legge "un rischio inevitabile" a questo punto, ma ha avvertito che nel progetto in discussione non è tollerabile qualsiasi emendamento che renda più ambigua la legge, al punto che in questo caso il governo dovrebbe ritirare il progetto e comunque i cattolici non potrebbero votarla. Ad ogni modo, pur favorevole a questa legge, Crepaldi ha detto che bisogna prendere molto bene in considerazione le ragioni di chi vi si oppone, perché esse sono ben fondate e valgono anche se la legge andrà a buon fine.
Ma a volte, oltre alle parole valgono anche i silenzi, e da questo punto di vista è significativo che sull'argomento tacciano due vescovi di primo piano, esperti di bioetica e Dottrina sociale, come il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, e monsignor Luigi Negri, vescovo di san Marino-Montefeltro. Non possiamo certo interpretare il loro silenzio, ma non c'è dubbio che sia significativo. Accanto a loro non possiamo non citare il padre domenicano Giorgio Carbone, altra autorità in fatto di bioetica, che ha espresso pubblicamente le sue perplessità su diversi aspetti del progetto di legge.
Due sono comunque, a nostro avviso, i punti maggiormente critici di questo iter legislativo che fanno sorgere perplessità crescenti. Anzitutto, se è vero che dei giudici hanno già interpretato in chiave eutanasica l'attuale legislazione che pure è chiaramente contraria, a maggior ragione altri giudici potranno inserirsi tra le maglie di una legge molto, forse troppo, articolata. Se è vero che alimentazione e idratazione sono chiaramente escluse come strumenti terapeutici, altri articoli però - letti da qualche giudice interessato - potrebbero essere facilmente interpretati come deroga al principio. Non si può dare torto a chi sostiene che - per evitare un altro caso Eluana - sarebbe bastato un articolo unico in cui ribadire il principio per cui alimentazione e idratazione sono sostegni vitali in qualunque modo essi siano somministrati. Se il problema sono gli Azzeccagarbugli di cui è pieno il mondo della giustizia, meno parole si scrivono meglio è.
La seconda questione riguarda l'opportunità di intervenire per legge nel rapporto tra medico e paziente, cercando di codificare ciò che realisticamente appare ben poco codificabile. E' più che un rischio l'abnorme estensione del ruolo dei giudici anche in campi delicatissimi, come la recente sentenza della Cassazione sull'accanimento terapeutico dimostra.
Analizzeremo nei prossimi giorni più a fondo, come del resto abbiamo già iniziato a fare, le varie questioni legate alla legge sulle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento. Ma già questo basta per richiamare la necessità di un confronto serio e approfondito sui temi implicati, senza altre insopportabili scomuniche via stampa.
Radio Vaticana, notizia del 26/04/2011 - Messico: sette persone irrompono nella basilica di Guadalupe. Distrutta la statua della Madonna
In frantumi la statua della Vergine di Guadalupe, nell'omonima basilica di Città del Messico, per mano di sette persone che domenica scorsa hanno fatto irruzione nella chiesa durante la Messa pasquale, celebrata dal cardinale Norberto Rivera. L'atto sacrilego – riferisce oggi il quotidiano Avvenire - è stato compiuto da sei donne, una delle quali si è finta incinta, ed un uomo che hanno fatto irruzione nell'affollata cattedrale, interrompendo con un megafono i canti del coro, gridando slogan contro la Chiesa e i vertici ecclesiastici messicani. Per qualche minuto la cerimonia è stata interrotta e la tensione è salita quando il gruppo di attentatori ha raggiunto, distruggendola, la statua di gesso della Madonna, patrona del Messico e del continente latinoamericano. Fra urla e spintoni le guardie di sicurezza del tempio – aiutate da alcuni fedeli – hanno circondato i sette dissacratori, costringedoli ad uscire dalla basilica, dove sono stati arrestati dalla forze dell'Ordine e quindi interrogati dalle autorità giudiziarie della capitale messicana. Il cardinale Rivera ha già comunicato di avere perdonato i provocatori, ma non si può lasciare – sottolinea una nota dell'arcivescovado - che un simbolo tanto amato come la Vergine di Guadalupe venga aggredito in tal modo. Le indagini sono in corso per accertare se gli attentatori abbiano agito in proprio o per conto di un movimento o associazione. (R.G.)
"La morte non si norma", di Pierluigi Castagnetti da da Europa Quotidiano 27.04.11
Dunque, oggi o al massimo domani, la camera voterà l'inversione dell'ordine del giorno per passare subito ai voti sulle Dat (testamento biologico). Si deve approvare questo testo così com'è, e subito, sostiene chi non ha mai detto una parola nei due lunghi anni in cui la maggioranza l'ha tenuto nei cassetti. Personalmente resto dell'avviso, già espresso in sede di discussione generale (e in un articolo su Europa), che la morte non possa essere giuridicizzata. Essa può arrivare, infatti, in modo imprevedibile e immediato per un incidente o un accidente, o può arrivare con quella gradualità che ne consente la preparazione e l'accoglienza. Questa seconda ipotesi, quando si verifica, è una grazia se la si riesce a vivere con il rispetto della sacralità di quel momento, indipendentemente dalle convinzioni personali, «perché è una soglia sacra per tutti, credenti o non credenti, precisamente per il suo carattere di definitività, di assoluto non ritorno e dunque di ultima estrema possibilità » (Bruno Forte, Il Sole 24Ore, 4 ottobre 2009).
Il letto di quel paziente diventa, a prescindere dalla fede, un tabernacolo al quale chi ne è esterno si accosta, nel dolore e nel mistero, e avverte tutto il peso e la violenza di possibili invasività della tecnica o della legge. Sì, perché anche la legge, quando pretende di prevedere e imbrigliare tutte le circostanze che inevitabilmente le sfuggono, può diventare invasiva e ingiusta.
Per questo io credo che sarebbe saggio non legiferare.
Vi è infatti un'etica del limite anche per il legislatore.
Condivido quanto scriveva già trenta anni fa Jacques Ellul: «Il diritto è indispensabile per la vita delle società, ma il rifugio assoluto nel diritto è mortale per la negazione del calore, dell'elasticità, della fluttuazione delle relazioni umane che sono indispensabili affinché un corpo sociale, quale che sia la sua dimensione, possa vivere e non solo funzionare. Un eccesso di diritto e di rivendicazioni giuridiche sfocia in una situazione nella quale, al termine, il diritto stesso diventa inesistente» (Cristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno, Giuffrè 1981).
Oggi, infatti, la norma positiva, statale o metastatale purtroppo tende sempre più a definire ogni aspetto della vita sociale occupando territori che fino a poco tempo fa erano governati dall'etica dei comportamenti e dal buon senso. E ciò spesso avviene anche con l'oggettiva complicità di quei cristiani sempre più confidenti nella forza della legge per garantire la virtù. Io resto, invece, convinto che vi siano temi che, per evocare A.C. Jemolo, «la legge può solo lambire», e, fra essi, vi è sicuramente quello della morte. Lo stesso cardinale Ruini, nella prolusione all'Assemblea della Cei del 22 gennaio 2007, dopo avere ribadito che non è mai consentito «privare il paziente del necessario sostegno vitale», aggiungeva che «in questa materia così delicata appare norma di saggezza non pretendere che tutto possa essere previsto e regolato dalla legge».
Però si obietta ora che le cose sono cambiate dopo la sentenza della Cassazione sul caso Englaro, che è arrivata tra l'altro a ricostruire la volontà della paziente senza riscontri oggettivi. Considero molto seria l'obiezione, anche se suggerisco di situare quella sentenza nel singolarissimo contesto di una emozione collettiva intenzionalmente alimentata attraverso una forte pressione mediatica, senza rinunciare a considerarla profondamente sbagliata, frutto di una clamorosa esondazione rispetto alla prescrizione dell'art. 101 della Costituzione ( «i giudici sono soggetti soltanto alla legge»), a favore di una creatività del diritto che non è consentita al magistrato. Sono infatti in vigore gli articoli 575 (omicidio), 579 (omicidio del consenziente), 580 (istigazione e aiuto al suicidio), e 593 (omissione di soccorso) del codice penale che costituiscono un inequivocabile complesso normativo a tutela dell'intangibilità della vita umana, che in quel caso non sono stati tenuti minimamente in considerazione. E ciò non è accettabile.
Ma se si pensa che un errore del giudice in presenza di tante norme prescrittive possa fare giurisprudenza, non sarà una nuova norma a impedire la ripetizione di una analoga grave contravvenzione delle disposizioni costituzionali che obbligano i giudici a limitarsi ad applicare ed interpretare le leggi, e non certo a violarle e sostituirle. Il rimedio, dunque, non rimedia e per di più determina una invasività legislativa insopportabile quando si cala nello spazio di un "fine vita" preciso e personale la cui titolarità pertiene esclusivamente all'alleanza umana e terapeutica fra paziente (o suo fiduciario), famigliari e medico curante.
Del resto mi parrebbe prudente riflettere sulla circostanza che, non a caso, i paesi che hanno legiferato in materia, sono proprio quelli che, nelle intenzioni non sempre esplicitate, manifestano un'apertura alla prospettiva eutanasica: dalla legge che pur non la prevede, passo dopo passo, interpretazione dopo interpretazione, si può (o si vuole) arrivare là dove si afferma di non volere. Meglio, perciò, nessuna legge.
Così come inviterei tutti i sostenitori del testo in esame, a considerare il rischio che una legge che giuridicizza in modo tanto evidente la morte, sia particolarmente esposta alla possibilità non solo di proliferazione del contenzioso, ma anche di un intervento di mutilazione da parte della Consulta delle parti di dubbia legittimità costituzionale. Anche per questo mi pare apprezzabile l'esortazione che Pierluigi Bersani fa nel suo recente libro-intervista al legislatore «di procedere con assoluta cautela, rispetto e direi leggerezza (…), deve fare il meno possibile perché questo è uno dei territori in cui bisogna coltivare il limite della politica». E io vado oltre e dico che il legislatore deve proprio rinunciare a legiferare, bastando i paralleli divieti all'eutanasia e all'accanimento terapeutico già presenti nell'ordinamento. Il resto è di più, anzi appartiene alla coscienza, alla scienza, alla intelligenza e alla fede (se c'è) delle persone coinvolte. A loro e non alla legge.
Il valore della vita di Paola Binetti [27 aprile 2011], da http://www.liberal.it
Oggi, il Parlamento affronta il nodo cruciale della bioetica attraverso la discussione sulla legge che dà «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento ». Nella legge in questione, al di là dell'articolato tecnico, si confrontano due culture, che stentano a trovare un punto di convergenza. Da un lato, quella laica di ispirazione cristiana, in cui al valore della vita si affianca il valore della libertà, considerata come una delle qualità principali dell'uomo, fondamento del senso stesso di responsabilità. Ma riconosce alla vita umana un valore in se stessa, anche a prescindere dalle capacità del soggetto, incluse quelle considerate più importanti come la capacità di stabilire relazioni o di agire autonomamente. È una concezione in cui il valore della persona implica relazionalità e interdipendenza. Dall'altro lato, quella laico- laicista, centrata sul principio di autodeterminazione, che fa della libertà un valore assoluto e del tutto auto-referenziale, subordinando il valore della alla possibilità di essere liberi. In questo secondo caso la libertà è considerata come qualcosa fine a se stessa, in cui tutto è consentito, anche il negare la vita e il suo valore, al punto da pretendere dalle istituzioni l'aiuto necessario a tradurre in pratica una possibile volontà di morire (eutanasia). È una concezione individualistica. Tra questi due approcci, ci sono alcune differenze: quattro, in particolare, sono i binomi confittivi.Vediamoli nell'ordine. a) Tutela della vita & libertà e autonomia. Nelle due concezioni il valore della libertà e dell'autonomia, binomio essenziale nel processo di maturazione del soggetto, giocano un ruolo diverso. Nel primo caso l'uomo esercita la sua libertà all'interno di una progettualità che può svilupparsi proprio in quanto è vivo, nel secondo caso è come se la libertà fosse un valore che esiste in se stesso, per cui venendo meno, automaticamente comporta anche la fine della vita. Nel primo caso si può accettare di vivere anche per lunghi periodi in una condizione di apparente non-libertà, nel secondo caso la perdita della libertà legittima la perdita della vita. Basta pensare al tema dei diritti umani, l'uomo ha diritto a veder riconosciuta la sua libertà perché esiste, perché è vivo, ma la proposizione non si può rovesciare. Nel dibattito sulle DAT il costante riferimento alla libertà del paziente serve quasi esclusivamente per affermare il diritto a non-vivere, per negare tutte le cure e rifiutare ogni tipo di sostegno, inclusa la nutrizione e l'idratazione. D'altra parte anche la libertà del medico è vincolata dalla necessità di agire in scienza e coscienza, proprio per poter esprimere il suo giudizio clinico con la massima oggettività possibile e in coe- renza con i suoi principi etici e deontologici. Medico e paziente sono in definitiva vincolati dalla loro coscienza che ovviamente deve essere ben formata perché ognuno di loro possa agire rettamente. b) Consenso informato e alleanza terapeutica: relazionalità & individualismo. Un'altra differenza sostanziale tra i due approcci è che il primo ha un carattere fortemente relazionale, mentre il secondo ha carattere prevalentemente individualistico. La legge ricava il suo titolo: Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento proprio dal fatto che si è voluto mettere in primo piano il tema della relazione medicopaziente. Il malato non è solo davanti a decisioni così importanti della sua vita. Il medico, destinatario di un fondamentale dovere di garanzia nei suoi confronti, può agire solo dopo averne acquisito il consenso, e può acquisire il consenso solo dopo averlo adeguatamente informato, nell'ambito di un rapporto che non è mai riducivita bile ad un atto burocratico e prevede che tra di loro si stabilisca una relazione di alleanza. Il riferimento al consenso informato e all'alleanza terapeutica è una premessa indispensabile che pone al centro del ddl un approccio interpersonale, in cui libertà e dignità del paziente si confrontano e si rispecchiano nella liberà e dignità del medico. c) Vincolatività e non vincolatività delle DAT. Paradossalmente quanti sostengono l'assoluta libertà del paziente pretendono la stretta vincolatività delle DAT, senza cogliere la contraddizione con il fatto che in questo modo negano o per lo meno coartano pesantemente la libertà del medico, mentre in realtà si dovrebbe valorizzarle tutte e due. Anche per questa ragione, noi ci batteremo perché il ddl torni alla formulazione del Senato, recuperando la prospettiva della convenzione di Oviedo, che parla di carattere orientativo delle DAT, impegnativo, ma non vincolante. d) Nutrizione e idratazione & non attivazione e sospensione delle cure. L'aspetto più insidioso nella posizione dei fautori del principio di autodeterminazione nella sua formulazione assoluta è quello di ribadire il diritto alla non attivazione o alla interruzione di ogni tipo di cura, anche quelle salva-vita. Il dibattito sulla nutrizione-idratazione medicalmente assistita: se sia un trattamento di tipo medico (e come tale possa rientrare tra i desiderata del paziente) o se sia invece un sostegno vitale (e come tale vada sempre assicurato al paziente) può diventare un potente distrattore rispetto al vero punto critico della legge, che attualmente riguarda soprattutto il diritto del paziente al rifiuto-rinuncia delle cure. La somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. È quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità che consiste nel procurare l'idratazione e il nutrimento del paziente, evitando le sofferenze e la morte dovute a inanizione e disidratazione. Non si può prescindere dal criterio etico generale, secondo il quale la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenta sempre un mezzo naturale di conservazione della vita e non un trattamento terapeutico. Il suo uso sarà quindi da considerarsi ordinario e proporzionato, anche quando lo "stato vegetativo" si prolunghi. D'altra parte il rifiuto della nutrizione-idratazione è perseguito con tanta ostinazione solo perché è un fattore sicuro di morte in un tempo che si presuppone ragionevolmente breve. Ma il diritto alla non attivazione o all'interruzione delle cure, quando si tratta di cure salva vita, la cui omissione non può che essere la morte, richiede necessariamente una volontà attuale, libera e consapevole e non può rientrare nella logica dell'ora per allora, tipica delle dichiarazioni anticipate di trattamento. In definitiva: l'Udc è sostanzialmente favorevole alla legge per quanto riguarda la tutela della vita e il no chiaro e fermo all'eutanasia; il si alle cure palliative e il no all'accanimento terapeutico; la necessità di acquisire il consenso informato prima di qualsiasi intervento e il no all'abbandono del malato. Punta in definitiva ad una formulazione in cui il valore della vita si integri con quello della libertà del paziente e del medico; l'autonomia del paziente non si riduca all'indifferenza del medico; il valore delle cure non diventi un inutile accanimento; l'alleanza medicopazienti non degeneri in una forma di contrattualismo. Il tema della scelta nelle DAT va sempre ricondotto nell'ambito delle scelte per la vita, senza tentare scorciatoie che l'abbrevino, alterandone i tempi naturali. È lo spirito della Costituzione, se si considera in toto l'art. 32, il comma 1 e il comma 2; se si tiene conto dei nostri codici e di tutta la giurisprudenza. Nell'analisi del disegno di legge è stato evidenziato che: non basta che il no all'eutanasia sia affermato e riaffermato più volte in via di principio, deve essere concretamente ricavabile da tutto l'articolato della legge, che non deve lasciare spazio ad interpretazioni che potrebbero giustificare interventi diretti a legittimare la morte del paziente (cfr il rifiuto totale delle cure). La libertà del paziente e la stessa libertà del medico devono mantenere come orizzonte di riferimento il valore etico e deontologico dell'alleanza che li lega in funzione di un comune obiettivo: la salvaguardia della vita del paziente, evitando sia possibili forme di accanimento terapeutico, che forme surrettizie di abbandono e di indifferenza nei confronti del paziente. Il medico non può essere ridotto a mero esecutore delle volontà di altri secondo una logica contrattualistica, e la visione della medicina espressa dalla legge non può prescindere dall'antica tradizione che vede l'agire medico sempre orientato all'etica della cura, e mai complice di una volontà di morte. Non reggono quindi una serie di accuse alla legge, a cui si rimprovera di violare la libertà del paziente, obbligandolo a vivere suo malgrado. In realtà la legge non obbliga a vivere, ma proibisce di accelerare la morte del paziente, sia provocandola in modo attivo, sia omettendo le cure indispensabili. La legge consente alla dignità del medico di esprimere il suo livello di professionalità, per quell'agire in scienza e coscienza che è da sempre il suo carisma.
L'OSSERVATRICE ROMANA – di Barbara Palombelli, 27 aprile 2011, © FOGLIO QUOTIDIANO
Francesca ha 38 anni. E' farmacista, è una bella ragazza sportiva, un leggero accento francese addolcisce le sue parole. Mi chiede di essere il suo megafono, il suo amplificatore, la sua voce. Desidera che si dicano forte e chiaro alcune verità, per salvare dalle delusioni tantissime ragazze come lei. La prima cosa che vuole urlare è quasi banale: "Chi vuole diventare madre deve pensarci presto, prima dei trenta. Dopo, è un terno al lotto. E se si vogliono rispettare le leggi italiane e far nascere un figlio biologicamente frutto dei nostri geni, c'è poco tempo. E' ora di finirla con le bugie e tu che sei giornalista devi ribellarti alle palesi menzogne che avvalorano certi giornali quando a partorire è una delle star dello spettacolo". Parla a nome delle migliaia di donne che si stanno sottoponendo alla Pmi, la procreazione medicalmente assistita. Il concepimento fuori dal corpo femminile, mediante l'incontro del seme e dell'ovulo e l'installazione dell'embrione (o degli embrioni) nell'utero, è un'invenzione di molti anni fa. Il medico che la sperimentò per primo, Robert Edwards, ha vinto il Nobel. Una delle prime storie della mia vita professionale fu proprio la descrizione del percorso difficile e anche rischioso cui si sottoponevano molte famiglie. Altri tempi.
Allora il procedimento veniva molto incoraggiato dalla chiesa, eravamo alla fine dei Settanta e sembrava alle gerarchie una strategia ideale per contrastare le prime richieste di legalizzazione dell'aborto. Dopo le polemiche, la legge 40 che vieta ogni inseminazione eterologa, le insistenti immagini di cinquantenni incinta e vincenti, il figlio in provetta continua ad apparire – sui nostri mezzi di comunicazione – una cosa semplice, perfino più pratica delle lunghe attese di qualcosa di naturale. Chi ha più di 32 anni, invece, è destinata a vedere le proprie potenzialità genitoriali molto ridotte: le uova che si producono non sempre sono adatte a creare un embrione. Per aiutarle, è previsto un vero e proprio calvario, di cui nessuno ha voglia di parlare. Visite e prelievi di sangue settimanali, ecografie continue, iniezioni di ormoni per stimolare le ovaie che la probabile mamma deve farsi da sola sull'addome ("dottoressa, ma quanto devo infilare l'ago in profondità? E i lividi? Le macchie? La farmacista-collega di sventura ha un consiglio per tutte, sa di che si parla, anche lei ha il ventre pieno di buchi).
Fabbricare uova idonee e contemporaneamente avere una vita normale è praticamente impossibile: occorre chiedere permessi, fuggire dall'ufficio, nascondersi se non si vuole mettere a parte l'intera azienda del proprio progetto di vita. Ci si gonfia come un vitello all'ingrasso, l'umore va a sbalzi, si perde ogni impulso erotico. Ma tutto questo non viene mai scritto, raccontato, messo in chiaro.
Nella farmacia dove esercita – part time, perché altrimenti anche per lei addio inseminazione – Francesca le vede arrivare, quelle coppie che hanno sfogliato quei giornali. Hanno un sacco di ricette, i nomi dei professori in alto a sinistra – tutti maschi – sono spesso quelli che hanno fatto nascere la figlia della diva tv. Futuri padri e future madri spendono un mucchio di soldi nei laboratori privati, i centri pubblici abilitati alla Pmi si contano sulle dita di una mano, il tempo stringe e gli sguardi si fanno lucidi di lacrime. Troppe bugie si raccontano, sulla provetta. In molti casi, le pance sventolate in copertina sono frutto di viaggetti all'estero – ora va molto la Tunisia, fino a ieri the best era Barcellona – dove si utilizza l'ovodonazione insieme al seme del padre. Noi donne, come è noto, ci accontentiamo della gravidanza, l'ereditarietà del Dna è un tema maschile. Francesca non sa se ci riproverà, uno dei ginecologi che la segue l'ha trattata un po' male, si trova meglio con le donne dell'équipe, è piena di ansia e di dubbi. Vorrebbe che si parlasse di più, con un po' di correttezza, di questo universo.
27/04/2011 – VIETNAM - Il vescovo di Kontum fermato dalla polizia, con l'accusa di aver "battezzato persone" di J.B. An Dang
Mons. Michael Hoang Duc Oanh ha potuto celebrare la messa di Pasqua tra i montagnard del villaggio di Son Lang, nel quale non aveva potuto celebrare il Natale. Ha trovato poliziotti e donne della Lega comunista più numerosi dei fedeli.
Kontun (AsiaNews) – Ha potuto celebrare la messa di Pasqua, ma è stato fermato e portato negli uffici della polizia, con l'accusa di aver battezzato. E' l'ennesima violazione della libertà religiosa compiuta dalle autorità di Son Lang, nella contea di K'Bang (Vietnam centrale), nella zona dei montagnard. E' accaduto al vescovo Michael Hoang Duc Oanh, recatosi nello stesso villaggio nel quale a Natale gli era stato impedito di celebrare la messa.
In vista della Pasqua, il vescovo aveva inoltrato numerose petizioni alle autorità di ogni livello, chiedendo di poter celebrare la messa in un villaggio nel quale non era mai stato possibile celebrare l'eucaristia. Permesso che gli è stato concesso.
Ma quando mons. Duc Oanh è arrivato, insieme a un sacerdote, ha trovato un'atmosfera ostile, con uomini della polizia e donne della Lega femminile comunista che superavano di numero i fedeli e che controllavano a sbeffeggiavano vescovo e cattolici. Una lunga fila dei quali ha chiesto di potersi confessare. La celebrazione del sacramento della riconciliazione è avvenuta tra scoppi di risa e battute a commento dei gesti dei fedeli.
E dopo la messa, il vescovo e il sacerdote sono stati portati agli uffici della polizia e sottoposti per ore a interrogatori. Gli agenti hanno accusato il vescovo di aver violato il permesso avuto che "consentiva solo la celebrazione della messa di Pasqua", mentre egli aveva anche "battezzato persone", "superando deliberatamente ciò che gli era concesso".
Il vescovo ha protestato, negando di aver "battezzato persone", e spigando di aver solo aiutato i fedeli a riconciliarsi con Dio. "Prima di mangiare - ha detto - voi vi lavate le mani. Allo stesso modo, prima di partecipare alla messa, noi ci laviamo riconciliandoci con Dio".
La preoccupazione delle autorità comuniste e le loro accuse si spiegano col fatto che la diocesi vede un grandissimo numero di conversioni, testimoniate da 50mila battesimi negli ultimi due anni.