Nella rassegna stampa di oggi:
- MESSAGGIO DI PASQUA DI BENEDETTO XVI - "Nella tua risurrezione, o Cristo, gioiscano i cieli e la terra"
- OMELIA DI BENEDETTO XVI NELLA VEGLIA PASQUALE - "La Chiesa non è una qualsiasi associazione che si occupa dei bisogni religiosi"
- Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - La forza di Gesù (la vita, la morte, quei 7 mila ragazzi e Caterina) - di Antonio Socci Da "Libero", 24 aprile 2011
- Dalla parte delle regole, per semplice realismo di Domenico Delle Foglie, Avvenire, 21 aprile 2011
- No all'autodeterminazione. Firmato Habermas - Nel libro «Il futuro della natura umana», di recente tradotto in Italia, il grande filosofo tedesco della scuola di Francoforte si appella all'etica per sostenere che il principio dell'assoluta disponibilità della vita è pericoloso per il futuro stesso del genere umano - di Maurizio Soldini, Avvenire, 21 aprile 2011
- Vita da tutelare anche per i minori - Sono illecite decicioni di genitori e tutori che portano al rifiuto della cura e che vanno contro la protezione della salute e della integrità di chi non ha ancora raggiunto la maggiore età. Ma per scongiurare qualunque situazione di abbandono terapeutico occorre poter attivare sempre le terapie necessarie - di Alberto Gambino, Avvenire, 21 aprile 2011
- Embrioni, la vita non si surgela - Per il magistero della Chiesa la crioconservazione non rispetta l'essere umano ed espone a gravi rischi. L'adozione pone vari problemi» anche se é lodevole nelle intenzioni di tutela, di Giacomo Samek Lodovici, Avvenire, 21 aprile 2011
- Sopravvive la neonata più piccola del mondo Germania, Avvenire, 24 aprile 2011 - La storia di Frieda: è venuta al mondo a sole 21 settimane, pesava 460 grammi ed era lunga 28 centimetri. Ma ce l'ha fatta lo stesso È la prima volta che una bambina così prematura riesce a salvarsi di Carlo Bellieni
MESSAGGIO DI PASQUA DI BENEDETTO XVI - "Nella tua risurrezione, o Cristo, gioiscano i cieli e la terra"
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 24 aprile 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il messaggio di Pasqua che Benedetto XVI ha rivolto dalla loggia centrale della Basilica di San Pietro in Vaticano a mezzogiorno della Domenica di Risurrezione.
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"In resurrectione tua, Christe, caeli et terra laetentur – Nella tua risurrezione, o Cristo, gioiscano i cieli e la terra" (Lit. Hor.).
Cari fratelli e sorelle di Roma e del mondo intero!
Il mattino di Pasqua ci ha riportato l'annuncio antico e sempre nuovo: Cristo è risorto! L'eco di questo avvenimento, partita da Gerusalemme venti secoli fa, continua a risuonare nella Chiesa, che porta viva nel cuore la fede vibrante di Maria, la Madre di Gesù, la fede di Maddalena e delle altre donne, che per prime videro il sepolcro vuoto, la fede di Pietro e degli altri Apostoli.
Fino ad oggi – anche nella nostra era di comunicazioni ultratecnologiche – la fede dei cristiani si basa su quell'annuncio, sulla testimonianza di quelle sorelle e di quei fratelli che hanno visto prima il masso rovesciato e la tomba vuota, poi i misteriosi messaggeri i quali attestavano che Gesù, il Crocifisso, era risorto; quindi Lui stesso, il Maestro e Signore, vivo e tangibile, apparso a Maria di Magdala, ai due discepoli di Emmaus, infine a tutti gli undici, riuniti nel Cenacolo (cfr Mc 16,9-14).
La risurrezione di Cristo non è il frutto di una speculazione, di un'esperienza mistica: è un avvenimento, che certamente oltrepassa la storia, ma che avviene in un momento preciso della storia e lascia in essa un'impronta indelebile. La luce che abbagliò le guardie poste a vigilare il sepolcro di Gesù ha attraversato il tempo e lo spazio. E' una luce diversa, divina, che ha squarciato le tenebre della morte e ha portato nel mondo lo splendore di Dio, lo splendore della Verità e del Bene.
Come i raggi del sole, a primavera, fanno spuntare e schiudere le gemme sui rami degli alberi, così l'irradiazione che promana dalla Risurrezione di Cristo dà forza e significato ad ogni speranza umana, ad ogni attesa, desiderio, progetto. Per questo il cosmo intero oggi gioisce, coinvolto nella primavera dell'umanità, che si fa interprete del muto inno di lode del creato. L'alleluia pasquale, che risuona nella Chiesa pellegrina nel mondo, esprime l'esultanza silenziosa dell'universo, e soprattutto l'anelito di ogni anima umana sinceramente aperta a Dio, anzi, riconoscente per la sua infinita bontà, bellezza e verità.
"Nella tua risurrezione, o Cristo, gioiscano i cieli e la terra". A questo invito alla lode, che si leva oggi dal cuore della Chiesa, i "cieli" rispondono pienamente: le schiere degli angeli, dei santi e dei beati si uniscono unanimi alla nostra esultanza. In Cielo tutto è pace e letizia. Ma non è così, purtroppo, sulla terra! Qui, in questo nostro mondo, l'alleluia pasquale contrasta ancora con i lamenti e le grida che provengono da tante situazioni dolorose: miseria, fame, malattie, guerre, violenze. Eppure, proprio per questo Cristo è morto ed è risorto! E' morto anche a causa dei nostri peccati di oggi, ed è risorto anche per la redenzione della nostra storia di oggi. Perciò, questo mio messaggio vuole raggiungere tutti e, come annuncio profetico, soprattutto i popoli e le comunità che stanno soffrendo un'ora di passione, perché Cristo Risorto apra loro la via della libertà, della giustizia e della pace.
Possa gioire la Terra che, per prima, è stata inondata dalla luce del Risorto. Il fulgore di Cristo raggiunga anche i Popoli del Medio Oriente, affinché la luce della pace e della dignità umana vinca le tenebre della divisione, dell'odio e delle violenze. In Libia la diplomazia ed il dialogo prendano il posto delle armi e si favorisca, nell'attuale situazione conflittuale, l'accesso dei soccorsi umanitari a quanti soffrono le conseguenze dello scontro. Nei Paesi dell'Africa settentrionale e del Medio Oriente, tutti i cittadini - ed in particolare i giovani - si adoperino per promuovere il bene comune e per costruire società, dove la povertà sia sconfitta ed ogni scelta politica risulti ispirata dal rispetto per la persona umana. Ai tanti profughi e ai rifugiati, che provengono da vari Paesi africani e sono stati costretti a lasciare gli affetti più cari arrivi la solidarietà di tutti; gli uomini di buona volontà siano illuminati ad aprire il cuore all'accoglienza, affinché in modo solidale e concertato si possa venire incontro alle necessità impellenti di tanti fratelli; a quanti si prodigano in generosi sforzi e offrono esemplari testimonianze in questa direzione giunga il nostro conforto e apprezzamento.
Possa ricomporsi la civile convivenza tra le popolazioni della Costa d'Avorio, dove è urgente intraprendere un cammino di riconciliazione e di perdono per curare le profonde ferite provocate dalle recenti violenze. Possano trovare consolazione e speranza la terra del Giappone, mentre affronta le drammatiche conseguenze del recente terremoto, e i Paesi che nei mesi scorsi sono stati provati da calamità naturali che hanno seminato dolore e angoscia.
Gioiscano i cieli e la terra per la testimonianza di quanti soffrono contraddizioni, o addirittura persecuzioni per la propria fede nel Signore Gesù. L'annuncio della sua vittoriosa risurrezione infonda in loro coraggio e fiducia.
Cari fratelli e sorelle! Cristo risorto cammina davanti a noi verso i nuovi cieli e la terra nuova (cfr Ap 21,1), in cui finalmente vivremo tutti come un'unica famiglia, figli dello stesso Padre. Lui è con noi fino alla fine dei tempi. Camminiamo dietro a Lui, in questo mondo ferito, cantando l'alleluia. Nel nostro cuore c'è gioia e dolore, sul nostro viso sorrisi e lacrime. Così è la nostra realtà terrena. Ma Cristo è risorto, è vivo e cammina con noi. Per questo cantiamo e camminiamo, fedeli al nostro impegno in questo mondo, con lo sguardo rivolto al Cielo.
Buona Pasqua a tutti!
[© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana]
OMELIA DI BENEDETTO XVI NELLA VEGLIA PASQUALE - "La Chiesa non è una qualsiasi associazione che si occupa dei bisogni religiosi"
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 24 aprile 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l'omelia che Benedetto XVI ha pronunciato nella Veglia della Notte Santa di Pasqua nella Basilica di San Pietro in Vaticano. Nella liturgia battesimale, il Papa ha battezzato sei catecumeni di diversi Paesi.
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Cari fratelli e sorelle!
Due grandi segni caratterizzano la celebrazione liturgica della Veglia Pasquale. C'è innanzitutto il fuoco che diventa luce. La luce del cero pasquale, che nella processione attraverso la chiesa avvolta nel buio della notte diventa un'onda di luci, ci parla di Cristo quale vera stella del mattino, che non tramonta in eterno – del Risorto nel quale la luce ha vinto le tenebre. Il secondo segno è l'acqua. Essa richiama, da una parte, le acque del Mar Rosso, lo sprofondamento e la morte, il mistero della Croce. Poi però ci si presenta come acqua sorgiva, come elemento che dà vita nella siccità. Diventa così l'immagine del Sacramento del Battesimo, che ci rende partecipi della morte e risurrezione di Gesù Cristo.
Della liturgia della Veglia Pasquale, tuttavia, fanno parte non soltanto i grandi segni della creazione, luce e acqua. Caratteristica del tutto essenziale della Veglia è anche il fatto che essa ci conduce ad un ampio incontro con la parola della Sacra Scrittura. Prima della riforma liturgica c'erano dodici letture veterotestamentarie e due neotestamentarie. Quelle del Nuovo Testamento sono rimaste. Il numero delle letture dell'Antico Testamento è stato fissato a sette, ma può, a seconda delle situazioni locali, essere ridotto anche a tre letture. La Chiesa vuole condurci, attraverso una grande visione panoramica, lungo la via della storia della salvezza, dalla creazione attraverso l'elezione e la liberazione di Israele fino alle testimonianze profetiche, con le quali tutta questa storia si dirige sempre più chiaramente verso Gesù Cristo. Nella tradizione liturgica tutte queste letture venivano chiamate profezie. Anche quando non sono direttamente preannunci di avvenimenti futuri, esse hanno un carattere profetico, ci mostrano l'intimo fondamento e l'orientamento della storia. Esse fanno in modo che la creazione e la storia diventino trasparenti all'essenziale. Così ci prendono per mano e ci conducono verso Cristo, ci mostrano la vera Luce.
Il cammino attraverso le vie della Sacra Scrittura comincia, nella Veglia Pasquale, con il racconto della creazione. Con ciò la liturgia vuole dirci che anche il racconto della creazione è una profezia. Non è un'informazione sullo svolgimento esteriore del divenire del cosmo e dell'uomo. I Padri della Chiesa ne erano ben consapevoli. Non intesero tale racconto come narrazione sullo svolgimento delle origini delle cose, bensì quale rimando all'essenziale, al vero principio e al fine del nostro essere. Ora, ci si può chiedere: ma è veramente importante nella Veglia Pasquale parlare anche della creazione? Non si potrebbe cominciare con gli avvenimenti in cui Dio chiama l'uomo, si forma un popolo e crea la sua storia con gli uomini sulla terra? La risposta deve essere: no. Omettere la creazione significherebbe fraintendere la stessa storia di Dio con gli uomini, sminuirla, non vedere più il suo vero ordine di grandezza. Il raggio della storia che Dio ha fondato giunge fino alle origini, fino alla creazione. La nostra professione di fede inizia con le parole: "Credo in Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra". Se omettiamo questo primo articolo del Credo, l'intera storia della salvezza diventa troppo ristretta e troppo piccola. La Chiesa non è una qualsiasi associazione che si occupa dei bisogni religiosi degli uomini, ma che ha, appunto, lo scopo limitato di tale associazione. No, essa porta l'uomo in contatto con Dio e quindi con il principio di ogni cosa. Per questo Dio ci riguarda come Creatore, e per questo abbiamo una responsabilità per la creazione. La nostra responsabilità si estende fino alla creazione, perché essa proviene dal Creatore. Solo perché Dio ha creato il tutto, può darci vita e guidare la nostra vita. La vita nella fede della Chiesa non abbraccia soltanto un ambito di sensazioni e di sentimenti e forse di obblighi morali. Essa abbraccia l'uomo nella sua interezza, dalle sue origini e in prospettiva dell'eternità. Solo perché la creazione appartiene a Dio, noi possiamo far affidamento su di Lui fino in fondo. E solo perché Egli è Creatore, può darci la vita per l'eternità. La gioia per la creazione, la gratitudine per la creazione e la responsabilità per essa vanno una insieme all'altra.
Il messaggio centrale del racconto della creazione si lascia determinare ancora più precisamente. San Giovanni, nelle prime parole del suo Vangelo, ha riassunto il significato essenziale di tale racconto in quest'unica frase: "In principio era il Verbo". In effetti, il racconto della creazione che abbiamo ascoltato prima è caratterizzato dalla frase che ricorre con regolarità: "Dio disse…". Il mondo è un prodotto della Parola, del Logos, come si esprime Giovanni con un termine centrale della lingua greca. "Logos" significa "ragione", "senso", "parola". Non è soltanto ragione, ma Ragione creatrice che parla e che comunica se stessa. È Ragione che è senso e che crea essa stessa senso. Il racconto della creazione ci dice, dunque, che il mondo è un prodotto della Ragione creatrice. E con ciò esso ci dice che all'origine di tutte le cose non stava ciò che è senza ragione, senza libertà, bensì il principio di tutte le cose è la Ragione creatrice, è l'amore, è la libertà. Qui ci troviamo di fronte all'alternativa ultima che è in gioco nella disputa tra fede ed incredulità: sono l'irrazionalità, l'assenza di libertà e il caso il principio di tutto, oppure sono ragione, libertà, amore il principio dell'essere? Il primato spetta all'irrazionalità o alla ragione? È questa la domanda di cui si tratta in ultima analisi. Come credenti rispondiamo con il racconto della creazione e con san Giovanni: all'origine sta la ragione. All'origine sta la libertà. Per questo è cosa buona essere una persona umana. Non è così che nell'universo in espansione, alla fine, in un piccolo angolo qualsiasi del cosmo si formò per caso anche una qualche specie di essere vivente, capace di ragionare e di tentare di trovare nella creazione una ragione o di portarla in essa. Se l'uomo fosse soltanto un tale prodotto casuale dell'evoluzione in qualche posto al margine dell'universo, allora la sua vita sarebbe priva di senso o addirittura un disturbo della natura. Invece no: la Ragione è all'inizio, la Ragione creatrice, divina. E siccome è Ragione, essa ha creato anche la libertà; e siccome della libertà si può fare uso indebito, esiste anche ciò che è avverso alla creazione. Per questo si estende, per così dire, una spessa linea oscura attraverso la struttura dell'universo e attraverso la natura dell'uomo. Ma nonostante questa contraddizione, la creazione come tale rimane buona, la vita rimane buona, perché all'origine sta la Ragione buona, l'amore creatore di Dio. Per questo il mondo può essere salvato. Per questo possiamo e dobbiamo metterci dalla parte della ragione, della libertà e dell'amore – dalla parte di Dio che ci ama così tanto che Egli ha sofferto per noi, affinché dalla sua morte potesse sorgere una vita nuova, definitiva, risanata.
Il racconto veterotestamentario della creazione, che abbiamo ascoltato, indica chiaramente quest'ordine delle realtà. Ma ci fa fare un passo ancora più avanti. Ha strutturato il processo della creazione nel quadro di una settimana che va verso il Sabato, trovando in esso il suo compimento. Per Israele, il Sabato era il giorno in cui tutti potevano partecipare al riposo di Dio, in cui uomo e animale, padrone e schiavo, grandi e piccoli erano uniti nella libertà di Dio. Così il Sabato era espressione dell'alleanza tra Dio e uomo e la creazione. In questo modo, la comunione tra Dio e uomo non appare come qualcosa di aggiunto, instaurato successivamente in un mondo la cui creazione era già terminata. L'alleanza, la comunione tra Dio e l'uomo, è predisposta nel più profondo della creazione. Sì, l'alleanza è la ragione intrinseca della creazione come la creazione è il presupposto esteriore dell'alleanza. Dio ha fatto il mondo, perché ci sia un luogo dove Egli possa comunicare il suo amore e dal quale la risposta d'amore ritorni a Lui. Davanti a Dio, il cuore dell'uomo che gli risponde è più grande e più importante dell'intero immenso cosmo materiale che, certamente, ci lascia intravedere qualcosa della grandezza di Dio. A Pasqua e dall'esperienza pasquale dei cristiani, però, dobbiamo ora fare ancora un ulteriore passo. Il Sabato è il settimo giorno della settimana. Dopo sei giorni, in cui l'uomo partecipa, in un certo senso, al lavoro della creazione di Dio, il Sabato è il giorno del riposo. Ma nella Chiesa nascente è successo qualcosa di inaudito: al posto del Sabato, del settimo giorno, subentra il primo giorno. Come giorno dell'assemblea liturgica, esso è il giorno dell'incontro con Dio mediante Gesù Cristo, il quale nel primo giorno, la Domenica, ha incontrato i suoi come Risorto dopo che essi avevano trovato vuoto il sepolcro. La struttura della settimana è ora capovolta. Essa non è più diretta verso il settimo giorno, per partecipare in esso al riposo di Dio. Essa inizia con il primo giorno come giorno dell'incontro con il Risorto. Questo incontro avviene sempre nuovamente nella celebrazione dell'Eucaristia, in cui il Signore entra di nuovo in mezzo ai suoi e si dona a loro, si lascia, per così dire, toccare da loro, si mette a tavola con loro. Questo cambiamento è un fatto straordinario, se si considera che il Sabato, il settimo giorno come giorno dell'incontro con Dio, è profondamente radicato nell'Antico Testamento. Se teniamo presente quanto il corso dal lavoro verso il giorno del riposo corrisponda anche ad una logica naturale, la drammaticità di tale svolta diventa ancora più evidente. Questo processo rivoluzionario, che si è verificato subito all'inizio dello sviluppo della Chiesa, è spiegabile soltanto col fatto che in tale giorno era successo qualcosa di inaudito. Il primo giorno della settimana era il terzo giorno dopo la morte di Gesù. Era il giorno in cui Egli si era mostrato ai suoi come il Risorto. Questo incontro, infatti, aveva in sé qualcosa di sconvolgente. Il mondo era cambiato. Colui che era morto viveva di una vita, che non era più minacciata da alcuna morte. Si era inaugurata una nuova forma di vita, una nuova dimensione della creazione. Il primo giorno, secondo il racconto della Genesi, è il giorno in cui prende inizio la creazione. Ora esso era diventato in un modo nuovo il giorno della creazione, era diventato il giorno della nuova creazione. Noi celebriamo il primo giorno. Con ciò celebriamo Dio, il Creatore, e la sua creazione. Sì, credo in Dio, Creatore del cielo e della terra. E celebriamo il Dio che si è fatto uomo, ha patito, è morto ed è stato sepolto ed è risorto. Celebriamo la vittoria definitiva del Creatore e della sua creazione. Celebriamo questo giorno come origine e, al tempo stesso, come meta della nostra vita. Lo celebriamo perché ora, grazie al Risorto, vale in modo definitivo che la ragione è più forte dell'irrazionalità, la verità più forte della menzogna, l'amore più forte della morte. Celebriamo il primo giorno, perché sappiamo che la linea oscura che attraversa la creazione non rimane per sempre. Lo celebriamo, perché sappiamo che ora vale definitivamente ciò che è detto alla fine del racconto della creazione: "Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona" (Gen 1,31). Amen.
[© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana]
Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - La forza di Gesù (la vita, la morte, quei 7 mila ragazzi e Caterina) - di Antonio Socci Da "Libero", 24 aprile 2011
Tutti nel mondo, in questi mesi, vedono tumulti, catastrofi e caos. Analisti e media brancolano nel buio. Tutto dà segno di disfacimento. Un invisibile tsunami ci sta travolgendo.
Eppure io conosco i segni di una primavera nascosta. Ma bisogna volgere lo sguardo altrove. Bisogna accorgersi di qualcosa che sta accadendo nel silenzio, lontano dai riflettori.
Come quando stava crollando l'impero romano e sembrava vi fossero solo le rovine e le orde barbariche e i lupi che infestavano ogni luogo: invece qualcuno silenziosamente stava piantando il seme di una nuova civiltà e della città di Dio.
Dunque non guardate dove guardano tutti i media, cioè verso le rovine, perché la novità e la speranza non vengono dalla politica, dall'economia, dagli stati, dagli intellettuali, dagli eserciti o dalle sedicenti rivoluzioni.
La novità vera sembra fragile e silenziosa come le gemme che spuntano a rinnovare la vita di un bosco.
Dice Péguy che quando vedi una gemma ti sembra una cosa tanto piccola e fragile che sembra insignificante confrontata alla grande foresta.
Eppure senza quella gemma tutta quella foresta secca non sarebbe che legna da ardere, non sarebbe che un cimitero. Non avrebbe alcuna speranza.
E dunque oggi voglio raccontarvi come spunta una gemma nella foresta morta. Una gemma che sfida lo tsunami del tempo, del dolore e della morte.
Un fatto strano
Immaginate 7 mila giovani fra i 19 e i 15 anni. E pensateli a Rimini, sulla riva del mare. Di sicuro vi viene in mente un gran baccano.
Invece questa immensa folla di giovani sulla sponda dell'infinito era in un silenzio assoluto e commosso, che lasciava sentire la brezza e il rumore delle onde.
E' accaduto venerdì scorso, venerdì santo, dalle ore 13 alle 18. Settemila giovani dietro a una croce. Anzi dietro al "più bello fra i figli dell'uomo", dietro all'Inimmaginabile, dietro all'unico uomo veramente affascinante della storia.
L'unico re, umile e veramente potente. L'unico amico fedele, l'unico che ha pietà di noi uomini.
Non crediate che si tratti di extraterrestri. Sono i nostri figli. Frequentano licei e istituti tecnici. Sono normalissimi ragazzi italiani dell'anno di grazia 2011.
Volti normali, abbigliamento tipico della loro generazione, chi col piercing, chi con la coda di cavallo, chi col bordo delle mutande che spunta sotto i jeans.
Non sono ragazzi che non fanno peccati, anzi sono qui proprio perché – come tutti gli altri – li fanno: sono venuti per questo, perché sentono il bisogno dell'abbraccio di un Padre buono, che perdona, di un Amico grande, che non tradisce mai e che medica le loro ferite.
Non sono qui perché non s'innamorano: ma, al contrario, sono qui proprio perché s'innamorano e vogliono capire chi e cosa mai potrà colmare questa loro sete d'amore che è più grande del mare, più immensa, più misteriosa e profonda dei suoi fondali.
Il loro raduno – organizzato da Gioventù studentesca (CL) – era cominciato il giovedì santo, alla fiera di Rimini, proprio con le immagini dello tsunami in Giappone avvolte da una musica che struggeva il cuore.
Don Eugenio Nembrini ha suggellato quelle immagini con una domanda che mette ognuno con le spalle al muro: "che cosa sta in piedi nella vita?".
Tutto infatti è spazzato via dal tempo e dalla morte. Tutto. Anche il potere più formidabile è ridotto in polvere e non resta nulla.
E così sembra che non valga la pena vivere o pare che si possa vivere solo cinicamente.
Ma invece don Julian Carron ha esortato questi settemila giovani a non rassegnarsi: "sentire urgere dentro di sé le esigenze di felicità, di bellezza, di giustizia, di amore, di verità, sentirle vibrare, ribollire in ogni fibra del nostro essere" e "prenderle sul serio è 'la' decisione più grande della vita".
E' l'avventura degli audaci: "per gente viva, libera, capace di volersi veramente bene. Per gente che vuol vivere all'altezza dell'ideale a cui il cuore spinge senza sosta".
Ma cosa può restare in piedi e resistere alla distruzione del tempo, del dolore, del male e della morte?
Il motto degli antichi monaci certosini diceva: "Stat Crux dum volvitur orbis". Che vuol dire: solo l'uomo della Croce rimane invincibile, mentre tutto nel mondo passa e tutto crolla.
Resta solo il potere dell'Amore, di "Colui che ha preso sulle sue spalle la croce di ognuno di noi, Colui che ha portato tutte le croci del mondo", come ha detto don Eugenio.
"Lascieretelo voi?�
L'immensa via crucis dei giovani sfilava in silenzio dietro la croce fra gli alberi del parco Marecchia a Rimini, verso il ponte di Tiberio, fra le note sublimi dello "Stabat mater" di Pergolesi, poi dell'antico canto polifonico "O cor soave/ cor del mio Signore…".
Un passante, in bicicletta, si è fermato sbalordito e ha chiesto: "ma chi siete? Cosa state facendo?".
Un ragazzo del "servizio d'ordine" gli ha risposto: "siamo studenti, è venerdì santo: stiamo facendo la Via crucis". Quell'uomo, commosso, si è messo in ginocchio e ha mormorato: "Dio sia benedetto!".
Intanto quella fiumana di giovinezza si era fermata a una nuova stazione. Per il lungo cammino qualcuno in fondo si distrae e parlotta.
Ma quando viene letto il vangelo della crocifissione e alla fine don Eugenio dice: "Cristo ha dato la vita per noi e muore per noi", tutti tacciono di colpo e come un'onda silenziosa si inginocchiano commossi.
Proprio tutti i settemila giovani: sono stati cinque minuti infiniti di silenzio che hanno abbracciato il loro cuore e il mondo, tutti i destini e tutto il tempo, da Adamo al Giudizio universale.
Poi il coro, un meraviglioso coro di ragazzi, ha intonato una laude cinquecentesca a quattro voci che lacera l'anima: "Cristo al morir tendea".
L'intreccio fantastico delle voci ripete le parole che secondo l'autore Maria ha rivolto agli amici di Gesù: "Or, se per trarvi al ciel dà l'alma e 'l core,/ Lascieretelo voi per altro amore?".
Prosegue così: "ben sa, ben sa che fuggirete/ di gran timore e al fin vi nascondrete/ Ed ei pur come Agnel che tace e muore/ svenerassi per voi d'immenso amore".
Quel canto si conclude con questa strofa: "Dunque diletti miei/ se a dura croce, in man d'iniqui e rei/ dà per salvarvi 'l sangue e l'alma e 'l core/ Lascieretelo voi per altro amore?".
E' un canto a cui sono personalmente affezionato anche perché è uno dei prediletti della mia Caterina.
Caterina è cresciuta in questa stupenda compagnia che fa ardere i cuori dei giovani per la Bellezza e la Verità. E' stata educata da gesti così.
Una mano potente
E quando uno tsunami violentissimo ha investito la sua giovane vita e tutti pensavano e dicevano che ormai non c'era più niente da fare, che Caterina non c'era più, una mano potente l'ha afferrata, quella del Re umile che tante volte lei aveva cantato, e la sua mano benedetta e invincibile l'ha fatta riemergere dall'oceano oscuro del coma. Anzitutto attraverso la voce e i volti di chi l'ama perdutamente.
Ora Caterina sta nuotando verso riva: è una traversata defatigante e durissima, ma una grande catena umana la sostiene: quella compagnia che è il volto e la carezza del Nazareno nel mondo.
Dalla sua faticosa croce Caterina partecipa alla salvezza del mondo. "La Bellezza salverà il mondo", annunciava Dostoevskij, e lei è parte di questa Bellezza.
Diversi di quei ragazzi presenti a Rimini nei mesi scorsi mi avevano scritto, colpiti e commossi dalla storia di Caterina e dal suo sorriso, dal suo canto, dai suoi amici e dall'amore del suo ragazzo che è più forte della morte e dello tsunami.
Per molti di loro Caterina è diventata una sorta di eroina, ben più ammirabile dei miti e dei mitomani imposti dai media, dalla politica, dai giornali.
Ma la forza di Caterina è la stessa che ha portato loro lì a Rimini, che fa fiorire la primavera, che dà senso alla vita, che ha ispirato a Michelangelo la Pietà, che commuove i cuori e muove le galassie. La forza di Colui che ha vinto il mondo e ha vinto la morte.
Dalla parte delle regole, per semplice realismo di Domenico Delle Foglie, Avvenire, 21 aprile 2011
Il confronto sul fine vita esemplare per il rapporto tra credenti e vita pubblica: occorre evitare l'utopia e guardare in faccia quello che è accaduto, lavorando a una sintesi alta tra ciò in cui si crede e quanto è possibile fare per il bene di tutti. Seguendo la lezione del Papa per il quale la politica è «equilibrio tra ideali e interessi.
Fortunato e saggio e colui che possiede la forza di accettare le cose che non può cambiare, il coraggio di cambiare quello che può, il buon senso di distinguere le une dalle altre». Le parole di un campione del realismo cristiano come sant'Agostino ci sembravano le piu adeguate a descrivere la disposizione che dovrebbe guidare sia il legislatore alle prese con le Dat (Dichiarazione anticipate di trattamento) sia gli intellettuali e il popolo che sono chiamati a farsi un'opinione delicata su una rnateria cosi complessa come il fine-vita. Per non dire dello stato d'animo di chi viene costantemente criticato per il solo fatto di immaginare che una legge dello Stato possa intervenire a limitare i danni causati da una giurisprudenza creativa.
Non si contano ormai le colonne (una volta si sarebbe detto di piombo, scritte dagli "intransigenti", spesso supercattolici, rivolte di solito come armi contundenti contro credenti e non credenti che in parlamento
e nello spazio pubblico, sostengono che una legge sul fine-vita, qui e ora, si è resa necessaria. Un'affermazione maturata attraverso una lettura semplicemente realistica di quanto in Italia è accaduto. Forse oggi nessuno di noi, ragionevolmente, invocherebbe una legge dello Stato sul fine-vita se una volontà privata non avesse mosso un tribunale a esprimersi e non avesse ottenuto quanto era considerato impossibile, inopportuno e illegale: interrompere l'alimentazione e l'idratazione di una persona in condizione di gravissima disabilità, sulla base di una sua volontà presunta e discutibilmente ricostruita in un'aula di tribunale.
Chi si rifugia nelle affermazioni ideali e nelle intransigenze religiose, e chi invece si lascia guidare dal dubbio che una legge possa aprire spiragli a un nuovo infinito contenzioso giudiziario, sembra non voler fare i conti con il dato di realtà. Un fatto è accaduto e una persona in carne e ossa (nulla di più reale) è morta perché qualcuno non le ha somministrato l'essenziale per vivere: cibo e acqua. Solo questa consapevolezza della realtà dovrebbe, di suo, spingere a considerare realistica la predisposizione di una norma di salvaguardia sul fine-vita. Ma volete mettere l'impagabile soddisfazione, per gli "intransigenti" di poter riaffermare il proprio intangibile punto di vista, contro i "cedimenti" di quanti difendono norme "laiche" che producono il danno minore, di quanti hanno la consapevolezza che non esistono leggi "cattoliche" ma solo leggi fatte dagli uomini e perciò perfettibili?
Per citare ancora la lezione di sant'Agostino, noi tutti dovremmo alimentare la consapevolezza dell'antiperfettismo che dovrebbe guidare come una stella polare chiunque occupi un seggio in Parlamento ma anche una cattedra pubblica, o uno spazio giornalistico: ovvero, la coscienza che ciascuno, anche nella costruzione di una legge, non può che approssimarsi al bene in una condizione di umana imperfezione. Questa consapevolezza non frena chi vuole costruire il bene, anche nel caso della legge sul fine-vita, ma ne guida l'intelligenza verso quella prospettiva cosi ben delineata da Benedetto XVI, quando afferma che la politica è «una complessa arte di equilibrio tra ideali e interessi».
Nessuno di noi si nasconde il rischio insito nel realismo politico di scadere nel più bieco cinismo che tutto giustifica e tutto fa digerire a un'opinione pubblica spesso distratta, ma neppure possiamo piegarci al suo opposto: l'idealismo astratto che può persino tracimare — è già accaduto nella storia moderna — nell'utopismo violento e talvolta totalitario. Ecco, cercare la sintesi tra ideali e interessi, secondo la formula di Benedetto XVI è quanto dovremmo fare tutti, legislatori, esperti, comunicatori, opinione pubblica, anche nel caso della legge sul fine-vita. Armati del realismo cristiano che non ci farà mai dire che questa o quella legge sono "cattoliche", ma che ci può dare «la forza di accettare le cose che non possiamo cambiare, il coraggio di cambiare quello che possiamo cambiare, il buon senso di distinguere le une dalle altre». E' già accaduto nel passato democratico del Paese e del cattolicesimo italiano. Senza eccessi d'isteria, senza improvvisati Aventini, senza inopportune e antieroiche fughe dalla realtà.
No all'autodeterminazione. Firmato Habermas - Nel libro «Il futuro della natura umana», di recente tradotto in Italia, il grande filosofo tedesco della scuola di Francoforte si appella all'etica per sostenere che il principio dell'assoluta disponibilità della vita è pericoloso per il futuro stesso del genere umano - di Maurizio Soldini, Avvenire, 21 aprile 2011
Il filosofo tedesco Jurgen Habermas nel libro Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, pubblicato nel 2001, proposto in traduzione italiana da Einaudi nel 2002 e riproposto nel 2010, si interroga sul futuro del genere umano in considerazicne dei possibili guasti, biologici ma non solo, che potrebbe creare una scienza genetica <liberata» in una prospettiva liberale, La genetica liberale, che permetta di modificare i geni dell'embrione e di fare esperimenti «liberi» da qualsiasi vincolo sull'embrione, ovvero sull'essere umano all'inizio della sua esistenza, è per Habermas uno spettro di cui dobbiamo liberarci. In una prospettiva pur sempre liberale, più precisamente kantiana, ma tenendo in considerazione le movenze kierkegaardiane proprie di una visione esistenzialista e personalista dell'essere umano, Habermas, argomentando su questioni che riguardano l'inizio della vita, arriva a conclusioni che sconvolgono le posizioni liberali, che oggi sembrano prevalere nel dibattito bioetico di matrice laica soprattutto nel nostro Paese. Infatti il filosofo della scuola di Francoforte mette in evidenza come il principio di autodeterminazione, che non può essere presente all'inizio della vita, quando l'essere umano non è in grado di prendere decisioni per se stesso, non può essere surrogato per una serie di argomenti che qui per non appesantire il discorso non riportiamo.
Habermas sostiene che (le finalità terapeutiche, cui tutti gli interventi di ingegneria genetica dovrebbero attenersi, pongono limiti precisi a qualunque tipo di operazione. Un terapeuta deve mettersi in rapporto con seconde persone e darne sempre come presupposto il consenso informato.
Habermas richiama, piuttosto, sull'onda lunga del pensiero di un altro famoso filosofo, Hans Jonas, a una responsabilità intesa a non alterare la natura umana attraverso interventi di una scienza che non sia rispettosa della natura umana stessa, che tra l'altro implica anche uguaglianza casuale che si ha alla nascita. Le conseguenze del pensiero di Habermas sono molto interessanti nel momento in cui giungono alla conclusione che la vita all'inizio del percorso esistenziale è indisponibile. Ma vi è di più nella posizione assunta dal nostro pensatore, nel momento in cui afferma che «sembra che la domanda filosofica originaria circa la vita giusta si ripresenti oggi sul piano della universalità antropologica. Nella nostra post-modernità quasi tutte le figure morali, soprattutto quelle che si richiamano ad un politicamente corretto» che altro non è che relativismo sembrerebbero astenersi dal proporre modelli vincolanti di vita buona», Habermas apre in tale frangente alla problematica etica classica dell'universalità antropologica, convinto che l'etica dovrebbe muovere alla ricerca della vita buona», Il filosofo, seppure da un punto di vista liberale e soprattutto laico, e come egli stesso afferma in un orizzonte post—metafisico, sottolinea l'importanza della dimensione antropologica e l'opportunità di ritornare all'orizzonte dell'etica classica della ricerca della vita buona» per garantire a tutti i cittadini in primis un'uguaglianza di partenza.
L'indisponibilità della vita secondo Habermas trova punti di contatto e di apertura dialogica, ma soprattutto di convergenze pratiche, con la sacralità della vita. Ma al di là di questo importante assunto, il filosofo tedesco apre in modo molto forte in una dimensione pratica all'etica della «vita buona», che fa parte della tradizione metafisica aristotelica e tommasiana.
Inoltre, tra i tanti messaggi da recepire nella posizione di Habermas, c'è l'invito forte a un ripensamento da parte di coloro che si professano bioeticisti laici e liberali. Ripensamento a rivedere la natura della bioetica che tanto per iniziare non dovrebbe essere più ancorata a steccati ideologici e strumentali, come la divisione nelle cosiddette bioetica laica e bioetica cattolica. La bioetica, oggi più che mai, ha bisogno di un fondamento antropologico e pratico e di un dialogo costruttivo che sappiano universalizzare il valore della vita e ancor più della vita buona».
Vita da tutelare anche per i minori - Sono illecite decisioni di genitori e tutori che portano al rifiuto della cura e che vanno contro la protezione della salute e della integrità di chi non ha ancora raggiunto la maggiore età. Ma per scongiurare qualunque situazione di abbandono terapeutico occorre poter attivare sempre le terapie necessarie - di Alberto Gambino, Avvenire, 21 aprile 2011
Il tema nevralgico del consenso informato, che la legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat)
ritiene necessaiio per attivare i trattamenti sanitari merita un supplemento di riflessione specie quando si tratti della salute e della Vita di minori. Attualmente il nostro ordinamento non prevede alcuna norma che assegni ai soggetti esercenti la potestà genitoriale (e al tutore nel caso di incapaci maggiorenni il potere di decidere dei trattamenti terapeutici da somministrare. lnoltre, prima del caso Englaro, la giurisprudenza riteneva che non fosse ammissibile esercitare poteri rappresentativi rispetto alle decisioni sulle cure, in quanto, secondo il dettato costituzionale, ragioni di solidarietà imporrebbero di praticare in ogni caso le cure mediche necessarie a chi non sia in grado di consentirvi. Dopo il caso Englaro, si è aperto un varco per gli incapaci maggiorenni: il tutore può fungere da alter ego nella relazione con il sanitario, così da rappresentare i desideri e le scelte del suo assistito. Per il minore le cose stanno in modo diverso, in quanto gli stessi desideri di quest'ultimo, ove sia in grado di esprimerli, scontano comunque una non piena maturità, dovuta proprio alla giovane età, con la conseguenza che, ove volti al rifiuto delle cure, non possono condizionare le scelte di chi ne ha la tutela, il quale ha l'obbligo legale di proteggere la salute e la vita dei figli. Sono dunque illecite decisioni di rifiuto di cura che vanno comro la protezione della vita e della salute del minore.
La legge in discussione alla Camera prevede che tanto nel caso di consenso inforrnato espresso dal tutore per i soggetti incapaci, quanto per quello espresso dal genitore per i figli, tali decisioni non possarro giammai pregiudicare la salute dell'assistito, così parificando le due situazioni e perciò riassegnando anche al tutore pieni compiti di protezione della salute del suo assistito, in contrasto con la decisione del caso Englaro, che aveva consentito proprio al tutore di sospendere un presidio vitale.
Proprio questa appare, dunque, l'ancora di salvataggio per scongiurare ipotesi di abbandono terapeutico. Ma cosa accade concretameme se cornunque il conserlso non viene espresso, anche se cio fosse doveroso in quanto necessario per la salvaguardia della salute dellassistito? Il medico può attivarsi autonomamente?
In effetti in questo caso, prima di agire, il medico dovrebbe ottenere un'autorizzazione giudiziaria, avendo l'obbligo di
attivare la terapia solo in casi di complicanze gravi ed eventi acuti.
Ma nel caso della tutela di un maggiorenne, la concrera possibilita di un'inerzia colpevole del tutore è scongiurata dalla percezione del medico e talvolta dalle stesse residue capacità dell'assistito, in grado di allertare sul perpetrarsi di una decisione illecita da parte del tutore, con la conseguente attivazione di iniziative volte a ottenere l'autorizzazione giudiziaria. Così del resto, anche nel caso di quei minori di età in grado di esprimere desideri e preferenze, il disegno di legge obbliga ad ascoltare attentamente, si rende evidente l'eventuale illiceità del comportamento dell'esercente la potestà, con i conseguenti provvedimenti del giudice della tutela. Mentre appare del tutto diversa la vicenda del minore incapace di esprimersi compiutameme o non in grado di farlo.
In questi casi, ancorchè la legge preveda che la decisione del genitore sia comunque volta alla salvaguardia della salute del minore, l'assenza di un alter ego effettivo a chi prenderà la decisione, ove coincida com una scarsa sensibilizzazione della struttura di cura, potrebbe comportare vere e proprie situazioni di abbandono terapeutico (per esempio i neonati prematuri). Per scongiurare tali zone grigie, senza tutela effettiva, occorre allora prevedere che in caso di minore di età incapace di rappresentare desideri e scelte, non sia richiesto il consenso informato dei genitori per attivare una terapia necessaria.
Embrioni, la vita non si surgela - Per il magistero della Chiesa la crioconservazione non rispetta l'essere umano ed espone a gravi rischi. L'adozione pone vari problemi» anche se é lodevole nelle intenzioni di tutela, di Giacomo Samek Lodovici, Avvenire, 21 aprile 2011
La posizione della Chiesa in merito ai dibattiti sul modo eticamente giusto di trattare gli embrioni congelati dopo la fecondazione artificiale è esposta, specialmente, nell'istruzione Dignitas personae (d'ora in poi Dp) del 2008.
L'architrave di Dp è l'incommensurabile preziosità dell'uomo, che è persona dal concepimento e a cui pertanto va riconosciuta un'inviolabilità assoluta. In tal senso, i progressi nel campo della generazione «sono certamente positivi quando servono a superare o a correggere patologie», ma sono negativi [. . .] quando implicano la soppressione di esseri umani o usano mezzi che ledono la dignità della persona» o quando calpestano «la specificità degli atti personali che trasmettono la vita», Perciò, la Dp biasima decisamente la fecondazione artificiale sia perché i suoi insuccessi comportano la morte di un numero impressionante di esseri umani, sia perché dissocia la procreazione dall'atto coniugale, «La procreazione umana è un atto personale che non sopporta alcun tipo di delega sostitutiva», pena trasformare la generazione di una persona in una fabbricazione, che la riduce al rango di cosa, di prodotto, invece che rispettarla e onorarla nella sua dignità.
Questa fabbricazione è attuata da atti di terze persone «la cui competenza e attività tecnica determinano il successo dell'intervento; essa affida la vita e l'identità dell'embrione al potere dei medici e dei biologi e instaura un dominio della tecnica sull'origine e sul destino della persona umana. Una siffatta relazione di dominio é in sé contraria alla dignità e all'uguaglianza che dev'essere comune a genitori e figli».
Quanto alla crioconservazione degli embrioni, essa è, di fatto, un congelamento di uomini, dunque è anzitutto «incompatibile con il rispetto [loro] dovuto»; inoltre «li espone a gravi rischi di morte o di danno per la loro integrità fisica, in quanto un'alta percentuale non sopravvive alla procedura di congelamento e di scongelamento; li priva almeno temporaneamente dell'accoglienza e della gestazione materna; li pone in una situazione suscettibile di ulteriori offese e manipolazioni».
Ma come agire con questi esseri umani già congelati? Qualsiasi loro utilizzo é gravemente malvagio, perché li tratta come cose, come materiali e, da ultimo li uccide. Circa poi il controverso tema dell'adozione di questi embrioni, Dp fa un breve accenno, dicendo che essa é «lodevole nelle intenzioni di rispetto e di difesa della vita umana», ma rappresenta tuttavia vari problemi» non dissimili da quelli della fecondazione eterologa.
Quest'ultima lede, per esempio, il diritto di un uomo di scoprire la sua identità rispondendo alla domanda «chi sono?» (tale risposta dipende molto dal conoscere e crescere con i propri genitori biologici), e quello di conoscere le malattie che potrebbe ereditare, ed espone al rischio di sposare, senza saperlo, dei fratelli.
Insomma, per Dp, «le migliaia di embrioni in stato di abbandono determinano una situazione di ingiustizia di fatto irreparabile».
Sopravvive la neonata più piccola del mondo Germania, Avvenire, 24 aprile 2011 - La storia di Frieda: è venuta al mondo a sole 21 settimane, pesava 460 grammi ed era lunga 28 centimetri. Ma ce l'ha fatta lo stesso È la prima volta che una bambina così prematura riesce a salvarsi di Carlo Bellieni
La gravidanza di solito dura 40 settimane. La piccola Frieda è nata dopo appena 21; e 6 mesi dopo sta bene, secondo quanto affermano i medici. È accaduto a Fulda, in Germania. Quando è nata, Frieda misurava appena 28 centimetri e pesava solo 460 grammi. Uno scricciolo minuscolo ma dalla forza straordinaria: la piccola ha lottato con coraggio per vivere. E ce l'ha fatta. Ora Frieda sembra quasi una neonata "comune": pesa 3,5 chili ed è lunga 50 centimetri. Tanto da poter finalmente lasciare l'ospedale e l'ambiente sterile in cui è stata tenuta per tornare a casa. Non solo, secondo fonti dell'ospedale, la piccola dovrebbe avere uno sviluppo normale.
Non si erano ma verificati casi di sopravvivenza di bambini così piccoli. Anche perché tanti protocolli impongono di lasciarli morire senza una chance. E sicuramente non mancherà qualche commentatore "illuminato" che parlerà di accanimento terapeutico, ma che volete farci, i protocolli sono carta, la medicina fa passi da gigante e i critici hanno dovuto tacere. Detto questo, tre osservazioni. La prima è che non ci si deve illudere: nascere piccolissimi comporta un rischio di morte e di disabilità alti. I genitori devono saperlo per non sperare in una medicina miracolistica. Certo che questi rischi non dovrebbero far tralasciare l'obbligo ippocratico di dare a tutti una chance, che evidentemente i medici tedeschi in questo singolo caso avevano ritenuto possibile. Sempre che ci sia una possibilità razionale legata allo sviluppo e alle condizioni del bimbo.
Seconda cosa da rilevare è che, come riporta l'ultimo numero di "Pediatrics", esiste una chiara tendenza, almeno in Usa e Canada, a decidere se rianimare o meno i prematuri anche più grandi di Frieda, non sulla base del loro interesse reale, ma spesso soppesando altri fattori, come l'età della madre e lo stato sociale dei genitori. E questo non possiamo accettarlo perché le cure vanno fatte solo ed esclusivamente nell'interesse del paziente. Terzo punto è che, dato che la legge 194 sull'interruzione di gravidanza impone (salvo in caso di rischio per la vita materna) di non praticare aborti se il feto ha possibilità di sopravvivere, è chiaro che questa nascita ha fatto spostare questo limite sotto le 22 settimane, dato che la legge non parla di "certezza", ma di "possibilità" di vita autonoma del feto.