Nella rassegna stampa di oggi:
1) Dio ama anche te, "bestia" che hai stuprato tua figlia - Aldo Trento (Tempi) – dal sito pontifex.roma.it
2) DIFENDERE LA LIBERTÀ DI FRONTE ALL'IMPOSIZIONE DI UN MODELLO DI EDUCAZIONE SESSUALE - Incontro con lo psicopedagogo Ramón Novella
3) Cristiani in Medio Oriente. Chi va, chi viene - Le antiche comunità si assottigliano sempre più. Ma dall'Asia e dall'Africa arrivano nuovi fedeli, a milioni, soprattutto nel Golfo e in Arabia Saudita. Dove però la libertà religiosa continua a essere una chimera - di Sandro Magister
4) UN CASO GIUDIZIARIO ALLUCINANTE - Quando la folle macchina giudiziaria si trasforma in una trappola infernale - IL FOGLIO - giovedì 17 giugno 2010
5) La nonna: "Sogno di rivedere i miei nipoti" - «Quello che chiedo per il resto della mia vita è solo rivedere un giorno tutta la famiglia riunita con i miei nipoti. Dopo anni d’inferno». Lina Marchetti, madre di Lorena Morselli, è in lacrime. - http://gazzettadimodena.gelocal.it/dettaglio/i-coniugi-covezzi:-niente-vendette-ma-vite-rovinate/2079694
6) Il patriarca di Venezia al convegno del comitato scientifico di Oasis a Beirut - L'educazione come paideia - "L'educazione tra fede e cultura: esperienze cristiane e musulmane in dialogo" è il titolo del convegno del comitato scientifico di Oasis - la fondazione promossa dal patriarcato di Venezia con lo scopo di promuovere la mutua conoscenza e la comprensione tra cristiani e musulmani - che si tiene a Beirut il 21 e il 22 giugno. Settanta tra studiosi, uomini di religioni ed esperti mettono a confronto esperienze cristiane e musulmane sul tema della sfida educativa, che sembra incalzare inevitabilmente tutte le società. Tra i relatori, oltre al cardinale patriarca di Venezia, i cardinali Pierre Nasrallah Sfeir, patriarca di Antiochia dei Maroniti e Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Pubblichiamo ampi stralci della relazione pronunciata nella mattinata di oggi, lunedì 21, dal patriarca di Venezia sul tema "L'educazione come paideia: una proposta per il nostro tempo". - di Angelo Scola - L'Osservatore Romano - 21-22 giugno 2010
7) TESTIMONIANZA/ Macerata Loreto: in cammino per riscoprire il senso della vita - Alessandro Banfi - lunedì 14 giugno 2010 – ilsussidiario.net
8) Avvenire.it, 22 Giugno 2010 - L'insegnamento di Papa Benedetto - Come in solstizio: oltre la paura del buio - Marina Corradi
Dio ama anche te, "bestia" che hai stuprato tua figlia - Aldo Trento (Tempi) – dal sito pontifex.roma.it
Caro padre Aldo, ho abusato della mia figliastra, che vive con voi dopo che i servizi sociali l’hanno tolta da quello che era il mio focolare. Sono un mostro, sono come quel mostro che una delle sue bambine, che passò la stessa terribile esperienza di mia figlia, ha disegnato su quel foglio che lei mi ha dato qualche mese fa. Non sono degno di vivere tra gli uomini, e per questo ho tentato molte volte di farla finita… e non so perché Dio non me lo ha permesso. Non sopporto più di vivere, non me lo merito, mi sento un indemoniato, peggio delle bestie, che pur non avendo la ragione non arriverebbero a commettere quel che io, nella mia perversione, ho commesso. Non voglio che nessuno abbia pietà di me, non voglio nemmeno che mi si guardi, voglio solo che qualcuno mi tolga questa vita che non mi merito più. Padre, in questa mia disperazione, io, pedofilo, posso sperare che Dio mi perdoni? Padre, lei potrebbe ... avvicinarsi a me in carcere, anche senza guardarmi in faccia se la faccio vomitare, e pronunciare quelle parole semplici, le uniche che potrebbero darmi il diritto alla speranza: «Io ti assolvo dai tuoi peccati, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen. Vattene e non peccare più»? Padre, per favore, posso sperare di ascoltare queste parole e di vedere la sua mano tracciare davanti alla mia figura di mostro il segno della croce, l’unica cosa che ho imparato quando da bambino andavo a Messa, prima che io stesso fossi abusato molte volte da altre persone, fino a ridurmi a essere quello che sono? Padre, continuerò a essere per tutti un mostro, però per me sarebbe diverso passare la vita che mi rimane, giustamente in questo carcere, con la certezza di essere stato perdonato da Dio. Tutto sarebbe sopportabile se avessi la certezza che questo terribile crimine che ho commesso è stato perdonato da Dio, e che pur nella miseria della vita che respiro continuo a essere Figlio di Dio. Padre, la aspetto. Grazie.
Mirko
Per i farisei sarebbe impossibile rispondere a questa lettera, come anche per i moralisti che governano la cultura dominante. Invece per un miserabile peccatore come me che sperimenta ogni giorno la tenerezza della misericordia divina, è un’allegria. Faccio questa premessa così che i puritani, gli alfieri della morale, non si alzino in piedi ancora una volta gridandomi che sono pazzo. Il peccato è peccato, e il crimine è un crimine, la bestialità è la bestialità, e chi vive questi disordini è giusto che ne paghi le conseguenze. Non dimentichiamoci che se esiste l’Inferno è per questi motivi. In questo senso il mio cuore ringrazia infinitamente il Santo Padre per la posizione ferma che ha preso di fronte ai fatti accaduti nella nostra Chiesa cattolica, e porto nella mia anima il suo immenso dolore per la campagna oggi in atto contro di lui, perché i puritani, le sentinelle con la loro diabolica carica di malvagità vogliono screditare la sua augusta persona, che nonostante gli attacchi continua a indicarci il cammino della verità e della misericordia. La lettera di Mirko mi è arrivata addosso come un raggio in un giorno pieno di sole, e ha suscitato in me il desiderio di trovare le parole capaci di offrire una speranza a quest’uomo.
Caro Mirko, prima di venire da te a confessarti vorrei dirti con tutto il mio affetto che Dio ti ama, che niente e nessuno potrà toglierti la dignità di figlio di Dio. Come vorrei che nell’attesa di vederti tu possa entusiasmarti del figliol prodigo, della samaritana, dell’adultera, di Zaccheo, per toccare con mano che non esiste peccato, per quanto esecrabile e mostruoso, che chi ti ha creato non possa perdonare. Che senso avrebbe il cristianesimo, un Dio che si è fatto uomo, se esistesse un uomo che non possa essere perdonato da Lui, se esistesse un peccato che non possa essere rimesso dalla sua infinita misericordia? Se dall’alba al tramonto del mondo esistesse un uomo o un delitto che non possa essere cancellato dalla misericordia divina, il cristianesimo sarebbe una grande menzogna.
Sì, caro Mirko, perché il cristianesimo è soltanto, esclusivamente un Avvenimento di misericordia. Se non esistesse il mio peccato, se non esistesse il tuo peccato, se non fossero esistiti milioni e milioni di peccati, tanti quanti sono stati gli uomini che hanno calpestato questa terra, se non esistessero miliardi di uomini peccatori, non avremmo mai potuto sperimentare la dolcezza della misericordia divina. Che commozione la notte di Pasqua, quando ascoltando il Preconio pasquale sono rimasto con le lacrime agli occhi davanti all’affermazione: «Oh, felice colpa di Adamo, che meritò un così grande Salvatore»! Mirko, capisci che la liturgia pasquale afferma che è stato necessario il peccato di Adamo per poter dire oggi: “Tu, oh Cristo mio”, per poter godere oggi del suo sguardo pieno di tenerezza? Riesci a capire, Mirko, cosa significa?
Senza questa verità, tutti, “innocenti” o miserabili peccatori, saremmo disperati. Mirko, se io sono un criminale, se io sono un mostro, però sono figlio di Dio, sono il frutto della misericordia divina, sono Cristo stesso.
Bianchi come la neve
Davanti al tuo grido di perdono, alla tua lettera insudiciata dalla tua miseria, non meno grande della mia (non dimentico mai che se io non sono arrivato alla tua perversione e non ci arriverò, è esclusivamente perché Dio ha pietà di me, mettendo la sua mano potente sulla mia testa, perché se così non fosse da un momento all’altro precipiterei nelle cose più impensabili e deplorevoli che la libertà umana, senza Cristo, possa immaginare), provo una tenerezza infinita, la stessa che provai quando abbracciai la tua cara figliastra, che vede in me un “papà buono”. Però io le dico sempre: «Non sono buono io, è Gesù che è buono con me, ed è Lui a guidare il mio cuore perché sia buono. Ecco perché sono buono con te». Per questo posso dialogare con lei, parlando di te, come Cristo le parlerebbe di te. Per questo posso pregare con lei che il tuo cuore si penta, perché tu riconosca la misericordia di Dio, perché lei, senza censurare niente, possa nella pazienza del tempo non dico dimenticare, ma perdonarti, comprendendo che tu stesso sei stato a tua volta vittima di un abuso e che, purtroppo, se uno nella vita non incontra un abbraccio misericordioso, si ritrova capace solo di violenza.
Mirko, diceva Cesare Pavese che «qualsiasi violenza nasce dalla mancanza di tenerezza». È stato così per la tua figliastra, è stato così per te, è stato così e sarà così per qualsiasi uomo che si macchi di un piccolo o grande delitto. Però quello che desidero è che tu percepisca che nel cristianesimo non esiste crimine che non possa essere perdonato, quando la libertà umana riconosce anche solo per un secondo la sua responsabilità e chiede perdono. Ricorda che nella Divina Commedia esiste un personaggio che Dante era convinto di incontrare all’Inferno, per via dei suoi peccati vergognosi, però lo incontra con sua grande sorpresa nel Purgatorio. Quando lo vede gli domanda come abbia fatto a fuggire dal fuoco dell’Inferno dopo un’esistenza totalmente sgretolata. E lui gli risponde: prima di morire ho pensato alla Vergine Maria, e una lacrima è scesa dai miei occhi. Era stata sufficiente una cosa tanto piccola, in un momento di lucidità quando già era sul punto di morire, per meritare la salvezza.
Mirko, come desidero vederti, confessarti, assolverti, anche in nome di tua figlia, che da mesi ha ritrovato il sorriso e la gioia di vivere. L’uomo non è e non sarà mai il frutto dei suoi peccati, dei suoi antecedenti, non importa quali siano stati: è e sarà il frutto della misericordia divina. Non dimenticarti mai ciò che da quando ti conosco continuo a ripeterti: «Voi siete relazione con l’Infinito». «Io sono Tu che mi fai». E poi ciò che dice il profeta: se i tuoi peccati erano neri come la notte, diventeranno bianchi come la neve.
Quid stat, videat ne cadat
Ti chiedo solo una cosa: non guardare allo sterco in cui sei sommerso, ma alla perla che porti dentro al tuo cuore, perché quella perla è la Presenza di Gesù che ti guarda, così come ha guardato quel giorno Maria Maddalena e tutti i peccatori che gridano tutti i giorni e tutte le notti: “Signore, abbi pietà di noi”. E non dimenticarti mai delle parole di Gesù: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra». Dice il Vangelo: «Se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani».
Il peccato non si pesa con la bilancia, per la quale c’è chi è più peccatore e chi lo è meno. Il peccato è peccato, senza nulla togliere alla gravità di alcuni crimini rispetto ad altri, però tutti abbiamo peccato. E che nessuno si permetta di gridare all’“untore” di manzoniana memoria, perché se io non faccio quello che fate voi è solo perché Dio mi tiene stretto tra le sue braccia. Non dimenticarti quello che diceva un monaco santo: ciò che non è successo in settant’anni, se uno si dimentica di Cristo può precipitare nell’abisso in un secondo. Ha ragione l’apostolo Paolo: «Quid stat, videat ne cadat» («Chi crede di stare in piedi guardi di non cadere»).
Signore, non ci muoviamo da qui se Tu non sei con noi, disse Mosè prima di riprendere la sua marcia verso la terra promessa.
Infine, caro amico, che la pena che stai scontando, che non è paragonabile al delitto che hai commesso, sia un’occasione per scoprire una cosa che non ti è mai capitata nella vita: sentirti amato, perché sei perdonato!
Aldo Trento (Tempi)
DIFENDERE LA LIBERTÀ DI FRONTE ALL'IMPOSIZIONE DI UN MODELLO DI EDUCAZIONE SESSUALE - Incontro con lo psicopedagogo Ramón Novella
MADRID, lunedì, 21 giugno 2010 (ZENIT.org).- La Legge per la Salute Sessuale e Riproduttiva e per l'Interruzione Volontaria della Gravidanza, che entrerà in vigore il 5 luglio, darà alle scuole spagnole quella che la norma stessa definisce un'"educazione sessuale adeguata". Ramón Novella, psicopedagogo, ha difeso in un incontro con l'associazione Professionisti per l'Etica il diritto dei genitori alla libertà di fronte all'imposizione di un modello di educazione sessuale.
In occasione dell'imminente entrata in vigore della nuova legge, Professionisti per l'Etica ha svolto un incontro sulle novità educative che comporta con Novella, esperto in formazione di genitori e intervento psicopedagogico, docente alla Facoltà di Psicologia dell'Università Abat Oliba CEU e padre di cinque figli, ha reso noto a ZENIT Ignacio Pascual, di Professionisti per l'Etica.
Dopo l'entrata in vigore della legge, verrà introdotta a scuola l'educazione alla salute sessuale con carattere obbligatorio e dagli 11 anni, secondo quanto ha riferito il Ministro della Salute.
Quando gli è stato chiesto se ritiene adeguato che i bambini e gli adolescenti ricevano un'educazione sessuale a scuola, Ramón Novella ha risposto che "il problema di fondo è nelle intenzioni e nel modo in cui sono state fatte le cose".
"Il primo criterio importante - ha spiegato - è che l'educazione sessuale è una responsabilità delle famiglie, e di nessun altro. In ogni caso, le famiglie decidono che tipo di scuola si adatta meglio al proprio criterio di educazione dei figli e può collaborare meglio a questa educazione".
"Nel caso della nuova legge, l'educazione sessuale è legata a un'impostazione ideologica che molti genitori non condividono, e allo stesso tempo si vogliono costringere le scuole a impartire questo tipo di educazione che si scontra frontalmente con la loro visione dell'essere umano e con il loro compito educativo", ha spiegato.
Secondo l'esperto, "si sta imponendo un modello in un ambito in cui dovrebbe esserci libertà, al di là del fatto che questa impostazione di educazione sessuale non favorisce lo sviluppo positivo delle persone e le trasforma in esseri infelici, completamente manipolabili".
Il capitolo educativo di quella che è nota come "legge dell'aborto" ha, tra gli altri obiettivi, quello di far sì che i giovani imparino a riconoscere e ad accettare la diversità sessuale e prevengano le malattie e le infezioni a trasmissione sessuale e le gravidanze non pianificate.
Sull'insegnamento di questi contenuti nella scuola, Ramón Novella afferma che "a scuola si può assumere la funzione di prevenzione, e quando esiste una difficoltà sociale, sia essa il consumo di droghe, l'aumento dell'Aids o le gravidanze nelle adolescenti, la scuola può collaborare in quest'opera di prevenzione".
"Anche se in questo caso torniamo a vedere impostazioni caratterizzate da determinate ideologie, come quella di genere o il relativismo, che come abbiamo già potuto verificare non sono vie positive di diminuzione di queste difficoltà - ha specificato -. Ad esempio, si informano da molti anni gli adolescenti per evitare le gravidanze, ma il numero di queste ultime è aumentato notevolmente. Vuol dire che è necessario un tipo di educazione di fondo, di responsabilità e di criterio, e non una basata sulla permissività".
Quanto alla diversità sessuale, prosegue, "mi sembra intollerabile che nella fase finale dell'infanzia e nell'adolescenza si promuova questo tipo di educazione in cui il ragazzo o la ragazza deve interrogarsi sulla propria tendenza sessuale. E' aberrante provocare queste situazioni nell'ambito scolastico, e si possono comprendere solo se dietro esistono degli interessi a promuovere l'omosessualità".
Di fronte all'istituzione dell'educazione sessuale obbligatoria, la raccomandazione di Novella ai genitori e ai titolari dei centri educativi è questa: "Bisogna sempre informarsi e sapere che cosa rappresenta questa educazione sessuale obbligatoria, ci si deve saper coordinare per evitare queste intenzioni da parte del Governo, e stare al proprio posto per difendere la libertà di educazione e non accettare l'imposizione di uno Stato o di un'amministrazione autonoma".
"Ai genitori - ha aggiunto -, direi di assumere con maggiore responsabilità il proprio compito educativo e di chiedere l'aiuto di cui hanno bisogno alle entità e alle associazioni che possono collaborare".
E' anche importante, sottolinea, "che si sviluppino piani e programmi di educazione sessuale che cerchino lo sviluppo completo e positivo dei giovani, che collaborino con le famiglie e non siano carattrizzati da linee ideologiche".
"Ci troviamo di fronte a una realtà di emergenza educativa in cui nessuno può dire di non essere coinvolto, al contrario: interessa tutti noi e dobbiamo pronunciarci per non lasciarci imporre quello che non apporta felicità", ha concluso.
Cristiani in Medio Oriente. Chi va, chi viene - Le antiche comunità si assottigliano sempre più. Ma dall'Asia e dall'Africa arrivano nuovi fedeli, a milioni, soprattutto nel Golfo e in Arabia Saudita. Dove però la libertà religiosa continua a essere una chimera - di Sandro Magister
ROMA, 21 giugno 2010 – Pochi l'hanno notato. Ma tra i circa 10 mila fedeli, cioè la quasi totalità dei cattolici di Cipro, che hanno assistito alla messa celebrata da Benedetto XVI a Nicosia domenica 6 giugno, la maggior parte non erano ciprioti, ma asiatici, africani, latinoamericani.
Lo stesso papa, nella sua omelia, ha rivolto un particolare saluto agli immigrati dalle Filippine e dallo Sri Lanka.
Assieme a quelli provenienti dall'India essi costituiscono, infatti, la metà dei circa 30 mila immigrati nell'isola, 60 mila se si comprendono i clandestini.
Un buon numero di loro sono cattolici. Affollano le piccole chiese. Battezzano i loro figli. Sono la faccia nuova e meno nota della presenza della Chiesa non solo a Cipro ma in altre aree della Terra Santa e del Medio Oriente.
Cipro, che fa parte dell'Unione Europea, è una delle loro mete più ambite. Una volta arrivati in Turchia, gli immigrati sbarcano senza difficoltà nel nord dell'isola sotto occupazione turca. E da lì passano facilmente la linea di confine, verso la repubblica greco-cipriota, che per molti di loro fa da tappa verso altri paesi d'Europa.
Allargando lo sguardo a tutta l'area, accade così che mentre il papa convoca un sinodo e lancia appelli accorati perché i cristiani del Medio Oriente – figli delle antiche Chiese dell'area tra il Mediterraneo e il Golfo Persico – non abbandonino le loro terre sotto le pressioni di un islam ostile, come invece stanno facendo in numero crescente, in queste stesse regioni arrivino molti altri cattolici da paesi lontani.
Questa ondata migratoria è così forte che spesso i nuovi venuti sovrastano numericamente i cristiani del posto. Inaspettatamente, però, la traccia di lavoro del sinodo dei vescovi per il Medio Oriente convocato a Roma in ottobre dedica a questo fenomeno solo un cenno fugace, nei paragrafi 49 e 50.
La Turchia è un caso a sé, ma anch'esso illuminante. Qui nell'ultimo secolo la presenza cristiana è stata quasi annientata. Ad assicurare la sopravvivenza delle piccolissime comunità cattoliche sono sacerdoti e vescovi provenienti anch'essi per la maggior parte da fuori, e in particolare dall'Italia. Lo dicono i nomi degli ultimi martiri: dal sacerdote Andrea Santoro al vescovo Luigi Padovese, quest'ultimo ucciso proprio alla vigilia del viaggio del papa a Cipro.
Il vescovo di Smirne e dell'Anatolia Ruggero Franceschini, nel raccogliere il testimone da Padovese, ha invocato che altri sacerdoti e volontari partano dall'Italia in "missione" alla volta della Turchia, al fine di tenere viva la presenza cattolica in questo paese.
Ma riguardo al fenomeno più generale della nuova immigrazione cristiana in Medio Oriente, ciò che più colpisce è che essa si concentra proprio dove l'islam ha avuto i natali: in Arabia Saudita, dove i cattolici sfiorano ormai i 2 milioni, e nei paesi del Golfo.
Relativamente alla penisola arabica, ecco qui di seguito un'analisi aggiornatissima del mutato paesaggio religioso. L'autore è uno dei maggiori esperti nel campo: Giuseppe Caffulli, direttore delle riviste e del sito web della Custodia di Terra Santa e autore di "Fratelli dimenticati. Viaggio tra i cristiani del Medio Oriente", Àncora, Milano, 2007.
L'analisi è uscita sull'ultimo numero di "Vita e Pensiero", la rivista dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.
__________
PENISOLA ARABICA. I CRISTIANI CON LA VALIGIA
di Giuseppe Caffulli
Paradossi del nostro tempo. Da quasi tre decenni la terra che ha dato i natali all’islam e al suo Profeta è in testa alla classifica delle aree del mondo dove la presenza del cristianesimo sta conoscendo il massimo incremento. Non si tratta però di un aumento legato a conversioni: in queste terre la possibilità di abbracciare la fede cristiana continua a essere illegale. L’incremento ha le sue origini in un imponente flusso migratorio che interessa tutti i paesi del Golfo.
In Arabia Saudita, su una popolazione di 27 milioni e mezzo di abitanti, si stima che gli immigrati siano oltre 8 milioni. Se si allarga lo sguardo agli Emirati Arabi Uniti (EAU, una federazione di sette emirati: Abu Dhabi, Ajman, Dubai, Al-Fujairah, Ras al-Khaimah, Sharjah e Umm al-Qaiwain, situati lungo la costa centro-orientale della penisola arabica), il quadro è ancora più impressionante: su circa 6 milioni di abitanti, la popolazione locale non è più del 12-14 per cento.
Di questi immigrati, provenienti soprattutto dall’Estremo Oriente, fanno parte cristiani appartenenti all’intero arcobaleno confessionale. In termini numerici i cattolici sono oggi la maggioranza tra i cristiani presenti nei paesi della penisola arabica.
L’immigrazione in Arabia Saudita e nei paesi del Golfo (oltre ad Arabia ed Emirati, il fenomeno interessa Bahrain, Oman e Qatar) nasce con il boom petrolifero. A partire dagli anni Sessanta la sempre crescente richiesta di greggio e la necessità di sfruttare in maniera sempre più massiccia i pozzi di petrolio rendono necessario l’impiego di manodopera proveniente dall’estero. I primi lavoratori stranieri impiegati in questo nuovo miracolo economico provengono principalmente dal vicino Yemen, il paese che ancora oggi, con i suoi 23 milioni di abitanti, è il vero colosso demografico della regione.
LO YEMEN, UN CASO SPECIALE
Fino agli anni Ottanta, i lavoratori yemeniti in Arabia Saudita superano probabilmente il milione. Le rimesse in denaro di questi immigrati costituiscono una parte importante del bilancio dello Stato yemenita. Con la prima guerra del Golfo lo scenario cambia radicalmente. Il governo dello Yemen si schiera a sostegno di Saddam Hussein (che invade il Kuwait) e improvvisamente Riyadh e Sana’a si ritrovano nemiche. Nel 1991 almeno 800 mila lavoratori yemeniti vengono espulsi perché considerati una minaccia per la sicurezza nazionale. Da allora nessun lavoratore yemenita può più ottenere un permesso di lavoro in Arabia Saudita. Amareggiati e disoccupati, i lavoratori yemeniti espulsi diventano vittime di un’altra politica saudita: l’esportazione della dottrina islamica sunnita wahabita. Con il moltiplicarsi nello Yemen di scuole coraniche wahabite (volute e finanziate appunto dall’Arabia Saudita) cresce in maniera significativa anche il coinvolgimento dei giovani yemeniti nelle organizzazioni jihadiste, con una ricaduta nefasta sul fenomeno del terrorismo internazionale di matrice islamica. Un terzo dei detenuti nella base americana di Guantanamo è yemenita. Yemenita è anche la famiglia di Osama Bin Laden, capo di Al Qaeda.
Con la cacciata dei lavoratori yemeniti si aprono nel sistema economico dell’Arabia Saudita (e di riflesso nei paesi del Golfo, ugualmente schierati in politica estera su posizioni filo-occidentali) enormi falle. Dai primi anni Novanta il governo di Riyadh si vede costretto, per garantire il livello di produzione del greggio (la voce petrolifera costituisce ancora oggi l’88 per cento delle entrate dello Stato e il 90 per cento delle esportazioni), a favorire l’immigrazione di un numero sempre crescente di lavoratori stranieri dai paesi dell’Estremo Oriente, soprattutto India, Filippine, Pakistan.
L’accelerazione dell’economia dei paesi del Golfo (gli Emirati nel 2008 hanno conosciuto una crescita del prodotto interno lordo del 6,8 per cento; l’Arabia Saudita del 4,2), con la pianificazione di grandi infrastrutture e con un’imponente crescita del settore immobiliare, rendono la penisola arabica una delle aree di più forte immigrazione a livello planetario.
IL PIÙ GRANDE VICARIATO DEL MONDO
La penisola arabica ricade sotto la giurisdizione del vicariato d’Arabia, la circoscrizione ecclesiastica più grande del mondo: sei nazioni che si estendono su oltre 3 milioni di chilometri quadrati (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Oman, Qatar e Yemen), con una popolazione di oltre 60 milioni di persone. Retto dal 2005 da Paul Hinder, cappuccino svizzero, succeduto al confratello italiano Bernardo Gremoli, il vicariato d’Arabia ha superato abbondantemente i cent’anni di vita (la sede di Aden risale al 1888).
L’attuale sede si trova ad Abu Dhabi, moderna capitale degli Emirati, e può contare su sessantuno sacerdoti e un centinaio di suore di sei differenti congregazioni. Oltre all’assistenza pastorale diretta, la Chiesa gestisce otto scuole (per un totale di 16 mila studenti, il 60 per cento dei quali musulmani), orfanotrofi e case per portatori di handicap. Fino a pochi decenni fa, il vicariato d’Arabia si occupava principalmente dell’assistenza pastorale di poche migliaia di stranieri che si trovavano a lavorare nella penisola: personale delle ambasciate, impiegati e funzionari di aziende straniere.
Con l’arrivo dei lavoratori stranieri, a partire dagli anni Novanta, tutto è cambiato. Non ci sono cifre ufficiali, ma le stime del vicariato di Abu Dhabi (sulla base delle indicazioni delle ambasciate), parlano di circa 1 milione e 400 mila filippini nel solo territorio dell’Arabia Saudita, per l’85 per cento cattolici. Non si conosce con esattezza il numero degli indiani. Ma è plausibile che il numero dei soli cattolici nel regno saudita si avvicini ai 2 milioni.
Secondo gli ultimi dati, gli abitanti degli Emirati Arabi Uniti sono circa 6 milioni, di cui 5 costituiti da lavoratori stranieri. La stragrande maggioranza di questi immigrati professa l’islam (circa 3 milioni e 200 mila), ma i cristiani sarebbero oltre un milione e mezzo, di cui 580 mila cattolici. Un buon numero è di lingua araba (oltre 100 mila, 12 mila solo ad Abu Dhabi) e provengono da Libano, Siria, Giordania, Palestina e Iraq. Sono presenti decine di migliaia di cattolici di rito orientale: maroniti, melkiti, armeni, siriani, siro-malabaresi, siro-malankaresi... Le celebrazioni si svolgono, oltre che inglese e in arabo, in malayalam, konkani, tagalog, francese, italiano, tedesco, cingalese e tamil.
In Bahrein, su una popolazione di circa un milione di abitanti, i cattolici sono 65 mila. In Oman, su 3 milioni e 200 mila abitanti, i cattolici sono 120 mila. Nel Qatar, dove è stata consacrata nel 2008 la prima chiesa cattolica, su un milione e 200 mila abitanti i cattolici sono 110 mila. Difficile dare statistiche attendibili sulla globalità del fenomeno. Secondo fonti giornalistiche, negli Emirati Arabi Uniti sarebbero presenti circa 750 mila lavoratori provenienti dall’India, 250 mila dal Pakistan, 500 mila dal Bangladesh. Un milione d’immigrati è costituito da iraniani, afghani, malaysiani, indonesiani, cinesi e giapponesi. Mezzo milione sarebbero i filippini. Un altro mezzo milione è formato da africani e sudamericani. Anche per le Chiese cristiane presenti in loco non è facile offrire dati attendibili a causa della grande mobilità della popolazione cattolica (alcuni lavoratori hanno permessi molto brevi). Molti cattolici si trovano poi a lavorare in zone lontanissime dalla parrocchia o dalla comunità cristiana, o vivono in campi di lavoro che impediscono libertà di movimento.
LE CONDIZIONI DI LAVORO
La condizione dei lavoratori stranieri nella penisola arabica non è rosea. In Arabia Saudita, uno dei regimi più repressivi del mondo, i lavoratori cristiani devono ogni giorno fare i conti – oltre che con la crisi economica che ha segnato anche qui una diminuzione di posti di lavoro e del livello retributivo – con la polizia religiosa (mutawwa), che non tollera manifestazioni pubbliche della fede. Una situazione che viene costantemente denunciata dagli organismi internazionali che si occupano di diritti umani e libertà religiosa. Non è infrequente che nelle maglie della polizia cadano con accuse il più delle volte false o pretestuose i cristiani che si adoperano per tenere viva la fede nelle comunità cristiane (vedi il caso di Brian Savio O’Connor, un cristiano indiano imprigionato nel 2004 per essere stato trovato in possesso di Bibbie e libri religiosi).
A differenza di altri contesti, i lavoratori stranieri in Arabia Saudita e nei paesi del Golfo non cercano l’integrazione. Si trovano in queste terre con l’intenzione di tornare un giorno a casa o di emigrare nuovamente verso USA, Canada o Australia. Una norma prevede poi che non venga rinnovato il permesso di soggiorno per i lavoratori con oltre 60 anni. Ne consegue che la Chiesa d’Arabia non ha un nucleo stabile. È formata oggi da fedeli, in massima parte giovani, che nella migliore delle ipotesi restano cinque, dieci o al massimo vent’anni.
Ci sono poi gravi situazioni di squilibrio sociale. Tra i cristiani ci sono pochi facoltosi e una gran massa di poveri, senza alcuna sicurezza sociale. I lavoratori delle fasce più basse hanno scarse tutele, anche se gli EAU, all’inizio di novembre 2009, hanno firmato con il governo di Manila un protocollo d’intesa che offre maggiori protezioni ai lavoratori filippini. C’è poi un vero e proprio traffico di braccia, lavoratori che vengono portati nel Golfo clandestinamente dalle organizzazioni criminali. E ancora la tratta delle donne, specie dalle Filippine e dall’Europa orientale, per la prostituzione. Molte vengono illuse con la promessa di un lavoro e poi si ritrovano schiave. Quelle che fuggono trovano spesso rifugio presso le organizzazioni caritative della Chiesa cattolica, che offre un servizio di assistenza psicologica e legale per chi desidera rientrare nel proprio paese.
La crisi sta comunque toccando anche la penisola arabica, con un rallentamento generalizzato dell’economia. Dopo anni d’inflazione attorno all’1 per cento, nel 2008 in Arabia Saudita c’è stata un’impennata dei prezzi che ha portato l’inflazione oltre l’11 per cento. Il governo di Riyadh sta tentando di risolvere questa crisi con un progetto di "saudizzazione". Si vorrebbe limitare per il futuro l’ingresso di nuovi immigrati (favorendo nei fatti anche l’espulsione di milioni di operai presenti nel paese illegalmente) per sostituirli con maestranze locali. Costretti dalla crisi, molti sauditi stanno tornando a svolgere lavori che fino a poco tempo fa ritenevano indegni o troppo faticosi, e che erano quindi affidati a lavoratori stranieri. Questa "saudizzazione" ha un risvolto anche religioso: limitare al massimo l’accesso di immigrati musulmani sciiti, la corrente musulmana da sempre in contrasto con quella sunnita praticata in maniera maggioritaria nella penisola arabica.
POCA O NESSUNA LIBERTÀ RELIGIOSA
Quello della libertà religiosa è il tasto dolente in Arabia Saudita. Secondo l’annuale rapporto sulla libertà religiosa pubblicato nel 2009 dalla Commissione USA sulla libertà religiosa internazionale (USCIRF), l’Arabia Saudita rientra tra i cosiddetti paesi che destano "particolare preoccupazione", assieme a Myanmar, Cina, Corea del Nord, Eritrea, Iran, Iraq, Nigeria, Pakistan, Sudan, Turkmenistan, Uzbekistan, Vietnam.
Per quanto concerne l’Arabia Saudita, il rapporto riconosce qualche limitata riforma e qualche timida apertura sul versante del dialogo religioso. Ciò nonostante, il governo vieta ancora ogni forma di espressione religiosa pubblica che non rientri nella dottrina islamica sunnita e non ossequi la particolare interpretazione dell’islam wahabita. La Commissione accusa inoltre le autorità saudite di sostenere, a livello internazionale, gruppi che promuovono "un’ideologia estremista che contempla, in qualche caso, violenze contro i non islamici e contro i musulmani di diversa osservanza".
Negli Emirati e negli altri paesi del Golfo il panorama è un po' diverso. La situazione è di sostanziale tolleranza religiosa, pur in un quadro di regole ben definite. Testimonianze di questa apertura sono le parrocchie che il vicariato d’Arabia ha istituito nell’area: una parrocchia nel Bahrein, una in Qatar e sette negli Emirati: per l'esattezza due ad Abu Dhabi, due a Dubai, una a Sharjah, una ad Al-Fujairah e una a Ras al-Khaimah. Quattro parrocchie sono nell’Oman, due delle quali a Muscat. Poi ci sono quattro comunità nello Yemen, un paese che registra progressi ma dove sono ancora aperte le ferite degli episodi di violenza nei confronti dei cristiani (basti pensare all’assassinio delle tre suore di Madre Teresa il 27 luglio 1998).
Sostanzialmente ogni emiro è libero di fare la sua politica religiosa e i cristiani si trovano a vivere in condizioni diverse a seconda della realtà politica in cui si trovano a operare. Qui la tolleranza religiosa e la libertà di culto non sono paragonabili a quelle dell’Occidente: tutto si concentra negli spazi concessi alla parrocchia, senza possibilità di esporre simboli all’esterno e senza possibilità di fare attività pubblica. Ma per la Chiesa d’Arabia, che per bocca del suo vescovo si definisce "pellegrina", quella vissuta negli Emirati e nei paesi del Golfo è una situazione di relativo privilegio. Viceversa, in Arabia Saudita l’assistenza pastorale è praticamente impossibile. I milioni di fedeli che si trovano al di là della cortina di ferro dell’islam sono raggiunti di tanto in tanto, in maniera spesso rocambolesca, da qualche sacerdote in incognito che assicura la consacrazione del pane eucaristico distribuito poi dai laici nelle varie comunità.
COMUNITÀ DISPERSE
Sul piano pastorale l’emergenza principale della Chiesa d’Arabia è legata alla carenza di strutture. Si contano parrocchie con 40 mila, perfino 100 mila fedeli. Spesso è impossibile accogliere tutti i fedeli che desiderano assistere alle celebrazioni o chiedono assistenza pastorale. È poi difficile districarsi tra gli interessi e le sensibilità dei diversi gruppi etnici – almeno 90 – senza provocare tensioni e incomprensioni. Il numero dei sacerdoti è limitato ed è assai difficile strappare nuovi visti per aumentarne il numero. Non è nemmeno facile reperire preti adatti alla missione in quest’area particolare: uno dei requisiti fondamentali è che parlino diverse lingue. Inoltre i fedeli vivono dispersi, lontani dalle parrocchie; molti lavorano in villaggi che sorgono in pieno deserto, oppure sulle piattaforme petrolifere, in zone dove non è assolutamente possibile raggiungerli. La maggior parte non ha mezzi di trasporto o non è in grado di pagare il biglietto o non ottiene il permesso dai rispettivi datori di lavoro. Una delle questioni cruciali – fa sovente notare Paul Hinder – è proprio quella di proteggere questi fedeli dalla tentazione di farsi assorbire dall’islam. Cosa che effettivamente capita: se chi è musulmano trova posti di lavoro migliori e meglio pagati, la conversione diventa per molti una strada comoda e facile di promozione sociale.
Quale sarà la sorte di questi lavoratori cristiani nei prossimi anni? Difficile dirlo. Intanto la loro presenza, a livello numerico, dipende dalla situazione politica ed economica che si andrà profilando nell’area. Il mondo in cui vivono – non lo possiamo dimenticare – è totalmente imperniato sull’islam. Tanto che allo stato attuale è difficile pensare a un’apertura sul versante dei diritti umani e della libertà religiosa, anche se la gran massa di lavoratori non musulmani nella penisola arabica è un fatto che non si può più tacere o negare. E, prima o poi, bisognerà che qualcuno inizi a tener conto delle esigenze non solo economiche di questi cristiani con la valigia.
UN CASO GIUDIZIARIO ALLUCINANTE - Quando la folle macchina giudiziaria si trasforma in una trappola infernale - IL FOGLIO - giovedì 17 giugno 2010
Delfino Covezzi e Lorena Morselli, i coniugi di Massa Finalese (Modena) accusati di aver commesso abusi sessuali sui loro quattro figli sono stati dichiarati innocenti. La corte d’Appello di Bologna li ha assolti con formula piana perché il fatto non sussiste, ribaltando la sentenza del Tribunale di Modena che in primo grado, nel 2002, li condannò a 12 anni. Con la sentenza della Corte di Appello crollano le mura del castello di carta costruito dall'accusa: da novembre di quell’anno (2002) Lorena e Delfino non vedono più i loro figli, oggi affidati ad altre famiglie e residenti in località segrete. Una famiglia distrutta.
Ci sono voluti dodici anni per riconoscere una verità palese fin dall’inizio. I servizi sociali e i giudici di Modena diedero credito a testimonianze veramente deliranti. Il senatore Carlo Giovanardi (Pdl), Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, che ha seguito da vicino la vicenda, parla di indagini errate e fuorvianti. «I politici locali - ha detto - non hanno mai sostenuto questa famiglia, mentre si sono mobilitati per cause ben meno nobili. Al contrario hanno supportato quegli assistenti sociali di Mirandola che, fin dall’inizio, hanno dimostrato tutto il loro dilettantismo, distruggendo la vita di decine di persone».
La storia dei coniugi Covezzi fece il giro d’Italia perché, in un primo momento, furono accusati anche di riti satanici nei cimiteri della bassa Modenese. L’indagine, nata nel 1998 dal racconto di un bambino, coinvolse i parenti della coppia e anche un prete, Don Giorgio Govoni, morto di crepacuore e ‘assolto’ post mortem, per il quale oggi la Chiesa modenese chiede a gran voce la sua beatificazione.
Giustizia è fatta. Ma ora chi pagherà per tutto questo?
PEDOFILIA, TRAPPOLA INFERNALE
Presunti pedofili, quando la folle macchina giudiziaria si trasforma in una trappola infernale. Il "detective" Giovanardi e l’orrore giudiziario che uccise Don Giorgio.
Quando il 9 giugno scorso la Corte d’appello di Bologna ha assolto Lorena e Delfino Covezzi dall’accusa di pedofilia nei confronti dei loro figli (dai quali sono stati separati dodici anni fa), il parroco di Massa Finalese, don Ettore Rovatti è andato a celebrare messa come ogni mattina. E durante l’omelia ha pianto. Ha pianto per quei quattro bambini sottratti ai loro genitori all’alba del 12 novembre del 1998, (all’inizio solo per omessa vigilanza). Ha pianto per quella coppia di coniugi di Massa Finalese, in provincia di Modena, trascinati nella polvere, dentro una storia troppo grande per loro, troppo grande per chiunque, e non potranno riavere indietro la vita che avrebbero voluto e potuto vivere.
E davanti ai suoi parrocchiani ha pianto, soprattutto, per un’altra delle vittime innocenti di questo ennesimo caso di errore giudiziario legato a un caso presunto di pedofilia: don Giorgio Govoni, il sacerdote accusato di essere stato, alla fine degli anni 90, il regista di un macabro set pedopornografico messo in scena nelle campagne della bassa modenese. Don Giorgio è morto di crepacuore il 29 maggio 2000, il giorno dopo che i pubblici ministeri di Modena avevano chiesto di condannarlo a quattordici anni di carcere. Lo scorsa 9 giugno, davanti alla sentenza di Bologna, il sottosegretario alle Politiche per la famiglia, Carlo Giovanardi, che ha seguito per dodici anni il travaglio esistenziale e giudiziario della coppia di Massa Finalese, ora riabilitata perché "il fatto non sussiste", si è sentito come un Achille furioso dopo la morte di Patroclo. E’ furioso, mentre ripercorre le tappe di questi dodici anni, il suo è un concitato monologo, l’elenco di tutti gli episodi più grotteschi di un caso di falso abuso sessuale: fra tutti quelli raccontati fino a ora, forse il più aberrante.
A colloquio con il Foglio, riassume la sua indignazione in un feroce j’accuse all’apparato giudiziario "che ritiene gli errori giudiziari fisiologici, senza far pagare a nessuno le responsabilità della propria cecità, vittima talvolta, quando si tratta di pedofilia, di una maniacale ricerca di una verità che danneggia l’individuazione dei pedofili veri", precisa. Per chi non sa, o ha dimenticato. ecco il riassunto di questa vicenda giudiziaria.
Nell’aprile del 1997 un bambino sottratto ai genitori, che don Giorgio Govoni aiutava economicamente perché vivevano di espedienti, racconta di aver subito un abuso. Seguono altre denunce, alla fine saranno due le famiglie coinvolte e sei le persone rinviate a giudizio. Due mesi dopo, una madre a cui hanno tolto il figlio si getta dalla finestra. Il primo bimbo, primo anello di una catena di accuse che si trasforma in una psicosi collettiva, parla di messe nere, orge sataniche nei cimiteri.
Racconta di altri bambini sottratti a scuola di giorno con la complicità delle maestre, rapiti di notte nelle loro case con la complicità dei genitori. Bambini che vengono sodomizzati, decapitati, appesi a dei ganci, gettati nel fiume Panaro. Dove però non viene mai trovato nessun cadavere.
Sempre nel 1998, una bambina coinvolge i suoi quattro cuginetti, figli della coppia Covezzi, che vengono prelevati dalla polizia all’alba. Il 19 maggio 2000, don Giorgio Govoni, il presunto "regista" della cricca pedofila muore d’infarto (verrà pienamente assolto l’anno dopo, post mortem) e le campane della chiesa di San Biagio suonano il suo lutto.
Giovanardi rilegge la sua prima interpellanza parlamentare all’allora ministro della Giustizia, Oliviero Diliberto, dell’11 marzo del 1999. Giovanardi era vicepresidente della Camera e chiese al Guardasigilli di interessarsi al caso di una coppia alla quale la polizia, all’alba del 12 novembre 1998, aveva tolto i loro quattro figli per omessa vigilanza: sarebbero stati portati nei cimiteri per essere sodomizzati.
Il ministro mi promise di occuparsene e di darmi una risposta entro una settimana", ricorda Giovanardi, "ma un giorno prima della scadenza, Valeria, una delle figlie dei Covezzi, già allontanata dai suoi genitori, dopo un colloquio con l’assistente sociale, torna a casa dalla famiglia affidataria.
In lacrime. Affermando che suo padre l’aveva violentata. I genitori ricevettero un avviso di garanzia per abusi sessuali e non è stato più possibile intervenire".
Chi è la coppia che Giovanardi ha cercato di aiutare? "Lui operaio, lavorava nella ceramica, lei maestra d’asilo e insegnante di religione in parrocchia. Poi è rimasta incinta e si è rifugiata in Francia per impedire al Tribunale dei minori di toglierle anche il suo ultimo figlio. Per anni mi ha scritto lettere piene di angoscia, speranza, dolore e fede", spiega ancora Giovanardi. E allora, quando la procura di Modena si lancia in una fuga in avanti e la macchina giudiziaria si trasforma in un carro armato, Giovanardi, avvia la sua puntigliosa contro-inchiesta.
Ha visitato i luoghi nei quali si sarebbero svolte le violenze, ha rifatto i percorsi che sarebbero stati seguiti da pedofili e bambini, dalla scuola ai boschetti, dalla casa ai cimiteri. Ha cronometrato i tempi, incrociando le informazioni, e da novello detective ha capito immediatamente che "credere all’impianto dell’accusa della procura di Modena era come credere a un omicidio avvenuto sulla Luna.
Ho cercato di aprire un dialogo con magistrati e assistenti sociali per capire cosa stava accadendo, dove si era inceppato il meccanismo giudiziario - dice - ma non ci sono mai riuscito".
Non conosciamo fino in fondo la metodologia utilizzata durante gli interrogatori-colloqui con i bambini, ma alcune conversazioni sono trapelate dalle relazioni dei periti. Durante l’interrogatorio a una bambina che riguardava don Giorgio Govoni le viene chiesto:
"Piccola, chi era quell’uomo? Un dottore?". Riposta: "Sì". "Ma poteva essere anche un sindaco?". Risposta: "Si". "O anche un prete?". Risposta: "Si". "Poteva chiamarsi Giorgio?". Ecco perché oggi gli ex parrocchiani di don Giorgio Govoni lo vorrebbero beatificare, per una ragione che c’entra poco forse con i miracoli, ma molto con la contemporaneità della malagiustizia. E infatti sulla sua lapide, a san Biagio, c’è questa epigrafe: "Vittima innocente della calunnia e della faziosità umana, ha aiutato i bisognosi, non si può negare che egli, accusato di un crimine non commesso, sia stato vinto dal dolore".
Incalza Giovanardi: "Ciò che più mi sconvolge e indigna è che i Covezzi non vedono i loro figli da dodici anni: hanno dovuto aspettare otto anni per una sentenza di assoluzione. Otto anni! Si rende conto? Ne parliamo dagli anni 90, e mentre rileggo la mia interpellanza del 1999 ancora non ci posso credere. Non abbiamo ancora fatto un solo passo in avanti per accorciare i tempi processuali. Non abbiamo fatto un solo passo in avanti per introdurre criteri di professionalità, trasparenza e competenza nei processi che riguardano temi delicati come gli abusi sessuali e che invece spesso vengono lasciati nelle mani di psicologi e assistenti sociali trasformati in detective. Angoscia, rabbia e speranza. Ecco la gamma dei miei sentimenti davanti a questa tardiva assoluzione. Si deve intervenire per evitare di rovinare le famiglie, per impedire ai tribunali dei minori di tenere i genitori lontani dai figli dopo l’assoluzione dei genitori. Io sono un acerrimo nemico dei pedofili, ma quelli veri".
Il copione è noto: perizie contrastanti, tronconi d’inchiesta che si dividono e si moltiplicano, sentenze di condanna che poi vengono ribaltate, smontate, quando arrivano in altre procure, o ai gradi successivi di giudizio. "E succederà così anche per il caso della scuola Olga Rovere di Rignano Flaminio di cui mi sono interessato", conclude Giovanardi. "Anche lì ci sono stati vizi d’indagine e l’impianto dell’accusa è stato smontato dal Tribunale della libertà e dalla Corte di cassazione. E finirà, ne sono certo, nell’elenco dei falsi abusi. A Rignano davanti a dichiarazioni contrastanti con le ipotesi accusatorie, sono state esercitate pressioni sui bambini. A Modena erano assistenti sociali e psicologi a indirizzare i magistrati verso un film dell’orrore non supportato da prove. Nel frattempo delle persone sono morte e una famiglia si è disgregata per sempre. Non si può e non si deve confondere la lotta sacrosanta alla pedofilia con la caccia alle streghe".
IL FOGLIO - giovedì 17 giugno 2010
La nonna: "Sogno di rivedere i miei nipoti" - «Quello che chiedo per il resto della mia vita è solo rivedere un giorno tutta la famiglia riunita con i miei nipoti. Dopo anni d’inferno». Lina Marchetti, madre di Lorena Morselli, è in lacrime. - http://gazzettadimodena.gelocal.it/dettaglio/i-coniugi-covezzi:-niente-vendette-ma-vite-rovinate/2079694
«Mi ha sorretto la fede, e la speranza che prima o poi la verità sarebbe venuta alla luce». Lina Marchetti, 77 anni martedì dopo la sentenza che assolve sua figlia Lorena Morselli e suo genero Delfino Covezzi, è emozionata, felice. Vede la fine di un incubo che ha travolto suo marito Enzo Morselli, indagato, condannato e morto di dolore poche settimane fa. Un incubo che ha distrutto la sua famiglia: condannati anche gli altri tre figli, indagata e ora assolta la figlia Lorena, il genero.
Soprattutto lei, nonna mai sfiorata da un’indagine che ha marchiato dei segni più orrendi decine di persone, incluso don Giorgio. Sono 12 anni che Lina non vede, pur innocente e mai indagata, i suoi 4 nipoti, tutti prelevati e affidati ad altre famiglie. Ora lontani in tutto, anche nella convinzione che quella di Lina sia la loro famiglia. «Il mio pensiero va ad Enzo e a loro. Poche settimane fa Enzo, distrutto da questi anni di tragedia, se ne è andato. Quando gli ho detto, mentre era a letto, che la sua malattia se lo sarebbe portato via per sempre mi ha interrotto, si è voluto alzare a sedere e mi ha preso la mano dicendomi: “Non vedrò più i nostri nipoti, dagli tu una abbracciatona per il loro nonno. Digli tu che non gli ho mai fatto del male, diglielo, specie al più piccolino...”. Mio marito è morto così, col dolore di non avere più visto i nipoti, ma da lassù mi ha dato altra forza per sperare. Per sperare di trasmettere loro l’abbraccio dei nonni».
Lina ripercorre nome e storia dei nipoti, racconta quel poco che sa di loro, della telefonata della figlia Lorena dal tribunale. «Mi ha detto solo due parole: siamo innocenti. Poi la chiamata si è interrotta. Io ho iniziato ad urlare di gioia, tanto da destare qualche preoccupazione qui attorno. Ringrazio tutti quelli che ci sono stati vicini e ci hanno telefonato. Sono andata a pregare subito, alla novena. Le dico solo questo: uno degli avvocati, la signora Tassi, mi ha chiamato dicendomi che martedì era il suo compleanno e che dopo tante battaglie con l’assoluzione di Delfino e Lorena è stato il più bel compleanno della sua vita. Ora - conclude commossa l’anziana donna - spero di rivedere la nostra famiglia unita, ma so che non sarà così semplice
(11 giugno 2010)
Il patriarca di Venezia al convegno del comitato scientifico di Oasis a Beirut - L'educazione come paideia - "L'educazione tra fede e cultura: esperienze cristiane e musulmane in dialogo" è il titolo del convegno del comitato scientifico di Oasis - la fondazione promossa dal patriarcato di Venezia con lo scopo di promuovere la mutua conoscenza e la comprensione tra cristiani e musulmani - che si tiene a Beirut il 21 e il 22 giugno. Settanta tra studiosi, uomini di religioni ed esperti mettono a confronto esperienze cristiane e musulmane sul tema della sfida educativa, che sembra incalzare inevitabilmente tutte le società. Tra i relatori, oltre al cardinale patriarca di Venezia, i cardinali Pierre Nasrallah Sfeir, patriarca di Antiochia dei Maroniti e Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Pubblichiamo ampi stralci della relazione pronunciata nella mattinata di oggi, lunedì 21, dal patriarca di Venezia sul tema "L'educazione come paideia: una proposta per il nostro tempo". - di Angelo Scola - L'Osservatore Romano - 21-22 giugno 2010
L'educazione, in prima approssimazione, è quel processo fatto anzitutto di buone relazioni e di pratiche virtuose, di trasmissione (traditio) di un'interpretazione complessiva della realtà, offerto alla verifica della libertà dell'educando. Parlarne in Libano è poi un'opportunità straordinaria perché questo è un Paese che ha scelto di legare le proprie sorti al successo o al fallimento dell'impresa educativa. Qui l'educazione si rivela come il caso serio per eccellenza: dove riesce, assicura un "essere-insieme" - "convivenza" mi pare un termine riduttivo e logoro - che si è guadagnato l'ammirazione di tutto il mondo; ma quando fallisce, lascia il campo alle peggiori violenze.
Eppure - non è il caso di nasconderselo - l'impresa educativa è in affanno un po' a tutte le latitudini. Lo è certamente in Occidente, dove ormai si parla apertamente di "emergenza educativa" e dove non di rado sembra smarrita l'idea stessa di educazione, ma lo è anche nel resto del globo. Come scrive con lucida critica l'intellettuale algerino Mustapha Cherif, già ministro dell'Insegnamento superiore e della Ricerca scientifica, "nel mondo musulmano la società è presa tra due fuochi: quello degli ignoranti che censurano la società e la livellano verso il basso e quello dei gruppi che praticano un mimetismo ispirato a un modernismo immorale". In molte società post-coloniali il sistema delle scuole statali e non-statali non riesce ancora ad assicurare un'istruzione di massa di qualità. Eppure - scrive ancora Cherif - "nella difesa della propria sovranità un Paese dipende dalla capacità di produrre e assimilare conoscenze". In molti casi è la questione linguistica che diventa specchio del difficile rapporto con la modernità. Che cosa significa per uno studente ricevere la formazione umanistica e religiosa nella propria lingua nazionale e quella scientifica in inglese o francese? Non si insinuerà l'idea che le due aree del sapere siano incomunicabili, aprendo la strada ad atteggiamenti schizofrenici che facili concordismi tra scienza e fede non possono sperare di guarire?
Per educare occorre un'idea di uomo e soprattutto una pratica dell'humanum. Non un'idea astratta quindi, ma quella inevitabilmente legata all'esperienza integrale ed elementare di ogni singolo. Redemptor hominis afferma con convinzione: "Non si tratta dell'uomo astratto, ma reale, dell'uomo concreto, storico". Purtroppo però l'idea di uomo implicita in buona parte della prassi educativa corrente, certamente in Occidente, ma anche a livello globale, per quanto concerne almeno la formazione delle élites transnazionali, è sempre più quella di un soggetto scisso: da un lato starebbe l'oggettivismo razionale e, dall'altro, come complementare, il soggettivismo emotivo. Solo la prima sfera sarebbe di pertinenza dell'educazione, che consisterebbe pertanto in una corretta trasmissione di informazioni, tecniche, abilità e competenze. Educazione in questa prospettiva diventerebbe dunque sinonimo di addestramento all'uso di una ragione per giunta ridotta alla sua componente strumentale. Fuori dal campo della ragione, e in ultima analisi dell'educazione, giacerebbe invece il mondo degli affetti, esclusivo dominio di un soggetto che si costruisce e si inventa in un'autonomia tendenzialmente autoreferenziale e pericolosamente fragile. Inoltre, si deve almeno accennare al fatto che questa concezione dualista dell'umano sta sempre più cedendo il passo a un positivismo assoluto. Quello che, soprattutto in forza delle strabilianti scoperte delle neuroscienze e delle bioconvergenze, riconduce tutte le espressioni della sfera emotiva, affettiva e morale a pure attività cerebrali che in prospettiva potrebbero, secondo taluni, diventare addirittura artificiali. Siamo così confrontati a una concezione di ragione limitata alla sfera empirico-strumentale, che non tiene conto delle articolate modalità in cui si esercita il logos umano e che devono stare alla base di un'idea adeguata di educazione.
Sono solito riferirmi ad essa utilizzando il termine classico di paideia, reso celebre dagli studi di Werner Jaeger, ma qui ripreso in un senso largo suggerito da Maritain. La nozione di paideia ha, per il nostro incontro di cristiani e musulmani, il grande vantaggio di rinviarci a una delle due tradizioni che, in modalità diverse, condividiamo: l'eredità classica e più propriamente tardo-antica, nella quale cioè
inizia a prendere corpo il confronto tra pensiero ellenico e messaggio biblico.
Si potrebbero illustrare agevolmente le ricchezze che questa visione della paideia racchiude rispetto a un'educazione ridotta a mero addestramento, chiusa, a causa di un'acritica riduzione dell'ampio spettro della ragione, a quella domanda sulle cose ultime che, secondo la celebre espressione di Comte, non si sarebbe dovuto più porre.
Di forte interesse sarebbe l'indagare che cosa significhi, per cristiani e musulmani, la convinzione che non solo la realtà si dà al soggetto che la ospita, ma è essa stessa data - o, per usare il termine teologicamente più preciso, creata - e rimanda perciò oltre se stessa a un Primo Donatore.
Ma, l'enfasi sulla capacità da parte del soggetto di ospitare il reale intelligibile rappresenta soltanto una dimensione della paideia. L'altra, altrettanto importante, è il suo chiamare in causa la libertà, anzi le libertà, di educatore e di educando sempre inserite in una trama di relazioni sociali. E qui è appropriato parlare di rischio educativo. Infatti, l'introduzione a un'ipotesi esistenziale unitaria circa il reale non avviene senza un duplice rischio. Rischio prima di tutto dell'educando, che non può chiamare "sua" alcuna verità se non la fa propria con la sua libertà, come ha visto genialmente Goethe: "Ciò che hai ereditato dai tuoi padri, fallo tuo, per poterlo possedere".
D'altro canto anche l'educatore non può esimersi da un'auto-esposizione. Non educa colui che dice "fai così" ma colui che così invita: "Fai con me così". Egli, infatti, comunica ciò che più gli sta a cuore e così facendo si mette in un certo senso a nudo. L'educazione - insegna da sempre la Chiesa - è una forma di carità, un atto di amore nel quale l'educatore offre tutto se stesso nella testimonianza di quella verità che egli già vive come adeguata chiave interpretativa del reale.
L'educazione è pertanto in ultima analisi "generazione" e rappresenta, in tutte le culture, un'esperienza di paternità e di figliolanza.
Per noi cristiani essa ha la sua radice nelle relazioni intratrinitarie, relazioni che assumono il volto della singolare esperienza del rapporto di Gesù con il Padre e con lo Spirito.
Riflettendo su questo "incontro di libertà" che costituisce la seconda dimensione della paideia, occorre riconoscere con molto realismo che non sempre le religioni, soprattutto quando hanno assunto o si sono viste imporre la funzione di collante sociale, hanno saputo mantenersi al riparo dalla tentazione di immaginarsi portatrici di una verità "talmente evidente" da rendere del tutto estrinseco e quindi superfluo l'assenso da parte della libertà dell'interlocutore. Così oggi succede che mentre si diffonde, almeno a livello delle élites transnazionali, la tendenza a celebrare una libertà svincolata da ogni riferimento veritativo alla "verità-bene", si manifesti, per reazione uguale e contraria, la spinta ad affermare una verità che non domanderebbe il coinvolgimento della libertà del soggetto per attestarsi come verità. La verità non sarebbe dono vitale ma solo insegnamento formale. È il fondamentalismo, una patologia dell'educazione grave quanto la rinuncia a riconoscere l'obiettiva "pretesa" della verità. Essa può arrivare fino all'uso della violenza, nella quale lo spirito di parte lacera la comunità distruggendo il "bene politico dell'essere insieme": quel bene sociale pratico sul quale il Libano ha scelto di scommettere la sua stessa esistenza come nazione.
Si ripete di frequente, e non senza ragione, che il migliore antidoto al fondamentalismo e alla violenza è l'educazione. Occorre però aggiungere: non qualsiasi educazione, ma un'educazione che sappia tenere insieme verità e libertà. E quest'ultima nella sua dimensione personale e in quella comunitaria - comprendendo dunque la libertà d'espressione e di critica, anche dolorosa, ove necessario e, quanto alla libertà religiosa, anche la conversione. Solo un'adeguata antropologia, fondata sull'"io-in-relazione" con Dio, con gli altri e con se stessi, permetterà quindi di evitare una deriva violenta, senza cedere a un insoddisfacente agnosticismo. È a questo livello che si giocherà la partita decisiva per le religioni.
Un grande scrittore italiano del Novecento, Cesare Pavese, intitolò i suoi diari Il mestiere di vivere. Insegnare il mestiere di vivere, insegnare a essere uomo, liberamente capace di aderire alla verità, è il compito inesausto dell'educazione. Esso si ripresenta sempre nuovo a ogni generazione, perché, come afferma con acutezza Benedetto XVI nella Lettera alla Diocesi e alla Città di Roma sul compito urgente dell'educazione, "a differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell'ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell'uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni".
(©L'Osservatore Romano - 21-22 giugno 2010)
TESTIMONIANZA/ Macerata Loreto: in cammino per riscoprire il senso della vita - Alessandro Banfi - lunedì 14 giugno 2010 – ilsussidiario.net
Per una volta chiedo io al Sussidiario l'opportunità di usare il sito, diciamo così, per un fatto personale. Il fatto personale è la partecipazione al pellegrinaggio Macerata - Loreto, avvenuto nella notte tra sabato e domenica. Era la prima volta che ci andavo, nonostante esista da 30 anni, e complici le insistenze di amici ed organizzatori. Oltre alla splendida testimonianza di Rose, che veniva dall'Uganda, al saluto del sindaco di Macerata, alla bella predica del cardinale Caffarra, il tutto avvenuto nello stadio Helva Recina prima della partenza, la cosa più mi ha colpito è stato proprio il camminare. Mettere passo dopo passo, senza mai fermarsi, sempre accompagnati da canti, preghiere e dai vari Misteri del Rosario. Che notte questa notte in cui un gesto semplice della tradizione diventa l'occasione di domandare, finalmente di chiedere, di sorprendersi a pensare le cose che più contano nella vita! La bella frase di Don Giussani che campeggiava nello stadio davvero è il titolo di questo gesto: "Il protagonista della storia è il mendicante".
Due momenti sugli altri però mi hanno profondamente commosso. Il primo: quando dallo straordinario impianto di amplificazione, che raggiungeva tutti i 90 mila partecipanti, sono state lette le intenzioni giunte da tutta Italia. Persone con problemi gravi, in coma, malati, gravidanze a rischio, famiglie in crisi, insomma nomi, volti, storie di dolore. Le domande di un popolo sofferente. Davvero come a Lourdes, a Fatima, al Divino Amore. Ai piedi di Maria, di fronte alla Grazia, le richieste dei mendicanti del 2010 sono impellenti e sussurrate.
E tuttavia, come ha detto Rose allo stadio, con profondità e semplicità, è un popolo non definito dall'orrore che pure è piombato su di esso. Secondo momento per cui mi sento in dovere di ringraziare: l'arrivo a Loreto. Quando i pellegrini dopo tante ore di cammino giungono nei pressi dalla Santa Casa c'è una folla di gente in attesa. La loro commozione diventa quella di chi ha camminato: come se tutti vedessero con più chiarezza il perché di quello che sta avvenendo. Diventa naturale guardare a Maria, alla bella statua esposta in piazza. La felicità può sorprendere alla fine di questo cammino, più di quanto ognuno dei 90mila si aspettava.
Avvenire.it, 22 Giugno 2010 - L'insegnamento di Papa Benedetto - Come in solstizio: oltre la paura del buio - Marina Corradi
All'Angelus il Papa ha citato Edith Stein: «Più si fa buio intorno e più dobbiamo aprire il cuore alla luce che viene dall’alto», scriveva nel 1938 dal Carmelo di Colonia la santa morta ad Auschwitz. E’ un pensiero, quello di suor Teresa Benedetta della Croce, che nella sua essenza ritorna in questi mesi nelle parole del Papa. Benedetto XVI ci parla spesso del buio. E della luce. Di un buio e di una luce che paradossalmente si accompagnano; di una luce che viola anche il fondo del buio più impenetrabile.
Anche a Torino, in Duomo, dopo lunghi minuti in ginocchio solo davanti alla Sindone, aveva meditato su quella che ha chiamato «icona del Sabato Santo», sul tempo «breve ma infinito» della morte di Dio: «L’oscurità di quel giorno interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita, in particolar modo interpella noi credenti. Anche noi abbiamo a che fare con questa oscurità».
Noi come tutti. E forse anche più noi di chi non crede in niente, e procede con cinica rassegnazione. L’oscurità, il male, il dolore, provocano più fortemente chi crede nella promessa di un Dio buono.
Ci provocano anche oggi, benché non siamo in tempi di guerra o di lager. Benché viviamo in pace, e non ci ricordiamo la fame. Ma è come se tra noi si allargasse una penombra. Quanto fatichiamo a ricordarci di un bene comune, e di una condivisa speranza. Sembra che tutto sia pagato, comprato, corrotto. Sembra che niente più sia gratuito, né innocente.
Anche questa è oscurità. Non quella sanguinosa e annichilita del tempo della guerra. Una oscurità «lieve» invece, a volte più simile a una farsa che a un dramma; quasi, a guardarla distrattamente, «gaia»; e però in questa penombra un tarlo rode la nostra speranza. È buio anche un mondo in cui non si ha più fiducia negli altri, e – senza magari dirselo – si pensa di vivere, e cavarsela, per sé soli.
In questa nostra ombra non tragica, ma che avviluppa e avvilisce, e soffoca il coraggio, il Papa domenica è tornato a parlarci del buio con le parole di Edith Stein. Che, ebrea di nascita, nel 1938 ben vedeva, nella lucida profezia dei santi, quali tenebre si andavano addensando in cielo e in terra. E tuttavia parlava di una luce cui, in quel buio, aprire di più l’anima. Un mese fa, a Torino, Benedetto XVI si è fermato davanti alla Sindone, icona di morte e martirio che pure milioni di uomini sono andati a venerare. «Il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più luminoso di una speranza che non ha confini», ha detto.
Dov’è la luce? Dove non la cercheremmo, dove non vorremmo andare: al fondo del buio. È la stessa cosa che Benedetto XVI ha spiegato chiudendo l’anno sacerdotale. Quest’anno ferito dalla coscienza del male compiuto proprio da dei sacerdoti. Buio e dolore dunque nella Chiesa. Ma questo buio serviva a «diventare grati per il dono di Dio», ha detto il Papa: per quel dono in vasi di creta, più forte però e gratuito e perpetuo di ogni miseria degli uomini.
E sembra che Benedetto ultimamente ci insegni, come ai bambini, a non avere paura del buio. A guardare invece a una misteriosa simmetria: più profonda è la notte, più grande è l’attesa dell’alba. Nella antica sapienza della Chiesa: che festeggia la nascita di Cristo a pochi giorni dal solstizio d’inverno, quando il giorno è debole e breve, e le notti interminabili. Nel fondo del buio, quando gli uomini tremano e dubitano, l’avvento della luce. Come se la oscurità che ci sgomenta fosse vuoto, o domanda, finalmente, che attende di essere colmato.
Marina Corradi