mercoledì 9 giugno 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) OSSERVATORE ROMANO/ Carron: prima di tutto autenticamente uomini - Julián Carrón - mercoledì 9 giugno 2010 – ilsussidiario.net
2) La potenza di un «sì»: l'abbraccio delle associazioni laicali al Papa - EDITORIALE - La potenza di un «sì» - © Copyright Tracce N.6, Giugno 2010
3) Il nostro enorme bisogno del bello - Marina Corradi – TEMPI – dal sito pontifex.roma.it
4) Tommaso d'Aquino: umiltà e grandezza - Autore: Oliosi, don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 9 giugno 2010 - Tommaso chiedeva, preoccupato, se quanto aveva scritto sui misteri della fede cristiana era giusto. E il Crocefisso rispose: “Tu hai parlato bene di me, Tommaso. Quale sarà la tua ricompensa?” E la risposta di Tommaso, di noi tutti che abbiamo incontrato Gesù: “Nient’altro che Te, Signore”
5) 08/06/2010 – IRAQ - Kirkuk, ucciso un commerciante cristiano. Torna la paura fra i fedeli - Hani Salim Wadi' era proprietario di un negozio di telefoni in centro città. La vittima aveva 34 anni, era sposato e padre di una bambina. Testimoni locali parlano di “omicidio mirato”, eseguito a colpi di arma da fuoco. La comunità teme una nuova spirale di violenza.
6) Curo i gay ma non sono una strega - Marco Invernizzi – TEMPI – dal sito pontifex.roma.it
7) Confessioni di un portoricano - Lorenzo Albacete - mercoledì 9 giugno 2010 – ilsussidiario.net
8) LA STORIA/ Quei ragazzi disabili che recitano Dante e sbalordiscono il pubblico – Redazione - martedì 8 giugno 2010 – ilsussidiario.net
9) MEDIO ORIENTE/ Tornielli (Il Giornale): ecco perchè solo i cristiani possono costruire la pace - Andrea Tornielli - mercoledì 9 giugno 2010 – ilsussidiario.net
10) Pazienti in stato vegetativo persistente: reazioni cerebrali migliori del previsto - Articolo di Rosa a Marca 8 giugno 2010 – da ADUC
11) LA PAPESSA/ Il film tarocco che neanche Dan Brown avrebbe pensato - Beppe Musicco - mercoledì 9 giugno 2010 – ilsussidiario.net
12) Avvenire.it, 9 Giugno 2010 - La lettera dei vescovi ai sacerdoti - Grazie a ognuno e all'uno di esempio - Davide Rondoni


OSSERVATORE ROMANO/ Carron: prima di tutto autenticamente uomini - Julián Carrón - mercoledì 9 giugno 2010 – ilsussidiario.net
Non dimenticherò mai il contraccolpo avuto durante il ritiro spirituale con alcuni sacerdoti in America latina. Avevo appena terminato di dire che spesso alla nostra fede manca l’umano, che un sacerdote mi avvicinò. Mi disse che all’epoca in cui era in seminario gli avevano insegnato che era meglio nascondere la sua umanità concreta, non averla davanti agli occhi «perché disturbava il cammino della fede».
Questo episodio mi ha reso più consapevole di come può essere ridotto il cristianesimo e dello stato di confusione in cui siamo chiamati a vivere la nostra vocazione sacerdotale. Una volta domandarono a don Giussani che cosa avrebbe raccomandato a un giovane prete: «Che sia innanzitutto un uomo», rispose, suscitando la reazione stupefatta dei presenti.
Ci troviamo agli antipodi dell’indicazione data al seminarista: da una parte, il distogliere gli occhi dalla propria umanità, dall’altra, uno sguardo pieno di simpatia per se stessi. Che cosa risulta dunque decisivo per la nostra fede e la nostra vocazione? Di che cosa abbiamo bisogno?
Don Giussani ha più volte indicato nella «trascuratezza dell’io», nell’assenza di un autentico interesse per la propria persona, «il supremo ostacolo al nostro cammino umano» (Alla ricerca del volto umano, Rizzoli, Milano 1995, p. 9). Invece è il vero amore a se stessi, la vera affezione a sé quella che ci porta a riscoprire le nostre esigenze costitutive, i nostri bisogni originali nella loro nudità e vastità, così da riconoscerci rapporto col Mistero, domanda di infinito, attesa strutturale.
Solo un uomo così «ferito» dal reale, così seriamente impegnato con la propria umanità può aprirsi totalmente all’incontro con il Signore. «Cristo infatti - afferma don Giussani - si pone come risposta a ciò che sono “io” e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare, a ringraziare, a vivere Cristo. Senza questa coscienza anche quello di Gesù Cristo diviene un puro nome» (All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2001, p. 3).
«Non c’è risposta più assurda di quella a una domanda che non si pone», ha scritto Reinhold Niebuhr. Può valere anche per noi quando acriticamente subiamo l’influsso della cultura in cui siamo immersi, che sembra favorire la riduzione dell’uomo ai suoi antecedenti biologici, psicologici e sociologici. Ma se l’uomo è davvero ridotto a questo, quale è allora il nostro compito di sacerdoti? A che cosa serviamo? Quale è il senso della nostra vocazione? Come resistere a una fuga dal reale rifugiandoci nello spiritualismo, nel formalismo, cercando alternative che rendano sopportabile la vita? Oppure non sarebbe meglio, obbedendo al clima culturale, diventare assistente sociale, psicologo, operatore culturale o politico?
Come ha ricordato Benedetto XVI a Lisbona, «spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, ciò che purtroppo è sempre meno realista. Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e funzioni; ma cosa accadrà se il sale diventa insipido?» (Omelia della Santa Messa al Terreiro do Paço di Lisboa, 11 maggio 2010).

Tutto dipende dunque dalla percezione, innanzitutto per noi, di che cosa sia l’uomo e di che cosa corrisponda realmente al suo desiderio infinito. La decisione con cui viviamo la nostra vocazione deriva perciò dalla decisione con cui viviamo il nostro essere uomini. Solo dentro una vibrazione umana autentica possiamo conoscere Cristo e lasciarci affascinare da Lui, fino a darGli la vita per farLo incontrare agli altri.
«Come mai la fede ha ancora in assoluto una sua possibilità di successo?», si chiedeva pochi anni fa l’allora cardinale Ratzinger e rispondeva: «Dirci perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo. (...) Nell’uomo vi è una inestinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito, per lacerare la nostra finitezza e condurla nell’ampiezza della sua infinità, è in grado di venire incontro alle domande del nostro essere. Perciò anche oggi la fede cristiana tornerà a trovare l’uomo» (Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena 2003, pp. 142-143).

Questa certezza che Benedetto XVI testimonia di continuo anche davanti a tutto il male che ci procuriamo o che causiamo agli altri - pensiamo alla vicenda della pedofilia - ci invita a un cammino per la riscoperta e l’approfondirsi della ragionevolezza della fede: «La nostra fede ha fondamenta, ma c’è bisogno che questa fede diventi vita in ognuno di noi (...): soltanto Cristo può soddisfare pienamente i profondi aneliti di ogni cuore umano e dare risposte ai suoi interrogativi più inquietanti circa la sofferenza, l’ingiustizia e il male, sulla morte e la vita nell’Aldilà» (Omelia della Santa Messa al Terreiro do Paço di Lisboa, 11 maggio 2010).
Solo se sperimentiamo la verità di Cristo nella nostra vita, avremo il coraggio di comunicarla e l’audacia di sfidare il cuore delle persone che incontriamo. Così il sacerdozio continuerà a essere un’avventura per ciascuno dì noi e quindi l’occasione per testimoniare ai fratelli uomini la risposta che solo Cristo è al «misterio dell’esser nostro» (G. Leopardi).
(Tratto da L’Osservatore Romano del 9 giugno 2010)

La potenza di un «sì»: l'abbraccio delle associazioni laicali al Papa - EDITORIALE - La potenza di un «sì» - © Copyright Tracce N.6, Giugno 2010
È vero, a volte i numeri parlano. Duecentomila persone in San Pietro, ad accogliere ed essere accolte dal Papa. Uno spettacolo raro. Arrivato appena tre giorni dopo i quattrocentomila della spianata di Fatima. E più o meno nello stesso periodo in cui a Torino si sono fatti i conti dei pellegrini arrivati per l’ostensione della Sindone, appena chiusa: oltre due milioni.
Leggi, sommi e ti viene spontaneo accodarti alla conclusione tirata da molti dopo il Regina Coeli del 16 maggio: esiste ancora un popolo cristiano. Non te lo aspetti, ma c’è. Si vede. Sbuca a sorpresa persino da quei quotidiani che, sulla stessa pagina, sopra un commento sulla Chiesa che «ormai perde fiducia», mettono la foto della piazza stracolma.
Poi, però, la piazza si svuota. Si torna a casa. Ognuno alla sua casa. Stampa e tv parlano d’altro. I commenti sui “Papa-boys” e la “manifestazione di sostegno al Pontefice” si diradano. L’imponenza dei numeri evapora. Ed è lì, nella vita di ognuno, che affiora - o svanisce - la vera domanda: che cosa è successo davvero in San Pietro? Cosa è successo a me che ero lì, cosa ho imparato io? A che è valso il sacrificio del viaggio, la sproporzione (venti ore di treno e venti minuti di piazza), la fatica? E soprattutto, perché mi sono scoperto contento di esserci?
È di questa sfida che si racconta nelle prossime pagine. Perché gran parte di quei duecentomila erano lì per sé. Per affetto al Papa, certo. Ma attraverso il Papa, a sé. All’esperienza che si vive. E che in quella presenza concreta, storica, trova una roccia sicura su cui poggiare. Senza, prima o poi, verrebbe giù tutto. Svanirebbero la fede e l’umano. Figuratevi i numeri.
Chi c’è stato, può raccontarlo. Può raccontare del cambiamento vissuto prendendo sul serio quella ragione intuita per sé ed offerta a tutti da don Julián Carrón, e che all’inizio sembrava quasi strana: «Non andiamo a Roma per sostenere il Papa, ma per essere sostenuti da lui». Chi c’era, può raccontare - racconta - di una verifica della fede, di una certezza che si scopre più forte perché è passata attraverso un metodo che solo il cristianesimo sa offrire al mondo: un fatto. Qualcosa che non ti dai tu, accade e ti provoca. E quindi educa, perché fa venire fuori quello che sei. «Tutti hanno fatto un passo di consapevolezza, di fronte al 16 maggio», ha detto poi lo stesso Carrón: «Chi è andato, e chi no. Perché hanno dovuto fare i conti con un fatto e con delle ragioni chiare». E hanno potuto dire sì. O no.
È lì che si annida l’imponenza di un avvenimento come il 16 maggio. Non nei numeri, negli slogan o nelle cause buone e giuste da sostenere: nel cuore di ognuno. Nella potenza di un «sì» personale, perché pieno di ragioni vere diventate proprie. È quello che genera una presenza - anche pubblica. È quello che fa nascere un popolo. «Le forze che muovono la storia sono le stesse che muovono il cuore dell’uomo», disse una volta don Giussani. E quando il cuore si muove, inizia lo spettacolo.
© Copyright Tracce N.6, Giugno 2010


Il nostro enorme bisogno del bello - Marina Corradi – TEMPI – dal sito pontifex.roma.it
È quasi scandalosa la risposta di don Giussani a quella missionaria che si sentiva impotente di fronte a tutta la sofferenza dei suoi bambini: non dimenticarti di ciò che ci meraviglia e commuove, è memoria di Dio - Ho conosciuto una donna che fa la missionaria con i bambini di una terra sperduta dell’Est. Mi ha raccontato di figli abbandonati e madri sole, in un paese che ha perso quasi ogni memoria cristiana. La ascoltavo e cercavo di immaginare le sue giornate in quel posto lontano, dove l’inverno dura sei mesi e gli uomini vengono educati semplicemente a sopravvivere. A un certo punto mi è venuto istintivo domandare: ma di fronte a tanta solitudine e dolore non ti senti mai impotente, mai travolta, visto che ciò che puoi fare è comunque una goccia nel mare? (Glielo ho chiesto nel ricordo di un viaggio, anni fa, in Moldavia, quando il numero e lo stato di abbandono dei bambini di strada mi erano parsi una tale ...

... mole di sofferenza da portare inevitabilmente alla disperazione). Lei ha afferrato subito il senso della mia domanda, che in questi anni laggiù deve essersi ripresentata davanti tante volte, ora impellente, ora freddamente quieta.

«Sì, accade di vedere la tua impotenza. Accade di entrare in un orfanotrofio dove cento bambini ti si accalcano attorno e ti domandano qualcosa; e allora capisci che ciò che puoi dare, comunque, non basterà mai».

Succede anche a te allora, ho detto, più attenta, come avessi incontrato una compagna di strada. E dimmi, che risposta ti sei data? Lei ha detto che non aveva saputo darsi risposta, e che dunque scrisse a don Luigi Giussani. Lui rispose. Una lettera non troppo lunga, e dei soldi, una discreta somma. Cara A., diceva, ti mando questo denaro perché tu ti compri qualcosa che sia per te molto bello. Ricordati: perché tu possa continuare a dare agli uomini che incontri, è essenziale che tu non perda il gusto del bello.

Una risposta che stupisce, soprattutto se viene da un prete. La risposta ovvia sarebbe stata una beneficenza per i poveri, e l’esortazione a mettere da parte il pensiero della propria impotenza, seme possibile di disperazione. E invece no: Giussani alla missionaria in una terra desolata diceva di badare, prima di tutto, a «non perdere il gusto del bello».

Abituata a un cristianesimo moralista e pauperista, questa risposta mi è sembrata dapprima quasi scandalosa. Poi ho capito. Ricordati, quando hai davanti abbandono e solitudine, ciò che è profondamente bello. (Le Dolomiti in un’alba d’estate, lo sguardo limpido di un bambino, i colori di un quadro di Giotto, ma anche la gatta che cova fiera i suoi gattini). Conserva il gusto del bello. Non dimenticarti mai di ciò che ci meraviglia e commuove. Perché la bellezza è orma di Dio, segno lasciato dalla sua mano. Di ciò che è bello abbiamo bisogno quasi più che del pane. Ogni bellezza è memoria di Lui, lasciata scritta, come smarrita su questa terra – lasciata lì perché noi vediamo. È il fiore che sboccia in alta montagna, fra le crepe delle rocce, dove non lo vedrà nessuno se non forse un gitante, come per caso, un mattino. E dirà fra sé: a cosa serve un fiore qui? Tanta bellezza, per chi? Per te che passi, per te che l’hai visto e ti sei fermato. È un’orma. È la Bellezza che lascia traccia di sé, perché affascinati la seguiamo.
Marina Corradi – TEMPI


Tommaso d'Aquino: umiltà e grandezza - Autore: Oliosi, don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 9 giugno 2010 - Tommaso chiedeva, preoccupato, se quanto aveva scritto sui misteri della fede cristiana era giusto. E il Crocefisso rispose: “Tu hai parlato bene di me, Tommaso. Quale sarà la tua ricompensa?” E la risposta di Tommaso, di noi tutti che abbiamo incontrato Gesù: “Nient’altro che Te, Signore”
«Dal 1261 al 1265 Tommaso era ad Orvieto. Il Pontefice Urbano IV, che nutriva per lui una grande stima, gli commissionò la composizione dei testi liturgici per la festa del Corpus Domini, istituita in seguito al miracolo eucaristico di Bolsena. Tommaso ebbe un’anima squisitamente eucaristica. I bellissimi inni che la liturgia della Chiesa canta per celebrare il mistero della presenza reale del Corpo e del Sangue del Signore nell’Eucaristia sono attribuiti alla sua fede e alla sua sapienza teologica. Dal 1265 al 1268 Tommaso risiedette a Roma, dove probabilmente, dirigeva uno Studium, cioè una Casa di studi dell’Ordine, e dove iniziò a scrivere la sua Summa Theologiae.
Nel 1269 fu richiamato a Parigi per un secondo ciclo di insegnamento. Gli studenti – si può capire – erano entusiasti delle sue lezioni. Un suo ex allievo dichiarò che una grandissima moltitudine di studenti seguiva i corsi di Tommaso, tanto che le aule riuscivano a stento a contenerli e aggiungeva, con una annotazione personale, che “ascoltarlo era per lui una felicità profonda”. L’interpretazione di Aristotele data da Tommaso non era accettata da tutti, ma persino i suoi avversari in campo accademico, come Goffredo di Fontaines, ad esempio, ammettevano che la dottrina di frate Tommaso era superiore ad altre per utilità e valore e serviva da correttivo a quelle di tutti gli altri dottori. Forse anche per sottrarlo alle vivaci discussioni in atto, i Superiori lo inviarono ancora una volta a Napoli, per essere a disposizione del re Carlo I, che intendeva riorganizzare gli studi universitari.
Oltre che allo studio e all’insegnamento, Tomaso si dedicò pure alla predicazione al popolo. E anche il popolo volentieri andava ad ascoltarlo. Direi che è veramente una grande grazia quando i teologi sanno parlare con semplicità e fervore ai fedeli. Il ministero della predicazione, d’altra parte, aiuta gli stessi studiosi di teologia a un sano realismo pastorale, e arricchisce di vivaci stimoli la loro ricerca.
Gli ultimi mesi della vita terrena di Tommaso restano circondati da un’atmosfera particolare, misteriosa direi. Nel dicembre del 1273 chiamò il suo amico e segretario Reginaldo per comunicare la decisione di interrompere ogni lavoro, perché durante la celebrazione della Messa, aveva compreso, in seguito a una rivelazione soprannaturale, che quanto aveva scritto fino ad allora era solo “un mucchio di paglia”. E’ un episodio misterioso, che ci aiuta a comprendere non solo l’umiltà di Tommaso, ma anche il fatto che tutto ciò che riusciamo a pensare e a dire sulla fede, per quanto elevato e puro, è infinitamente superato dalla grandezza e bellezza di Dio, che ci sarà rivelata in pienezza nel Paradiso. Qualche mese dopo, sempre più assorto in una pensosa meditazione, Tommaso morì mentre era in viaggio verso Lione, dove si stava recando per prendere parte al Concilio Ecumenico indetto da Papa Gregorio X. Si spense nell’Abbazia cistercense di Fossanova, dopo aver ricevuto il Viatico consentimenti di grande pietà.
La vita e l’insegnamento di san Tommaso d’Aquino si potrebbero riassumere in un episodio tramandato dagli antichi biografi. Mentre il Santo, come suo solito, era in preghiera davanti al Crocifisso, al mattino presto nella Cappella di San Nicola, a Napoli, Domenico da Caserta, il sagrestano della chiesa, sentì svolgersi un dialogo. Tommaso chiedeva, preoccupato, se quanto aveva scritto sui misteri della fede cristiana era giusto. E il Crocifisso rispose: “Tu hai parlato bene di me, Tommaso. Quale sarà la tua ricompensa?”. E la risposta che Tommaso diede è quella che anche noi, amici e discepoli di Gesù, vorremmo sempre dirgli: “Nient’altro che Te, Signore!» [Benedetto XVI, Udienza Generale, 2 giugno 2010].

La scienza della fede cioè la teologia presuppone la fede che esistenzialmente accade, matura con l’avvenimento dell’incontro con la persona viva di Gesù Cristo presente nella e attraverso la sua Chiesa. Pastoralmente la teologia come vocazione offre dunque il suo contributo perché la fede divenga pensabile, vivibile e quindi comunicabile, e l’intelligenza di coloro che non conoscono ancora il Cristo possa ricercarla e trovarla. Una fede non pensata è una fede nulla, pensata male è un disastro. La teologia, che obbedisce all’impulso della verità che tende a comunicarsi, nasce sempre dall’amore e dal suo dinamismo: nell’atto di fede, l’uomo giunge a cogliere la bontà di Dio e comincia ad amarlo, ma l’amore desidera conoscere sempre meglio colui che ama per lasciarsi assimilare a Lui.


08/06/2010 – IRAQ - Kirkuk, ucciso un commerciante cristiano. Torna la paura fra i fedeli - Hani Salim Wadi' era proprietario di un negozio di telefoni in centro città. La vittima aveva 34 anni, era sposato e padre di una bambina. Testimoni locali parlano di “omicidio mirato”, eseguito a colpi di arma da fuoco. La comunità teme una nuova spirale di violenza.
Kirkuk (AsiaNews) – Nuovo omicidio mirato contro la comunità cristiana a Kirkuk, nel nord dell’Iraq. Ieri sera è stato assassinato a colpi di arma da fuoco un commerciante di 34 anni. Fonti locali riferiscono ad AsiaNews che “i cristiani sono ancora una volta obiettivo” di attacchi mirati e nella città si respira “un clima di insicurezza”.
Un testimone oculare racconta che “alle 9 di ieri sera è stato ucciso davanti la sua abitazione Hani Salim Wadi'”. L’uomo era nato nel 1976, aggiunge la fonte di AsiaNews, era sposato e padre di una bambina. La vittima, un commerciante, era proprietaria di un negozio di telefonini in centro città. Al momento non sono chiare le motivazioni alla base dell’omicidio, ma i fedeli temono una nuova spirale di violenze contro la comunità. “Noi cristiani – denuncia la fonte – siamo ancora una volta obiettivo di attacchi”.
Il nord dell’Iraq – in particolare Mosul e Kirkuk – è da tempo teatro di attacchi mirati contro la comunità cristiana, al centro di una lotta di potere fra arabi, curdi e turcomanni. Da tempo i fedeli parlano di una persecuzione che prosegue nell’indifferenza generale. I cristiani sono convinti che “non si tratta di criminali normali” e che dietro agli attacchi ci sono “precisi piani politici”: la creazione di un’enclave cristiana nella piana di Ninive e il governo, centrale e provinciale, “non fa nulla per contrastarla”.(DS)


Curo i gay ma non sono una strega - Marco Invernizzi – TEMPI – dal sito pontifex.roma.it
Accolto a Brescia dalle critiche dei colleghi e dagli insulti dei militanti, lo psicologo Nicolosi rivendica la scientificità e la bontà della “terapia riparativa”. «Aiuto persone che si sentono infelici e desiderano rimuovere la causa del loro disagio» - È stato accolto in Italia come uno psicologo rinnegato che vuole “curare” i gay e farli diventare “normali” a tutti i costi. Hanno cominciato i giornali locali e nazionali, poi si sono messi in mezzo i suoi colleghi italiani, l’Ordine della Lombardia, quello del Lazio e altri. Tutti a decretare che Joseph Nicolosi è fuori dalla “loro” comunità scientifica e offende la “loro” professione perché, praticando la “terapia riparativa”, impedisce agli omosessuali di vivere liberamente la loro condizione. E a furia di veleni e menzogne, Nicolosi è diventato il mostro da tenere a bada coi forconi. Per adesso, fortunatamente, si sono fermati alla vernice rossa con cui nella notte fra il 19 e il 20 maggio sono ...

... stati imbrattati il portone e i muri attigui alla sede del Sindacato delle famiglie e del Forum delle associazioni familiari, a Milano, con scritte contro la presenza del “fascista” che nei giorni successivi avrebbe parlato a Brescia.

Ma chi è Joseph Nicolosi? E cos’è la terapia riparativa? Perché suscita tanta ostilità? Tempi ha provato a chiederlo direttamente a lui, approfittando del suo passaggio in Lombardia in occasione del convegno sull’omosessualità rivolto a educatori, genitori, psicoterapeuti, dove è stato presentato il suo ultimo libro tradotto in italiano, Identità di genere. Manuale di orientamento (Sugarco, 448 pagine, 25 euro).

Americano nato nel 1947, Nicolosi vive ed esercita la terapia riparativa nella sua clinica, la Thomas Aquinas Psychological Clinic, a Encino, California, dove dirige l’Associazione nazionale per la ricerca e la terapia dell’omosessualità (Narth), della quale esiste un piccolo nucleo anche in Italia. È membro dell’American Psychological Association e autore di numerosi libri e articoli scientifici, alcuni dei quali pubblicati anche nella nostra lingua. In un’epoca in cui è vietato considerare l’omosessualità una malattia, non poteva che nascere una leggenda nera intorno alla sua figura e alla sua terapia. Il 30 per cento dei clienti di Nicolosi, infatti, ha abbandonato definitivamente l’omosessualità.

Dottor Nicolosi, omosessuali si nasce?

Non esiste una prova conclusiva che le persone nascano omosessuali, non ci sono dimostrazioni decisive a livello genetico, biologico o di studi sul Dna. Molte persone credono di avere scoperto il “gene gay”, ma questo non è affatto vero. Potrebbe esserci una qualche predisposizione biologica, ma anche se ci fosse, non sarebbe determinante: i bambini nati con questa predisposizione temperamentale hanno comunque bisogno della classica “costellazione familiare” per trasformarla in un orientamento omosessuale. Questa “costellazione familiare” ha uno schema classico, ripetutamente documentato nel corso degli anni: una madre eccessivamente presente, invadente, dominante, e un padre distante, distaccato e/o ostile.

Circa 25 anni fa, dopo una lunga attività diciamo ordinaria, come tutti gli psicologi lei “scopre” il dramma esistenziale di molti “omosessuali non gay”, che cioè non accettano la propria condizione. Così nasce e si articola la terapia che lei chiama “riparativa”.

Di cosa si tratta?

La terapia riparativa deve prendere le mosse dalla motivazione al cambiamento da parte del cliente. È lui che desidera risolvere qualcosa nella sua vita che gli causa disagio. Sogna un giorno di sposarsi e avere una famiglia; probabilmente si è dedicato a pratiche o ha assunto comportamenti omosessuali che ha trovato insoddisfacenti; ha vissuto per un po’ nella subcultura gay e ne è stato deluso e sta ora cercando di ridurre qualcosa che trova insoddisfacente, che gli crea infelicità, e desidera aumentare il suo potenziale eterosessuale. Quando il cliente è motivato comincia a comprendere come alcuni eventi della sua infanzia hanno posto le fondamenta per un adattamento omosessuale. Di solito comincia a riconoscere che la sua storia personale si inquadra nella classica triade familiare prima descritta; può darsi che identifichi momenti particolarmente traumatici, momenti di intensa vergogna riguardo la propria autostima, la propria identità di maschio, la formazione della propria identità di genere come maschio. Questi momenti allora diventano il punto focale della terapia. Si tratta di sciogliere i traumi del passato. Un altro fattore importante nella terapia è lo sviluppo di amicizie maschili significative. Il cliente comincia a rendersi conto che ciò che sta dietro la sua attrazione per lo stesso sesso in realtà non ha affatto carattere sessuale, ma è un desiderio di quelle che chiamiamo le tre A: attenzione, affetto, approvazione. Questi sono bisogni affettivi, bisogni di identificazione, e man mano che essi vengono soddisfatti attraverso amicizie profonde, in molti casi il cliente scopre che le sue tendenze omosessuali diminuiscono.

La teoria riparativa è efficace?

Secondo i suoi critici sarebbe dannosa… La terapia è efficace. Faccio questo lavoro da 25 anni e vediamo regolarmente che le persone cambiano. Questo non vuol dire che il cambiamento sia istantaneo o facile. È una terapia molto difficile e lunga, ma ovviamente ogni individuo può decidere quanto vuole restare in terapia, quanto vuole proseguire. Ognuno è libero di sceglierne l’estensione, ma in media la terapia dura due anni, a conclusione dei quali i sentimenti omosessuali residuali del cliente non sono più fonte di disagio per lui, non sono più compulsivi, ma vengono gestiti e congedati consentendo di rifocalizzare l’attenzione sulla propria vita eterosessuale. Per quanto riguarda i possibili danni, il dato di fatto è che non è mai stato sottoposto alla nostra attenzione un solo caso di danno derivante da essa. Come per ogni altro tipo di terapia, procedere rispettando sempre i desideri e i sentimenti del cliente è la garanzia contro il danno. Il cliente non viene mai forzato o spinto a fare o credere qualcosa che non sia vero per lui. Quindi i princìpi di ogni buona terapia, indipendentemente da quale sia il problema, valgono anche per la terapia riparativa.

In Italia il termine “riparativo” accostato al concetto di omosessualità suscita reazioni negative.

Sono stato io a coniare l’espressione “terapia riparativa”. Il concetto di riparativo è di origine psicoanalitica. Esso spiega che il sintomo, di qualsiasi sintomo si tratti, è in realtà un desiderio di autoguarigione. Quindi diciamo “terapia riparativa” perché il cliente prende coscienza che i suoi sentimenti omosessuali, il suo comportamento omosessuale sono in realtà un tentativo di “riparare se stesso”. Egli sta cercando di acquisire qualcosa che manca nel suo passato, cioè la relazione affettiva con altri uomini. Quindi il concetto che l’omosessualità è un impulso riparativo è in realtà confortante e consolante per il cliente, perché comprende che il suo comportamento non dice: “Sei un pervertito, sei uno strano, una persona malata”, ma dice invece: “Il tuo desiderio omosessuale affonda in realtà le sue radici in un desiderio naturale”. Quindi questo è molto confortante per il cliente. Tuttavia i miei critici vogliono intendere la parola “riparare” nel suo aspetto superficiale. Per quanto spesso io chiarisca il termine “riparativo”, ci sono sempre persone che continuano a fraintenderlo di proposito.

Dottor Nicolosi, i suoi critici e alcuni suoi colleghi dicono che lei è al di fuori della comunità scientifica internazionale, che l’American Psychological Association le ha proibito di esercitare la professione.

È falso. Sono membro dell’Apa da più di dieci anni, continuo a esserlo, nessuno mi ha proibito di esercitare la professione. Sono anche membro della Psychoanalytic Division dell’Apa. Credo che noi siamo nel regno della scienza, mentre molte altre associazioni di professionisti sono state trascinate da gruppi rappresentanti interessi particolari fuori dalla scienza e dentro la politica. Se stessimo facendo qualcosa di sbagliato, sarebbe l’Apa ad attivarsi contro di noi. Invece siamo noi a incalzare l’Apa, sfidandola ad essere più scientifica.
Marco Invernizzi – TEMPI


Confessioni di un portoricano - Lorenzo Albacete - mercoledì 9 giugno 2010 – ilsussidiario.net
Senza dubbio l’argomento più dibattuto nelle notizie della scorsa settimana negli Stati Uniti è stata la “marea nera” del Golfo del Messico con tutte le sue implicazioni, specialmente le conseguenze politiche per il presidente Obama. Altri temi sono in attesa di passare al centro dell’attenzione nazionale, quali l’economia, la candidatura di Elena Kagan alla Corte Suprema, l’influenza del Tea Party sulle prossime elezioni di mezza legislatura, l’abolizione della politica “non chiedere, non dire” per gay e lesbiche nelle forze armate, e via dicendo.
E poi c’è la Coppa del Mondo di calcio in Sudafrica. È interessante che Time Magazine abbia dedicato il suo doppio numero estivo al Mondiale, pubblicando gli stessi articoli in tutte le sue edizioni nei vari Paesi. Nell’edizione americana vi era, tuttavia, un articolo su un tema che condizionerà il futuro del Paese molto più della Coppa del Mondo, e cioe l’immigrazione. L’articolo si intitola “La battaglia per l’Arizona” e descrive con toni drammatici cos’è in gioco nell’attuale riforma delle leggi sull’immigrazione per l’intera nazione, non solo per l’Arizona.
La Chiesa cattolica è fortemente coinvolta in questa discussione, dato che molti degli immigrati che preoccupano, o perfino spaventano, molti americani sono ispanici o latinos. È perciò istruttivo vedere come la Chiesa affronta questo dibattito, partendo dalla predica di insediamento, un po’ più di una settimana fa, del nuovo Arcivescovo di Miami, Thomas Wenski, uno dei maggiori esperti sull’immigrazione dal punto di vista della Dottrina sociale della Chiesa.
L’Arcivescovo Wenski ha incominciato sottolineando l’importanza di questa materia per l’arcidiocesi di Miami: “Miami può con diritto affermare di essere la nuova Ellis Island (l’isola di fronte a New York su cui venivano raggruppati gli emigranti in arrivo negli Stati Uniti, ndr), perché è diventato il porto di accesso per profughi e immigrati da tutto il mondo, soprattutto dai Caraibi e dall’America Centrale e del Sud. Ovviamente, qui non c’è nessuna Statua della Libertà a dare il benvenuto ai nuovi arrivati, che talvolta non sono comunque molto ben accolti; tuttavia, negli ultimi 52 anni […] la Chiesa di Miami ha continuato a offrire il suo materno abbraccio a tutti”.
“Miami (e la Florida del Sud) è parte di questi Stati Uniti - ha sottolineato poi - ma è diventata anche una parte vitale delle tante nazioni dalle quali è arrivato il nostro popolo: Haiti, Cuba, Nicaragua, Venezuela, Colombia, il resto dei Caraibi e dell’America Centrale e del Sud. Miami si vanta di essere la capitale dell’America Latina, se non dell’intero emisfero. La presenza qui oggi di Vescovi dell’Ecuador, dell’Uruguay, di Porto Rico, Cuba e Haiti dimostra che questo non è un vanto senza fondamento”.
Dopo aver parlato in un fluente spagnolo e creolo, Wenski ha continuato: “Nell’Arcidiocesi di Miami abbiamo i nostri problemi. La crisi economica, la chiusura di scuole, e di più di una dozzina di parrocchie, hanno frustrato tutti e fatto arrabbiare molti. Ma non sentiamoci angustiati per noi stessi”. “Possiamo essere preoccupati da molte cose, ma non dimentichiamo la cosa che è veramente necessaria: il nostro rapporto con Gesù Cristo. Non abbiamo altra ricchezza che questa: il dono dell’incontro con Gesù Cristo”.
L’Arcivescovo ha ricordato come il mese scorso il Papa abbia osservato come “la più grande persecuzione della Chiesa non venga dai nemici esterni, ma dall’interno della Chiesa stessa”. Con parole che dimostrano la sua diversità da molti altri leader ecclesiastici, l’Arcivescovo Wenski ha ammonito che “la sofferenza della Chiesa” non verrà risolta da migliori programmi di computer, da più efficienti procedure economiche, o perfino da più efficaci prediche, “ciò che è richiesto è piuttosto la conversione, un nuovo impegno di tutti a vivere coerentemente la fede”.
È dopo questa fondamentale considerazione che l’arcivescovo ha affrontato il tema dell’origine del ruolo della Chiesa nell’attuale scontro culturale, riferendosi “alla crescente influenza all’interno della nostra cultura di quella che Papa Benedetto ha chiamato ‘la dittatura del relativismo’”, osservando che “questo mondo radicalmente laicizzato vuole ridurre la fede all’ambito del ‘privato’ e del ‘soggettivo’”. Ha poi delineato quella che dovrebbe essere la risposta della Chiesa a questa sfida: “A un mondo tentato di vivere come se Dio non avesse importanza, un mondo che quindi vive in bilico sull’orlo della disperazione, noi dobbiamo testimoniare la speranza dimostrando, con quello che diciamo e facciamo (e non facciamo) quanto bella e gioiosa sia la vita quando uno vive convinto che Dio conti realmente. E, siccome Dio conta, siamo chiamati a costruire una vita in cui conti anche l’uomo”.
L’Arcivescovo Wenski ha continuato: “Noi portiamo nel pubblico dibattito politico su questioni come la vita umana, la dignità, la giustizia e la pace, la riforma sull’immigrazione, il matrimonio e la famiglia, una concezione della persona che, fondata sulla Scrittura, è accessibile anche alla ragione umana. Questa concezione espressa nell’insegnamento sociale della Chiesa può sembrare complessa, ma io credo che possa essere riassunta in una sola, semplice frase: nessun uomo è un problema. Ecco perché come Arcivescovo di Miami continuerò ad affermare un’etica della vita positiva e coerente: nessun essere umano, non importa quanto povero o debole, può essere ridotto solo a un problema. Quando permettiamo a noi stessi di pensare a un essere umano solamente come a un problema, noi offendiamo la sua dignità, e ci sentiamo autorizzati a cercare ciò che conviene, ma non soluzioni”.
L’Arcivescovo ha poi portato diversi esempi di come questa impostazione sia riflessa nell’insegnamento della Chiesa circa l’aborto, il matrimonio, la salute, la pena di morte, e l’immigrazione.
“Per noi cattolici, perciò, non ci possono essere cose come ‘un problema gravidanza’, ma solo un bambino che deve essere ben accolto alla vita e protetto dalla legge. Il profugo, l’immigrato, anche senza documenti, non sono un problema. Può essere forse uno straniero, ma uno straniero da abbracciare come un fratello. Perfino i criminali, con tutto l’orrore dei loro crimini, non perdono la loro dignità di esseri umani, che viene loro da Dio. Anch’essi devono essere trattati con rispetto, anche nella punizione. Per questo la Dottrina sociale della Chiesa condanna la tortura e chiede l’abolizione della pena di morte”.
La conclusione dell’omelia ha sintetizzato la concezione di fondo che lo guiderà: “Stiamo iniziando un nuovo capitolo nella storia della nostra Chiesa locale. Dobbiamo guardare avanti, come Pietro, fiduciosi nelle parole di Cristo ‘Prendi il largo’. Duc in altum. Il Signore ci ha già assicurato: ‘Sono con voi sempre’. Quindi, incominciamo, ripartiamo da capo da Cristo”. Cosa posso aggiungere io? Solo: così sia.


LA STORIA/ Quei ragazzi disabili che recitano Dante e sbalordiscono il pubblico – Redazione - martedì 8 giugno 2010 – ilsussidiario.net
Che le parole e le rime di Dante siano capaci di incantare ogni animo, che la sua lirica possa muovere e commuovere sono cose note a chi, giovane o meno giovane, si è imbattuto nei suoi versi e ha percorso con il sommo poeta l’allegorico cammino della vita. Ma non è altrettanto noto e scontato che ci siano ragazzi, disabili psico-fisici, con gravi handicap e gravi ritardi mentali, ragazzi che non sanno né leggere né scrivere e che a malapena sono in grado di pronunciare il loro nome, capaci di mandare in scena la Divina Commedia e di ammaliare il pubblico.

Uno spettacolo grande quanto il mistero che lo ha generato, realizzato grazie alla collaborazione di tre cooperative sociali: Cura e Riabilitazione di Milano (www.curaeriabilitazione.org) che si costituisce nel 1989 per iniziativa di un gruppo di amici e professionisti che operavano nel campo dei servizi alla persona; Anaconda di Varese, la capofila di questa esperienza teatrale, che nasce nel 1980 come esito di un incontro e una condivisione con persone affette da gravi disabilità; Solidarietà e Servizi di Busto Arsizio che viene fondata nel 1979 “come proposta di una compagnia e un aiuto per tutti coloro che, a partire dal proprio bisogno di lavoro, vogliono scoprire e vivere in pienezza la loro umanità”. Un bell’esempio di sussidiarietà in azione.

La rappresentazione teatrale della Divina Commedia, la cui “prima” è andata in scena il 30 marzo scorso al teatro Carcano di Milano, con un grandissimo successo di pubblico, a grande richiesta vedrà la sua replica venerdì 11 giugno al Teatro Nazionale di Milano. Dopo un lavoro che ha richiesto un notevole sforzo di preparazione sia per gli attori coinvolti che per i loro educatori, che li hanno accompagnati nelle fasi dell’apprendimento e della recitazione, lo spettacolo ha debuttato nel capoluogo lombardo come conclusione di un processo educativo, riabilitativo e formativo.

Ma cosa c’è di unico in questa pièce? Cosa scatta tra gli attori e il pubblico che, commosso, emozionato e incredulo, applaude e non riesce a tenere a freno le emozioni? «I ragazzi - dichiara il direttore della cooperativa Cura e Riabilitazione promotrice dell’evento, Antonello Bolis, - portano in scena un’umanità fragile, ferita e sofferente che rappresenta l’umano di ognuno di noi. Ciò è reso possibile da un metodo educativo che abbraccia il mistero della persona e che permette di vivere il limite come la condizione per la propria realizzazione. I ragazzi riescono così a dare il meglio di sé perché vengono guardati con stima e simpatia, presi sul serio da educatori qualificati, amati per quello che sono e arrivano ad ottenere risultati che nessuno di noi si sarebbe mai aspettato. Questa rappresentazione diventa così un vero inno alla vita e un modo per attaccare la teoria moderna del “vali solo se emergi”: qui entra in campo un fattore che va al di là della pura logica della produttività o del tecnicismo; entra in campo un io insopprimibile che chiede il proprio compimento e che nulla può mettere sotto silenzio».


Così Alfredo che si cala nei panni di Dante, Claudio che fa Virgilio, Michele che recita Caronte, Valentina che si trasforma in Marco Lombardo e altri 21 attori, disabili psichici, accompagnati dai loro educatori, da ballerini e musici, mandano in scena i canti danteschi più conosciuti e drammatizzabili, commentati da improvvisazioni musicali, coreografie e balletti. «Il teatro è vita, il teatro è amore – dichiara la regista dello spettacolo Luisa Oneto -. La Divina Commedia è un linguaggio universale che non ha limiti come la musica: non si può tradurre, si può imparare e recitare. Questi fantastici ragazzi l’hanno appresa a memoria e sono stati in grado di far vivere a me, agli educatori e al pubblico un’esperienza unica e irripetibile.
Parlare di noi stessi, delle nostre paure e dei nostri limiti, si sa, è difficile e per questo spesso ci nascondiamo. Qui invece ci si rende conto che i ragazzi non hanno alcun timore a mettere in scena le loro debolezze e a superare dei gravissimi limiti fisici e mentali: qui entra in scena un fattore che travalica le conoscenze e i pregiudizi, diventa protagonista la persona con la sua ricchezza interiore».

Il teatro svolge sì la sua funzione riabilitativa, ma il piccolo miracolo lo compiono gli occhi degli educatori, il loro sguardo ricco di “pietas”, il livello di motivazione dei ragazzi connesso alla dimensione affettiva che tutti coinvolge e tutto permea. Questi attori “speciali”, che da anni si cimentano in rappresentazioni teatrali, quali il Giamburrasca, la Turandot, il Gobbo di Notre Dame e West Side Story, sembrano dimenticare la loro disabilità per prendere appieno coscienza di se stessi e della ricchezza del loro io. E alla domanda, «perché il pubblico deve venirvi a vedere?» Michele/Caronte, uno di loro risponde: «devono assolutamente venire a vedere lo spettacolo perché devono sbalordirsi». E in questo verbo sta la summa dello spettacolo e dell’effetto che esso genera: lo sbalordimento del pubblico, che applaude alla bravura e alla capacità recitativa dei ragazzi, un pubblico che si commuove e viene travolto da un pathos coinvolgente e quasi “contagioso”.

E basta la dichiarazione “a caldo” dopo la prima al teatro Carcano di un ospite d’eccezione, l’ex allenatore del Milan Leonardo, a testimoniare il forte impatto che i ragazzi riescono ad avere sul pubblico: «Non ho parole, sono commosso, non mi aspettavo una bellezza del genere. Qui c’è qualcosa di nuovo per me: come sono guardati e trattati questi ragazzi, come persone. Per questo è stato fatto qualcosa di straordinario».
(di Francesca Glanzer)


MEDIO ORIENTE/ Tornielli (Il Giornale): ecco perchè solo i cristiani possono costruire la pace - Andrea Tornielli - mercoledì 9 giugno 2010 – ilsussidiario.net
Ciò che colpisce di più dell’accoglienza delle parole pronunciate da Benedetto XVI durante il suo viaggio a Cipro è la facilità con cui esse sono state lette ora da una ora dall’altra delle parti in conflitto in Medio Oriente. C’è chi si è precipitato a esaltare la chiara e inequivocabile condanna dell’occupazione israeliana dei Territori palestinesi e chi invece ha sottolineato come l’Instrumentum laboris del prossimo Sinodo, che il Papa ha consegnato alle Chiese del Medio Oriente domenica mattina, prenda di mira soprattutto il fondamentalismo islamico in costante crescita.
Né l’una né l’altra di queste letture strumentali hanno voluto veramente fare i conti con il messaggio di Benedetto XVI, che lo scorso 13 maggio a Fatima aveva detto: «Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa. Qui rivive il disegno di Dio che interpella l’umanità sin dai suoi primordi: “Dov’è Abele, tuo fratello?... La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!”. L’uomo ha potuto scatenare un ciclo di morte e di terrore, ma non riesce a interromperlo».
Domenica scorsa, a Nicosia, Ratzinger ha lanciato un suo «appello personale» per «uno sforzo internazionale urgente e concertato al fine di risolvere le tensioni che continuano nel Medio Oriente, specie in Terra Santa, prima che tali conflitti conducano a uno spargimento maggiore di sangue».
I cristiani del Medio Oriente si trovano spesso stretti nella morsa degli opposti estremismi. Soprattutto la crescita dell’islam politico, che vuole imporre la legge islamica a tutti, tormenta la vita delle antiche e minoritarie comunità cristiane dell’area, scoraggiate, tentate a chiudersi in un ghetto (talvolta il ghetto viene proposto da chi pensa di risolvere le contese internazionali separando popoli e comunità come in un grande zoo: è la «soluzione» americana per la tutela dei cristiani in Iraq), tentate a fuggire, come purtroppo accade di frequente.
Il Papa a Cipro ha quindi voluto ricordare le «grandi prove» che alcune comunità cristiane soffrono in queste regioni e il prezioso contributo al bene comune portato dai cristiani, definiti «artigiani della pace». «Voi - ha detto - desiderate vivere in pace e in armonia con i vostri vicini ebrei e musulmani. Voi meritate la riconoscenza per il ruolo inestimabile che rivestite. È mia ferma speranza che i vostri diritti siano sempre più rispettati».
I cristiani, che rischiano di chiudersi in un ghetto per la paura, si legge nell’Instrumentum laboris del Sinodo, devono essere consapevoli di appartenere al Medio Oriente e di esserne «una componente essenziale come cittadini», anzi, «i pionieri della rinascita della Nazione araba».
In queste regioni, i cristiani, sono chiamati a promuovere «la pedagogia della pace». Una via «realistica, anche se rischia di essere respinta dai più», ma che dovrebbe invece essere sempre più accolta, visto che «la violenza tanto dei forti quanto dei deboli ha condotto, nella regione del Medio Oriente, unicamente a fallimenti e a uno stallo generale».
Una situazione purtroppo «sfruttata dal terrorismo mondiale più radicale». I proclami antisemiti del presidente iraniano, l’antisemitismo ancora così radicato in molti Paesi dell’area, come pure le violenze, l’occupazione e il mancato rispetto delle risoluzioni internazionali, sono segni di un’escalation che preoccupa non poco la Santa Sede. Per questo il ruolo degli «artigiani della pace» cristiani in Medio Oriente è insostituibile e va sostenuto da tutti.


Pazienti in stato vegetativo persistente: reazioni cerebrali migliori del previsto - Articolo di Rosa a Marca 8 giugno 2010 – da ADUC
Bisognerebbe dare più fiducia alle persone in stato vegetativo persistente (coma vigile): recenti esperienze austriache mostrano che essi percepiscono più cose dell'ambiente circostante di quanto si pensi.

Circa un terzo dei pazienti in coma vigile “avverte” più di quanto i normali test clinici lascino intravedere, ciò che può avere conseguenze importanti a livello terapeutico e nei rapporti con chi vive in stato vegetativo magari da decenni. Un'équipe di psicologi dell'Università di Salisburgo, diretti da Manuel Schabus, sta elaborando dei processi diagnostici più attendibili sotto questo profilo.
Di solito, per cercare di misurare quanto un paziente in coma avverta dell'ambiente intorno, si misurano le sue reazioni a stimoli dolorosi, ai suoni o a contatti verbali. Ma ciò non si rivela sempre attendibile. “La persona che non si può muovere, non può nemmeno volgere il capo nella direzione da dove proviene il rumore”, spiega Schabus. “Poiché i pazienti non si possono esprimere attraverso i comportamenti, noi guardiamo direttamente nel loro cervello e misuriamo quello che ci può dire”. “Tramite la misurazione dei flussi cerebrali possiamo analizzare se il cervello mostra le reazioni che ci attendiamo dalle persone sane del gruppo di controllo”.
Sui pazienti in coma vigile, che non danno segni di consapevolezza, o solo minimi, vengono rilevati i flussi cerebrali mentre sono alle prese con diversi compiti verbali o motori. “E lì si vede che i pazienti che ogni tanto danno un segno di percezione consapevole (i cosiddetti pazienti minimally conscious state) reagiscono alle istruzioni con oscillazioni cerebrali più marcate. Ciò indica che comprendono i nostri ordini e percepiscono qualcosa del mondo intorno”. Per esempio, quando sentono il loro nome reagiscono con una maggiore attivazione teta nella corteccia prefrontale.
Nel frattempo, i ricercatori salisburghesi esaminano se questi pazienti abbiano delle fasi ordinate del sonno, ossia una sana “architettura del sonno”. “Ci interessano soprattutto determinati modelli, i cosiddetti fusi del sonno, che indicano se il cervello è ancora ben collegato”. Potrebbe essere un parametro per dare un giudizio sullo stato presente e futuro del malato.
Alla ricerca collaborano alcune cliniche di Vienna, Graz e Salisburgo che assistono persone in stato vegetativo persistente. Sul capo dei pazienti vengono applicati 21 elettrodi per 24 ore, e per poter ottenere dati significativi, essi sono sottoposti per due volte a reazioni cerebrali mediante compiti diversi. Dai primi risultati è emerso un aspetto interessante: “I malati reagiscono soprattutto agli stimoli complessi”, dice Schabus. Mentre i toni deboli attivano poco le regioni cerebrali implicate, una voce nota che pronunci una certa frase suscita reazioni documentabili. “Evidentemente il cervello cerca informazioni significative e filtra ciò che non considera rilevante”, chiarisce lo psicologo, che così conclude: bisognerebbe dare più fiducia ai pazienti in stato vegetativo persistente.


LA PAPESSA/ Il film tarocco che neanche Dan Brown avrebbe pensato - Beppe Musicco - mercoledì 9 giugno 2010 – ilsussidiario.net
Il IX secolo è uno dei periodi più travagliati dell’Europa: quel che resta dell’Impero di Carlo Magno è conteso tra i figli di Ludovico il Pio, suo unico erede. Il nord del continente è continua preda delle invasioni di Vichinghi e Ungari. I saraceni spadroneggiano su gran parte del Mediterraneo saccheggiando, distruggendo e riducendo in schiavitù e, risalendo lungo il Tevere, mettono a ferro e fuoco anche Roma. L’Impero d’Oriente mostra il suo declino e la sua impotenza, le popolazioni si rifugiano presso i feudatari o i monasteri, alla ricerca di una difficile sicurezza.
Tratto da un romanzo di Donna Cross e ambientato nei primi anni di quel secolo, La Papessa vede come protagonista Johanna (l’attrice tedesca Johanna Wokalek), figlia di un prete britannico, che ha altri due maschi, Johannes e Matthias. Il padre è un violento che tiranneggia la famiglia, costringe la moglie a una vita da schiava e picchia la figlia che si dimostra desiderosa di imparare a leggere e scrivere.
A causa della morte del fratello maggiore, Johanna riesce a farsi ammettere col fratello minore nella scuola del monastero di Dorstadt. Lì viene accolta da Gerold, un gentiluomo della corte vescovile, di cui si innamora. Dopo una strage a opera dei pirati vichinghi, fugge, si spaccia per uomo ed entra come monaco benedettino nel monastero di Fulda, dove esercita le arti mediche.
La sua fama è tale che da Fulda Johanna/Johannes arriva direttamente a Roma, dove guarisce Papa Sergio e ne diventa medico personale. Alla morte di Sergio, a causa delle inimicizie tra i vescovi, viene proposta e acclamata papa dal popolo, che ignora la sua vera identità. Ma dato che ha ritrovato Gerold e ne è diventata l’amante, Johanna è incinta e non sa per quanto potrà continuare nell’inganno.
Costantemente oscillante tra il libello storico e il romanzo rosa, La Papessa è un film malriuscito su entrambi i fronti, a partire dalla scelta dell’attrice protagonista, cui non bastano certo un saio e i capelli corti per sembrare un uomo. Ciò nonostante, non c’è ecclesiastico (dai pingui e ottusi abati, ai perfidi vescovi romani) che abbia il minimo sospetto.
Girato probabilmente in economia, recuperando le scenografie e i costumi di qualche “peplum”, il lungo film (due ore e mezza lunghissime) vede anche John Goodman nel ruolo di Papa Sergio (che sembra il Nerone di Peter Ustinov in Quo Vadis e non si muove mai dalla sua camera da letto in stile tempio romano) e David Wenham (il Faramir de Il Signore degli Anelli) nella parte di Gerold.
Tanto il film è povero nelle ambientazioni e approssimativo nella ricostruzione storica, tanto è semplicistico nella psicologia del personaggio: Johanna sembra attratta dalla cultura, ma alla fine tutto il suo talento prodigioso, che le permette di leggere e conversare in latino fin dalla più tenera infanzia, si riduce al preparare decotti e tisane. È ovviamente saggia, di buon cuore e generosa (doti che nel film sono precluse a tutti gli uomini), ma non si capisce perché voglia fare il monaco a tutti i costi, visto che non sembra mossa dalla fede e si innamora fin prime scene del film.
Tutta la sua carriera ecclesiastica è frutto del suo mestiere di erborista e di coincidenze che sembrano essere messe a bella posta solo per poter stare insieme a colui che ama (ma che preferisce frequentare clandestinamente per mantenere il suo status di uomo). Naturalmente si lascia intuire che la papessa avrebbe potuto rivoluzionare la storia della Chiesa se la sua morte per emorragia durante una processione, (in una scena grottesca che vede in simultanea anche la morte di Gerold), non ne avesse prematuramente interrotto il governo. A cancellarne poi ogni traccia, avrebbero ovviamente provveduto le gerarchie ecclesiastiche del tempo.
La pubblicità del film naturalmente cerca la provocazione: “Uno dei più grandi segreti della Chiesa” (gli altri sono probabilmente quelli svelati dai romanzi di Dan Brown), adombrando il solito complotto clericale per tenere lontane le donne dal potere, dalla cultura e dalla vera fede. La verità, come al solito, è molto più semplice e chiunque può verificarla: non esiste alcune fonte storica che citi la “papessa Giovanna”. Nessuno storico né medievale, né moderno, né contemporaneo ha mai neanche tentato di dimostrarne l’esistenza.
Anche gli studiosi più critici nei confronti del cattolicesimo o del papato (protestanti o non credenti, del passato o del presente) non hanno mai dato alcun credito a una leggenda che probabilmente è nata solo nel XIV secolo. L’unica certezza della papessa è che è una figura di un noto mazzo di carte: la papessa, insomma, è un tarocco e niente più. La Papessa anche.


Avvenire.it, 9 Giugno 2010 - La lettera dei vescovi ai sacerdoti - Grazie a ognuno e all'uno di esempio - Davide Rondoni
La cosa peggiore è quando ti riducono a una categoria. Quando non esisti più come persona ma esiste solo la categoria a cui qualcuno vuole ridurti. Specie quando ti vogliono imputare qualcosa. E dicono, che so: i rossi. Oppure: i gialli. Oppure: i neri. Oppure: i preti.
In questi mesi ne abbiamo sentite sui preti. Notizie brutte, orrende. E poi soprattutto un sacco di chiacchiere, di battute grevi. Di offese generalizzate. Ben oltre il perimetro dei fatti, e del dolore dei fatti. Ben oltre l’amore per la verità, anzi spesso in spregio della verità. È stato così, ne abbiamo sentito di tutti i colori. Offese. Ingiurie. Pronunciate pure con sussiego e espressione finto-intelligente in salotti tv o sui giornali. Accuse generalizzate, perché se si doveva stare e ragionare sui casi singoli, sulle faccende particolari, si doveva smettere il facile mestiere del moralista. E vedere i casi singoli di ogni genere, non solo del genere preso a bersaglio. Insomma, si doveva generalizzare l’accusa sui preti per nascondere una realtà orrenda che invece riguarda tutti. E che riguarda l’idea di giustizia che abbiamo per ciascuno di noi, per la vita di ciascuno di noi.

E ora finalmente qualcuno, invece di accusarli genericamente, li ringrazia uno per uno, i preti. Ma non come categoria, come persone, una a una. I preti italiani. Il don Luigi e il don Beppe. Il don Maurizio e il don Gabriele. Uomini con quei nomi a cui il "don" messo davanti, da segno di rispetto e deferenza, si voleva far diventare segno di sospetto e di marchiamento. Per fortuna però – Avvenire l’ha già scritto – la gente conosce bene i suoi preti. E ora c’è chi dice pubblicamente, esemplarmente, grazie a questi uomini. A ognuno di loro. Per l’opera che compiono. L’opera che si vede di dedizione alle persone. E per l’opera che non si vede mai del tutto, di dedizione a Dio. Per le due opere che sono una. Che hanno il medesimo fuoco. I due gesti che sono uno. Come i due lati del comandamento evangelico: ama Dio e il prossimo tuo.

Non fan questo i preti? E in cambio di cosa lo fanno, verrebbe da chiedersi? Un tempo, forse, c’era qualche privilegio. Insomma, poteva esserci qualche convenienza a fare il prete. O almeno così dicevano le battute del popolo. Ora invece la stragrande maggioranza di loro tira la cinghia, ricava battute e risolini nei salotti bene e sui media, passa i giorni a misurarsi con realtà d’impegno, di difficoltà e di degrado da cui troppi altri – soprattutto tra chi ha potere – restano distanti. E magari neanche uno straccio di pubblico ringraziamento.

Per questo le parole della lettera dell’Assemblea dei vescovi italiani che ringrazia e incoraggia i preti italiani non sono retorica. Non sono frasi di circostanza come troppe se ne sentono. Non si tratta di un comandante che rincuora le sue truppe in un momento difficile. Non sono le parole che i vertici di un’associazione di categoria rivolge ai suoi affiliati Anzi, sono parole rivolte a ciascuno, non alla categoria. È un ringraziamento speciale. Che pesa in modo speciale in questo momento. E perciò rincuora.

Come dice bene il cardinal Hummes nelle pagine che seguono, infatti, l’esempio di uno – che si è dato, nel suo servizio, il nome di Benedetto – si è accompagnato a quelle parole per tutto l’anno sacerdotale che sta terminando. Nella lettera della Cei non viene indicato un programma generico, come per ottenere un’adesione generale della categoria. Perché per tutto l’anno la storia e la fede dei semplici ci ha indicato l’esempio di uno, così che ciascun sacerdote posi gli occhi suoi, il suo personale cuore, la sua personalissima storia davanti a quell’esempio concreto, ai gesti e alle parole di uno di loro. Perché nella vita reale la vita di un uomo non riprende coraggio e forza grazie solo alle parole. Ma perché vede uno, un uomo, che lo invita con l’esempio, e che è sulla stessa strada.
Davide Rondoni