Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il primo "cortile" di credenti e atei aprirà a Parigi - L'ha voluto papa Ratzinger, col nome di "cortile dei gentili". Lo inaugurerà il suo ministro della cultura, l'arcivescovo Ravasi. Sarà uno spazio di dialogo con i lontani da Dio, primo atto di un più ampio progetto di nuova evangelizzzazione - di Sandro Magister
2) IN DIALOGO NEL "CORTILE DEI GENTILI". ATTRAVERSIAMO INSIEME IL DESERTO - di Gianfranco Ravasi
3) PADOVESE: MAGDI ALLAM, UCCISO SU MANDATO ISLAMICO E S.SEDE TACE - Salvatore Izzo - © Copyright (AGI) - CdV, 23 giugno 2010.
4) Avvenire.it, 24 giugno 2010 - CORTE EUROPEA - «Negare matrimonio gay non viola dirtitti dell'uomo»
5) Il "caso Galileo" - 16/06/2010 - E' il cavallo di battaglia di tanta pubblicistica anticattolica. Utilizzato per bollare la Chiesa come nemica della scienza. Ecco perché è importante tornare a parlarne. Dicendo la verità su come si svolsero i fatti. - Di S.E. Mons. Luigi Negri
6) LAICITA’/ La nostra ragione? Può scoprire il Mistero perché capisce il mondo -Costantino Esposito - venerdì 25 giugno 2010 – ilsussidiario.net
7) SONO ARRIVATI ANCHE DA NOI: SI CHIAMANO «REBORN DOLL» E SONO SIMILI A BIMBI VERI - Mi è nato un bambolotto - UMBERTO FOLENA – Avvenire, 25 giugno 2010
8) «Pillola Ru486 solo col ricovero» - Il ministero: le Regioni si adeguino - DA MILANO ENRICO NEGROTTI – Avvenire, 25 giugno 2010
Il primo "cortile" di credenti e atei aprirà a Parigi - L'ha voluto papa Ratzinger, col nome di "cortile dei gentili". Lo inaugurerà il suo ministro della cultura, l'arcivescovo Ravasi. Sarà uno spazio di dialogo con i lontani da Dio, primo atto di un più ampio progetto di nuova evangelizzzazione - di Sandro Magister
ROMA, 24 giugno 2010 – Proprio mentre la magistratura italiana scoperchia gli affari della congregazione per l'evangelizzazione dei popoli, negli anni in cui il suo prefetto era il cardinale Crescenzio Sepe, in Vaticano sta per nascere un nuovo – più sobrio – ufficio dedicato a un altro tipo di evangelizzazione: non nelle terre di missione, ma nei paesi di antica cristianità in cui la fede si è più affievolita o è scomparsa.
L'idea non è del tutto nuova. Dopo il Concilio Vaticano II fu creato, e durò qualche anno, un segretariato per i non credenti, affidato all'epoca al cardinale austriaco Franz Kõnig. Ora esso rispunta nella forma più solida di un consiglio pontificio. Benedetto XVI ne ha discusso con alcuni cardinali: da Ruini a Scola, da Bagnasco a Schönborn. Un "motu proprio" ne stabilirà la fisionomia e i compiti.
Intanto, però, qualcosa di concreto già si muove con la stessa finalità di dialogare con i senza fede, ad opera di un consiglio pontificio già in funzione da tempo, quello della cultura presieduto dall'arcivescovo Gianfranco Ravasi.
L'iniziativa ha il nome di "Cortile dei gentili". L'idea e la formula sono di Benedetto XVI, che le lanciò il 21 dicembre del 2009, nel discorso con cui fece gli auguri di Natale alla curia romana.
L'idea di papa Joseph Ratzinger – secondo il quale la questione di Dio è la "priorità" del pontificato – è di aprire un dialogo sistematico con gli uomini che da Dio sono più lontani, perché tornino ad avvicinarlo "almeno come Sconosciuto".
Quanto alla formula "Cortile dei gentili", Benedetto XVI l'ha ripresa dai Vangeli, da quella pagina in cui Gesù caccia i mercanti dal tempio.
Oggi che la magistratura italiana impugna la scopa contro l'affarismo della curia vaticana, fa ancor più impressione rileggere le parole con cui il papa spiegò il suo progetto, lo scorso 21 dicembre:
"Mi viene in mente la parola che Gesù cita dal profeta Isaia, che cioè il tempio dovrebbe essere una casa di preghiera per tutti i popoli (cfr. Isaia 56, 7; Marco 11, 17). Egli pensava al cosiddetto cortile dei gentili, che sgomberò da affari esteriori perché ci fosse lo spazio libero per i gentili che lì volevano pregare l’unico Dio, anche se non potevano prendere parte al mistero, al cui servizio era riservato l’interno del tempio. Spazio di preghiera per tutti i popoli: si pensava con ciò a persone che conoscono Dio, per così dire, soltanto da lontano; che sono scontente con i loro dèi, riti, miti; che desiderano il Puro e il Grande, anche se Dio rimane per loro il 'Dio ignoto' (cfr. Atti 17, 23). Essi dovevano poter pregare il Dio ignoto e così tuttavia essere in relazione con il Dio vero, anche se in mezzo ad oscurità di vario genere".
Ma per capire più a fondo il significato del "Cortile dei gentili", un valente esegeta è sicuramente l'arcivescovo Ravasi, biblista di fama mondiale e con una ampia rete di contatti personali con uomini di cultura più o meno lontani dalla fede.
L'articolo che segue, Ravasi l'ha pubblicato su "L'Osservatore Romano" del 2 giugno.
In esso egli annuncia che l'evento inaugurale del "Cortile dei gentili" avverrà a Parigi nel marzo del 2011 in tre sedi volutamente slegate da ogni appartenenza religiosa: la Sorbona, l'UNESCO e l'Académie Française.
All'impresa hanno già manifestato interesse numerose personalità agnostiche e atee, a cominciare da Julia Kristeva, semiologa e psicanalista molto attenta a un dialogo con i credenti.
In un'intervista del 25 febbraio scorso al quotidiano dei vescovi italiani "Avvenire", Ravasi ha così descritto le forme di ateismo presenti oggi sul campo, con cui la Chiesa vuole dialogare:
"Bisogna tener conto dei diversi ateismi, non riducibili a un unico modello. Da un lato c’è il grande ateismo di Nietzsche e Marx che purtroppo è andato in crisi, costituito da una spiegazione della realtà alternativa a quella credente, ma con un sua etica, una visione seria e coraggiosa, ad esempio, nel considerare l’uomo solo nell’universo. Poi c'è un ateismo ironico-sarcastico che prende a bersaglio aspetti marginali del credere o letture fondamentaliste della Bibbia. È l’ateismo di Onfray, Dawkins e Hitchens. In terzo luogo vi è un’indifferenza assoluta figlia della secolarizzazione, ben sintetizzata dall’esempio che Charles Taylor fa in 'L’età secolare' quando afferma che se Dio venisse oggi in una nostra città, l’unica cosa che succederebbe è che gli chiederebbero i documenti".
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IN DIALOGO NEL "CORTILE DEI GENTILI". ATTRAVERSIAMO INSIEME IL DESERTO - di Gianfranco Ravasi
"Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di 'Cortile dei gentili' dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l'accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto".
Queste parole, indirizzate da Benedetto XVI alla curia romana in occasione degli auguri natalizi del 2009, hanno prodotto un effetto anche concreto: un dicastero vaticano, il pontificio consiglio della cultura, ha dato il via a un'istituzione, denominata appunto "Cortile dei gentili", per aprire un dialogo serio e rispettoso tra credenti e agnostici o atei.
L'evento inaugurale avverrà a Parigi nel marzo del prossimo anno in contemporanea in più sedi: la Sorbona, l'Unesco e l'Académie Française, secondo prospettive diverse. Si deve già segnalare l'interesse di varie personalità, tra le quali la semiologa, psicanalista e scrittrice Julia Kristeva.
Vorremmo innanzitutto spiegare il simbolo usato dal papa, una locuzione non a tutti perspicua, anche se a molti è noto che il vocabolo "gentili" designa nel linguaggio ecclesiastico i non-ebrei, ossia i pagani che si erano accostati al cristianesimo: il termine deriva dal latino "gens" nel senso di nazionalità straniera in opposizione al "populus romanus" (in ebraico erano i "goj/gojim", presenti 561 volte nell'Antico Testamento; in greco "èthnos/èthne", un vocabolo che risuona ben 162 volte nel Nuovo Testamento). È risaputo quanto san Paolo si sia battuto per aprire a costoro le porte della nuova fede, senza costringerli a passare previamente attraverso la circoncisione e, quindi, l'ebraizzazione, come alcuni esponenti della comunità cristiana delle origini (i giudeo-cristiani) esigevano. Ma il "Cortile dei gentili" quale realtà evoca?
Dobbiamo a questo proposito riferirci alla planimetria del tempio di Gerusalemme, soprattutto nella tipologia offerta dall'imponente edificio voluto dal re Erode a partire dall'anno 20 prima dell'era cristiana e distrutto nell'anno 70 dalle armate romane di Tito. Là, infatti, oltre alle aree riservate alle donne, agli israeliti, ai sacerdoti e al santuario propriamente detto, si apriva uno spazio al quale potevano accedere appunto i pagani in visita a Gerusalemme. Era, questo, il "Cortile dei gentili", una "aulè" in greco a cui forse fa cenno il libro dell'Apocalisse quando nella misurazione simbolica del tempio imposta a Giovanni si dichiara: "Il cortile (aulè) esterno del tempio lascialo da parte e non misurarlo perché è stato consegnato ai gentili (èthnè) che calpesteranno la città santa" (11, 2).
La prova concreta dell'esistenza di questo recinto speciale è in una lapide di 60 centimetri per 90 con un'iscrizione greca, scoperta nel 1871 dall'archeologo francese Charles Simon Clermont-Ganneau e ora conservata al museo archeologico di Istanbul (un'altra targa simile, ma solo frammentaria, è stata rinvenuta nel 1953). In essa si legge un divieto analogo alle segnalazioni attuali con l'avviso di "pericolo di morte" o di "zona militare" invalicabile: "Nessuno straniero (alloghenès) penetri al di là della balaustra e della cinta che circonda l'area sacra (hieròn). Chi venisse sorpreso in flagrante sarà causa a se stesso della morte che ne seguirà".
Lo storico giudeo filoromano Giuseppe Flavio, testimone delle vicende della Terra Santa del primo secolo, nella sua opera "Antichità giudaiche" conferma questa testimonianza parlando di due cortili: il primo era quello dei gentili, separato dal secondo – quello degli ebrei – "da pochi gradini e da una balaustra di pietra ove c'era un'iscrizione che proibiva l'ingresso agli stranieri sotto pena di morte" (xv, 417).
Nell'altro suo scritto più celebre, "La guerra giudaica", lo stesso storico annotava: "Chi attraversava quell'area per raggiungere il secondo cortile lo trovava circondato da una balaustra di pietra, alta tre cubiti e finemente lavorata. Su di essa, a intervalli uguali, erano collocate lapidi che ricordavano le leggi di purità – per l'accesso al tempio – alcune in lingua greca, altre in latino, perché nessuno straniero entrasse nel luogo santo" (v, 193-194).
È curioso notare che, a quanto si evince dal dettato del divieto, la pena capitale era automatica, senza regolare processo ma con una sorta di linciaggio affidato alla folla ebraica. Qualcosa del genere è evocato in connessione col rischio corso da san Paolo proprio nel tempio di Gerusalemme: la massa dei fedeli tenta di ucciderlo perché sospettato di "aver introdotto greci nel tempio, profanando il luogo santo". Infatti, era stato visto poco prima in compagnia di un pagano, tale Trofimo di Efeso, attirando su di sé il sospetto di averlo condotto oltre il "Cortile dei gentili", nell'area sacra off limits per i pagani (si legga il passo degli Atti degli Apostoli, 21, 27-32).
Sarà, comunque, proprio l'apostolo a infliggere un duro colpo a questa concezione così aspramente "separatista" quando, scrivendo ai cristiani di Efeso, dichiarerà che Cristo è venuto ad "abbattere il muro di separazione che divideva" ebrei e gentili, "per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, riconciliando tutti e due in un solo corpo" (Efesini, 2, 14-16). Quel simbolo di apartheid e di separatezza sacrale che era il muro del "Cortile dei gentili" è, quindi, cancellato da Cristo che desidera eliminare le barriere per un incontro nell'armonia tra i due popoli.
È con questa ulteriore precisazione paolina che ha senso l'applicazione metaforica del "cortile" suggerita da Benedetto XVI. Credenti e non credenti stanno su territori differenti, ma non si devono rinserrare in un isolazionismo sacrale o laico, ignorandosi o peggio scagliandosi sberleffi o accuse, come vorrebbero i fondamentalisti di entrambi gli schieramenti. Certo, non si devono appiattire le differenze, liquidare le diverse concezioni, ignorare le discordanze. Ognuno ha i piedi piantati in un "cortile" separato, ma i pensieri e le parole, le opere e le scelte possono confrontarsi e persino incontrarsi.
Ricorrendo a un gioco di parole assonanti – ma non di etimologie – tra cristiani e gentili si potrebbe adottare la tecnica del duello (dal latino "bellum"), in uno scontro all'arma bianca, alla maniera dell'ateo e del gesuita del film "La Via Lattea" di Luis Buñuel. Quello che il progetto denominato "Cortile dei gentili" vuole proporre è, invece, un duetto (dal latino "duo") ove le voci possono appartenere anche agli antipodi sonori, come un basso e un soprano, eppure riescono a creare armonia, senza per questo rinunciare alla propria identità, cioè, fuor di metafora, senza scolorirsi in un vago sincretismo ideologico.
In questo incontro tra i due "cortili", una scelta previa è quella della purificazione dei due concetti di base. Da un lato, i "gentili" devono ritrovare quella nobiltà ideale così com'era espressa dai grandi sistemi ateistici (pensiamo a un Marx o alla celebre parabola sul Dio morto della "Gaia scienza" di Nietzsche), prima che venissero incapsulati in sistemi politico-ideologici o piombassero nello scetticismo e nell'idolatria delle cose o degenerassero nell'ateismo sprezzante, sarcastico e infantilmente dissacratorio.
D'altro lato, la fede deve ritrovare la sua grandezza, manifestata in secoli di pensiero alto e in una visione compiuta dell'essere e dell'esistere, evitando le scorciatoie del devozionalismo o del fondamentalismo e rivelando che la teologia ha un suo rigoroso statuto epistemologico parallelo e specifico rispetto a quello della scienza: si pensi alla "teoria dei due livelli" indipendenti e non conflittuali propugnata da Stephen Gould e ripresa da Francisco Ayala, entrambi pensatori e scienziati.
Ma oltre a questo, l'incrocio tra le voci diverse può avvenire attorno a temi comuni – anche se affrontati e risolti con esiti eterogenei – come l'etica, l'antropologia, la spiritualità, le domande ultime su vita e morte, bene e male, amore e dolore, verità e menzogna, pace e natura, trascendenza e immanenza.
Per questa via si può giungere persino alla domanda sullo Sconosciuto, quell'"Àgnostos Theòs", il Dio ignoto, a cui faceva cenno san Paolo nel suo celebre discorso all'Areopago di Atene, e che era ricordato nel brano di Benedetto XVI da noi citato in apertura.
Come, infatti, talora il credente può sconfinare nel "Cortile dei gentili", sotto un cielo spoglio di presenze e privo di Dio, rimanendo nell'attesa che la divinità infranga il suo silenzio e la sua assenza, così talvolta anche l'ateo può invocare col poeta Giorgio Caproni: "Ah, mio dio, mio Dio. / Perché non esisti?". Un interrogativo che Zinov'ev, l'autore russo di "Cime abissali", così allargava: "Ti supplico, mio Dio, cerca di esistere, almeno un poco, per me, apri i tuoi occhi, ti supplico!... Sfòrzati di vedere: vivere senza testimoni è per noi un inferno! Per questo io grido e urlo: Padre mio, ti supplico e piango: esisti!".
Senza attesa di conversioni o di inversioni di cammini esistenziali, ma soprattutto evitando le diversioni nel vuoto, nella banalità, negli stereotipi, gentili e cristiani – i cui "cortili" sono contigui nella città moderna – possono scoprire consonanze e armonie pur nella loro difformità; possono deporre i linguaggi soltanto autoreferenziali e possono far alzare lo sguardo a un'umanità spesso troppo curva solo sull'immediato, sulla superficialità, sull'insignificanza, verso l'Essere nella sua pienezza. Un po' come suggeriva in uno dei suoi "Canti ultimi" padre David Maria Turoldo: "Fratello ateo, nobilmente pensoso, / alla ricerca di un Dio / che io non so darti, / attraversiamo insieme il deserto. / Di deserto in deserto andiamo oltre / la foresta delle fedi, / liberi e nudi verso / il Nudo Essere / e là / dove la parola muore / abbia fine il nostro cammino".
PADOVESE: MAGDI ALLAM, UCCISO SU MANDATO ISLAMICO E S.SEDE TACE - Salvatore Izzo - © Copyright (AGI) - CdV, 23 giugno 2010.
"La verita' e' che mons. Padovese e' stato assassinato su mandato del terrorismo islamico e l'atteggiamento vaticano piu' che prudente, di accondiscendenza, di paura, non porta a salvaguardare la presenza dei cristiani in terra islamica".
Lo afferma Magdi Cristiano Allam, l'ex vice direttore del Corriere della Sera grande esperto di islam, convertitosi al cattolicesimo e oggi europarlamentare.
La linea tenuta dalla Santa Sede dopo l'assassinio di mons. Luigi Padovese, presidente della Conferenza Episcopale Turca, denuncia Allam, "accresce l'intransigenza dei governi e degli estremisti islamici. Per loro cristiani ed ebrei sono eretici: l'obiettivo e' quello di islamizzare il mondo". Secondo il giornalista egiziano, in questo contesto i "segni manifesti di paura" dell'Occidente e delle autorita' della Chiesa Cattolica "sono considerati come un incoraggiamento ad andare avanti fino alla vittoria finale".
"Se non comprendiamo questo - spiega in un'intervista al mensile cattolico 'Il Consulente', edito dal Gruppo Re - se immaginiamo che gli altri siano automaticamente a nostra immagine e somiglianza, attribuendo loro categorie cartesiano quando cio' che li ispira e' esclusivamente il credo coranico e la coscienza di dover islamizzare il mondo, noi ci comportiamo da naif, che vegetano in una 'terra di nessuno' pronta per essere conquistata".
"La diplomazia vaticana - sottolinea Magdi Cristiano Allam - e' quella che fino all'ultimo istante tento' di impedire a Papa Benedetto XVI di celebrare il mio Battesimo... La diplomazia temeva le conseguenze di questo atto pubblico". "Il Santo Padre in quell'occasione - da' atto il giornalista - e' stato un autentico testimone non solo di fede, ma anche di liberta'.
Purtroppo la burocrazia vaticana, che opera secondo la logica della 'ragion di Stato', il che la porta a non volere contrasti con nessun Paese al mondo, si sottomette facilmente all'arbitrio dei governi islamici. Con la conseguenza che la gestione dei casi 'delicati' appare piu' che discutibile".
Nell'intervista, Allam risponde anche alle critiche che gli attiro' la decisione di farsi battezzare in San Pietro, nella Veglia di Pasqua. "Credo che tali critici - dice - non conoscano la realta' dei fatti. Ogni anno, nella notte della Veglia pasquale nella Basilica di San Pietro, il Papa battezza degli adulti. E tutti gli anni tale rito viene ripreso in televisione.
Allora non e' che le televisioni abbiano ripreso il rito perche' c'ero io: hanno agito secondo una consuetudine collaudata. In secondo luogo tutti dovrebbero sapere che non sono stato io a decidere che fosse il Santo Padre a battezzarmi: e' stata una sua scelta precisa". "La domanda vera - osserva - dovrebbe essere un'altra: come mai oggi dei cristiani, in terra cristiana, nella culla del cattolicesimo, arrivano ad immaginare che il battesimo pubblico di un musulmano rappresenti un fatto che puo' ingenerare preoccupazione? Tanto da preferire che il musulmano che si converte al cristianesimo lo faccia in modo che non se ne accorga nessuno".
E ricorda che "in Arabia Saudita o in Afghanistan l'essere cristiani comporta automaticamente la condanna, a volte a morte".
"In una terra cristiana, libera, democratica, dove l'esercizio della liberta' religiosa e' ampiamente garantito a tutti, se un cristiano si converte all'islam - ragione - nessuno lo critica, lo minaccia e lo condanna; pero', se accade l'opposto, se un musulmano sceglie in tutta liberta' di diventare cristiano, viene automaticamente condannato a morte dai musulmani in quanto 'apostata' e nel contempo criticato da alcuni cristiani che temono sia messa a repentaglio la loro sicurezza. E' la paura che ispira tali critiche". "Mi auguro - conclude - che giunga presto il giorno in cui la conversione di mille Magdi Allam in Magdi Cristiano Allam passi inosservata, sotto silenzio: vorra' dire che finalmente la conversione convinta e orgogliosa di un musulmano alla fede cristiana sara' considerata normale".
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Avvenire.it, 24 giugno 2010 - CORTE EUROPEA - «Negare matrimonio gay non viola dirtitti dell'uomo»
Negare a una coppia omosessuale il diritto a sposarsi non è una violazione ai suoi diritti. Lo ha stabilito oggi la Corte europea dei diritti dell'uomo con una sentenza a favore dell'Austria, presa con quattro voti a
favore e tre contrari. Il ricorso era stato presentato da due cittadini austriaci, Horst Michael Schalk e Johann Franz Kopf, a cui le autorità avevano rifiutato ripetutamente il permesso a contrarre matrimonio.
I ricorrenti sostenevano che era stato violato il loro diritto a sposarsi, come sancito dall'articolo 12 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e affermavano di considerarsi discriminati nel loro diritto a creare una famiglia. In Austria è stata introdotta quest'anno una legge sulle "partnership registrate" che non riconosce alle coppie gay gli stessi diritti garantiti alle coppie eterosessuali.
Nella sentenza, che accoglie le ragioni dell'Austria, viene specificato che gli Stati non sono obbligati, in base alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, ad assicurare l'accesso al matrimonio alle coppie dello stesso sesso.
I giudici fanno inoltre osservare che in Europa non esiste un consenso al riguardo e che spetta alle autorità nazionali valutare in merito. La Corte ha anche stabilito che lo Stato che introduca tali misure non è tenuto a garantire con queste gli stessi diritti riconosciuti alle coppie eterosessuali. La sentenza è appellabile entro tre mesi da oggi.
Il "caso Galileo" - 16/06/2010 - E' il cavallo di battaglia di tanta pubblicistica anticattolica. Utilizzato per bollare la Chiesa come nemica della scienza. Ecco perché è importante tornare a parlarne. Dicendo la verità su come si svolsero i fatti. - Di S.E. Mons. Luigi Negri
Si è concluso non da molto l'anno galileiano e non sono mancate pubblicazioni e articoli che hanno trattato del cosiddetto "caso Galileo". Allora perché interrogarsi ancora sulla vicenda galileiana? Sono almeno due i livelli per cui è importante occuparsene. Sicuramente ricostruire da un punto di vista storico, al di là di tutte le interpretazioni ideologiche e di tutti i pregiudizi, la dialettica tra Galileo e la Chiesa del suo tempo è importante per chiarire che la Chiesa "non è mai stata" e "non è", come vorrebbe certa storiografia laicista, contro la scienza. Il cosiddetto "caso Galileo", come ha avuto modo di precisare l'allora card. Ratzinger, «ancora poco considerato nel XVII secolo, viene - già nel secolo successivo - elevato a mito dell'illuminismo». Secondo tale prospettiva, continuava lo stesso card. Ratzinger, «Galileo appare come vittima di quell'oscurantismo medievale che permane nella Chiesa. […] Da una parte troviamo l'Inquisizione: il potere che incarna la superstizione, l'avversario della libertà e della conoscenza. Dall'altra la scienza della natura, rappresentata da Galileo». Una puntuale ricostruzione storica ha dimostrato ormai con chiarezza che l'obiezione della Chiesa al copernicanesimo di Galileo derivava dal fatto che si affermavano come teorie scientificamente dimostrate delle ipotesi che in realtà avevano ancora bisogno di ulteriori sviluppi e giustificazioni. Le parole di Bellarmino, scritte al padre carmelitano Foscarini, non lasciano adito a dubbi: «quando ci fusse vera demostratione che il sole stia nel centro del mondo e la terra nel terzo cielo, e che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole, allora bisognaria andar con molta circospezione in esplicitare le Scritture che paiono contrarie e più tosto dire che non l'intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra». Inoltre, la preoccupazione della Chiesa era di natura pastorale, ciò che la muoveva non era la volontà di difendere Tolomeo contro Copernico, quanto di evitare che attraverso la divulgazione di teorie non ancora dimostrate si favorisse la libera interpretazione delle Scritture secondo il modello protestante, aprendo inevitabilmente a quella prospettiva soggettivistica e individualistica della fede introdotta da Lutero. Solo se si tiene conto del difficile e drammatico momento storico in cui ci si trovava, si può comprendere una certa rigidità con cui la Chiesa si è posta nel difendere l'interpretazione di alcuni passi delle Scritture, in cui si faceva riferimento al movimento del sole, commettendo l'errore di suffragare la teoria tolemaica con tali passi. Tuttavia ciò che interessava veramente alla Chiesa era difendere la fede del popolo, evitare cioè che in una situazione così delicata un dibattito ancora aperto investisse scriteriatamente il popolo. Con questo non si vuol dire che l'atteggiamento della Chiesa del tempo sia stato esente da errori, ma che la questione in gioco sia più complessa di quanto evidenziato da quelle ricostruzioni parziali che denigrano la Chiesa come oscurantista. Per questo motivo Giovanni Paolo II ha precisato che il "caso Galileo" può essere visto come «una tragica reciproca incomprensione» che erroneamente «è stata interpretata come il riflesso di un'opposizione costitutiva tra scienza e fede» (Giovanni Paolo II, Discorso all'Accademia delle Scienze, 31 ottobre 1992). Il secondo livello, forse ancora più urgente da recuperare, è quello del carattere profetico inscritto nella vicenda galileiana. In essa possiamo dire che incomincia a farsi strada quella concezione di ragione che negli ultimi tre secoli si è dimostrata essere dominante: una ragione razionalistica che finalizza la conoscenza della realtà alla manipolazione tecnologica della stessa realtà. Galileo, nel tentativo assolutamente legittimo e positivo di fondare un sapere scientifico su basi metodologiche nuove, si è però dimostrato troppo sbrigativo nel liberarsi delle cosiddette "qualità secondarie", affermando non solo che gli unici aspetti che si potevano conoscere fossero gli aspetti quantitativi, ma addirittura che fossero gli unici presenti effettivamente nella realtà percepita. Rinunciare alle qualità secondarie significava considerare privo di senso qualsiasi discorso intorno alla natura propria di ciascuna realtà, significava ritenere «impresa non meno impossibile e per fatica non men vana» «il tentar l'essenza». Si può, pertanto, affermare che nella vicenda galileiana si apriva una questione estremamente delicata: la concezione di scienza, a cui introduceva il galileismo (non Galileo in quanto tale), successivamente sviluppata dall'illuminismo e dal positivismo, rischiava di ridurre la ragione al tecno-scientismo e di affermare un potere assoluto su tutto, compreso sull'uomo. Oggi questo rischio è più che mai presente, come Benedetto XVI ha sottolineato nella sua ultima enciclica: «Il processo di globalizzazione potrebbe sostituire le ideologie con la tecnica, divenuta essa stessa un potere ideologico, che esporrebbe l'umanità al rischio di trovarsi rinchiusa dentro un a priori dal quale non potrebbe uscire per incontrare l'essere e la verità. In tal caso, noi tutti conosceremmo, valuteremmo e decideremmo le situazioni della nostra vita dall’interno di un orizzonte culturale tecnocratico, a cui apparterremmo strutturalmente, senza mai poter trovare un senso che non sia da noi prodotto. Questa visione rende oggi così forte la mentalità tecnicistica da far coincidere il vero con il fattibile. Ma quando l’unico criterio della verità è l'efficienza e l'utilità, lo sviluppo viene automaticamente negato». Ovviamente, questo non significa non volere riconoscere che, proprio grazie a Galileo, sia nata la scienza moderna, rivelatasi per la storia dell'umanità una delle più straordinarie possibilità positive. Le scoperte scientifiche e tecnologiche che si sono susseguite dal 1600 ad oggi hanno contribuito certamente a migliorare la vita degli uomini. Tuttavia, occorre tenere presente come, allo stesso tempo, sia nata e si sia sviluppata una concezione di scienza che, invece di favorire la piena realizzazione dell'uomo, si è ritorta contro lo stesso uomo, pretendendo, ad esempio, di dominare la vita dalla sua origine (eugenetica) alla sua fine (eutanasia). L'uomo rischia così di essere ridotto a mero oggetto, venendo trattato come realtà senza anima, senza quella dignità assoluta e senza quella libertà che caratterizzano ontologicamente la persona. È sempre più urgente che la scienza non sia vissuta come un potere assoluto e riconosca, invece, che esiste un orizzonte di senso e di valore più grande entro cui è chiamata a muoversi. È proprio questo orizzonte più grande che la Chiesa ha cercato di difendere nella vicenda di Galileo, secondo una preoccupazione di cui oggi si può cogliere ancora più chiaramente il senso. Una scienza senza l'idea di un destino buono dell'uomo da servire finisce inevitabilmente per essere padrona dell'uomo, generando così una forma radicale di schiavitù senza precedenti, come ha denunciato anche Guardini: «chi guarda attentamente, scopre nella vita delle democrazie, così apparentemente libera, i sintomi più preoccupanti di una coercizione indiretta che si esercita attraverso l'apparato della cultura tecnologica». Proprio per questo, se si vuole uscire dalle strettoie imposte dalla mentalità razionalistico-scientista, diventa sempre più fondamentale e decisivo recuperare «il coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione», come ha invitato a fare Benedetto XVI. Occorre non dimenticare che «una cultura meramente positivista, che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell'umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi» (Benedetto XVI, Incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins, 12 settembre 2008).
Da non perdere
Luigi Negri - Franco Tornagli, Con Galileo, oltre Galileo, Sugarco, Milano 2009, pp. 242, €18,00.
Il libro si divide in due parti. Nella prima, Luigi Negri colloca il "caso Galileo" nel contesto storico-culturale dell'epoca successiva alla Riforma protestante, che vede la contemporanea sfida lanciata alla tradizione cattolica dal fideismo protestante e dallo scientismo, che anche Galilei contribuì a diffondere. Nella seconda, il docente di matematica Franco Tornaghi entra nel merito scientifico della questione. Nella conclusione dell'opera, si trovano utili appendici e tavole cronologiche che la rendono molto utile per chi volesse cominciare ad affrontare il problema.
(il Timone)
LAICITA’/ La nostra ragione? Può scoprire il Mistero perché capisce il mondo -Costantino Esposito - venerdì 25 giugno 2010 – ilsussidiario.net
Il problema della razionalità sembrerebbe uno di quegli argomenti che non esercitano più un reale interesse, giacché tutti (o quasi tutti) pensano di averlo in qualche modo già definito e risolto. A chi mai, nel dibattito culturale e politico dei nostri giorni, verrebbe ancora in mente di verificare la ragionevolezza di una posizione o di una scelta? O meglio, tutti (o quasi tutti) sembrano dare per scontato che la ragione di un argomento o di una prospettiva consista nella loro coerenza con alcuni presupposti culturali, ideologici, politici, scientifici, religiosi di partenza. Ma il problema della ragione raramente viene riaperto all’interno di quegli stessi presupposti, i quali vengono assunti come “validi” in virtù dei “valori” che li sottendono e che essi esprimono.
Ma in tal modo la razionalità finisce per essere identificata con la capacità di ottenere conseguenze efficaci a partire da posizioni (e da interessi) assunte il più delle volte in maniera pregiudiziale, e quindi con la nostra abilità nel misurare e commisurare gli effetti alle cause o nel (ri)modellare le cause rispetto agli effetti. Insomma, la razionalità sarebbe una procedura di controllo delle nostre strategie conoscitive e morali, uno strumento in mano ai soggetti (individuali ma anche pubblici, economici, politici, ideologici ecc), i quali ne fanno uso secondo i contenuti e gli scopi che essi si prefiggono di volta in volta. Basti pensare a come usiamo scontatamente - cioè senza verificarne la ragionevolezza o il significato essenziale - alcune parole fondamentali nei nostri discorsi pubblici, quali nascita e morte, vita e natura, diritto e giustizia, democrazia e mercato, liberalismo e uguaglianza, e molte altre.
Ma proprio qui si evidenzia il problema: il soggetto che detiene e usa la ragione come una sua facoltà o un suo “potere”, le darà anche l’orientamento che egli ha già in anticipo deciso di adottare. È la volontà di chi la usa, a decidere della natura della ragione, ribaltando così tutta una lunga e gloriosa storia, secondo cui è invece la natura “oggettiva” della ragione a decidere della volontà del soggetto, aprendo di fronte ad esso tutto l’orizzonte della sua domanda di significato e tracciando la traiettoria tendenzialmente infinita della sua attesa di una risposta adeguata.
Con la conseguenza che, se la ragione (come facoltà umana) o la razionalità (come caratteristica dei discorsi e delle azioni degli uomini) costituiscono il dominio della misurabilità e della produttività delle decisioni pregiudiziali, esse sono condannate a lasciare fuori di sé tutto ciò che chiamiamo il “sentimentale” o l’“emozionale”, il “vitale” o il semplicemente “naturale”, ritenuti “ovviamente” irrazionali o nel migliore dei casi a-razionali, nel duplice senso che eccedono le nostre capacità di controllo culturale e non hanno un’origine e un fine diversi dal mero accadimento naturalistico.
Ma c’è un’altra conseguenza rilevante in questa prospettiva della ragione come procedura strategica decisa dal soggetto, ed è che essa si gioca tutta nella “delimitazione” del suo campo. Beninteso, quello dei limiti della ragione (Kant docet!) è un discorso assolutamente centrale, proprio per comprendere realisticamente la portata della nostra facoltà conoscitiva, ed evitare che essa pretenda idolatricamente di definire o afferrare ciò che oltrepassa i suoi poteri. Ma questa realistica cautela si è alla fine rovesciata nel suo contrario, e cioè nella convinzione che esista ragionevolmente, cioè veramente, solo ciò che riesce ad entrare negli schemi a priori della nostra mente, mentre ciò che li supera, se anche c’è, non potrà mai essere oggetto di una conoscenza o di una scelta razionale.
Il problema che si ritiene già risolto è in realtà solo evitato: quando riconosco che la realtà mi supera, che il mondo è sempre più grande dei miei schemi mentali, che i fattori in gioco sono sempre più numerosi di quanti ne conto io, che l’essere ha un senso tendenzialmente infinito, compio un atto razionale o irrazionale? La ragione funziona solo quando misura e pre-determina il mondo, oppure essa è all’opera anche quando scopre l’esistenza del “mistero”? E viceversa, questa realtà misteriosa è solo ciò che, per definizione, fuoriesce dalla ragione umana (almeno per il momento!), oppure essa può divenire in quanto tale l’oggetto di uno sguardo razionale che riconosca l’altro da sé?
Proprio per questo occorre riaprire - sfidando l’apparenza di ingenuità o il verdetto di impossibilità - la questione della ragione. Non si tratta tuttavia di inseguire un concetto univoco di razionalità, in cui omologare la molteplicità di prospettive e la pluralità dei metodi con cui di volta in volta la ragione si applica nei diversi campi del sapere e dell’agire. Tanto meno però si tratta di ripetere il vecchio auspicio di un’integrazione tra la razionalità “strumentale” della tecno-scienza e la ragione “meditante” della filosofia o della poesia. Piuttosto si tratta di verificare se vi sia una “natura” o una “costituzione” della ragione umana che permetta le sue molteplici e diversificate applicazioni; e viceversa di verificare se tali applicazioni esauriscano in sé la funzione della razionalità o necessitino - proprio per funzionare - di un orizzonte più grande di riferimento.
L’ipotesi che intendo verificare è la seguente: la ragione si presenta come l’esperienza di un rapporto, come spazio di apertura del soggetto umano (un’apertura che ha il nome di “io”) in cui la realtà emerge come un “dato”. Prima di ogni soggettivismo e prima di ogni oggettivismo, i “due” - l’io e la realtà - non solo entrano in rapporto tra loro, ma sono essi stessi un rapporto. Da questo punto di vista ogni nostro limite, l’inevitabile delimitazione nell’uso della nostra ragione, può essere inteso anche come un confine, una soglia o un luogo di apertura ad una “ragione” (o logos) più grande della nostra stessa facoltà. La ragione è dunque una facoltà conoscitiva e valutativa, ma insieme - e indistricabilmente - è un principio di intelligibilità ossia un senso del mondo, direi quasi una dimensione costitutiva del reale.
Proverò a documentare questa ipotesi attraverso quattro casi a mio parere emblematici. Si tratta di “figure” in cui è all’opera una vera e propria esperienza di pensiero, e che possiamo ritenere squisitamente “filosofiche”, sebbene non si tratti di filosofi professionali, ma di individualità creative che cercano di rendersi conto e di comunicare la ragionevolezza del loro rapporto all’essere.
Il primo caso è quello del pittore Paul Cézanne, il quale lavorando sulla nostra capacità di “percepire” visivamente la natura (e di renderla così in pittura), giunge alla scoperta che il nostro sguardo, la nostra stessa visione della realtà che ci circonda, costituisce il modo primario in cui la realtà giunge alla sua più propria “realizzazione”. Non perché la riduciamo al nostro modo di vedere, ma perché al contrario il nostro vedere coincide con il modo più proprio di darsi del mondo.
Il secondo caso è quello del poeta e scrittore Thomas S. Eliot, e riguarda quella strana “modificazione” della storia che accade ogni qual volta viene creata una nuova opera letteraria, grazie alla quale tutta la tradizione precedente non solo risulta accresciuta, continuata o interrotta, ma viene completamente riformulata. Ciò che avviene con la creazione di una nuova opera d’arte avviene “contemporaneamente” a tutte le opere del passato e il senso storico si realizza esattamente nella misura in cui si scopre che il passato non “è” solo passato, ma “è” anche presente.
Il terzo caso è quello del compositore Igor Stravinskij, con la sua teoria della musica come l’unico dominio in cui l’uomo “realizza” il suo presente, poiché mentre in tutte le altre sue espressioni e attività egli è costretto a subire il passare irrevocabile del tempo, nell’esperienza musicale egli lo rende invece “reale” e “stabile”, nella misura in cui è capace di cogliere e di “costruire” l’ordine del presente.
Il quarto caso, infine, è quello del fisico Erwin Schrödinger, con le sue riflessioni riguardo al rapporto tra gli oggetti della natura, conosciuti attraverso l’indagine scientifica, e la coscienza dell’io, cioè dell’autore di tutto il complesso delle rappresentazioni che formano la scena della scienza. Mentre infatti quest’ultima ha progressivamente “oggettivato” il mondo, essa si rivela sempre più incapace di conoscere il “soggetto” di tale oggettivazione. E così l’io resta come un punto di fuga, senza del quale tutta la scienza non sarebbe possibile, ma che la scienza stessa non potrà mai ridurre totalmente alle sue spiegazioni.
Che è poi l’enigma affascinante della razionalità umana: una cosa totalmente “nostra” che non possiamo però mai ridurre a noi stessi.
SONO ARRIVATI ANCHE DA NOI: SI CHIAMANO «REBORN DOLL» E SONO SIMILI A BIMBI VERI - Mi è nato un bambolotto - UMBERTO FOLENA – Avvenire, 25 giugno 2010
Ha le labbra umide, la pelle liscia, gli occhioni che implorano: prendimi, abbracciami, coccolami.
Riempimi di baci. È un bambino. No, è un bambolotto. E che bambolotto. Fai fatica a distinguerli, tanto realistica è l’imitazione. I più piccini hanno ancora il cerotto sul cordone ombelicale. Le più eleganti indossano golfini in cachemire. Hanno dagli zero ai tre anni, poi basta, la finzione non funzionerebbe più. Si chiamano Reborn Doll
già apparse all’estero, in vendita da tempo su internet e, ora, in alcuni negozi di Roma e Milano. Molto richiesti, i bambolotti, con molta discrezione. Anche se si mormora che qualche 'mamma' se li porti in giro addirittura in carrozzina.
A tanto giunge la voglia di avere un figlio.
Meglio: di possederlo. Fosse pure una bambola inanimata sulla quale riversare il proprio affetto traboccante. Il sito ilsussidiario.net
assicura che qualche coppia ha chiesto di poter riprodurre il proprio bimbo da piccolo. Ha portato le foto, affidate ad artisti tedeschi. Ed ecco la 'resurrezione'.
Vi fa tenerezza? Vi fa orrore? Vi fa venire i lucciconi agli occhi o i brividi di indignazione?
Guai giudicare i sentimenti. Come si può rimproverare a un uomo e a una donna di desiderare un figlio? Ma anche fino al punto – se non arriva – di comprarsene un simulacro?
No, le modalità in cui i sentimenti si dispiegano sì, quelle possono essere giudicate. E la 'bambola rinata' è la parodia grottesca della bambola 'vera', quella che si regala alle bambine affinché possano 'allenarsi' al sentimento della maternità, apprendendone i linguaggi e i riti, proiettando sulla bambola le fatali frustrazioni di cui loro stesse sono vittime, capricci e rimproveri compresi. Sono le bambole con cui le bambine giocano fin dalla preistoria.
Ora è vero che – lo scriviamo sottovoce – ci sono mamme che sembrano non aver capito bene che gli anni passano e continuano a 'giocare alle bambole' con i loro figli in carne e ossa e cresciuti, e i poveretti ne patiranno le conseguenze per tutta la vita. Ma le reborn doll rendono vivo e vegeto l’incubo spielberghiano di 'A.I.', il film 'Intelligenza artificiale' in cui una coppia rimpiazza il figlio ammalato, e ibernato, con David, un androide – un 'mecha' – iperrealistico, soprattutto nella sua capacità di amare, e amare senza indecisioni, e amare senza limiti, e amare senza incertezze, per migliaia di anni la propria mamma. Chi l’ha visto non può aver dimenticato il profondo senso di 'tenera angoscia' che la storia di David lascia nel cuore.
Nessun giudizio sui sentimenti, dunque. Ma sulla convinzione che si possa vendere e comprare tutto, sì. C’è chi porta con sé nel taschino la fotografia del proprio figlio morto prematuramente. Supponiamo che quel bambino, con le identiche fattezze, se lo portasse in giro in carrozzina tutti i giorni, sempre uguale, sempre la stessa età, incapace di comunicare ma solo di ricevere sguardi e parole. È così difficile cogliere la differenza? Ed è davvero troppo fantasioso pensare che tra qualche anno la reborn doll sarà David, finta pelle più vera della pelle vera, cuore meccanico, capace solo di amare, braccine tese e occhi luccicanti?
Quel giorno, se mai verrà, saremo meno uomini e meno donne. Ma più persuasi, e illusi, di essere onnipotenti.
«Pillola Ru486 solo col ricovero» - Il ministero: le Regioni si adeguino - DA MILANO ENRICO NEGROTTI – Avvenire, 25 giugno 2010
Roccella: «Evitare che l’uso della pillola possa ridurre le garanzie e l’attenzione al problema dell’aborto»
Puntano sull’evidenza scientifica e sull’assunzione di re sponsabilità verso la salute della donna le linee guida per l’uti lizzo della pillola abortiva Ru486 elaborate dalla Commissione istitui ta presso il ministero della Salute. Le principali prescrizioni, che verran no inviate alle Regioni la prossima settimana, ha fatto sapere il sotto segretario alla Salute Eugenia Roc cella, riguardano la disponibilità del la donna al ricovero ordinario e l’e sclusione delle minorenni dalla pos sibilità di ricorrere all’aborto far macologico senza il consenso dei genitori, nonché – in caso di donne straniere – l’accertamento della pie na comprensione linguistica della procedura.
«Abbiamo concluso il percorso di indicazioni sull’uso della pillola Ru486 – spiega Eugenia Roccella – che invieremo alle Regioni. Ci sia mo mossi all’interno di due punti fermi: i tre pareri del Consiglio su periore di sanità (nel 2004, 2005 e 2010, ndr ), in sui si è ribadito che la pillola va presa in regime di ricove ro ordinario, e il parere dato del mi nistro Maurizio Sacconi all’Unione europea sulla compatibilità del far maco con la legge 194». La com missione istituita al ministero della Salute, che ha iniziato i lavori in a prile, ha quindi confermato le indi cazioni più volte ripetute che sotto lineano come la procedura dell’a borto farmacologico, per rispettare il dettato della legge 194 e per garantire la salute della donna, debba avvenire in ospedale fino all’avve nuta espulsione del feto. Le linee di indirizzo ribadiscono che l’utilizzo della pillola abortiva può essere con cesso fino a 49 giorni di amenorrea (come già prescritto dall’Agenzia i taliana del farmaco) e aggiungono che nel consenso informato che de ve essere compilato e sottoscritto deve essere compresa la disponibi lità al ricovero ordinario fino al com pletamento della procedura e quel la a effettuare il controllo a distanza di tempo, entro 14-21 giorni dalla dimissione.
Cruciale quindi è la compilazione del consenso informato, che deve sconsigliare il ricorso alle dimissio ni volontarie della donna una volta assunta la prima pillola per proce dere all’aborto. Commenta Eugenia Roccella: è importante che «chi fir ma il consenso informato si assuma l’impegno di seguire tutta la proce dura, e quindi che accetti di rima nere in ospedale, perché si accetta no le indicazioni del Css che pre scrivono il regime di ricovero ordi nario. Il che non vuol dire ricovero coatto. È un’indicazione di ragionevolezza che Regioni, Asl, medici e direzioni sanitarie devono tenere in considerazione».
La commissione ministeriale (pre sieduta da Fabrizio Oleari, direttore generale Prevenzione sanitaria, e composta dai dirigenti ministeriali Filippo Palumbo, Rossana Ugenti, Lucia Lispi, Giovan Battista Ascone, Sara Terenzi; dagli esponenti dell’A genzia nazionale per i servizi sani tari regionali Fulvio Moirano e Bru no Rusticali e dal comandante dei Carabinieri per la tutela della salu te (Nas), generale Cosimo Piccinno) ha indicati «i punti irrinunciabili del protocollo operativo – aggiunge Eu genia Roccella – che le Regioni sa ranno libere di applicare secondo i propri criteri». Tuttavia se le Regio ni non dovessero o volessero segui re queste linee guida, «credo che an dranno incontro a criticità ammini strative, di monitoraggio e sicurez za sanitaria – chiarisce il sottose gretario – Ci diamo un anno per ve rificare quale sarà la situazione ef fettiva dell’uso della Ru486».
A questo scopo, infatti, già in mag gio la commissione aveva inviato al le Regioni il modello per il monito raggio dell’aborto farmacologico, per avere una raccolta dati il più pos sibile completa, in vista anche del fatto che sull’interruzione volonta ria di gravidanza è prevista ogni an no una relazione del ministro della Salute al Parlamento. Conclude Eu genia Roccella: «Con queste linee di indirizzo il ministero della Salute vuole evitare che l’uso della pillola abortiva possa ridurre le garanzie e l’attenzione che il nostro Paese ha sempre dedicato al problema del l’aborto. Bisogna far capire alle don ne che è necessario rimanere in o spedale per tutte le procedure e su questo chiedo la collaborazione del le Regioni e dei medici».