martedì 29 giugno 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) All'Angelus il ringraziamento a quanti sostengono la carità del Papa - Vocazione è obbedienza all'amore di Dio - (©L'Osservatore Romano - 28-29 giugno 2010)
2) Attaccano il Papa perché segue Gesù - Antonio Socci - da Libero 27 giugno 2010 - Uno dei più acuti osservatori, leader intellettuale dei cosiddetti ratzingeriani, Giuliano Ferrara, con doverosa autoironia, giorni fa, ha amabilmente rimproverato il pontefice di essere “fuori linea”, sulla storia dei preti pedofili, per (a suo avviso) eccessiva arrendevolezza.
3) RIFIUTO DELLE CURE E INDISPONIBILITÀ DELLA VITA UMANA - di Marina Casini*
4) L'Ucraina fa da arbitro tra il papa e il patriarca di Mosca - Lì l'ortodossia russa ha il suo caposaldo. E lì c'è la più popolosa comunità cattolica d'Oriente. Con Giovanni Paolo II le due Chiese erano ai ferri corti. Con Benedetto XVI la svolta. Ma la pace è ancora lontana - di Sandro Magister
5) CORRIERE/ Vittadini: privato in nome della pubblica utilità - Giorgio Vittadini - sabato 26 giugno 2010 - Proponiamo l'articolo di Giorgio Vittadini pubblicato da Il Corriere della Sera sabato 26 giugno 2010 – ilsussidiario.net
6) La barca di Pietro - Pigi Colognesi - lunedì 28 giugno 2010 – ilsussidiario.net
7) TORNA L’EUTANASIA IN GERMANIA? - di Renzo Puccetti*
8) Il g8 e «la salute riproduttiva» - Chi difende le donne - di Emanuele Rizzardi - (©L'Osservatore Romano - 28-29 giugno 2010)
9) Il papa estrae il cartellino giallo per il cardinale Schönborn – da http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it – di Sandro Magister
10) Avvenire.it, 28 Giugno 2010 – VATICANO - Nuovo dicastero per l'evangelizzazione
11) PAPA/ È Benedetto a salvare la giustizia dallo scempio dei giustizialisti. Non solo in Belgio - Ubaldo Casotto - martedì 29 giugno 2010 – ilsussidiario.net
12) Avvenire.it, 29 Giugno 2010 - Produrre fatti, cambiare la vita - Per non ridurci ad alberi invecchiati - Marina Corradi
13) Roccella: «Nel senso comune si legge il valore della vita» Eutanasia e biotestamento nelle esperienze di cinque Regioni - «Progetto Heptavium», presentato il libro del Movimento per la vita sui malati terminali e sulle loro famiglie - DA ROMA – Avvenire, 29 giugno 2010
14) «Via gli obiettori» È bufera in Puglia - Il Forum: è un diritto che non si tocca - DA MILANO ANTONELLA MARIANI - Consultori, la giunta Vendola punta a emarginare i ginecologi anti abortisti Mantovano: scandaloso – Avvenire, 29 giugno 2010


All'Angelus il ringraziamento a quanti sostengono la carità del Papa - Vocazione è obbedienza all'amore di Dio - (©L'Osservatore Romano - 28-29 giugno 2010)
"Chi rinuncia a tutto per seguire Gesù entra in una nuova dimensione della libertà, che san Paolo definisce camminare secondo lo Spirito". Lo ha detto il Papa all'Angelus recitato con i fedeli presenti in piazza San Pietro a mezzogiorno di domenica 27 giugno.
Cari fratelli e sorelle! Le letture bibliche della santa Messa di questa domenica mi danno l'opportunità di riprendere il tema della chiamata di Cristo e delle sue esigenze, tema sul quale mi sono soffermato anche una settimana fa, in occasione delle Ordinazioni dei nuovi presbiteri della Diocesi di Roma. In effetti, chi ha la fortuna di conoscere un giovane o una ragazza che lascia la famiglia di origine, gli studi o il lavoro per consacrarsi a Dio, sa bene di che cosa si tratta, perché ha davanti un esempio vivente di risposta radicale alla vocazione divina. È questa una delle esperienze più belle che si fanno nella Chiesa: vedere, toccare con mano l'azione del Signore nella vita delle persone; sperimentare che Dio non è un'entità astratta, ma una Realtà così grande e forte da riempire in modo sovrabbondante il cuore dell'uomo, una Persona vivente e vicina, che ci ama e chiede di essere amata. L'evangelista Luca ci presenta Gesù che, mentre cammina per la strada, diretto a Gerusalemme, incontra alcuni uomini, probabilmente giovani, i quali promettono di seguirlo dovunque vada. Con costoro Egli si mostra molto esigente, avvertendoli che "il Figlio dell'uomo - cioè Lui, il Messia - non ha dove posare il capo", vale a dire non ha una propria dimora stabile, e che chi sceglie di lavorare con Lui nel campo di Dio non può più tirarsi indietro (cfr. Lc 9, 57-58.61-62). Ad un altro invece Cristo stesso dice: "Seguimi", chiedendogli un taglio netto dei legami familiari (cfr. Lc 9, 59-60). Queste esigenze possono apparire troppo dure, ma in realtà esprimono la novità e la priorità assoluta del Regno di Dio che si fa presente nella Persona stessa di Gesù Cristo. In ultima analisi, si tratta di quella radicalità che è dovuta all'Amore di Dio, al quale Gesù stesso per primo obbedisce. Chi rinuncia a tutto, persino a se stesso, per seguire Gesù, entra in una nuova dimensione della libertà, che san Paolo definisce "camminare secondo lo Spirito" (cfr. Gal 5, 16). "Cristo ci ha liberati per la libertà!" - scrive l'Apostolo - e spiega che questa nuova forma di libertà acquistataci da Cristo consiste nell'essere "a servizio gli uni degli altri" (Gal 5, 1.13). Libertà e amore coincidono! Al contrario, obbedire al proprio egoismo conduce a rivalità e conflitti. Cari amici, volge ormai al termine il mese di giugno, caratterizzato dalla devozione al Sacro Cuore di Cristo. Proprio nella festa del Sacro Cuore abbiamo rinnovato con i sacerdoti del mondo intero il nostro impegno di santificazione. Oggi vorrei invitare tutti a contemplare il mistero del Cuore divino-umano del Signore Gesù, per attingere alla fonte stessa dell'Amore di Dio. Chi fissa lo sguardo su quel Cuore trafitto e sempre aperto per amore nostro, sente la verità di questa invocazione: "Sei tu, Signore, l'unico mio bene" (Salmo resp.), ed è pronto a lasciare tutto per seguire il Signore. O Maria, che hai corrisposto senza riserve alla divina chiamata, prega per noi!
(©L'Osservatore Romano - 28-29 giugno 2010)


Attaccano il Papa perché segue Gesù - Antonio Socci - da Libero 27 giugno 2010 - Uno dei più acuti osservatori, leader intellettuale dei cosiddetti ratzingeriani, Giuliano Ferrara, con doverosa autoironia, giorni fa, ha amabilmente rimproverato il pontefice di essere “fuori linea”, sulla storia dei preti pedofili, per (a suo avviso) eccessiva arrendevolezza.
Poi il direttore del Foglio è tornato a lanciare l’allarme.
Ha scritto infatti che “le autorità ecclesiastiche responsabili e i laici liberali, che dovrebbero avere a cuore la libertà della Chiesa (come pegno generale delle autonomie civili), non vogliono capire che la ‘trasparenza’, cioè la resa senza condizioni alla ossessiva campagna secolarista sulla pedofilia del clero, genera le condizioni per un vulnus simbolico drammatico nel corpo dell’istituzione”.

Ferrara ritiene che dal Belgio sia arrivata la conferma di questa sua tesi. Là infatti sono giunti fino a perquisire la casa del cardinale Daneels, primate emerito accusato “di non aver denunciato per tempo il vescovo di Bruges dimissionario a gennaio con l’accusa di abusi su minori”.

Nelle stesse ore addirittura “le tombe di uno dei padri teologici del Concilio Vaticano II, Léon-Joseph Suenens, e dell’arcivescovo Joseph- Ernest Van Roey, sono state sventrate con il martello pneumatico alla ricerca di chissà quali documenti inquisitori”.

Ferrara ha ragione quando denuncia questi eccessi inauditi, ma non sono d’accordo che essi trovino cittadinanza per l’atteggiamento (a suo avviso) rinunciatario del Pontefice.

Al contrario, è proprio la limpidissima scelta del papa per la trasparenza e per la pulizia nella Chiesa che fa apparire gli atti dell’inquisizione belga in tutta la loro ingiustificata assurdità.

Peraltro proprio l’accorato schierarsi di Pietro dalla parte delle vittime ha fatto ammutolire le campagne più anticlericali, inducendo anche giornali estremamente polemici come il New York Times a “togliersi il cappello” di fronte al coraggio del Santo Padre.

Il Papa è l’unico che non abbia parlato di complotti, ma anzi che abbia definito una “grazia” questa provvidenziale tempesta mediatica la quale impone una purificazione alla Chiesa.

Bisogna riconoscere che quello che sta dicendo e facendo è così alto e profetico che lo stesso mondo clericale non capisce e fa resistenza. Ratzinger ha spiazzato sia i ratzingeriani che gli avversari.

Ha capovolto il vecchio e sciocco stereotipo del “panzerkardinal”. E ha mostrato a tutti la grandezza e la forza dell’umiltà. Ha fatto vedere cos’è un padre che sa piangere con i suoi figli violati e sofferenti, abbracciandoli a nome del Nazareno.

Ha spiazzato anche l’idea che del suo pontificato si erano fatti Ferrara e tanti altri, secondo cui egli sarebbe il Nemico del relativismo che corrode e dissolve l’Occidente e capeggerebbe una Chiesa virilmente identitaria capace di far ritrovare all’Occidente solide radici ideologiche.

A mio avviso basta aver letto i libri del cardinal Ratzinger e tanto più i testi di papa Ratzinger per capire che era un’idea infondata. Ma il problema non è anzitutto culturale.

Il “fattore” che Ferrara elude (ovviamente ne ha tutto il diritto) e che per Benedetto XVI invece è determinante, totalmente decisivo, non è culturale: si chiama Gesù Cristo. La sua presenza viva.

E’ Lui che spiega tutto, che fa comprendere tutte le scelte di papa Ratzinger, tutto quello che dice e che fa. Senza considerare Lui si rischia di fraintendere completamente questo pontificato.

Perché, infatti, un simpatizzante come Ferrara può arrivare a vedere nella posizione del Papa addirittura una “resa senza condizioni alla ossessiva campagna secolarista sulla pedofilia del clero” ?

Esattamente per questo. Perché per Ferrara la battaglia si combatte al cospetto dell’opinione pubblica ed ha come oggetto la reputazione della Chiesa, mentre per papa Ratzinger si è al cospetto di Gesù Cristo, unico giudice, e il contenuto della discussione è la verità.

Se si toglie di mezzo Gesù Cristo – e mi pare l’idea di Ferrara – la Chiesa diventa una realtà umana antica e nobilissima, da millenni civilizzatrice, depositaria di valori e identità, e non può farsi processare – per un numero limitatissimo di colpe di suoi esponenti – da un mondo moderno che sprofonda nella depravazione e nell’amoralità.

Ma Benedetto XVI rifiuta radicalmente una simile riduzione. La Chiesa non è la somma dei suoi membri, né dei suoi meriti storici, non è un insieme di antichi e nobili valori umani, né è al mondo per rivendicare la sua reputazione.

La Chiesa è definita soltanto dalla misteriosa presenza di Gesù, presenza vera e operante, fra i suoi. Davanti a Lui, il santo, tutti noi cristiani siamo come panni luridi. E’ Lui e solo Lui che la Chiesa indica, Lui è la salvezza degli uomini, Lui la pace e la felicità. La Chiesa esiste solo per indicare al mondo il suo volto.

Cosicché la Chiesa è l’unica realtà che – diversamente da partiti, da stati, da qualunque altra associazione umana – non ha bisogno di esaltare la propria reputazione, perché, pur avendo al suo interno tanta santità, non predica se stessa, non vuol convincere di aver ragione.

E’ l’innamorata di Lui ed esalta solo Lui.

Infatti la Chiesa è entrata nel mondo con quattro Evangeli nei quali i pilastri della Chiesa stessa, gli apostoli, venivano rappresentati in tutta la loro miseria umana, meschinità e perfino nei loro peccati e crimini.

Com’è stato osservato pure da nemici della Chiesa, nessuno che abbia voluto fondare una religione o un partito o uno stato, ha mai fatto una cosa simile. Sarebbe stata un’autodelegittimazione assai prossima al suicidio.

Solo la Chiesa ha potuto farlo. Sebbene quegli apostoli, in realtà, siano diventati poi autentici eroi, morendo inermi come martiri.

Solo la Chiesa, sul finire del XX secolo che aveva visto i cristiani vittime (a milioni) di tutti i diversi regimi, a tutte le latitudini, con Giovanni Paolo II ha varcato il millennio non con un atto d’accusa, ma al contrario con un “mea culpa”.

Solo la Chiesa – che pure aveva tutti i diritti di puntare il dito su ideologie e partiti – ha saputo chiedere perdono. Mentre non lo hanno fatto i carnefici. E’ un segno di debolezza e cedevolezza o di (umanamente) inspiegabile forza?

Solo la Chiesa può porre la verità al di sopra dell’interesse di fazione e quindi non averne paura neanche quando è dolorosa e umiliante. Come nel caso dei preti pedofili. Neanche quando fa scandalo: “oportet ut scandala eveniant”, disse Gesù, Signore della storia.

La Chiesa non si difende con la menzogna. Così semmai la si distrugge. Immaginare che Dio abbia bisogno delle nostre menzogne per salvaguardare la sua opera è un sacrilegio.

La Santa Chiesa, spiega il Papa, non è una cosca mafiosa che vive sull’omertà. Le menzogne servono solo ai colpevoli che non vogliono emendarsi o a coloro che vogliono salvaguardare un potere terreno. La Chiesa invece vive della verità. E la verità non fa calcoli di convenienza.

La menzogna rende ricattabili. “La verità vi farà liberi”, ha detto Colui che è la verità fatta carne.

Il mondo dice invece “la verità vi farà deboli”. Ma quello che il mondo non capisce, per il Papa, è che “la debolezza di Dio è più forte degli uomini”. Duemila anni fa aspettavano un giustiziere, un sovrano forte che avrebbe assoggettato il mondo. Ed è nato un bambino inerme.

Poi, diventato grande, perfino gli apostoli pensavano che Gesù sarebbe diventato re. E lui ha scelto invece il trono della croce e la corona di spine. Perché – ha spiegato Benedetto XVI – ha voluto salvare il mondo non con la forza, ma con l’amore. L’amore è più forte di tutto.

E’ per lui, vittima salvatrice, che il papa ha fatto capire a tutti, anzitutto agli ecclesiastici, che le vittime di preti pedofili non sono avversari, ma sono il volto di Cristo crocifisso.

Sono la Chiesa perseguitata. Mentre i persecutori della Chiesa sono semmai i loro violentatori. Tutto questo è grandioso e commovente. E’ divino.
Antonio Socci - da Libero 27 giugno 2010


RIFIUTO DELLE CURE E INDISPONIBILITÀ DELLA VITA UMANA - di Marina Casini*
ROMA, domenica, 27 giugno 2010 (ZENIT.org).- Nel dibattito legislativo sul “fine vita” viene frequentemente invocato il diritto a rifiutare le cure come negazione del principio di indisponibilità della vita umana propria. Non è necessario ricordare il fondamento giuridico e deontologico di tale diritto. Si tratta di capire, però, se tale diritto si fonda su un’autodeterminazione assoluta che non tiene conto del contesto e dei modi in cui la volontà si esprime o se, invece, debba ritenersi qualificante ai fini di un rifiuto esente da “vizi” di volontà la presenza di alcune caratteristiche e una relazione di alleanza terapeutica e assistenziale che sia umanamente e professionalmente significativa.
Semplificando alquanto i termini di un dibattito ricco e vivace si potrebbe, perciò, sostenere che il fulcro della questione non è né affermare un diritto assoluto di autodeterminazione a rifiutare le cure, al punto da ricavarne il c.d. “diritto di morire” che può imporsi fino ad esigere un “dovere di cagionare la morte”; né – viceversa – negare completamente l’esistenza di un’autonomia del soggetto tanto da imporre un “dovere di vivere” contro ogni legittimo desiderio di “essere lasciati in pace”, di “lasciarsi morire”. In entrambi i casi la rigidità delle posizioni non tiene conto della dimensione relazionale che sa essere attenta ai desiderata del paziente, ma che sa essere anche capace di riconoscere il valore del soggetto più debole della relazione e che perciò sa accettare la morte, ma rifiuta di cagionarla.
“Non ci può essere una relazionalità intersoggettiva sancita dal diritto che possa essere giocata per la morte, perché ciò contrasterebbe con l’essenza stessa del diritto: di un diritto che non abbia pretese di assolutezza, ritenendo di poter intervenire sulla vita e sulla morte, ma che si concepisca come strumento tenuto ad offrire (…) il massimo di solidarietà possibile nella comunità civile in qualsiasi situazione della vita”. Si tratta, dunque, da parte del Legislatore di accogliere le istanze dell’autonomia individuale interpretando l’autodeterminazione in modo conforme al principio giuridico del “non cagionare la morte”.
Ciò implica che l’autonomia del paziente debba armonizzarsi con la dimensione relazionale fondata sul riconoscimento dell’uguale dignità del vivere e che perciò si tenga conto sia delle differenze qualitative esistenti tra volontà anticipata e volontà attuale; sia delle diverse ipotesi di rifiuto (rifiuto di attivare una relazione con il medico, rifiuto di iniziare o di ricominciare una terapia, rifiuto di proseguire una terapia in corso) che, a seconda dell’intensità di partecipazione richiesta al medico, fanno appello in modo più o meno impegnativo alla sua scienza e alla sua coscienza.
Questa posizione distingue chiaramente l’“autodeterminazione” sui trattamenti dall’“autodeterminazione” sulla vita. La prima si concilia con la moderna teoria dei diritti dell’uomo – inaugurata con la Dichiarazione Universale del 10 dicembre 1948 – secondo cui la vita umana è indisponibile perché fondata sul riconoscimento di una dignità che non conosce variazioni in quanto è il carattere indelebile di ogni esistenza umana.
Il perno del riconoscimento non è l’“io”, ma il “tu”: lo sguardo che riconosce la dignità umana del malato e del disabile impedisce che il rifiuto delle cure da questi manifestato si trasformi in una licenza di uccidere e valorizza al massimo le cure palliative e assistenziali. La seconda, invece, presuppone che il fondamento dei diritti umani sia la “libertà di scelta” che può realizzarsi anche nel decidere se smettere di esistere. Come si è osservato, però, di tale “diritto di scegliere la morte” per se stessi si chiedono spazi di legalità solo quando la vita umana versa in “certe condizioni”. Ciò significa che in “certe condizioni” la vita umana è ritenuta dalla società (di cui la legge è l’espressione più significativa) non “degna” di ospitalità.
Non è, poi, difficile immaginare quanto questa valutazione sociale (eterovalutazione) possa influire sull’autodeterminazione in ordine al proprio stesso esistere. La distinzione tra autodeterminazione sui trattamenti e autodeterminazione sulla vita può essere di aiuto nell’interpretazione del secondo comma dell’art. 32 Cost. Dal secondo comma dell’art. 32 della Costituzione si vorrebbe dedurre l’esistenza di un “diritto alla non cura”, esteso fino ad includere il “diritto di morire”, da porsi sullo stesso piano del diritto alla cura. L’autodeterminazione del soggetto sarebbe la fonte dell’uno e dell’altro.
Bisogna, innanzitutto, ricordare che non risulta da nessuna parte dei lavori preparatori che il Costituente abbia inteso in qualche modo mettere in discussione il principio di indisponibilità della vita anche da parte del titolare della stessa. È noto, poi, che la formulazione ebbe origine dalla drammatica esperienza delle pratiche di sterilizzazione e di sperimentazione attuate nei campi di sterminio.
A parte queste considerazioni, l’art. 32 va letto e interpretato per intero. Esso recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Il non obbligo è inserito tra l’attenzione alla dimensione sociale della salute e il rispetto della persona umana.
L’attenzione sociale al tema della salute non è tanto espressione di un atteggiamento pragmatico-utilitarista, in base al quale l’autonomia dei singoli, viene compressa in funzione dell’interesse della collettività, quanto di un atteggiamento personalista in base al quale la collettività si fa carico di tutelare la salute dei singoli a prescindere dalla pericolosità sociale di determinate malattie. Le persone in condizioni di indigenza, infatti devono essere messe dall’insieme dei consociati in condizione di curarsi. È dunque il favor curare la sostanza dell’art. 32. È logico dedurre che la cura è un valore che l’individuo deve ricercare e che – di conseguenza – il rifiuto delle cure non è un bene né per la persona malata né per la società nel suo complesso. Va considerato, inoltre, che l’art. 32 è collocato sotto il titolo II della Costituzione che riguarda i rapporti etico-sociali, quelli, cioè, che devono essere ispirati al principio di solidarietà. L’aspetto primario dell’art. 32 non è quello di difendere l’individuo da ipotetiche oppressioni della tecnologia medica, ma, al contrario, quello di assicurare a tutti la salute.
Il richiamo al rispetto della persona umana implica il divieto di ricorrere a misure sanitarie che si impongono con la violenza fisica o che violano, per esempio, la riservatezza della persona in armonia con il divieto di trattamenti disumani e degradanti di cui all’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali. In sostanza l’art 32 Cost. si fonda sul favor curae e i diritti che riconosce sono il diritto alla salute e il diritto a non subire trattamenti sanitari con sistemi coattivi, offensivi, degradanti. Che significa ha in questo contesto il “non obbligo di cura”? Significa che non c’è un dovere strettamente giuridico – coercibile e munito di sanzione – di curarsi, ma non significa né assenza di un dovere morale-civico di curarsi laddove non vi è una legge “obbligante”, né libera disponibilità della vita o della morte, della salute o della malattia. In sostanza, se manca la disposizione di legge, le cure possono essere legittimamente rifiutate, ma resta il dovere morale/civico di curarsi e di persuadere alla cura.
Una riprova si ricava da ciò che comunemente avviene senza critica alcuna: se taluno rifiuta la cura è lecito e forse doveroso che a lui siano rivolti consigli ripetuti affinché egli accetti la terapia. Viceversa è meritevole di rimprovero il comportamento opposto: il consiglio insistente di non curarsi rivolto a colui che, invece, è deciso a ricorrere alle opportune terapie. Il favor curae e il non obbligo giuridico di curarsi, rafforzano e chiariscono il significato della volontà del paziente nella relazione di cura. La partecipazione responsabile e attiva del paziente, infatti, attraverso il dialogo con il medico, assicura maggior efficacia alla cura stessa perché la scelta della soluzione terapeutica è presumibilmente la migliore se è raggiunta attraverso un dialogo con il medico (nella c.d. “alleanza terapeutica”) che riguarda il quando, il come, il luogo, il tipo delle varie possibilità di terapia, le conseguenze, gli effetti collaterali, le alternative. Il consenso del paziente è finalizzato alla reciproca comprensione e dunque al miglior esito della terapia; va letto nella prospettiva di realizzare più efficacemente gli interventi terapeutici più opportuni. In ogni caso l’obiettivo è la salute, non la morte.
Allora: la morte può essere davvero una manifestazione del diritto alla salute? Oppure è esattamente il contrario? Sembra, allora, abbastanza paradossale ricavare la tutela di un asserito diritto alla morte da una norma rivolta ad assicurare il massimo impegno pubblico per la vita. L’art. 32 non tocca, dunque, il principio di indisponibilità della vita umana. È perciò scorretto sostenere che il “diritto alla cura” conterrebbe anche il “diritto alla non cura” fino al punto di decidere la morte. Così come il richiamo al principio dell’inviolabilità della libertà di cui all’art. 13 Cost. Per legittimare la scelta di morire attraverso il rifiuto delle cure è paradossale: la scelta di morire contraddice radicalmente la libertà. Se la libertà è inviolabile, come può essere annientabile? Come la vita anche la libertà è indisponibile. Nella moderna civiltà nessuno può vendere o regalare la propria libertà rendendosi schiavo di un altro. D’altronde la vita è il necessario supporto della libertà. Perdere la prima significa automaticamente perdere anche la seconda. Così non si può affermare che la scelta della morte sia scelta di libertà. Essa è, piuttosto, distruzione della libertà. Chi salva dal tentativo di suicidio una persona, non le salva solo la vita, ma gli restituisce anche la libertà.
Da quanto esposto deriva che nella dimensione biogiuridica la questione dell’indisponibilità o meno della vita umana si colloca nell’ambito del principio “non cagionare la morte” e non è un’indagine che muove tanto dal “criterio dell’appartenenza” (come se si trattasse di capire a chi appartiene la vita per decidere cosa farne), quanto dal “criterio dell’uguale dignità” (non potendosi interpretare
in chiave discriminatoria lo stato di salute, di malattia inguaribile o di grave disabilità invalidante) il cui riconoscimento è affidato allo sguardo, propriamente umano, capace di riconoscere il valore dell’altro. “Si può dimenticare il degrado del proprio corpo se lo sguardo degli altri è pieno di tenerezza” è scritto nelle pagine di un diario conservato presso l’Hospice di Forlimpopoli. In questa prospettiva si coglie tutta l’importanza della legge che della società organizzata è lo sguardo.
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*Marina Casini e ricercatore all'Istituto di Bioetica dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma


L'Ucraina fa da arbitro tra il papa e il patriarca di Mosca - Lì l'ortodossia russa ha il suo caposaldo. E lì c'è la più popolosa comunità cattolica d'Oriente. Con Giovanni Paolo II le due Chiese erano ai ferri corti. Con Benedetto XVI la svolta. Ma la pace è ancora lontana - di Sandro Magister
ROMA, 28 giugno 2010 – Da vari anni la festa dei santi apostoli Pietro e Paolo è momento alto di dialogo tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse d'Oriente, con la presenza alle liturgie officiate dal papa di delegati del patriarcato ecumenico di Costantinopoli, se non del patriarca in persona.

Con Benedetto XVI questo dialogo ha fatto progressi notevolissimi. Persino il primato del papa – ragione storica principale dello scisma – non è più un tabù ed è divenuto oggetto di ecumenici incontri di studio.

Durante l'attuale pontificato sono nettamente migliorati anche i rapporti tra la Chiesa di Roma e la parte più cospicua dell'ortodossia, la Chiesa russa. Sia l'una che l'altra sono sempre più concordi nel voler affrontare assieme quello che ritengono il dovere prioritario dei cristiani nell'Europa di oggi: una nuova evangelizzazione di tutti coloro che sono lontani dalla fede. Quella nuova evangelizzazione alla quale Benedetto XVI ha deciso di dedicare uno specifico ufficio della curia romana.

All'atto pratico c'è però un ostacolo che ancora inceppa i rapporti tra Roma e Mosca e impedisce che il papa e il patriarca russo si incontrino. Incontro mai avvenuto nella storia ma che entrambi, Benedetto XVI e Kirill I, desiderano con tutto il cuore.

Questo ostacolo è l'Ucraina.

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Per i russi l’Ucraina è la terra natale. La Russia è sorta a Kiev più di un millennio fa dal principato vichingo dei Rus, ed è lì che s’è convertita al cristianesimo; è lì che ha tuttora gli archetipi della sua fede, dell’arte, della liturgia, del monachesimo; è lì che pesca molte sue vocazioni e larga parte del proprio sostegno economico.

Ma in Ucraina vive anche la Chiesa cattolica di rito orientale più popolosa del mondo, con più di cinque milioni di fedeli. Assomigliano in tutto agli ortodossi, nelle liturgie greco-bizantine, nelle usanze, nel clero sposato. Si differenziano da loro solo per l'obbedienza al papa.

Il legame col papa di una parte dei cristiani d'Ucraina ha seguito nella storia l'alternarsi del dominio su questa terra ora dei polacchi, ora dei russi. La Polonia ha favorito questo legame. La Russia lo ha ostacolato. Alla fine del Settecento, quando la Polonia scomparve come Stato e i russi occuparono gran parte della regione imponendovi l'ortodossia, gli ucraini obbedienti al papa si concentrarono a Occidente nella Galizia, che era parte dell'impero cattolico di Vienna. È lì che nell'Ottocento nacque il mito di un futuro "papa slavo" capace di ridare loro vittoria.

Ma quando nella seconda guerra mondiale l'Unione sovietica occupò l'intera Ucraina, anche la Chiesa greco-cattolica sopravvissuta in Galizia fu cancellata con la forza. Nel 1946 Mosca organizzò a Lvov, nome russo di Leopoli, in ucraino Lviv, uno pseudo-sinodo che obbligò tutti a rientrare nell’ortodossia. L’arcivescovo Josyf Slipji, capo legittimo dei greco-cattolici, fu messo in prigione. Sarà liberato ed esiliato nel 1963.

Fu la caduta del muro di Berlino nel 1989 a consentire alla Chiesa greco-cattolica ucraina di uscire in massa dalle catacombe, con i suoi vescovi, i preti e i fedeli. E subito essa reclamò dalla Chiesa ortodossa la restituzione di chiese e case. In alcuni casi, pochi, la restituzione avvenne pacificamente. Ma in molti luoghi si arrivò al conflitto fisico, con occupazioni ed estromissioni violente. Un conflitto tuttora solo in parte sanato.

A galvanizzare i cattolici c'era papa Giovanni Paolo II, che nel 2001 visitò l'Ucraina e canonizzò 27 martiri del regime comunista, uno dei quali cotto nell'acqua bollente, un altro crocifisso in prigione e un altro murato vivo.

Ma per gli ortodossi e i russi, memori dei passati conflitti, la nazionalità polacca di questo papa era foriera solo di minaccia. In ogni delibera di Karol Wojtyla che riguardava l'immenso territorio "tutte le Russie" – dalla nomina di un nuovo vescovo all'invio di un missionario – il patriarcato di Mosca vedeva ogni volta un atto di intollerabile invasione.

La più odiata e temuta di queste delibere sarebbe stata l'elevazione a patriarcato della Chiesa greco-cattolica ucraina, con sede a Kiev. Niente infatti è più intollerabile, per l'ecclesiologia russa, di un patriarcato "romano" e rivale in un territorio dove già esiste un patriarcato ortodosso. A maggior ragione dove già c'è il patriarcato di Mosca, che dal XVI secolo si avvale del titolo di "terza Roma".

Alla fine del 2003 l'elevazione a patriarcato della Chiesa greco-cattolica ucraina sembrava quasi fatta. Il successore di Slipji, l'arcivescovo maggiore e cardinale Lubomyr Husar (nella foto), si trasferì a Kiev, accanto alla sua nuova chiesa "patriarcale" in costruzione. E da Roma il cardinale Walter Kasper, presidente del pontificio consiglio per l'unità dei cristiani, inviò al patriarca di Mosca Alessio II una lettera nella quale annunciò che papa Giovanni Paolo II intendeva istituire a Kiev un patriarcato greco-cattolico. Allegato alla lettera c'era un lungo documento con le prove d'appoggio alla decisione, storiche e canoniche.

Apriti cielo. Alessio II mostrò la lettera di Kasper al patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I. E questi scrisse a Giovanni Paolo II una risposta di fuoco, adombrando una catastrofe per il dialogo ecumenico qualora il patriarcato greco-cattolico di Kiev fosse divenuto realtà. La lettera di Bartolomeo I al papa, datata 29 novembre 2003, fu resa pubblica sul mensile cattolico internazionale "30 Giorni", edito a Roma, diretto dal senatore Giulio Andreotti e lettura d'obbligo in Vaticano.

In Vaticano tirarono il freno. Kasper volò a Mosca a dire che il patriarcato greco-cattolico ucraino non era più tra le delibere in agenda. Ma in Ucraina la febbre rimaneva altissima. Da Roma, un fiero sostenitore dei greco-cattolici, il gesuita americano Robert Taft, professore al Pontificio Istituto Orientale e specialista di fama mondiale del mondo bizantino e slavo, in un'intervista a John Allen del "National Catholic Reporter" consigliò loro di passare subito ai fatti: proclamare autonomamente il patriarcato e solo dopo chiederne il riconoscimento a Roma, che avrebbe preso atto del fatto compiuto. Quanto alle resistenze degli ortodossi, tagliò corto: "È inutile tentare di convincerli. Prendere o lasciare. Al diavolo Mosca".

Sul finire del pontificato di Giovanni Paolo II, questo era lo stato della cose. In Ucraina tra cattolici e ortodossi era guerra aperta. La guerra dei due patriarcati.

*

Oggi invece, solo pochi anni dopo, tra la prima e la terza Roma sembra essere sbocciata la pace. Benedetto XVI non è polacco ma tedesco, e già questa è una variazione non da poco. E poi è un teologo che conosce bene l'ecclesiologia delle Chiese orientali.


Infatti, da quando Joseph Ratzinger è papa, del nuovo patriarcato greco-cattolico non si parla più. Non ne parla lui e non ne parlano più nemmeno gli ucraini.

Nel 2008, a fine gennaio, i vescovi greco-cattolici dell'Ucraina sono stati in visita "ad limina" in Vaticano. Era la prima volta dopo settant'anni. E sul patriarcato neppure una parola.

Riguardo ai rapporti con gli ortodossi, il papa ha detto loro: "Bisogna umilmente riconoscere che in questo campo permangono ostacoli concreti e oggettivi".

Ma il papa ha sollecitato i greco-cattolici a fare pace prima di tutto in casa propria e ad appianare i "malintesi" con i cattolici di rito latino presenti in Ucraina, quasi tutti polacchi e piuttosto malvisti.

Ciò che Benedetto XVI più invoca come azione comune tra cattolici e ortodossi è la ri-evangelizzazione di quei larghi strati di popolazione che anche in Ucraina hanno abbandonato la fede cristiana, dopo decenni di dominio ateista. A questa esigenza anche il patriarcato di Mosca, oggi impersonato da Kirill I, è particolarmente sensibile.

Si calcola che in Ucraina, su quasi cinquanta milioni di abitanti, gli ortodossi siano il trenta per cento, i cattolici il dieci, i protestanti il tre, gli ebrei quasi l'uno per cento. Gli atei professi sono circa il quindici per cento. "Tutti gli altri sono lontani dalla fede, non appartengono a nessuna Chiesa, sono comunque aperti e accoglierebbero il messaggio di Dio con attenzione e con grande interesse. Perciò, noi dobbiamo andare verso di loro e presentargli Cristo. Questa è una grande sfida evangelizzatrice per noi". Così si è espresso l'arcivescovo maggiore dei greco-cattolici ucraini, il cardinale Lubomyr Husar, mentre era a Roma per la visita "ad limina", in un'intervista a "L'Osservatore Romano".

*

Da quella visita "ad limina" a oggi un altro paio di fatti vanno segnalati. Uno positivo e un altro no.

La novità positiva è di pochi giorni fa. Una delegazione del patriarcato di Mosca presieduta dal metropolita Hilarion di Volokolamsk ha incontrato a Varsavia una delegazione dei vescovi della Polonia, presieduta dall'arcivescovo primate di Gniezno Henryk Muszynski, per concordare una dichiarazione comune di reciproco perdono, di riconciliazione e di cooperazione tra le due Chiese.

Sullo sfondo dei secolari conflitti che hanno opposto la Russia ortodossa e la Polonia cattolica, si tratta di una svolta senza precedenti. Le due delegazioni hanno confrontato le rispettive bozze del futuro documento e si sono lasciate con la fiducia in rapidi progressi. Il prossimo incontro si terrà a Mosca.

La novità negativa riguarda invece l'Università Cattolica Ucraina, con sede a Leopoli, l'unica università cattolica dell'intera ex Unione sovietica, definita da Benedetto XVI "un valido sostegno all’azione ecumenica".

Lo scorso 18 maggio, agenti dell'SBU, il servizio di sicurezza dell'Ucraina subentrato al famigerato KGB, si sono presentati dal rettore dell'università, Borys Gudziak, 50 anni, nato negli Stati Uniti e dottore a Harvard in storia e letteratura slava e bizantina, pretendendo da lui che firmasse una lettera di collaborazione con i servizi.

Gudziak rese di pubblico dominio la prepotenza subita e il 26 maggio le autorità dichiararono che si era trattato di un fraintendimento. Ciò non toglie che l'atto si inserisce in un crescendo di pressioni contro le libertà civili e contro la Chiesa cattolica che si è accentuato dopo la salita al potere, lo scorso febbraio, del filorusso Viktor Yanukovich.

La Chiesa greco-cattolica – che in questa e nelle precedenti elezioni ha sempre parteggiato per i candidati filoccidentali – con la vittoria di Yanukovich ha visto peggiorare le proprie condizioni. È ancora in attesa di un pieno riconoscimento legale. Le chiese, i conventi, le scuole, gli ospedali che le sono stati restituiti dopo la caduta del regime sovietico non ricevono aiuti per essere restaurati e messi in condizione di operare.

Viceversa, gli aiuti pubblici vanno alla Chiesa ortodossa, trattata come la religione di Stato. Il nuovo presidente intrattiene rapporti praticamente solo col patriarcato di Mosca, trascurando la Chiesa greco-cattolica.

Il rettore Gudziak e molti altri con lui ritengono che il patriarcato ortodosso di Mosca, in Ucraina, dovrebbe maggiormente confortare con i fatti le parole di fratellanza ecumenica che rivolge alla Chiesa di Roma.

__________


In un'intervista a "il Regno" n. 8 del 15 aprile 2010, il cardinale Lubomyr Husar ha ribadito le critiche al trattamento riservato alla Chiesa cattolica in Ucraina:

> Il Regno

In particolare, Husar ha denunciato il predominio del patriarcato ortodosso di Mosca "e di tutte le Russie", locuzione, quest'ultima, che egli spiega così:

"Per il patriarcato di Mosca il 'mondo russo' raccoglie gli slavi orientali, quindi russi, ucraini, bielorussi; secondo tale visione loro sono un unico popolo e per questo sono da considerarsi fratelli. Un popolo in tre Stati. Ma è così solo grazie a una lettura ideologica della storia e di interessi ecclesiastici del patriarcato di Mosca. La Chiesa russa vuole annettersi la storia della Chiesa di Kiev, fare della Chiesa figlia la Chiesa madre. Mentre la Chiesa di Kiev vive da oltre mille anni, quella russa è assai più recente. Non vi è dubbio che vi siano fra le nostre Chiese molti aspetti comuni, ma lo sviluppo storico è stato diverso. Non vedo come posso considerare un 'fratello' del mio popolo Ivan IV il Terribile o Pietro I o Caterina II. Non vedo come considerare l’attuale dirigenza russa come parte del mio popolo. Abbiamo tradizioni comuni, momenti storici e spirituali comuni, come la relazione fra Chiesa madre e figlia lasciano supporre. Ma rimaniamo tre popoli diversi: noi, i russi e i bielorussi. Voler annullare le differenze significa voler impedire la collaborazione e l’amicizia. Un’assimilazione forzata scatena il conflitto. Per questo dobbiamo insistere sulla nostra posizione e difendere la nostra dignità storica. Non lasciarci assorbire in un nuovo impero, in una nuova 'Unione Sovietica'".


CORRIERE/ Vittadini: privato in nome della pubblica utilità - Giorgio Vittadini - sabato 26 giugno 2010 - Proponiamo l'articolo di Giorgio Vittadini pubblicato da Il Corriere della Sera sabato 26 giugno 2010 – ilsussidiario.net
Perché concezioni quali “più società meno stato” o welfare sussidiario sono diventate oggi di attualità, come mostra l’interessante dibattito che ha trovato spazio sulle pagine del Corriere? Un primo punto fermo appare l’esigenza di difendere quella tradizione europea che, a partire dalla centralità della persona umana, “unica e irripetibile”, ha costruito un sistema di welfare universalistico mirato all’offerta di un’ampia gamma di servizi pubblici disponibili per tutti i cittadini. Tenendo fermo l’obiettivo di non retrocedere da questa importante conquista civile, e avendo presenti le nuove esigenze di un mondo in rapido cambiamento, occorre far fronte alle due opposte concezioni di welfare presenti oggi.

In Italia, da più di due secoli, ha prevalso l’idea che un sistema di welfare universalistico potesse essere gestito solo da amministrazioni e aziende pubbliche, attraverso una forte programmazione dello Stato centrale. Tuttavia, negli ultimi decenni, a causa della crescente quantità e qualità dei bisogni della popolazione e per l’esplodere del debito pubblico degli Stati, tale concezione è andata in crisi, portando molti a ritenere che, anche nel welfare, debbano valere le regole di un mercato “selvaggio” guidato dalla sola logica del massimo profitto. E’ evidente che se questo sistema si affermasse, le società europee assumerebbero in pochi anni gli aspetti deteriori del mondo americano, con una inaccettabile e crescente contrapposizione tra ricchi e poveri.

A fronte di questa sterile contrapposizione tra logica pubblica e privata, è venuto il momento di sottolineare il valore del cosiddetto “welfare sussidiario”, quello cioè in cui trovano spazio i servizi delle realtà non profit, il cui ottimo aziendale consiste nel perseguimento di scopi sociali. I cittadini, in questi casi, sono titolari della libertà di scelta all’interno di una pluralità d’offerta governata dallo Stato (tramite meccanismi di accreditamento e valutazione che superino le asimmetrie informative) e finanziata redistribuendo le tasse (mediante voucher, doti, deduzioni e detrazioni fiscali, convenzioni etc..). In questo modo si otterrebbe il grande vantaggio della libertà di scelta degli utenti, tipica dei mercati, e quello della garanzia di servizi che rispondono ai bisogni elementari della popolazione.
Un ulteriore valore aggiunto di questa concezione è il recupero di una concezione di persona non isolata, ma in relazione con altre persone, e, in quanto tale, non solo oggetto, ma soggetto del welfare. Fin dall’alto medioevo, e poi per merito del movimento cattolico, operaio, e di una concezione liberale e imprenditoriale attenta ai bisogni sociali, sono nati nei secoli scuole, università, ospedali, opere assistenziali, interventi a sostegno del lavoro, abitazioni popolari, interventi di protezione ambientale e artistica, perfino istituti bancari. Pur non aiutate da una legislazione che le ha discriminate, queste realtà di diritto privato, ma pubbliche per scopo, si sono fatte carico, in modo spesso più efficace ed efficiente di quelle statali, dei più disparati bisogni sociali.

Questo protagonismo sociale è la grande risorsa da valorizzare nell’attuale fase di transizione, come hanno capito ormai da tempo pensatori come Lester Salamon della Johns Hopkins (che parla di necessità di partenariato tra pubblico e privato) o Julian Le Grand della London School of Economics (che difende la libera scelta dell’utente nel welfare). Lo ha capito anche la Corte costituzionale italiana, qualche anno fa, quando ha definito lo scopo di pubblica utilità delle fondazioni bancarie. Lo ha capito anche la gran parte della popolazione che risponde entusiasticamente al 5 per mille. E lo hanno capito, infine, anche alcune Regioni che hanno riformato le loro legislazioni per permettere ai loro cittadini di scegliere tra i soggetti erogatori dei servizi di welfare, quelli più rispondenti ai propri bisogni.

E’ ora che anche a livello nazionale si attui una riforma che rimetta al centro del sistema sociale la persona, non solo come oggetto ma anche come soggetto del welfare. Ed è ora di ripensare alle categorie di merito e di parità che, concepite come lo sono adesso in maniera burocratica, rischiano di ottenere il massimo dell’ingiustizia.


La barca di Pietro - Pigi Colognesi - lunedì 28 giugno 2010 – ilsussidiario.net
Domani è la festa di san Pietro, la festa del Papa. Da ormai molto tempo dicono che la barca di cui il Primo degli Apostoli è il nocchiero attraversa acque agitate ed è scossa all’interno da movimenti improvvidi che la fanno ondeggiare. Sui giornali si susseguono inchieste e scoop variamente credibili e documentati; su molti dei quali aleggia l’odore macabro di chi - come un avvoltoio - trova soddisfazione soltanto se può infangare e distruggere. Stuoli di commentatori si esercitano nel pontificare - è proprio il caso di usare questo termine - su cause e rimedi della presunta «crisi»; lasciando spesso nel lettore l’amara impressione che parlino di una cosa che in fondo non li interessa, da cui si tirano spocchiosamente fuori. Come l’evangelico fariseo che guardava dall’alto in basso le miserie del povero pubblicano, là in fondo alla chiesa a chiedere perdono dei suoi peccati.
Dal canto suo, l’attuale successore di Pietro non cessa di tenere il timone della barca saldamente puntato verso la meta. Con coraggio ricorda l’essenziale; come quando a Lisbona ha detto: «Ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, ciò che purtroppo è sempre meno realista». Senza tentennamenti chiede noi figli della Chiesa il coraggio di riconoscere il nostro peccato e di fare, sicuri della misericordia di Dio, la penitenza necessaria per purificare la barca dalla «sporcizia» che noi stessi abbiamo trascinato in essa e per i pesi che le rendono difficoltosa la navigazione.


Uno degli innumerevoli commenti che la stampa sta dedicando al mondo cattolico titolava così: «La Chiesa di papa Ratzinger si salverà?». Stia tranquillo il giornalista (ammesso che gli interessi qualcosa): si salverà. E non tanto perché nella sua bimillenaria storia ha assistito a bufere non meno impegnative di quella che sta attraversando ora e ha dolorosamente sperimentato al suo interno divisioni e tradimenti ben più gravi di quelli attuali. Si salverà perché non è come una multinazionale che ha subito un rovescio negli affari o il cui amministratore delegato è scappato con la cassa; non è un’associazione di persone ben intenzionate che perseguono un nobile scopo e improvvisamente si vedono sorpassati da altri in quell’obiettivo o scoprono che qualche socio pensa ai fatti suoi; non è un’accademia di studiosi le cui teorie possano venir messe in discussione da qualche nuova scoperta o dal fallimento di un esperimento. Semplicemente la Chiesa - corpo di Cristo nella storia - è già salvata e questa salvezza offre continuamente a tutti.
Che poi la storia le si avventi contro, castigandola o perseguitandola, oppure le tributi trionfi e riconoscimenti, magari interessati, non cambia la sostanza. Potrebbe accadere come nel finale del Racconto dell’Anticristo di Vladimir Solov’ëv: gli abitanti della barca ridotti a pochi fedeli, il mondo che si disinteressa della proposta dei cristiani, i traditori che si moltiplicano allettati dalle lusinghe del potere o travolti dalla paura. Sempre resterebbe la certezza incrollabile del nocchiero; non per sua capacità, ma perché a questo è stato eletto. Resterebbe sempre qualcuno che avrà il coraggio di rispondere all’imperatore di turno (e ai suoi manutengoli): «Grande sovrano, quello che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiano che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della Divinità».


TORNA L’EUTANASIA IN GERMANIA? - di Renzo Puccetti*
ROMA, lunedì, 28 giugno 2010 (ZENIT.org).- Un altro passetto della traballante civiltà occidentale verso l’auto-demolizione sembra essersi svolto nella città tedesca di Karlsruhe dove ha sede il Bundesgerichtshof, la Corte federale di giustizia tedesca, presieduta dal giudice Ruth Rissing-van Saan, che ha deliberato in favore dell’avvocato Wolfgang Putz, esperto in diritto sanitario.
Il caso risale al 2007 quando la signora Erika Küllmer, 71enne in stato vegetativo dall’ottobre 2002 dopo essere stata colpita da emorragia cerebrale, morì per “cause naturali”, come stabilito dalla perizia autoptica, due giorni dopo che la figlia, per rispettare le volontà espresse in precedenza dalla madre, dietro consiglio legale di Wolfgang Putz aveva reciso con le forbici il sondino alimentare davanti agli occhi del proprio fratello che peraltro si suiciderà dopo pochi mesi.
Secondo la corte tedesca il caso non costituiva un atto illecito in quanto il comportamento messo in atto configurava la fattispecie del rispetto delle volontà “chiaramente espresse” dalla donna nel 2002 e non costituiva una condotta eutanasia, ma piuttosto sanciva il ripristino del “naturale” corso degli eventi.
La vicenda si intreccia da un lato con la modifica del 1 settembre 2009 della legge che regolamenta la figura dell’amministratore di sostegno in cui è stato riconosciuto l’istituto del testamento biologico scritto vincolante, oppure un succedaneo di esso costituito dalla individuazione delle “volontà presunte” del paziente ricostruite sulla base di “indizi concreti”.
Riguardo all’aberrante caricatura del concetto di autonomia sotteso a tale legislazione mi sono espresso più volte e non è qui il caso di ritornavi sopra in modo dettagliato.[1];[2] Non stupisce quindi che il ministro della giustizia Sabine Leutheusser-Schnarrenberger abbia salutato la sentenza come una vittoria dell’auto-determinazione e della dignità nella morte, concetto che faccio fatica a separare dall’altro concetto così di moda una settantina di anni fa nello stesso paese, le lebensunwertes lebens (vite indegne di essere vissute).
La vicenda rimanda peraltro anche al modello di testamento biologico presentato congiuntamente dal Cardinale Karl Lehmann per la Conferenza Episcopale Tedesca e dal Presidente ecclesiastico Manfred Kock in quanto Presidente del Consiglio della Chiesa evangelica in Germania. In tale documento erano affermati due punti.
1) Su di me non devono essere prese misure di prolungamento della vita, se secondo scienza e coscienza medica viene verificato che qualsiasi misura di sostegno vitale sarebbe senza prospettiva di miglioramento e prolungherebbe soltanto la mia agonia.
2) Anche qualora Lei disponga di non desiderare misure di prolungamento vitale nella fase della morte, una cosiddetta "assistenza di base“ viene di principio attuata e in questa rientra anche "l’appagamento della fame e della sete (cfr. i "Princpî dell’Ordine federale dei medici sull’accompagnamento medico alla morte” del 1998). Se l’alimentazione artificiale tramite un sondino naso-gastrico, per bocca o per via gastrointerica (la cosiddetta sonda PEG) o per fleboclisi rientri alla fine della vita nell’“assistenza di base”, va deciso da caso a caso.
Un soggetto in stato vegetativo da cinque anni è difficile che lo si possa definire in stato agonico (agonia è termine che rimanda alla lotta estrema con la morte). La sua nutrizione ed idratazione ha tutti i criteri per essere ritenuta un’assistenza di base.
Quindi le procedure eseguite nel caso in questione non sembrano essere assolutamente in linea con quelle raccomandate dalla conferenza episcopale tedesca.
Pur condividendone le preoccupazioni, non è molto chiaro il senso del commento alla sentenza Putz espresso dalla Conferenza Episcopale Tedesca: “è determinante una differenziazione fondamentale tra eutanasia attiva e passiva. Essa rappresenta un sussidio etico indispensabile per decidere e ci sembra che non sia stata sufficientemente considerata ai fini della sentenza. Temiamo che questa situazione complessa possa determinare in seguito delicati problemi etici”.[3]
Non si comprende infatti se la differenziazione tra eutanasia attiva e passiva sia dai vescovi tedeschi attribuita alla sola corte, oppure se sia un concetto che i vescovi tedeschi pensano di fare proprio. A tale proposito conviene ricordare il passaggio sull’argomento del documento della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede del 1980 conosciuto come Iura et Bona: “Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati”. Si tratta di una definizione che quindi non limita la valutazione etica all’esteriorità dell’atto, ma lo radica nel suo fine intrinseco (finis operis). L’interruzione di un presidio di sostegno vitale può quindi costituire un atto eutanasico, ma anche un atto dovuto per non incorrere in cure sproporzionate per eccesso. Non esiste quindi un’eutanasia attiva/commissiva cattiva ed un’eutanasia passiva/omissiva buona.
Ci aiuta a comprendere bene il concetto il bioeticista di Princeton Paul Ramsey: “Per comprendere quale trattamento sia obbligatorio abbiamo solo bisogno di capire quale trattamento sia medicalmente indicato. […] Un approccio basato sulla qualità della vita sposta erroneamente il centro dal se i trattamenti sono benefici per il paziente al se le vite dei pazienti sono benefiche per loro stessi”.[4]
Per comprendere poi come l’assimilazione di auto-determinazione e rispetto delle volontà anticipate sia il frutto di una lettura della realtà sicuramente imprudente, quando non asservita all’ideologia, citerò il caso che le cronache giudiziarie indicano come il caso “Marjorie Nighbert”.[5]
Nel 1992 Marjorie Nighbert, un’attiva donna d’affari dell’Ohio, designò il fratello come fiduciario nel caso avesse perso la capacità di decidere. Secondo l’avvocato di famiglia Marjorie affermò che in caso di malattia terminale non avrebbe voluto essere alimentata col sondino. Alcuni anni più tardi, mentre era in visita ai familiari in Alabama, a causa di un ictus, diventò incapace di deglutire e di comunicare efficacemente. Fu così trasferita nella casa di cura Crestview Nursing and Convalescent Home in Florida dove i familiari speravano potesse essere aiutata a riprendersi, ma così non avvenne. Maynard, il fratello di Marjorie, dopo poco chiese ed ottenne dalla corte che le fosse rimosso il sondino per la NIA. Marjorie non soffriva però di una malattia terminale, era viva, aveva fortissime difficoltà a comunicare, ma riuscì comunque ad implorare che le fosse dato cibo ed acqua. Alcuni membri dello staff sanitario, mossi a compassione dalla richiesta di acqua dell’anziana donna, iniziarono a dargliene un po’ di nascosto, finché uno di loro, che poi verrà licenziato per questo, raccontò i fatti all’esterno.
Attraverso l’interessamento di alcuni volontari pro-life, fu aperta un’indagine statale e si giunse ad una richiesta temporanea di rialimentazione. Il caso tornò di nuovo di fronte alla corte dove il giudice Jere Tolton diede appena 24 ore al curatore speciale, l’avvocato William F. Stone, di verificare se Marjorie fosse competente per revocare la delega al fratello.
Con solo 24 ore di tempo il povero curatore speciale affermò che la paziente in quel momento, dopo settimane di malnutrizione e disidratazione, non era competente, ma egli, come curatore, non era in grado di stabilire se la donna era competente al momento in cui la disidratazione aveva avuto inizio.
La corte sentenziò che Marjorie non era competente per annullare il precedente living will, cosicché Marjorie fu lasciata morire di fame e di sete. Prima che il curatore potesse appellarsi Marjorie morì il 6 aprile 1995 a 83 anni. Una storia drammatica che può fare riflettere gli entusiasti sostenitori del testamento biologico.
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* Il dottor Renzo Puccetti è specialista in Medicina Interna e segretario del Comitato “Scienza & Vita” di Pisa-Livorno.
1) A. Gaspari. Il testamento biologico può indurre all’abbandono delle cure? Zenit, 17-11-2009. http://www.zenit.org/article-20361?l=italian
2) R. Puccetti. A 40 anni dal primo testamento biologico, è ancora eutanasia. Zenit, 8-11-2009. http://www.zenit.org/article-20230?l=italian
3) Agenzia SIR, 25 giugno 2010, ore 17,52.
4) Ramsey. Ethics at the edges of life. New Haven; Yale University Press, 1978 p. 155-172.
15) Smith WJ. Culture of death: The Assault on Medical Ethics in America. Encounter Books Editor, San Francisco (Ca), 2000. pp. 70-71.


Il g8 e «la salute riproduttiva» - Chi difende le donne - di Emanuele Rizzardi - (©L'Osservatore Romano - 28-29 giugno 2010)
Le grandi lobby e le agenzie dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) che promuovono la pianificazione familiare e dell'aborto hanno ottenuto che il g8 in Canada adottasse la Muskoka Initiative per la "salute delle madri, dei neonati e dei bambini sotto i cinque anni". Per la prima volta nella storia del gruppo, dunque, nell'agenda sono entrate "salute riproduttiva" e mortalità materna: gli otto grandi si sono impegnati ad aggiungere un miliardo di dollari in più ai 4,1 annui già stanziati per eliminare la piaga delle morti legate alla maternità. In realtà, dietro a questa ampiamente condivisibile finalità si nasconde, ancora una volta, la volontà di diffondere l'aborto "sicuro" e i programmi di pianificazione familiare nei Paesi in via di sviluppo. Il tutto falsando dati statistici e non tenendo conto di ricerche scientifiche di primo piano.
Il progetto ha una lunga storia: nel 2000 i capi di Stato e di Governo si erano impegnati con i Millennium Development Goals (Mdg) ad abbattere la piaga della mortalità materna del 75 per cento entro 15 anni. Ora, a meno di cinque anni dall'ambiziosa meta, le agenzie dell'Onu sostengono che l'obiettivo è ancora lontano. Per questo il leitmotiv dei quartieri generali di New York è tutto orientato a promuovere un'azione più coordinata tra le agenzie, i Governi e le fondazioni private e ad aumentare i finanziamenti per le organizzazioni non governative (ong) impegnate nella salute per la donna. Obiettivo ampiamente raggiunto: nei prossimi 5 anni la Muskoka Initiative prevede di movimentare più di 10 miliardi di dollari, tra donativi di Stati e fondazioni private (Bill and Melinda Gates Foundation, Hewlett Foundation, Rockefeller e altre).
Ma per fare cosa? Sono emorragie, ipertensione e aids le cause di morte per il 71 per cento delle donne che danno alla luce un figlio secondo il 2010 Countdown to 2015 Decade Report dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Le complicazioni post-aborto ne rappresentano invece soltanto il 9 per cento. Logica vorrebbe che gli sforzi economici si concentrassero sulla formazione di un maggior numero di personale ostetrico specializzato, affinché anche l'altra metà delle donne del Sud del mondo possa essere assistita durante il parto, oltre che contare sulla fornitura di medicinali antiemorragici, antibiotici e antiretrovirali. Diversi studi recenti dimostrano che proprio queste misure sono le più efficaci per abbattere nel mondo il tasso di mortalità materna. La Muskoka Initiative invece si concentra sui "servizi e le cure universali per la salute sessuale e riproduttiva, inclusa la pianificazione familiare volontaria", sui servizi di aborto "sicuro" e le informazioni per gli adolescenti e le donne che vogliono raggiungere il "livello desiderato" di accesso agli strumenti di pianificazione familiare.
Pochi sanno che il clima di grande urgenza con cui i capi di Stato e di Governo delle più grandi economie del mondo hanno affrontato la questione della salute della donna a Muskoka è stato alimentato da forti pressioni economiche e si fonda su dati statistici molto discussi. Nello scorso aprile la prestigiosa rivista britannica "The Lancet" ha pubblicato uno studio sui trend della mortalità materna che evidenziava come i dati utilizzati fino a quel momento dalle principali agenzie Onu fossero obsoleti e inadeguati a rappresentare correttamente e scientificamente la realtà: le morti delle madri continuano a diminuire dal 1980, e oggi nel mondo muoiono 342.900 donne ogni anno (di cui 60.000 di aids), e non oltre 500.000, come sostenevano Unicef, Oms e Banca mondiale.
Lo studio inoltre non menziona l'aborto "sicuro" come metodo per diminuire le morti tra le gravidanze. Richard Horton, direttore della rivista britannica, ha denunciato al "New York Times" di aver ricevuto pressioni da gruppi abortisti che chiedevano una dilazione della pubblicazione dell'articolo, dell'università di Washington, almeno fino al 2011. Evidentemente i suoi dati, scientificamente inoppugnabili, avrebbero potuto influenzare i negoziati delle quattro conferenze internazionali che quest'anno stanno trattando di salute delle donne e mortalità materna. Mentre infatti le Commissioni dell'Onu di marzo e aprile sullo Stato delle donne e su Popolazione e sviluppo non ne sono state toccate, l'articolo del "Lancet" ha invece inciso sulla conferenza pro-aborto Women Delivery, tenuta a Washington all'inizio di giugno, nella quale gli organizzatori - Ipas, International Planned Parenthood Federation (Ippf) e Catholic for Choice - hanno raccolto solo 1,5 miliardi di dollari dei 12 che si erano proposti.
La portata dello studio del "Lancet" è stata inoltre recentemente minimizzata da Thoraia Obaid, direttrice del Fondo per la popolazione delle Nazioni Unite (Unfpa), la quale affermando che "le stime sono stime", nega esserci un contrasto tra lo studio della rivista scientifica e i numeri utilizzati dall'Onu. Le agenzie Onu e le ong, superata questa impasse, hanno subito ripreso ad alimentare le massicce campagne in vista della conferenza di revisione dei Mdg che si terrà dal 20 al 22 settembre prossimi a New York: "Una promessa è una promessa" è l'ultimo slogan che la Ippf rivolge agli Stati per raggiungere entro il 2015 l'obiettivo dell'accesso universale alla "salute riproduttiva".
(©L'Osservatore Romano - 28-29 giugno 2010)


Il papa estrae il cartellino giallo per il cardinale Schönborn – da http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it – di Sandro Magister
In www.chiesa uscirà tra pochi giorni un’analisi più approfondita del caso. Intanto, però, il comunicato diffuso il 28 giugno dalla sala stampa vaticana dopo l’incontro di Benedetto XVI con il cardinale Christoph Schönborn è tutto da leggere. Subito.
Le cause prossime di questa chiamata a Canossa del brillante arcivescovo di Vienna sono due.
La prima sono le sue sortite revisioniste in materia di celibato, di cui www.chiesa ha fatto cenno in: “Eunuchi per il Regno dei Cieli. La disputa sul celibato“.
La seconda è il suo attacco all’arma bianca contro il cardinale Angelo Sodano, di cui www.chiesa ha dato conto in: “Il papa, i cardinali, i gesuiti. Tre risposte allo scandalo“.
Se si accosta questo comunicato all’altro relativo a “Propaganda Fide”, emesso lo stesso giorno (vedi il post precedente), è facile notare che entrambe le volte c’è di mezzo una guerra tra cardinali: qui di Crescenzio Sepe contro Tarcisio Bertone.
In entrambi i casi Benedetto XVI ha fischiato fallo e ha estratto il cartellino giallo. Perché la competenza di mettere sotto accusa un porporato – ha rivendicato – spetta unicamente al papa.
Ecco dunque il comunicato ufficiale dopo il colloquio riparatore tra Joseph Ratzinger e il suo ex-allievo Schönborn:
*
1) Il Santo Padre ha ricevuto oggi in udienza il Cardinale Christoph Schönborn, Arcivescovo di Vienna e Presidente della Conferenza Episcopale Austriaca. Questi aveva chiesto di poter riferire personalmente al Sommo Pontefice circa la presente situazione della Chiesa in Austria. In particolare, il Cardinale Christoph Schönborn ha voluto chiarire il senso esatto di sue recenti dichiarazioni circa alcuni aspetti dell’attuale disciplina ecclesiastica, come pure taluni giudizi sull’atteggiamento tenuto dalla Segreteria di Stato, ed in particolare dall’allora Segretario di Stato del Papa Giovanni Paolo II di v.m., nei riguardi del compianto Cardinale Hans Hermann Groër, Arcivescovo di Vienna dal 1986 al 1995.
2) Successivamente, sono stati invitati all’incontro i Cardinali Angelo Sodano, Decano del Collegio Cardinalizio, e Tarcisio Bertone, Segretario di Stato.
Nella seconda parte dell’Udienza, sono stati chiariti e risolti alcuni equivoci molto diffusi e in parte derivati da alcune espressioni del Cardinale Christoph Schönborn, il quale esprime il suo dispiacere per le interpretazioni date.
In particolare:
a) Si ricorda che nella Chiesa, quando si tratta di accuse contro un Cardinale, la competenza spetta unicamente al Papa; le altre istanze possono avere una funzione di consulenza, sempre con il dovuto rispetto per le persone.
b) La parola “chiacchiericcio” è stata interpretata erroneamente come una mancanza di rispetto per le vittime degli abusi sessuali, per le quali il Cardinale Angelo Sodano nutre gli stessi sentimenti di compassione e di condanna del male, come espressi in diversi interventi del Santo Padre. Tale parola, pronunciata nell’indirizzo Pasquale al Papa Benedetto XVI, era presa letteralmente dall’Omelia pontificia della Domenica delle Palme ed era riferita al “coraggio che non si lascia intimidire dal chiacchiericcio delle opinioni dominanti”.
3) Il Santo Padre, ricordando con grande affetto la sua visita pastorale in Austria, invia tramite il Cardinale Christoph Schönborn, il Suo saluto ed incoraggiamento alla Chiesa che è in Austria ed ai suoi Pastori, affidando alla Celeste protezione di Maria, tanto venerata in Mariazell, il cammino di una rinnovata comunione ecclesiale.


Avvenire.it, 28 Giugno 2010 – VATICANO - Nuovo dicastero per l'evangelizzazione
Benedetto XVI istituisce un nuovo dicastero vaticano, un Pontificio Consiglio, che si prefigge di combattere l'«eclissi del senso di Dio» nelle società avanzate, nell'Occidente sempre più secolarizzato. L'iniziativa di alto significato, di quelle capaci di dare l'impronta al pontificato di Ratzinger, è stata annunciata questa sera dal Papa nella basilica romana di San Paolo fuori le Mura, durante la celebrazione dei primi vespri della solennità dei santi Pietro e Paolo.

Parlando nella basilica gremita, con in prima fila numerosi cardinali (al termine si è fermato a stringere la mano del decano del Sacro collegio, Angelo Sodano), e partendo proprio dall'insegnamento di San Paolo, il Pontefice ha incentrato la sua omelia sulla «vocazione missionaria della Chiesa». Ha ricordato tra l'altro come Paolo VI nel 1974 abbia convocato il Sinodo dei vescovi «sul tema dell'evangelizzazione nel mondo contemporaneo», e come Giovanni Paolo II, «nel suo lungo pontificato, abbia sviluppato questa proiezione missionaria», che «risponde alla natura stessa della Chiesa».

Ha detto di raccogliere «questa eredità», Benedetto XVI, nel sottolineare che «anche l'uomo del terzo millennio desidera una vita autentica e piena, ha bisogno di verità, di libertà profonda, di amore gratuito». «Anche nei deserti del mondo secolarizzato - ha proseguito -, l'anima dell'uomo ha sete di Dio, del Dio vivente».

Secondo il Pontefice, "vi sono regioni del mondo che ancora attendono una prima evangelizzazione; altre che l'hanno ricevuta, ma necessitano di un lavoro più approfondito; altre ancora in cui il Vangelo ha messo da lungo tempo radici, dando luogo a una vera tradizione cristiana, ma dove negli ultimi secoli - con dinamiche complesse - il processo di secolarizzazione ha prodotto una grave crisi del senso della fede cristiana e dell'appartenenza alla Chiesa».

Nelle preoccupazioni di Ratzinger, quindi, c'è l'Occidente sempre più scristianizzato e sempre più sordo al richiamo della fede. «In questa prospettiva - ha aggiunto Benedetto XVI -, ho deciso di creare un nuovo Organismo, nella forma di "Pontificio Consiglio", con il compito precipuo di promuovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi dove è già risuonato il primo annuncio della fede e sono presenti Chiese di antica fondazione, ma che stanno vivendo una progressiva secolarizzazione della società e una sorta di 'eclissi del senso di Diò, che costituiscono una sfida a trovare mezzi adeguati per riproporre la perenne verità del Vangelo di Cristo».


PAPA/ È Benedetto a salvare la giustizia dallo scempio dei giustizialisti. Non solo in Belgio - Ubaldo Casotto - martedì 29 giugno 2010 – ilsussidiario.net
“Una delle caratteristiche fondamentali del pastore deve essere quella di amare gli uomini che gli sono stati affidati, così come ama Cristo, al cui servizio si trova (…). Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza (…). Cari amici - in questo momento io posso dire soltanto: pregate per me, perché io impari sempre più ad amare il Signore. Pregate per me, perché io impari ad amare sempre più il suo gregge (…). Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi”.

È un passaggio dell’omelia di inizio pontificato di Benedetto XVI che, riletto, aiuta a capire l’atteggiamento del Papa nei confronti delle accuse di pedofilia a sacerdoti e vescovi, e anche la sua lettera a monsignor André-Joseph Léonard, presidente della Conferenza episcopale del Belgio, dopo la brutale (e invero assurda, tanto da sconfinare nel ridicolo, come ha notato Vittorio Messori sul Corriere della Sera) perquisizione della magistratura belga giunta sino alla profanazione delle tombe di due cardinali.

Benedetto XVI non ha intenzione di decadere, non dalla linea della “trasparenza” come corrivamente in tanti scrivono, quasi fosse un assessore ai lavori pubblici, ma dal livello di quella supplica: “Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi”.

È evidente nella testimonianza del Papa un’esigenza infinita di verità e di giustizia - che il peccato e il crimine della pedofilia rendono ancora più urgente e struggente - da cui non si può deflettere, neanche di fronte agli abusi di un giudice animato da spirito anticlericale.

Un’esigenza che si attua nella responsabilità dell’amore: “Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio”. C’è un passaggio terribile dell’ultima intervista di don Luigi Giussani (2004), quando disse che a un certo punto la Chiesa “si è vergognata di Cristo”. È ultimamente la vergogna di Cristo che fa mettere sulla difensiva di fronte al mondo e che può far temere la verità e la giustizia. Benedetto XVI evidentemente di questa “vergogna” non vuole essere connivente.
Papa Joseph Ratzinger si mostra al mondo con una statura umana e di fede che gli dà l’autorevolezza per denunciare il “triste momento” vissuto dai vescovi belgi senza che questa denuncia sembri un’autodifesa d’ufficio. Una statura che dà forza alle sue parole quando definisce “sorprendenti e deplorevoli” (è un Papa che scrive a un confratello vescovo, ma va ricordato che è anche un Capo di Stato che compie un gesto formale e ufficiale) le “modalità con cui sono state condotte le perquisizioni”. Modalità che ottengono il risultato opposto allo scopo per cui i magistrati belgi dicono di essersi attivati: la giustizia.

Come fa notare il Papa, l’irruzione della polizia giudiziaria ha interrotto i lavori dei vescovi del Belgio che “tra l'altro, avrebbe dovuto trattare anche aspetti legati all'abuso di minori da parte di Membri del Clero”. La conseguenza dell’azione giudiziaria brandita ideologicamente e pregiudizialmente non è mai l’accertamento della giustizia, semmai l’allontanamento da essa, se non una conclamata ingiustizia. Cos’altro è il sequestro di tutto il materiale della Commissione diretta dallo psicologo Peter Adriaenseens, comprese le schede di chi aveva espressamente rifiutato il ricorso alla giustizia civile, di chi aveva chiesto l’anonimato e la riservatezza, e quelle sui reati caduti in prescrizione che alla magistratura non possono più interessare?

Ma la denuncia di questo abominio per il Papa non diventa un alibi: “Più volte io stesso ho ribadito che tali gravi fatti vanno trattati dall'ordinamento civile e da quello canonico, nel rispetto della reciproca specificità e autonomia. In tal senso, auspico che la giustizia faccia il suo corso, a garanzia dei diritti fondamentali delle persone e delle istituzioni, nel rispetto delle vittime, nel riconoscimento senza pregiudiziali di quanti si impegnano a collaborare con essa e nel rifiuto di tutto quanto oscura i nobili compiti ad essa assegnati”.

C’è in queste parole anche una lezione di diritto, di procedura, di cultura giuridica, di garantismo. Ma soprattutto c’è, all’origine di questi criteri, un amore alla singola persona - quella dell’offeso come quella dell’indagato - senza del quale non si può capire il cristianesimo, né il pontificato di Joseph Ratzinger, il difensore della Ragione che si scioglie in lacrime davanti alle vittime degli abusi.


Avvenire.it, 29 Giugno 2010 - Produrre fatti, cambiare la vita - Per non ridurci ad alberi invecchiati - Marina Corradi
Nel fondo della crisi più dolorosa Benedetto XVI ha scelto la vigilia della festa di san Pietro e san Paolo, e il luogo della tomba dell’Apostolo delle genti, per rendere pubblico il progetto che da tempo gli stava a cuore: un dicastero per una nuova evangelizzazione delle terre delle «Chiese di antica fondazione»". Annuncio ambizioso e umile: giacché afferma a chiare lettere che l’eredità cristiana in molto dell’Occidente è profondamente erosa. Avversata, o semplicemente accantonata in una distratta eclissi di Dio. Occorre, dice il Papa, riportare la fede in Cristo nelle nostre città secolarizzate.

C’è un filo lungo e forte di continuità tra questo annuncio e la voce della Chiesa negli ultimi decenni, dalla Evangelii Nuntiandi di Paolo VI alla «nuova evangelizzazione» evocata per la prima volta da Wojtyla nel 1979 a Nowa Huta, la città operaia polacca che sembrava essere stata costruita per escludere la presenza di Dio fra gli uomini. E dunque la sfida lanciata oggi da Benedetto viene da lontano; da un testimone passato da una mano all’altra, nelle crescente consapevolezza che l’Europa innanzi tutto, e più ampiamente il Primo Mondo, si stanno dimenticando della loro origine, e dunque anche di sé.

Ratzinger stesso, prima della elezione, aveva scritto di una Europa «svuotata dall’interno» proprio nell’ora del suo massimo successo; di un cedimento di forze spirituali portanti, di «una strana mancanza di voglia di futuro»", di un oscuro «odio a sé». Il confronto con l’Impero romano al tramonto, aveva ammesso, si poneva. Come se l’Occidente andasse esaurendo il suo slancio vitale. E pensosamente il futuro Papa esaminava le tesi di Oswald Spengler, lo storico secondo il quale ogni civiltà, come un organismo, nasce, invecchia e muore. Ma le ultime righe di quel saggio del cardinale Ratzinger contraddicevano questa inesorabile ipotesi biologica: i cristiani, si diceva, devono concepire se stessi come «minoranza creativa» che riporti all’Occidente la sua eredità.

Era il 2004. Pochi mesi dopo Ratzinger sceglieva come nome quello di Benedetto, il patrono d’Europa. Poi pubblicava la Spe salvi, dove evocava gli Efesini del tempo di Paolo, «senza speranza e senza Dio nel mondo»: e ne parlava come se quella gente di duemila anni fa ci somigliasse. Infine domandava apertamente: «La fede cristiana è anche per noi oggi una speranza che trasforma e sorregge la nostra vita?».

Già: perché il Vangelo o è «comunicazione che produce fatti e cambia la vita», come scrive il Papa, o non è niente. E allora questa Europa e questo Primo Mondo «svuotati», che han paura dei figli e del futuro, tesi al successo o impegnati a non pensare, si palesano come «terra di missione». Dove il cristianesimo è nato, cresciuto, dove ha alimentato gli uomini e le città e l’arte e intriso di sé la memoria, occorre di nuovo evangelizzare. Con umile coraggio, ricominciare a annunciare Cristo.
Chi ha amato le parole della Spe salvi, e quella provocatoria domanda – ma, il cristianesimo è ancora speranza che sorregge la vostra vita? – ritrova lo stesso accento nell’annuncio di ieri. La stessa sfida. Credete voi in Cristo? E com’è possibile allora che le vostre case e città siano così spesso smarrite, sfiatate, tristi, e i vostri figli si chiedano cosa fare di sé? La profezia secondo la quale i mondi e le loro culture inevitabilmente decadono e muoiono, come alberi invecchiati, urta con la pretesa cristiana, diversa e unica. Il cristianesimo non finisce; se decade, perfino se sembra avviato a un naufragio, ricomincia. Non è pensiero, filosofia di uomini, che muore come ogni nostra cosa. È altro, è quel Figlio che è nato fra noi, è morto e ha vinto la morte. Per chi ha fede in questo, il cristianesimo «produce fatti e cambia la vita».

Dal sepolcro di Paolo una domanda lanciata a noi della parte "giusta" del mondo, nelle nostre comode case e pretese e garanzie. Domanda a noi, cui non manca quasi nulla. Davvero questo vi basta? Siete felici, davvero? Ma lo sapete infine, ha detto Benedetto XVI, che «c’è una fame più profonda, che solo Dio può saziare».
Marina Corradi


Roccella: «Nel senso comune si legge il valore della vita» Eutanasia e biotestamento nelle esperienze di cinque Regioni - «Progetto Heptavium», presentato il libro del Movimento per la vita sui malati terminali e sulle loro famiglie - DA ROMA – Avvenire, 29 giugno 2010
Presentata ieri a Roma una riflessione a tappeto sul te ma del fine vita in un libro curato dal Movimento per la Vita (Mpv): 'Prima di tutto la vita' sul tema dell’eutanasia e del testa mento biologico. È il risultato di Heptavium, il progetto realizzato da Mpv con la collaborazione ed il sostegno finanziario del mini stero della Salute, in cinque Re gioni (Liguria, Lombardia, Lazio, Puglia e Sicilia). Il libro racconta quell’esperienza. Vi sono raccolte le testimonianze più significative (a cominciare da quella di Mario Melazzini) e gli interventi che hanno toccato i sette ambiti da cui è stato affrontato il tema (bioeti co, giuridico, medico, antropolo gico, filosofico, psicologico, poli tico- legislativo). «Il libro – ha spie gato il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella – risponde feli­cemente alla esigenza di trovare una strategia di comunicazione. Alla strategia del 'luogo comune' portata avanti dai grandi media impostata sull’idea della vita a to tale disposizione dell’individuo, che dovrebbe poter decidere a suo arbitrio quando morire, si deve ri spondere con una comuncazione capillare attraverso la mobilita zione dell’associazionismo sul ter ritorio, come è avvenuto nella compilazione del libro. È allora che emerge il 'senso comune': nella relazione tra malato e fami glia matura, emerge chiaramente il valore della vita, di ogni vita». Al la presentazione sono intervenu ti anche Carlo Casini, presidente Mpv, Lucio Romano, presidente Scienza&Vita, Massimo Gandol fini, direttore Dipartimento Neu roscienze di Brescia, Marianna Gensabella del Comitato nazio nale per la Bioetica.


«Via gli obiettori» È bufera in Puglia - Il Forum: è un diritto che non si tocca - DA MILANO ANTONELLA MARIANI - Consultori, la giunta Vendola punta a emarginare i ginecologi anti abortisti Mantovano: scandaloso – Avvenire, 29 giugno 2010
A cque agitate in Puglia sulla vicenda dei ginecologi obiettori discriminati nell’accesso ai consultori familiari pubblici.

Dopo il ricorso al Tar, presentato da alcuni medici pugliesi, e la richiesta di ritiro da parte dei presidenti degli ordini professionali dei medici, la delibera della Giunta regionale 735 del marzo scorso è diventata una caso nazionale. «Contrasta con la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza», afferma il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano.

«È scandaloso. Con una delibera che stravolge lo spirito e la lettera della legge 194, la Giunta Vendola abbatte le funzioni sociali e preventive dei consultori, trasformandoli in fabbriche di certificati di morte», aggiunge Barbara Saltamartini, responsabile nazionale delle Pari opportunità del Pdl.

Il casus belli sono poche righe contenute nel Progetto di riorganizzazione dei consultori pugliesi, in cui, tra le altre cose, si stabilisce di «integrare la dotazione organica» di ciascuna Asl con un ginecologo e due ostetriche, purché non obiettori.

In precedenza, il Piano sanitario regionale del 2009 prevedeva il progressivo spostamento dei ginecologi obiettori dai consultori ad altri compiti.

Il motivo, secondo la spiegazione dell’assessore regionale alla Sanità pugliese, Tommaso Fiore, è che i consultori rilasciano appena l’1,5 per cento (ma i dati nazionali parlano dell’11,5 per cento) dei certificati per le Ivg a causa della massiccia presenza di medici obiettori. Ma per riportare l’interruzione di gravidanza nelle strutture pubbliche la Regione ha di fatto sancito la discriminazione tra ginecologi obiettori e non obiettori. «Non ci risulta che le donne abbiano difficoltà a farsi firmare i certificati per abortire – risponde Ludovica Carli, responsabile del Forum delle associazioni familiari pugliese –.

La Puglia continua ad avere un numero di aborti nella media nazionale. Piuttosto, a noi preoccupa che nei consultori la 194 sia applicata integralmente nella sua prima parte, quella che vorrebbe aiutare le donne che non vogliono abortire. Quali sostegni vengono offerti nei consultori? Quali percorsi per evitare l’interruzione di gravidanza?». Se nei consultori in futuro ci saranno solo medici non obiettori, quali saranno i percorsi privilegiati?

Il Forum nazionale invece punta l’accento sul diritto all’obiezione: «Un diritto da difendere, che non si tocca e non si limita perché è una tutela degli ordini professionali», insiste Francesco Belletti, presidente del network di associazioni familiari. «Anche noi lavoriamo perché i consultori siano riformati, per diventare un luogo di prevenzione primaria nei confronti della vita, di accoglienza e accompagnamento alla famiglia, alla coppia, alla maternità». La Puglia resta lontana.