giovedì 17 giugno 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Avvenire.it, 16 Giugno 2010 - UDIENZA GENERALE - Il Papa: la legge naturale ispiri le leggi degli Stati
2) SAN TOMMASO D’AQUINO E LA NUOVA SINTESI TRA FILOSOFIA E TEOLOGIA - Catechesi di Benedetto XVI all'Udienza generale del mercoledì
3) Il papa "ripensa" il celibato del clero. Per rafforzarlo - È il segno, dice, che Dio c'è e ci si appassiona per lui. Per questo è un grande scandalo e lo si vuol fare sparire. La trascrizione integrale dell'ultimo intervento di Benedetto XVI sul tema. E di una sua sorprendente anteprima del 2006 - di Sandro Magister
4) IL CORPO DEL MARTIRE UMILIATO DUE VOLTE - La salma di mons. Luigi Padovese, vescovo cappuccino, arriva all’aeroporto della Malpensa nella stiva di un cargo tra le merci. La cassa non è stata nemmeno segnalata, se ne sono accorti gli addetti dello scalo. Assenti le autorità ecclesiastiche e civili. Gli unici a non dimenticarsi del vescovo-martire sono stati i confratelli Cappuccini che hanno inviato all’aeroporto il loro vice-provinciale. Tutto questo è veramente scandaloso. - di Giacomo Galeazzi - Blog Oltretevere - 11/6/2010
5) Avvenire.it, 17 giugno 2010 - Il Papa e la legge che precede le leggi - Non tutto si decide a maggioranza - Giacomo Samek Lodovici
6) Avvenire.it, 17 giugno 2010 - Aborto e RU486 - Dietro gli slogan la banalizzazione di un dramma - Assuntina Morresi
7) Ovociti a peso d’oro: è il mercato della fecondazione - Lorenzo Schoepflin – Avvenire, 17 giugno 2010
8) la protesta - «La Sla è più rapida della burocrazia» - (F.Loz.) – Avvenire, 17 giugno 2010
9) Piemonte: Ru486 senza ricovero, la Regione tace - Su 121 casi di aborto farmacologico, 114 donne hanno firmato per uscire dall’ospedale. È accaduto al Sant’Anna di Torino, sotto il naso del neo-governatore Roberto Cota che aveva dichiarato di voler lasciare la pillola abortiva «nei magazzini». Quasi due mesi dopo, non c’è ancora traccia di direttive regionali in materia. I medici agiscono in ordine sparso, in attesa dell’annunciato «consenso informato» - di Fabrizio Assandri – Avvenire, 17 giugno 2010
10) Avvenire.it, 17 giugno 2010 – DIBATTITO - Radici lontane per la Shoah - Anna Foa

Avvenire.it, 16 Giugno 2010 - UDIENZA GENERALE - Il Papa: la legge naturale ispiri le leggi degli Stati
«Tutti gli uomini, credenti e non credenti, sono chiamati a riconoscere le esigenze della natura umana espresse nella legge naturale e ad ispirarsi ad essa nella formulazione delle leggi positive, quelle cioè emanate dalle autorità civili e politiche per regolare la convivenza umana». È quanto ha affermato Papa Benedetto XVI, nella catechesi dell'udienza generale del mercoledì, dedicata alla "attualità" della teologia morale di san Tommaso d'Aquino. «Quando la legge naturale e la responsabilità che essa implica sono negate - ha spiegato il pontefice - si apre drammaticamente la via al relativismo etico sul piano individuale e al totalitarismo dello Stato sul piano politico. La difesa dei diritti universali dell'uomo e l'affermazione del valore della dignità della persona postulano un fondamento. Non è proprio la legge naturale questo fondamento, con i valori non negoziabili che essa indica?».

«Urge per l'avvenire della società e lo sviluppo di una sana democrazia - ha detto quindi papa Ratzinger citando l'enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II - riscoprire l'esistenza di valori umani e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell'essere umano ed esprimono e tutelano la dignità della persona: valori che nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere».

Nel corso dell'udienza, Benedetto XVI ha ricordato il metodo teologico dell'Aquinate ovvero il "principio dell'accordo tra ragione e fede". «La fede consolida, integra e illumina il patrimonio di verità che la ragione umana acquisisce. La fiducia che san Tommaso accorda a questi a fede e ragione può essere ricondotta alla convinzione che entrambe provengono dall'unica sorgente di ogni verità, il Logos divino, che opera sia nell'ambito della creazione, sia in quello della redenzione».

Questa distinzione «assicura l'autonomia tanto delle scienze umane - quelle positive e quelle umanistiche, come la filosofia -, quanto delle scienze teologiche. Essa però non equivale a separazione, ma implica piuttosto una reciproca e vantaggiosa collaborazione». La fede, infatti, «protegge la ragione da ogni tentazione di sfiducia nelle proprie capacità, la stimola ad aprirsi a orizzonti sempre più vasti, tiene viva in essa la ricerca dei fondamenti e, quando la ragione stessa si applica alla sfera soprannaturale del rapporto tra Dio e uomo, arricchisce il suo lavoro».
A sua volta «anche la ragione, con i suoi mezzi, può fare qualcosa di importante per la fede, rendendole un triplice servizio», che san Tommaso così riassume: «Dimostrare i fondamenti della fede; spiegare mediante similitudini le verità della fede; respingere le obiezioni che si sollevano contro la fede».


SAN TOMMASO D’AQUINO E LA NUOVA SINTESI TRA FILOSOFIA E TEOLOGIA - Catechesi di Benedetto XVI all'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 16 giugno 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il testo dell'intervento pronunciato da Benedetto XVI questo mercoledì durante l'Udienza generale in piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato ancora sulla figura di San Tommaso d’Aquino.

* * *
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei continuare la presentazione di san Tommaso d’Aquino, un teologo di tale valore che lo studio del suo pensiero è stato esplicitamente raccomandato dal Concilio Vaticano II in due documenti, il decreto Optatam totius, sulla formazione al sacerdozio, e la dichiarazione Gravissimum educationis, che tratta dell’educazione cristiana. Del resto, già nel 1880 il Papa Leone XIII, suo grande estimatore e promotore di studi tomistici, volle dichiarare san Tommaso Patrono delle Scuole e delle Università Cattoliche.
Il motivo principale di questo apprezzamento risiede non solo nel contenuto del suo insegnamento, ma anche nel metodo da lui adottato, soprattutto la sua nuova sintesi e distinzione tra filosofia e teologia. I Padri della Chiesa si trovavano confrontati con diverse filosofie di tipo platonico, nelle quali si presentava una visione completa del mondo e della vita, includendo la questione di Dio e della religione. Nel confronto con queste filosofie, loro stessi avevano elaborato una visione completa della realtà, partendo dalla fede e usando elementi del platonismo, per rispondere alle questioni essenziali degli uomini. Questa visione, basata sulla rivelazione biblica ed elaborata con un platonismo corretto alla luce della fede, essi la chiamavano la "filosofia nostra". La parola "filosofia" non era quindi espressione di un sistema puramente razionale e, come tale, distinto dalla fede, ma indicava una visione complessiva della realtà, costruita nella luce della fede, ma fatta propria e pensata dalla ragione; una visione che, certo, andava oltre le capacità proprie della ragione, ma che, come tale, era anche soddisfacente per essa. Per san Tommaso l'incontro con la filosofia pre-cristiana di Aristotele (morto circa nel 322 a.C.) apriva una prospettiva nuova. La filosofia aristotelica era, ovviamente, una filosofia elaborata senza conoscenza dell’Antico e del Nuovo Testamento, una spiegazione del mondo senza rivelazione, per la sola ragione. E questa razionalità conseguente era convincente. Così la vecchia forma della "filosofia nostra" dei Padri non funzionava più. La relazione tra filosofia e teologia, tra fede e ragione, era da ripensare. Esisteva una "filosofia" completa e convincente in se stessa, una razionalità precedente la fede, e poi la "teologia", un pensare con la fede e nella fede. La questione pressante era questa: il mondo della razionalità, la filosofia pensata senza Cristo, e il mondo della fede sono compatibili? Oppure si escludono? Non mancavano elementi che affermavano l'incompatibilità tra i due mondi, ma san Tommaso era fermamente convinto della loro compatibilità - anzi che la filosofia elaborata senza conoscenza di Cristo quasi aspettava la luce di Gesù per essere completa. Questa è stata la grande "sorpresa" di san Tommaso, che ha determinato il suo cammino di pensatore. Mostrare questa indipendenza di filosofia e teologia e, nello stesso tempo, la loro reciproca relazionalità è stata la missione storica del grande maestro. E così si capisce che, nel XIX secolo, quando si dichiarava fortemente l'incompatibilità tra ragione moderna e fede, Papa Leone XIII indicò san Tommaso come guida nel dialogo tra l'una e l'altra. Nel suo lavoro teologico, san Tommaso suppone e concretizza questa relazionalità. La fede consolida, integra e illumina il patrimonio di verità che la ragione umana acquisisce. La fiducia che san Tommaso accorda a questi due strumenti della conoscenza – la fede e la ragione – può essere ricondotta alla convinzione che entrambe provengono dall’unica sorgente di ogni verità, il Logos divino, che opera sia nell’ambito della creazione, sia in quello della redenzione.
Insieme con l'accordo tra ragione e fede, si deve riconoscere, d'altra parte, che esse si avvalgono di procedimenti conoscitivi differenti. La ragione accoglie una verità in forza della sua evidenza intrinseca, mediata o immediata; la fede, invece, accetta una verità in base all’autorità della Parola di Dio che si rivela. Scrive san Tommaso al principio della sua Summa Theologiae: "Duplice è l’ordine delle scienze; alcune procedono da principi conosciuti mediante il lume naturale della ragione, come la matematica, la geometria e simili; altre procedono da principi conosciuti mediante una scienza superiore: come la prospettiva procede da principi conosciuti mediante la geometria e la musica da principi conosciuti mediante la matematica. E in questo modo la sacra dottrina (cioè la teologia) è scienza perché procede dai principi conosciuti attraverso il lume di una scienza superiore, cioè la scienza di Dio e dei santi" (I, q. 1, a. 2).
Questa distinzione assicura l’autonomia tanto delle scienze umane, quanto delle scienze teologiche. Essa però non equivale a separazione, ma implica piuttosto una reciproca e vantaggiosa collaborazione. La fede, infatti, protegge la ragione da ogni tentazione di sfiducia nelle proprie capacità, la stimola ad aprirsi a orizzonti sempre più vasti, tiene viva in essa la ricerca dei fondamenti e, quando la ragione stessa si applica alla sfera soprannaturale del rapporto tra Dio e uomo, arricchisce il suo lavoro. Secondo san Tommaso, per esempio, la ragione umana può senz’altro giungere all’affermazione dell’esistenza di un unico Dio, ma solo la fede, che accoglie la Rivelazione divina, è in grado di attingere al mistero dell’Amore di Dio Uno e Trino.
D’altra parte, non è soltanto la fede che aiuta la ragione. Anche la ragione, con i suoi mezzi, può fare qualcosa di importante per la fede, rendendole un triplice servizio che san Tommaso riassume nel proemio del suo commento al De Trinitate di Boezio: "Dimostrare i fondamenti della fede; spiegare mediante similitudini le verità della fede; respingere le obiezioni che si sollevano contro la fede" (q. 2, a. 2). Tutta la storia della teologia è, in fondo, l’esercizio di questo impegno dell’intelligenza, che mostra l’intelligibilità della fede, la sua articolazione e armonia interna, la sua ragionevolezza e la sua capacità di promuovere il bene dell’uomo. La correttezza dei ragionamenti teologici e il loro reale significato conoscitivo si basano sul valore del linguaggio teologico, che è, secondo san Tommaso, principalmente un linguaggio analogico. La distanza tra Dio, il Creatore, e l'essere delle sue creature è infinita; la dissimilitudine è sempre più grande che la similitudine (cfr DS 806). Ciononostante, in tutta la differenza tra Creatore e creatura, esiste un'analogia tra l'essere creato e l'essere del Creatore, che ci permette di parlare con parole umane su Dio.
San Tommaso ha fondato la dottrina dell’analogia, oltre che su argomentazioni squisitamente filosofiche, anche sul fatto che con la Rivelazione Dio stesso ci ha parlato e ci ha, dunque, autorizzato a parlare di Lui. Ritengo importante richiamare questa dottrina. Essa, infatti, ci aiuta a superare alcune obiezioni dell’ateismo contemporaneo, il quale nega che il linguaggio religioso sia fornito di un significato oggettivo, e sostiene invece che abbia solo un valore soggettivo o semplicemente emotivo. Questa obiezione risulta dal fatto che il pensiero positivistico è convinto che l'uomo non conosce l'essere, ma solo le funzioni sperimentabili della realtà. Con san Tommaso e con la grande tradizione filosofica noi siamo convinti, che, in realtà, l'uomo non conosce solo le funzioni, oggetto delle scienze naturali, ma conosce qualcosa dell'essere stesso - per esempio conosce la persona, il Tu dell'altro, e non solo l'aspetto fisico e biologico del suo essere.
Alla luce di questo insegnamento di san Tommaso, la teologia afferma che, per quanto limitato, il linguaggio religioso è dotato di senso - perché tocchiamo l’essere -, come una freccia che si dirige verso la realtà che significa. Questo accordo fondamentale tra ragione umana e fede cristiana è ravvisato in un altro principio basilare del pensiero dell’Aquinate: la Grazia divina non annulla, ma suppone e perfeziona la natura umana. Quest’ultima, infatti, anche dopo il peccato, non è completamente corrotta, ma ferita e indebolita. La Grazia, elargita da Dio e comunicata attraverso il Mistero del Verbo incarnato, è un dono assolutamente gratuito con cui la natura viene guarita, potenziata e aiutata a perseguire il desiderio innato nel cuore di ogni uomo e di ogni donna: la felicità. Tutte le facoltà dell’essere umano vengono purificate, trasformate ed elevate dalla Grazia divina.
Un’importante applicazione di questa relazione tra la natura e la Grazia si ravvisa nella teologia morale di san Tommaso d’Aquino, che risulta di grande attualità. Al centro del suo insegnamento in questo campo, egli pone la legge nuova, che è la legge dello Spirito Santo. Con uno sguardo profondamente evangelico, insiste sul fatto che questa legge è la Grazia dello Spirito Santo data a tutti coloro che credono in Cristo. A tale Grazia si unisce l’insegnamento scritto e orale delle verità dottrinali e morali, trasmesso dalla Chiesa. San Tommaso, sottolineando il ruolo fondamentale, nella vita morale, dell’azione dello Spirito Santo, della Grazia, da cui scaturiscono le virtù teologali e morali, fa comprendere che ogni cristiano può raggiungere le alte prospettive del "Sermone della Montagna" se vive un rapporto autentico di fede in Cristo, se si apre all’azione del suo Santo Spirito. Però – aggiunge l’Aquinate – "anche se la grazia è più efficace della natura, tuttavia la natura è più essenziale per l’uomo" (Summa Theologiae, Ia, q. 29, a. 3), per cui, nella prospettiva morale cristiana, c’è un posto per la ragione, la quale è capace di discernere la legge morale naturale. La ragione può riconoscerla considerando ciò che è bene fare e ciò che è bene evitare per il conseguimento di quella felicità che sta a cuore a ciascuno, e che impone anche una responsabilità verso gli altri, e, dunque, la ricerca del bene comune. In altre parole, le virtù dell’uomo, teologali e morali, sono radicate nella natura umana. La Grazia divina accompagna, sostiene e spinge l’impegno etico ma, di per sé, secondo san Tommaso, tutti gli uomini, credenti e non credenti, sono chiamati a riconoscere le esigenze della natura umana espresse nella legge naturale e ad ispirarsi ad essa nella formulazione delle leggi positive, quelle cioè emanate dalle autorità civili e politiche per regolare la convivenza umana.
Quando la legge naturale e la responsabilità che essa implica sono negate, si apre drammaticamente la via al relativismo etico sul piano individuale e al totalitarismo dello Stato sul piano politico. La difesa dei diritti universali dell’uomo e l’affermazione del valore assoluto della dignità della persona postulano un fondamento. Non è proprio la legge naturale questo fondamento, con i valori non negoziabili che essa indica? Il Venerabile Giovanni Paolo II scriveva nella sua Enciclica Evangelium vitae parole che rimangono di grande attualità: "Urge dunque, per l'avvenire della società e lo sviluppo di una sana democrazia, riscoprire l'esistenza di valori umani e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell'essere umano, ed esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere" (n. 71).
In conclusione, Tommaso ci propone un concetto della ragione umana largo e fiducioso: largo perché non è limitato agli spazi della cosiddetta ragione empirico-scientifica, ma aperto a tutto l’essere e quindi anche alle questioni fondamentali e irrinunciabili del vivere umano; e fiducioso perché la ragione umana, soprattutto se accoglie le ispirazioni della fede cristiana, è promotrice di una civiltà che riconosce la dignità della persona, l'intangibilità dei suoi diritti e la cogenza dei suoi doveri. Non sorprende che la dottrina circa la dignità della persona, fondamentale per il riconoscimento dell’inviolabilità dei diritti dell’uomo, sia maturata in ambienti di pensiero che hanno raccolto l’eredità di san Tommaso d’Aquino, il quale aveva un concetto altissimo della creatura umana. La definì, con il suo linguaggio rigorosamente filosofico, come "ciò che di più perfetto si trova in tutta la natura, cioè un soggetto sussistente in una natura razionale" (Summa Theologiae, Ia, q. 29, a. 3).
La profondità del pensiero di san Tommaso d’Aquino sgorga – non dimentichiamolo mai – dalla sua fede viva e dalla sua pietà fervorosa, che esprimeva in preghiere ispirate, come questa in cui chiede a Dio: "Concedimi, ti prego, una volontà che ti cerchi, una sapienza che ti trovi, una vita che ti piaccia, una perseveranza che ti attenda con fiducia e una fiducia che alla fine giunga a possederti".
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i sacerdoti novelli della diocesi di Brescia assicurando la mia preghiera affinché il loro ministero sia fecondo di preziosi frutti. Saluto il gruppo dei Frati Minori Conventuali provenienti dall’Africa per partecipare al Corso di Formazione Permanente: auspico che l’esempio del Poverello di Assisi conduca ciascuno di loro a conformarsi sempre di più a Cristo Signore. Saluto anche gli Ufficiali ed i militari della Scuola delle Trasmissioni e Informatica dell’Esercito Italiano ed i militari del IX Stormo "Francesco Baracca" di Grazzanise: auguro a tutti loro un proficuo impegno alla luce dei valori umani e cristiani. Rivolgo il mio pensiero ai partecipanti al Torneo Internazionale di Calcio "Memorial Vincenzo Romano" ed auguro di diffondere ovunque il perenne messaggio della solidarietà e della fraterna convivenza.
Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Cari giovani attingete sempre da Cristo presente nell’Eucaristia l’alimento spirituale per avanzare nel cammino della santità; per voi, cari ammalati, Cristo sia il sostegno ed il conforto nella prova e nella sofferenza; e per voi, cari sposi novelli, il sacramento che vi ha radicati in Cristo sia la fonte che alimenta il vostro amore quotidiano.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]


Il papa "ripensa" il celibato del clero. Per rafforzarlo - È il segno, dice, che Dio c'è e ci si appassiona per lui. Per questo è un grande scandalo e lo si vuol fare sparire. La trascrizione integrale dell'ultimo intervento di Benedetto XVI sul tema. E di una sua sorprendente anteprima del 2006 - di Sandro Magister
ROMA, 15 giugno 2010 – A chi si aspettava un "ripensamento" della regola del celibato del clero latino, Benedetto XVI è andato incontro. Ma a modo suo.

La sera di giovedì 10 giugno, in piazza San Pietro, nella veglia di chiusura dell'Anno Sacerdotale, rispondendo a cinque domande di altrettanti preti dei cinque continenti, papa Joseph Ratzinger ha dedicato una risposta proprio a illustrare il significato della castità dei sacerdoti. E l'ha fatto in forma originale, distaccandosi dalla letteratura storica, teologica e spirituale corrente.

La trascrizione integrale e autenticata della risposta del papa, diffusa dal Vaticano due giorni dopo e riprodotta più sotto, consente di capire in profondità il suo ragionamento.

Il celibato – ha detto il papa – è un'anticipazione "del mondo della risurrezione". È il segno "che Dio c’è, che Dio c’entra nella mia vita, che posso fondare la mia vita su Cristo, sulla vita futura".

Per questo – ha detto ancora – il celibato "è un grande scandalo". Non solo per il mondo di oggi "in cui Dio non c’entra". Ma per la stessa cristianità, nella quale "non si pensa più al futuro di Dio e sembra sufficiente solo il presente di questo mondo".


*

Basta questo per capire che un caposaldo di questo pontificato non è l'allentamento del celibato del clero ma il suo rafforzamento. Strettamente connesso con quella che Benedetto XVI ha più volte indicato come la "priorità" della sua missione:

"Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l'accesso a Dio. Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo [...] in Gesù Cristo crocifisso e risorto".

Così il papa nella memorabile lettera aperta da lui scritta ai vescovi di tutto il mondo il 10 marzo 2009.

Ma prima ancora, c'è stato un altro importante discorso nel quale Benedetto XVI ha esplicitamente legato il celibato del clero alla "priorità" del condurre gli uomini verso Dio, e ha spiegato il perché di questo legame.

È il discorso che egli ha rivolto alla curia romana il 22 dicembre 2006, commentando i suoi viaggi fuori d'Italia di quell'anno.

A proposito del suo viaggio in Germania di tre mesi prima, quello della celebre lezione di Ratisbona, il papa così esordì:

"Il grande tema del mio viaggio in Germania era Dio. La Chiesa deve parlare di tante cose: di tutte le questioni connesse con l’essere uomo, della propria struttura e del proprio ordinamento e così via. Ma il suo tema vero e – sotto certi aspetti – unico è 'Dio'. E il grande problema dell’Occidente è la dimenticanza di Dio: è un oblio che si diffonde. In definitiva, tutti i singoli problemi possono essere riportati a questa domanda, ne sono convinto. Perciò, in quel viaggio la mia intenzione principale era di mettere ben in luce il tema 'Dio', memore anche del fatto che in alcune parti della Germania vive una maggioranza di non-battezzati, per i quali il cristianesimo e il Dio della fede sembrano cose che appartengono al passato.

"Parlando di Dio, tocchiamo anche precisamente l'argomento che, nella predicazione terrena di Gesù, costituiva il suo interesse centrale. Il tema fondamentale di tale predicazione è il dominio di Dio, il 'Regno di Dio'. Con ciò non è espresso qualcosa che verrà una volta o l’altra in un futuro indeterminato. Neppure si intende con ciò quel mondo migliore che cerchiamo di creare passo passo con le nostre forze. Nel termine 'Regno di Dio' la parola 'Dio' è un genitivo soggettivo. Questo significa: Dio non è un’aggiunta al 'Regno', che forse si potrebbe anche lasciar cadere. Dio è il soggetto. Regno di Dio vuol dire in realtà: Dio regna. Egli stesso è presente ed è determinante per gli uomini nel mondo. Egli è il soggetto, e dove manca questo soggetto non resta nulla del messaggio di Gesù. Perciò Gesù ci dice: il Regno di Dio non viene in modo che si possa, per così dire, mettersi sul lato della strada ed osservare il suo arrivo. 'È in mezzo a voi!' (cfr. Lc 17, 20s). Esso si sviluppa dove viene realizzata la volontà di Dio. È presente dove vi sono persone che si aprono al suo arrivo e così lasciano che Dio entri nel mondo. Perciò Gesù è il Regno di Dio in persona: l’uomo nel quale Dio è in mezzo a noi e attraverso il quale noi possiamo toccare Dio, avvicinarci a Dio. Dove questo accade, il mondo si salva".

Detto questo, Benedetto XVI proseguì legando alla questione di Dio proprio quella del sacerdozio e del celibato sacerdotale:

"Paolo chiama Timoteo – e in lui il vescovo e, in genere, il sacerdote – “uomo di Dio” (1 Tim 6, 11). È questo il compito centrale del sacerdote: portare Dio agli uomini. Certamente può farlo soltanto se egli stesso viene da Dio, se vive con e da Dio. Ciò è espresso meravigliosamente in un versetto di un salmo sacerdotale che noi – la vecchia generazione – abbiamo pronunciato durante l’ammissione allo stato clericale: "Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita” (Sal 16 [15], 5). L’orante-sacerdote di questo salmo interpreta la sua esistenza a partire dalla forma della distribuzione del territorio fissata nel Deuteronomio (cfr. 10, 9). Dopo la presa di possesso della terra ogni tribù ottiene per mezzo del sorteggio la sua porzione della terra santa e con ciò prende parte al dono promesso al capostipite Abramo. Solo la tribù di Levi non riceve alcun terreno: la sua terra è Dio stesso. Questa affermazione aveva certamente un significato del tutto pratico. I sacerdoti non vivevano, come le altre tribù, della coltivazione della terra, ma delle offerte. Tuttavia, l’affermazione va più in profondità. Il vero fondamento della vita del sacerdote, il suolo della sua esistenza, la terra della sua vita è Dio stesso. La Chiesa, in questa interpretazione anticotestamentaria dell’esistenza sacerdotale – un’interpretazione che emerge ripetutamente anche nel salmo 118 [119] – ha visto con ragione la spiegazione di ciò che significa la missione sacerdotale nella sequela degli apostoli, nella comunione con Gesù stesso. Il sacerdote può e deve dire anche oggi con il levita: “Dominus pars hereditatis meae et calicis mei”; Dio stesso è la mia parte di terra, il fondamento esterno ed interno della mia esistenza. Questa teocentricità dell’esistenza sacerdotale è necessaria proprio nel nostro mondo totalmente funzionalistico, nel quale tutto è fondato su prestazioni calcolabili e verificabili. Il sacerdote deve veramente conoscere Dio dal di dentro e portarlo così agli uomini: è questo il servizio prioritario di cui l'umanità di oggi ha bisogno. Se in una vita sacerdotale si perde questa centralità di Dio, si svuota passo passo anche lo zelo dell’agire. Nell’eccesso delle cose esterne manca il centro che dà senso a tutto e lo riconduce all’unità. Lì manca il fondamento della vita, la 'terra', sulla quale tutto questo può stare e prosperare.

"Il celibato, che vige per i vescovi in tutta la Chiesa orientale ed occidentale e, secondo una tradizione che risale a un’epoca vicina a quella degli apostoli, per i sacerdoti in genere nella Chiesa latina, può essere compreso e vissuto, in definitiva, solo in base a questa impostazione di fondo. Le ragioni solamente pragmatiche, il riferimento alla maggiore disponibilità, non bastano: una tale maggiore disponibilità di tempo potrebbe facilmente diventare anche una forma di egoismo, che si risparmia i sacrifici e le fatiche richieste dall’accettarsi e dal sopportarsi a vicenda nel matrimonio; potrebbe così portare ad un impoverimento spirituale o ad una durezza di cuore. Il vero fondamento del celibato può essere racchiuso solo nella frase: 'Dominus pars', tu sei la mia terra. Può essere solo teocentrico. Non può significare il rimanere privi di amore, ma deve significare il lasciarsi prendere dalla passione per Dio, ed imparare poi grazie ad un più intimo stare con lui a servire pure gli uomini.

"Il celibato deve essere una testimonianza di fede: la fede in Dio diventa concreta in quella forma di vita che solo a partire da Dio ha un senso. Poggiare la vita su di lui, rinunciando al matrimonio ed alla famiglia, significa che io accolgo e sperimento Dio come realtà e perciò posso portarlo agli uomini. Il nostro mondo diventato totalmente positivistico, in cui Dio entra in gioco tutt’al più come ipotesi, ma non come realtà concreta, ha bisogno di questo poggiare su Dio nel modo più concreto e radicale possibile. Ha bisogno della testimonianza per Dio che sta nella decisione di accogliere Dio come 'terra' su cui si fonda la propria esistenza.

"Per questo il celibato è così importante proprio oggi, nel nostro mondo attuale, anche se il suo adempimento in questa nostra epoca è continuamente minacciato e messo in questione. Occorre una preparazione accurata durante il cammino verso questo obiettivo; un accompagnamento persistente da parte del vescovo, di amici sacerdoti e di laici, che sostengano insieme questa testimonianza sacerdotale. Occorre la preghiera che invoca senza tregua Dio come il Dio vivente e si appoggia a lui nelle ore di confusione come nelle ore della gioia. In questo modo, contrariamente al 'trend' culturale che cerca di convincerci che non siamo capaci di prendere tali decisioni, questa testimonianza può essere vissuta e così, nel nostro mondo, può rimettere in gioco Dio come realtà".

*

Riletto questo discorso del dicembre 2006, non stupisce che Benedetto XVI continui tuttora a dedicare tante energie al clero.

L'indizione dell'Anno Sacerdotale, la proposta di figure esemplari come il santo Curato d'Ars, il rafforzamento del celibato fanno parte – nella visione del papa – di un disegno coerentissimo, che fa tutt'uno con "la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del successore di Pietro in questo tempo", cioè col "condurre gli uomini verso Dio".

A conferma di ciò è venuta lo scorso 10 giugno la risposta del papa al prete che lo interpellava sul significato del celibato, integralmente trascritta qui di seguito.

__________



DAL COLLOQUIO DI BENEDETTO XVI CON I SACERDOTI

Roma, Piazza San Pietro, 10 giugno 2010


SULLO "SCANDALO" DEL CELIBATO


D. – Padre Santo, sono don Karol Miklosko e vengo dall’Europa, precisamente dalla Slovacchia, e sono missionario in Russia. Quando celebro la santa messa trovo me stesso e capisco che lì incontro la mia identità e la radice e l’energia del mio ministero. Il sacrificio della croce mi svela il Buon Pastore che dà tutto per il gregge, per ciascuna pecora, e quando dico: "Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue" dato e versato in sacrificio per voi, allora capisco la bellezza del celibato e dell’obbedienza, che ho liberamente promesso al momento dell’ordinazione. Pur con le naturali difficoltà, il celibato mi sembra ovvio, guardando Cristo, ma mi trovo frastornato nel leggere tante critiche mondane a questo dono. Le chiedo umilmente, Padre Santo, di illuminarci sulla profondità e sul senso autentico del celibato ecclesiastico.

R. – Grazie per le due parti della sua domanda. La prima, dove mostra il fondamento permanente e vitale del nostro celibato; la seconda che mostra tutte le difficoltà nelle quali ci troviamo nel nostro tempo.

Importante è la prima parte, cioè: centro della nostra vita deve realmente essere la celebrazione quotidiana della santa eucaristia; e qui sono centrali le parole della consacrazione: "Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue"; cioè: parliamo "in persona Christi". Cristo ci permette di usare il suo "io", parliamo nell’"io" di Cristo, Cristo ci "tira in sé" e ci permette di unirci, ci unisce con il suo "io". E così, tramite questa azione, questo fatto che egli ci "tira" in se stesso, in modo che il nostro "io" diventa unito al suo, realizza la permanenza, l’unicità del suo sacerdozio; così lui è realmente sempre l’unico sacerdote, e tuttavia molto presente nel mondo, perché "tira" noi in se stesso e così rende presente la sua missione sacerdotale. Questo vuol dire che siamo "tirati" nel Dio di Cristo: è questa unione con il suo "io" che si realizza nelle parole della consacrazione.

Anche nell’"io ti assolvo" – perché nessuno di noi potrebbe assolvere dai peccati – è l’"io" di Cristo, di Dio, che solo può assolvere. Questa unificazione del suo "io" con il nostro implica che siamo "tirati" anche nella sua realtà di Risorto, andiamo avanti verso la vita piena della risurrezione, della quale Gesù parla ai sadducei in Matteo, capitolo 22: è una vita "nuova", nella quale già siamo oltre il matrimonio (cfr. Mt 22, 23-32). È importante che ci lasciamo sempre di nuovo penetrare da questa identificazione dell’"io" di Cristo con noi, da questo essere "tirati fuori" verso il mondo della risurrezione.

In questo senso, il celibato è un’anticipazione. Trascendiamo questo tempo e andiamo avanti, e così "tiriamo" noi stessi e il nostro tempo verso il mondo della risurrezione, verso la novità di Cristo, verso la nuova e vera vita. Quindi, il celibato è un’anticipazione resa possibile dalla grazia del Signore che ci "tira" a sé verso il mondo della risurrezione; ci invita sempre di nuovo a trascendere noi stessi, questo presente, verso il vero presente del futuro, che diventa presente oggi.

E qui siamo a un punto molto importante. Un grande problema della cristianità del mondo di oggi è che non si pensa più al futuro di Dio: sembra sufficiente solo il presente di questo mondo. Vogliamo avere solo questo mondo, vivere solo in questo mondo. Così chiudiamo le porte alla vera grandezza della nostra esistenza. Il senso del celibato come anticipazione del futuro è proprio aprire queste porte, rendere più grande il mondo, mostrare la realtà del futuro che va vissuto da noi già come presente. Vivere, quindi, così in una testimonianza della fede: crediamo realmente che Dio c’è, che Dio c’entra nella mia vita, che posso fondare la mia vita su Cristo, sulla vita futura.

E conosciamo adesso le critiche mondane delle quali lei ha parlato. È vero che per il mondo agnostico, il mondo in cui Dio non c’entra, il celibato è un grande scandalo, perché mostra proprio che Dio è considerato e vissuto come realtà. Con la vita escatologica del celibato, il mondo futuro di Dio entra nelle realtà del nostro tempo. E questo dovrebbe scomparire!

In un certo senso, può sorprendere questa critica permanente contro il celibato, in un tempo nel quale diventa sempre più di moda non sposarsi. Ma questo non sposarsi è una cosa totalmente, fondamentalmente diversa dal celibato, perché il non sposarsi è basato sulla volontà di vivere solo per se stessi, di non accettare alcun vincolo definitivo, di avere la vita in ogni momento in una piena autonomia, decidere in ogni momento come fare, cosa prendere dalla vita; e quindi un "no" al vincolo, un "no" alla definitività, un avere la vita solo per se stessi. Mentre il celibato è proprio il contrario: è un "sì" definitivo, è un lasciarsi prendere in mano da Dio, darsi nelle mani del Signore, nel suo "io", e quindi è un atto di fedeltà e di fiducia, un atto che suppone anche la fedeltà del matrimonio; è proprio il contrario di questo "no", di questa autonomia che non vuole obbligarsi, che non vuole entrare in un vincolo; è proprio il "sì" definitivo che suppone, conferma il "sì" definitivo del matrimonio. E questo matrimonio è la forma biblica, la forma naturale dell’essere uomo e donna, fondamento della grande cultura cristiana, di grandi culture del mondo. E se scompare questo, andrà distrutta la radice della nostra cultura.

Perciò il celibato conferma il "sì" del matrimonio con il suo "sì" al mondo futuro, e così vogliamo andare avanti e rendere presente questo scandalo di una fede che pone tutta l’esistenza su Dio. Sappiamo che accanto a questo grande scandalo, che il mondo non vuole vedere, ci sono anche gli scandali secondari delle nostre insufficienze, dei nostri peccati, che oscurano il vero e grande scandalo, e fanno pensare: "Ma non vivono realmente sul fondamento di Dio". Ma c’è tanta fedeltà! Il celibato, proprio le critiche lo mostrano, è un grande segno della fede, della presenza di Dio nel mondo. Preghiamo il Signore perché ci aiuti a renderci liberi dagli scandali secondari, perché renda presente il grande scandalo della nostra fede: la fiducia, la forza della nostra vita, che si fonda in Dio e in Cristo Gesù!


IL CORPO DEL MARTIRE UMILIATO DUE VOLTE - La salma di mons. Luigi Padovese, vescovo cappuccino, arriva all’aeroporto della Malpensa nella stiva di un cargo tra le merci. La cassa non è stata nemmeno segnalata, se ne sono accorti gli addetti dello scalo. Assenti le autorità ecclesiastiche e civili. Gli unici a non dimenticarsi del vescovo-martire sono stati i confratelli Cappuccini che hanno inviato all’aeroporto il loro vice-provinciale. Tutto questo è veramente scandaloso. - di Giacomo Galeazzi - Blog Oltretevere - 11/6/2010
IL MARTIRE TRA LE PATATE
Il corpo del vescovo Padovese torna tra le merci. La cassa non è stata nemmeno segnalata, se ne sono accorti gli addetti dello scalo. Il corpo è giunto in Italia mercoledì mattina ed ora, si trova nel convento dei frati cappuccini di viale Piave a Milano.

Gli unici a non dimenticarsi del vescovo-martire sono stati i confratelli Cappuccini che hanno inviato all’aeroporto il loro vice-provinciale. Per il resto né la Santa Sede (che non ha neppure inviato, come da consuetudine, un delegato papale ai funerali) né il governo si sono ricordati del capo della Chiesa turca. Così il corpo del presule milanese Luigi Padovese è arrivato a Malpensa mercoledì mattina nel totale silenzio, su un cargo di Ankara.
«Suscita stupore e amarezza il fatto che il vicario apostolico di Anatolia sia tornato in Italia su un cargo, fra le merci, come un sacco di patate - protesta il vicepresidente del consiglio comunale di Milano, Stefano Di Martino - lo onoreremo lunedì in Duomo, ma era logico aspettarsi che fosse rimpatriato con più decoro e rispetto, con l’interessamento del governo italiano che avrebbe dovuto mettere a disposizione un aereo di Stato o militare».
La cassa col leader dell’episcopato, ucciso a Iskenderun il 3 giugno, è arrivata con un volo della «Turkish airlines» e «non è stata nemmeno segnalata». Se ne sono accorti gli operatori dello scalo. Non è stato neppure avvisato il cappellano di Malpensa al quale non è arrivata comunicazione né da Roma né dal nunzio Lucibello.
di Giacomo Galeazzi - Blog Oltretevere - 11/6/2010


Avvenire.it, 17 giugno 2010 - Il Papa e la legge che precede le leggi - Non tutto si decide a maggioranza - Giacomo Samek Lodovici
Ieri il Papa ha per la seconda volta trattato la figura di san Tommaso d’Aquino, uno dei più grandi filosofi e teologi di sempre, toccando diversi e importantissimi temi, sia pure nel corso di una breve catechesi. Ne consideriamo qui solo uno, da lui affrontato in diverse occasioni, che rientra fra quelli decisivi e portanti del suo magistero: quello della legge morale naturale e dei "valori non negoziabili", espressione che è diventata di uso frequente dal suo discorso del 30 marzo 2006 ai rappresentanti del Partito Popolare Europeo.

Per san Tommaso e per Benedetto XVI la ragione è appunto «capace di discernere la legge morale naturale», cioè è capace, senza bisogno della Rivelazione, di guadagnare (beninteso progressivamente, non senza difficoltà e mai definitivamente) una parziale ma molto importante percezione del bene e del male e di alcuni principi etici generalissimi (per esempio "non assassinare") che, nonostante le ricorrenti affermazioni contrarie, sono invece quasi universalmente condivisi in ogni tempo, come è stato documentato da diversi studiosi. Diciamo "quasi", perché esistono vari ostacoli, personali e/o culturali, che ne possono impedire la comprensione.
Ora, «tutti gli uomini, credenti e non credenti, sono chiamati […] a ispirarsi ad essa nella formulazione delle leggi»: come diceva già l’Antigone del greco Sofocle nel V secolo a.C. (ma si potrebbero riprendere molti filosofi, come Aristotele, Cicerone, Locke…), c’è una legge morale non scritta che dovrebbe ispirare quelle stabilite nei codici degli uomini.

Per contro, «quando la legge naturale e la responsabilità che essa implica sono negate, si apre drammaticamente la via al relativismo etico sul piano individuale e al totalitarismo dello Stato sul piano politico». Non è possibile dimostrare in poco spazio questa tesi, però possiamo almeno dire quanto segue.

Quanto al relativismo etico (su cui l’allora cardinal Ratzinger ha richiamato l’attenzione già nella messa di inizio dell’ultimo conclave), se non è conoscibile un bene oggettivo, il bene è meramente soggettivo o storicamente stabilito e pattuito in una società. Ma ciò può portare al totalitarismo: o la persona è «ciò che di più perfetto si trova in tutta la natura» (come dice san Tommaso), cosicché la sua dignità è un oggettivo bene inviolabile e il principio etico che la difende («non calpestare la dignità umana») non dipende dalla pattuizione, oppure si rischia di cadere nel «dispotismo della maggioranza»: se si decide esclusivamente secondo il principio per cui è giusto ciò che viene scelto dalla maggioranza, quest’ultima può decidere di sterminare il singolo e/o la minoranza senza che la si possa biasimare: la legge diviene così lo strumento attraverso cui i più forti (per numero, o per intelligenza, o per la capacità di manipolare l’opinione pubblica, ecc.) riescono a soggiogare i più deboli. Più a fondo, se non c’è un bene oggettivo non negoziabile, se non è un bene oggettivo (non pattuito) nemmeno il rispetto delle leggi pattuite, allora resta da fondare il dovere morale di osservarle e non può essere moralmente biasimato chi non ha interesse a rispettarle e perciò le trasgredisce.

Per questo il Papa ha richiamato l’Evangelium vitae di Giovanni Paolo II: «Urge dunque, per l’avvenire della società e lo sviluppo di una sana democrazia, riscoprire l’esistenza di valori umani e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell’essere umano, ed esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere».
Giacomo Samek Lodovici


Avvenire.it, 17 giugno 2010 - Aborto e RU486 - Dietro gli slogan la banalizzazione di un dramma - Assuntina Morresi
Per una battaglia politica e culturale che si rispetti, bisogna dichiarare apertamente il proprio obiettivo, con argomentazioni solide a sostegno, ed essere disposti a un confronto franco e aperto con gli interlocutori. Ma non è andata così a chi si è adoperato per introdurre la Ru486, la pillola abortiva, in Italia.

Dopo anni di dibattito pubblico, ancora oggi nella gran parte dei cosiddetti grandi media il metodo abortivo farmacologico è spacciato come facile, più sicuro e meno doloroso di quello chirurgico, in barba a tutte le evidenze scientifiche e di pratica clinica. Le morti delle donne dopo l’assunzione dei farmaci abortivi vengono ignorate, sottovalutate o addirittura negate.

Continuiamo a sentirci ripetere che altrove la Ru486 si usa tranquillamente da vent’anni, senza però che sia detto che in quegli stessi Paesi dov’è più diffusa – Francia, Gran Bretagna e Svezia, gli unici con percentuale di uso a due cifre – la situazione è di allarme sociale, e non solo per le morti: i numeri degli aborti sono costanti ed elevati, da tempo, o continuano ad aumentare, con un’incidenza sempre più alta fra le minorenni. Non si capisce, francamente, cosa avremmo da imitare, almeno in questo ambito. Dovrebbe accadere piuttosto il contrario (fermo restando che anche un solo aborto è di troppo, e che neppure i nostri numeri, migliori di quelli degli altri Paesi, possono tranquillizzarci).

Se ben tre pareri della più autorevole istituzione nazionale in campo sanitario – il Consiglio superiore di sanità – espressi in anni diversi, con componenti e direzioni differenti, arrivano sempre alla stessa conclusione (per chi usa la Ru486 è necessario un ricovero ordinario in ospedale fino a che l’aborto è completato), i paladini della pillola abortiva anziché porsi qualche domanda in merito gridano al «boicottaggio». Non solo: contestando la scelta del governatore del Lazio Renata Polverini – posti letto dedicati a chi abortisce con la pillola – c’è chi ha affermato che sarebbe «un’esagerazione: del resto per i casi di appendicite non è così».

E allora, giù la maschera e affrontiamo il vero problema posto dalla Ru486: l’aborto può essere considerato un atto medico come tanti altri, oppure è comunque un grave problema sociale, pure per chi ne condivide la legalizzazione? Anche tra chi ritiene che l’aborto sia sempre e comunque la soppressione di un essere umano (e tale rimane, indipendentemente dal metodo) la risposta che si dà a questa domanda non è indifferente. Se per la nostra società l’aborto è comunque un disvalore, una piaga sociale pure quando se ne ammette la legalizzazione, allora ci sono le condizioni culturali e politiche per combatterlo. Se invece è ridotto a un atto medico, una richiesta privata al servizio sanitario nazionale, allora è un fatto che riguarda solamente chi lo chiede e chi lo esegue.

La Ru486 serve a mascherare culturalmente l’aborto, nascondendolo dentro una scatola di pillole, che si possono prendere pure a casa propria, anche quando sarebbe necessario per la salute della donna rimanere in ospedale. È l’aborto a domicilio il vero obiettivo dei sostenitori della Ru486, perché solo in questo modo abortire diventa un fatto esclusivamente privato, una questione di scelta fra tecniche mediche.

Allora se ne parli apertamente, senza nascondersi – com’è accaduto ieri, tra manifestazioni pubbliche e articoli di giornale contro la scelta della Regione Lazio – dietro vecchi slogan e inutili pretesti. Ricordandosi però che se questo è lo scopo, bisogna anche dire che la legge 194 non lo prevede affatto, e che non si vuole applicare questa legge ma cambiarla come si è già fatto nella vicina Francia, rendendo così legittimo l’aborto a domicilio. È questa la vera posta in gioco: lo si dica con chiarezza.


Ovociti a peso d’oro: è il mercato della fecondazione - Lorenzo Schoepflin – Avvenire, 17 giugno 2010
Forse è la storia di Calla Papademas quella che meglio racchiude in sé tutte gli aspetti peggiori legati alla pratica della «donazione» degli ovuli. Le virgolette sono d’obbligo, perché troppo spesso la realtà parla di «rimborsi» cospicui per le donne che accettano di sottoporsi al prelievo delle loro cellule uovo da destinare a coppie infertili per procedere alla fecondazione eterologa. E, non a caso, Calla, studentessa all’Università di Stanford, aveva risposto a un annuncio che prometteva una ricompensa di quindicimila dollari per le donatrici. La vicenda, raccontata dalla rivista della sua Università nel 2000, si condisce di elementi drammatici: la ragazza ventiduenne precipita per otto settimane in uno stato di coma profondo a causa di una reazione imprevista al Lupron, un ormone somministrato alle donne che 'donano' gli ovuli.

E’ così che le donne, allettate da offerte economiche interessanti, rischiano di trovarsi invischiate in un vero e proprio mercato internazionale di ovuli che si gioca sulla loro pelle.

Non è un caso che uno dei principali snodi della compravendita di ovociti sia l’Est europeo.

Nel 2006 il Guardian lanciava l’allarme sui «costi crudeli» di un vero e proprio «turismo della fertilità»: donne inglesi infertili che si rivolgevano a cliniche ucraine e cipriote, dove si potevano acquistare ovuli per cifre intorno ai tremila dollari. Sempre sul Guardian veniva mostrato il risvolto della medaglia: donne costrette a vivere con quindici dollari al mese e alle quali venivano garantiti fino a duecento dollari per ogni ciclo di stimolazione ovarica.

Cicli spesso condotti fuori da ogni regola e con grandi pericoli per la salute delle donne, come denunciò Adam Balen, professore di medicina della riproduzione presso l’Università di Leeds, basandosi su testimonianze di donne alle quali venivano prelevati fino a quaranta ovuli per volta. Larissa Kovoritsa, un’infermiera che gestiva i rapporti tra cliniche russe e cipriote, ammise che per molte donne quella della vendita dei propri ovuli era la prima fonte di guadagno.


La diffusione del fenomeno è certamente di dimensioni significative, se si considera che già nel 2005 il Parlamento europeo adottò un testo proprio in materia di commercio di ovuli. La ragione risiedeva nelle notizie che giungevano dalla Romania, dove cliniche specializzate pagavano gli ovociti a peso d’oro. Nonostante gli inviati della Hfea, l’autorità inglese in tema di fecondazione assistita, non avessero riscontrato prove oggettive, il governo rumeno ordinò la chiusura delle cliniche. Nella risoluzione del Parlamento europeo si parlava esplicitamente di «elevato rischio medico per la vita della donna», reso ancora più temibile dal fatto che «il prezzo elevato pagato per gli ovociti incita e incoraggia la donazione, data la relativa povertà delle donatrici», e si auspicava il varo di una disciplina comunitaria che regoli una pratica così delicata.

Nonostante ciò, ancora dalla Romania nel luglio 2009 arrivano novità poco rassicuranti: viene avviata un’indagine che riguarda una clinica, la Sabyc di Bucarest, al centro di un vero e proprio commercio di ovuli. Ion Bazac, ministro della Salute rumeno, dichiara che da mesi erano noti alle autorità i traffici della clinica, che viene chiusa due mesi dopo.


OIltreoceano il dibattito sulla liceità morale e giuridica in merito al pagamento delle donatrici di ovuli va avanti da tempo. Negli Stati Uniti esistono numerose cliniche disseminate in tutto il Paese che, tra i vari servizi legati alla fecondazione assistita sul versante dell’eterologa, gestiscono veri e propri database di donatrici di ovuli. Come il «Genetic and Ivf institute», che dalle pagine del proprio sito lancia un appello: «Siamo costantemente alla ricerca di donne sane tra i 19 e i 31 anni» disponibili ad aiutare coppie infertili, offrendo «fino a seimila dollari». O come il «Center for Egg Options» e il «Fertility Center» di Las Vegas, i cui direttori, interpellati da Fox 5 News, hanno parlato di compensi che possono arrivare rispettivamente a settemila e cinquemila dollari.

In Canada, dove la fecondazione assistita è regolata dall’Assisted Human Reproduction Act del 2004, si verificano problemi legati alla donazione degli ovuli. La legge vieta ogni tipo di pagamento per chi dona gameti sia maschili che femminili, impedendo di fatto la compravendita di ovuli, ma ciò si scontra con la realtà. Bernard Dickens, professor emerito di politica e diritto sanitari all’Università di Toronto, nel novembre 2009 ha dichiarato che le donne con problemi di fertilità non possono che andare su Internet a comprarsi un ovulo.

Un’inchiesta evidenziava l’opinione degli addetti ai lavori, secondo i quali la legislazione in materia sarebbe poco realistica nel supporre che l’altruismo abbia la meglio sulle logiche di mercato: sta lì a dimostrarlo la scarsità di donatrici volontarie e il conseguente ed inevitabile nesso tra fecondazione eterologa e commercio degli ovuli. Un commercio dal quale la nostra legge 40 ci mette ancora al riparo.
Lorenzo Schoepflin


la protesta - «La Sla è più rapida della burocrazia» - (F.Loz.) – Avvenire, 17 giugno 2010
Tutto conferma to per il prossi mo lunedì, 21 giugno: le per sone affette da Sclerosi latera le amiotrofica (Sla) sa ranno in piazza Montecitorio a Roma. Chiedono infatti che entri in vigore al più presto il decreto che stabilisce il rientro della cura dei malati di Sla nei «Livelli essenziali di assistenza» (Lea). In sostanza, standard assistenziali o mogenei su tutto il territorio naziona le che comprendono anche il «no menclatore tariffario» per protesi e au sili, essenziali per chi è affetto da Sla perché ha perduto nella fase avanzata la possibilità di parlare, di supporti e lettronici molto costosi. È solo un e sempio delle necessità di questi mala ti, circa 5mila in Italia, con una previ sione di mille nuovi casi all’anno.
Nella lettera che Mario Melazzini, presidente nazionale Aisla, l’asso ciazione che rappresenta i malati di Sla, ha scritto al presidente del con siglio Berlusconi non ci sono giri di pa role: «Il tempo degli annunci e delle promesse è finito. La progressione del la malattia – scrive Melazzini – non può attendere i tempi burocratico-istituzio nali, purtroppo, prosegue inesorabil­mente rendendo tanti malati, nella maggior parte dei casi ancora in pos sesso delle loro capacità cognitive, non più in grado di muoversi, comunicare, nutrirsi e respirare autonomamente. Si tratta di persone a tutti gli effetti in gra do di fornire il loro contributo in fa miglia, sul posto di lavoro o nelle rela zioni interpersonali se destinatarie di una corretta presa in carico che ne im pedisca l’isolamento, l’esclusione e l’ab bandono sociale». I malati, infatti, non perdono le funzioni cognitive, e, se a deguatamente assistiti sono ancora in grado di interagire con chi sta loro ac canto, familiari e amici. La richiesta che viene fatta è allora che queste persone possano vivere ed essere messe in gra do di farlo: «Le persone portatrici di Sla e i loro famigliari – si legge ancora nel la lettera aperta – ritengono prioritario il sostegno alla vita a testimonianza del la civiltà di un Paese in grado di met tere tutti i propri cittadini nella condi­zione di vivere con dignità anche l’e sperienza della malattia, promuovendo l’inclusione e non l’esclusione sociale». Accanto all’Aisla è annunciata la pre­senza di altre associazioni legate alla disabilità, che in questi giorni è in fer­mento e allarme per i tagli previsti alla spesa sociale in Finanziaria. Un’attesa, quella dell’entrata in vigore dei Lea, an nunciata e promessa ormai da tre an ni.
(F.Loz.)


Piemonte: Ru486 senza ricovero, la Regione tace - Su 121 casi di aborto farmacologico, 114 donne hanno firmato per uscire dall’ospedale. È accaduto al Sant’Anna di Torino, sotto il naso del neo-governatore Roberto Cota che aveva dichiarato di voler lasciare la pillola abortiva «nei magazzini». Quasi due mesi dopo, non c’è ancora traccia di direttive regionali in materia. I medici agiscono in ordine sparso, in attesa dell’annunciato «consenso informato» - di Fabrizio Assandri – Avvenire, 17 giugno 2010

All’ombra della Mole – da dove partì la prima sperimen tazione della Ru486 in Italia, al Sant’Anna – quasi tutte le donne che abortiscono con la pillola escono dall’ospedale firmando le dimissioni (finora 114 su 121). Il tutto sotto il naso del governatore del Piemonte, il leghista Roberto Cota, che appena eletto aveva giustamente fatto la voce grossa dicendo che per lui la Ru poteva restare in magazzino. Il giorno dopo aveva precisato che avrebbe rispettato la legge, per poi aggiungere che «essendo a favore della vita farò di tutto per contrastarne l’impiego».


La Ru486 fu terreno di scontro in campagna elettorale, quando l’ex assessore alla Sanità Eleonora Artesio annunciò la possibilità di scelta per la donna tra ricovero ordinario e day hospital. «Dire che la Ru486 debba essere data senza ricovero – commentò Cota – significa sbagliare politicamente, eticamente, ma anche dal punto di vista medico», promettendo che «da presidente di Regione mi atterrò invece rigorosamente a quanto indicato dal Consiglio superiore di sanità» (Css), ovvero il ricovero ordinario. Fin qui le intenzioni. Nel concreto, quali le misure di controllo – nel rispetto della libertà delle pazienti – sull’operato degli ospedali e nel sostegno alle donne? A parlare per il presidente Cota, costantemente irraggiungibile sul tema, è l’assessore regionale agli Affari istituzionali Elena Maccanti, che pare sorpresa nell’apprendere di quel che accade al Sant’Anna con il day hospital 'di fatto'. «Davvero continuano a dimettere? – ci risponde –. Che ci vuole il ricovero non lo diciamo noi ma il Consiglio superiore di sanità, però non possiamo mica fare un trattamento sanitario obbligatorio... Il problema è l’informazione, perché se viene detto che si può firmare e non ci sono rischi, che è come prendere un’aspirina, è chiaro che tutte escono. A nostro parere, l’informazione passata nella nostra regione sulla Ru, complice una sperimentazione gestita in maniera politica, è stata deviante e leggera, e va corretta».

La soluzione? «Abbiamo redatto un consenso informato più stretto di quelli già in vigore, in sei lingue, che informa davvero le donne sui rischi anche delle dimissioni. Lo manderemo a tutti gli ospedali la prossima settimana». Ci saranno verifiche?

«Vedo in giro tesi precostituite – aggiunge –, le donne sono libere di uscire, però dev’essere una scelta consapevole. In ogni caso già effettuiamo un attento monitoraggio e per chi dovesse trasgredire partiranno provvedimenti, a partire dai direttori generali degli ospedali, perché il protocollo va rispettato». In cosa attualmente non lo rispetterebbero? «Nella mancata informazione». Eppure dal Sant’Anna, che a causa dei permessi alle donne per uscire dall’ospedale durante la sperimentazione del farmaco fu oggetto di un’inchiesta da parte del procuratore Guariniello, assicurano di stare «attenendosi alle indicazioni dei Css». Sostiene Walter Arossa, direttore generale del Sant’Anna: «Abbiamo predisposto i posti letto per il ricovero e diamo alle donne tutte le informazioni, con un foglio per il consenso informato che contiene una tabellina di confronto dei rischi tra aborto chirurgico e farmacologico. Dopo di che è la donna che decide se uscire, firmando le dimissioni contro il parere dei sanitari».


Le stesse linee guida sono prese a modello anche dall’Ospedale Martini, come riferisce Maria Pia Chianale, direttrice sanitaria dell’Asl To1. «Dopo aver stilato il protocollo siamo pronti a partire con la pillola. Ci aspettiamo piccoli numeri e seguiremo le linee guida sul ricovero, anche se è difficile far capire alle donne che va a loro beneficio stare in ospedale». Come riporta Flavio Armellino, direttore di Ostetricia e ginecologia dell’ospedale torinese Maria Vittoria, «le otto donne che si sono sottoposte all’aborto farmacologico da noi hanno tutte firmato per uscire. Non incentiviamo le donne a ricoverarsi, diciamo cosa prevede la legge. Il nostro problema sono i letti, sempre troppo pochi». Non tutti sono d’accordo con le dimissioni. «Non è corretto mandare via la donna da un ambiente protetto in cui può avere un supporto psicologico e medico, relegando l’aborto all’individualità più completa – sostiene Luciano Galletto, primario di Ostetricia e ginecologia all’ospedale di Savigliano –. L’accompagnamento mi pare più ragionevole del lasciar avvenire il tutto a casa, visti anche gli effetti collaterali abbastanza frequenti della pillola, dal dolore ai disturbi gastro-intestinali, alle perdite ematiche». Non le sembra strano che quasi tutte le donne escano contro il parere del medico? «Il fatto è che non so quale sia il consiglio dato dai colleghi del Sant’Anna»...


Avvenire.it, 17 giugno 2010 – DIBATTITO - Radici lontane per la Shoah - Anna Foa
Le parole che usiamo per definire l’ostilità antiebraica sono nate tardi, assai più tardi del fenomeno che intendono descrivere. È solo in tempi assai recenti che appaiono sia il termine «antigiudaismo», con cui designiamo oggi un’opposizione nei confronti degli ebrei caratterizzata in senso religioso e diretta in particolar modo contro l’ebraismo post-biblico, sia quello di «antisemitismo», con cui designiamo un’ostilità antiebraica a carattere prevalentemente razziale. «Antisemitismo», infatti, è un termine che si afferma nel linguaggio comune soltanto nel 1879, dopo essere stato usato dal giornalista tedesco W. Marr nel corso di una violenta campagna giornalistica contro gli ebrei.

Quanto ad «antigiudaismo», che descrive un fenomeno assai più antico, è termine ancora più recente che appartiene, nella sua forma sostantivata, alla seconda metà del XX secolo, anche se è coniato sul più antico aggettivo «antigiudaico» e sulla tradizione, affermatasi già nella prima età patristica, degli scritti contra Iudaeos. In realtà, fino a che la teologia cristiana aveva considerato naturale considerare gli ebrei come il simbolo dell’errore e accettarne la presenza nella società cristiana solo entro uno statuto di inferiorità, l’ostilità verso di loro non aveva avuto bisogno di un nome. L’insegnamento del disprezzo verso gli ebrei era una parte fondamentale dell’insegnamento religioso, quello che individuava l’errore per esaltare la verità del Cristo.

La teologia sostitutiva, che affermava che Dio aveva sostituito il suo originario patto con gli ebrei con quello con i cristiani, faceva da base a questo «disprezzo», formulato all’interno della stessa liturgia in espressioni codificate di ostilità antiebraica. Ma definirla «ostilità», almeno fino a che restava entro questi steccati, sarebbe apparso, ai suoi stessi sostenitori, del tutto fuori posto.

Naturale, invece, che il bisogno di una definizione emergesse con forza dopo che gli ebrei ottennero, con l’Emancipazione, l’uguaglianza. È in questo momento, in cui le vecchie formule antiebraiche stanno divenendo desuete, che l’ostilità si rinnova e prende un nome specifico, quello appunto di antisemitismo. Un nome nuovo per qualcosa comunque di nuovo, di radicalmente diverso dalle vecchie formule antigiudaiche, ma che in quegli ultimi decenni dell’Ottocento è talmente mescolato con esse da consentire distinzioni nette solo con grandi difficoltà.

Prendiamo la questione del Talmud, il testo basilare dell’esegesi rabbinica della Torah, che nel 1871 il canonico tedesco August Rohling attaccò come blasfemo ed anticristiano, in uno scritto, Der Talmudjude, volto soprattutto a contrastare l’odiata emancipazione degli ebrei. Erano, le sue, affermazioni che rientravano pienamente nella tradizione antigiudaica più consolidata: opposizione all’emancipazione in quanto parificazione della verità cristiana all’errore ebraico, attacchi ad un testo proibito già dalla Chiesa, nei territori ad essa sottoposti, fin dal Cinquecento.

Eppure, il libro di Rohling fu accolto con entusiasmo in Francia dall’alfiere del nuovo antisemitismo razzista, Edouard Drumont, che ne scrisse la prefazione per l’edizione francese. La diffusione dello scritto di Rohling non diede solo adito ad un rinnovarsi delle polemiche anti-emancipatorie, ma traghettò molta parte delle formule antigiudaiche tradizionali nel nuovo antisemitismo politico e razziale.

Ancora più complesso è il caso dell’accusa di omicidio rituale, la credenza cioè che gli ebrei fossero soliti sacrificare un bambino cristiano ogni anno in occasione della Pasqua ebraica, per scopi rituali e anticristiani. Nel Medioevo, questa accusa era stata espressione di violenze dal basso più che della Chiesa, che in molti casi l’aveva condannata formalmente. Non si può quindi, a rigore, definirla come un’accusa antigiudaica, anche se è certamente un’accusa munita di una lunga tradizione nell’Occidente cristiano.

Ebbene, nell’Ottocento essa diventa un tema ricorrente della pubblicistica antisemita, a cominciare dallo stesso Rohling, fino a provocare nell’Est d’Europa pogroms e processi, mentre in Italia fu sostenuta con veemenza anche da molta parte della stampa cattolica, a cominciare dalla rivista dei gesuiti, la Civiltà Cattolica.

Espressione, quindi, dell’antigiudaismo o del nuovo antisemitismo? I confini, in questo caso, appaiono decisamente sfumati. Più facile, forse, nella Francia di fine Ottocento, far rientrare nell’ambito dell’antisemitismo politico e non dell’antigiudaismo tradizionale le accuse di doppia appartenenza rivolte agli ebrei in occasione dell’affaire Dreyfus: il caso dell’ufficiale ebreo accusato ingiustamente di tradimento in favore della Germania. Quest’accusa non parla infatti il linguaggio della religione, bensì quello del nuovo nazionalismo.

Ma come spiegare, se non con il ricorso all’ostilità antiebraica tradizionale, il fatto che l’intera Francia cattolica sostenne a spada tratta la colpevolezza dell’ufficiale ebreo e appoggiò i moti antisemiti? Dove trarre, qui, il confine tra antigiudaismo e antisemitismo? Più netti sono, evidentemente, i confini tra antisemitismo razziale e antigiudaismo. Per l’antigiudaismo, il battesimo cancella l’appartenenza ebraica, per l’antisemitismo gli ebrei sono una razza diversa, e non esiste battesimo in grado di mutarne la natura. È obbedendo a questa ideologia che ebrei battezzati furono deportati dai nazisti insieme con quelli non battezzati, che Edith Stein, e come lei tanti cattolici di origine ebraica morirono ad Auschwitz e negli altri campi: ciò che contava era la razza, non la credenza.

Eppure, anche qui i confini erano stati abbattuti, o perlomeno confusi, almeno una volta nella storia. Fu nella seconda metà del Quattrocento, in Spagna, quando le leggi di limpieza de sangre considerarono i convertiti, nonostante il battesimo ricevuto, come ebrei, e in quanto tali da discriminare e mettere sotto accusa.

È vero che all’inizio, nel 1449, un papa Niccolò V condannò queste norme come eretiche, in quanto negavano di fatto la validità del battesimo, ma alla fine i pontefici furono costretti ad accettarle, anche se solo per la Spagna. E quando, nella seconda metà dell’Ottocento, la cultura della razza permeò in profondità la società europea, la Chiesa non fu certo partecipe di questa profonda svolta culturale, ma nemmeno si impegnò con forza per metterne in luce la natura profondamente anticristiana. Lo scontro maturò molto più tardi, con l’enciclica Mit Brennender Sorge di Pio XI, del 1937, e la sua condanna nettissima del razzismo nazista. Ciò nonostante, fra il 1938 e il 1939 l’antisemitismo razzista si richiamò alle secolari discriminazione antiebraiche della Chiesa per sottolinearne la continuità con le leggi del 1938, e tentò in nome di quella convergenza tra antigiudaismo e razzismo di tirare dalla sua esponenti anche autorevoli del mondo cattolico, come padre Gemelli.

Per un momento, sembrò che questa linea di accordo tra razzismo e cattolicesimo, portata avanti non senza esitazioni da Farinacci e Gemelli, avesse un qualche successo, ma nel settembre 1939 intervenne il Sant’Uffizio, bloccando quest’infiltrazione razzista dentro il cattolicesimo ed eliminando il rischio di un compromesso tra cultura della razza e Chiesa cattolica.
Anna Foa