martedì 8 giugno 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) All'Angelus il ricordo del sacerdote polacco beatificato a Varsavia - Padre Popieluszko esempio per i sacerdoti e i laici - Dopo la consegna dell'Instrumentum laboris dell'assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei vescovi - al termine della messa di domenica 6 giugno nel palazzo dello sport Eleftherìa di Nicosia - il Papa ha guidato la preghiera dell'Angelus, che ha introdotto con le seguenti parole. - L'Osservatore Romano - 7-8 giugno 2010
2) La messa a Nicosia con i sacerdoti, i religiosi, le religiose, i diaconi, i catechisti e i laici impegnati di rito latino - Un mondo senza croce è un mondo senza speranza - Nel pomeriggio di sabato 5 giugno, Benedetto XVI ha celebrato la messa per il clero, i consacrati, i diaconi, i catechisti e i rappresentanti dei movimenti ecclesiali di rito latino, nella chiesa della Santa Croce a Nicosia. All'inizio del rito, il Patriarca di Gerusalemme dei Latini Fouad Twal ha salutato il Pontefice a nome dei presenti. Dopo la proclamazione delle letture, il Papa ha pronunciato l'omelia. - L'Osservatore Romano - 7-8 giugno 2010
3) Quel sentiero dalla fede alla cultura l’intervento - Negri: la catechesi dev’essere lavoro di approfondimento e comunicazione dei contenuti forti per una visione unitaria e organica - DI LUIGI NEGRI - vescovo di San Marino Montefeltro – Avvenire, 8 giugno 2010
4) Tutti i sospetti sul killer di monsignor Padovese: pazzo o anti cristiano? - di Andrea Tornielli - © Copyright Il Giornale, 7 giugno 2010
5) I MIRACOLI E LA SCIENZA - Un libro offre risposte per gli scettici - di padre John Flynn, LC
6) COPPIE DI FATTO: TESTIMONIANZA DI UNA CRISI - di Cristina Rolando* - * Cristina Rolando è avvocato e docente. Fa parte del Comitato editoriale della Rivista “Iustitia”, edita dalla Casa Editrice Giuffrè, ed è docente di Istituzioni di Diritto Privato presso la Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma.
7) SU FACEBOOK, TESTIMONIANZE SULLA RICCHEZZA DELL'AMICIZIA CON UN SACERDOTE - I membri del gruppo "Ho un amico sacerdote che è fantastico" sono ormai quasi 60.000
8) UN MARTIRE CHE HA SCONFITTO LA DITTATURA COMUNISTA - E' stato beatificato padre Jerzy Popiełuszko, il capellano di “Solidarność” - di don Mariusz Frukacz
9) I SEGNI DI LIBERAZIONE - Nel caso della possessione diabolica, le prime volte il Demonio dice all'esorcista: "lo qui sto bene!", "Non me ne andrò mai" - Carlo Di Pietro – dal sito Pontifex.roma.it
10) Ci mancava la Papessa...- Lunedì 07 Giugno 2010 - Enzo Pennetta dal sito: libertà e persona
11) Il cancro dell'intellettualismo - Pigi Colognesi - lunedì 7 giugno 2010 – ilsussidiario.net
12) PAPA/ Magister: a Cipro la "sapienza" di Benedetto ha unito oriente e occidente - INT. Sandro Magister - lunedì 7 giugno 2010 – ilsussidiario.net
13) IL CASO/ Una società pro aborto inglese usa i fondi pubblici per "aiutare" i cinesi a non aver figli - Gianfranco Amato - lunedì 7 giugno 2010 – ilsussidiario.net
14) Avvenire.it, 8 giugno 2010 - Coraggio e pazienza: l’insegnamento del Papa nei giorni della visita a Cipro - La tela da ritessere di Mimmo Muolo

All'Angelus il ricordo del sacerdote polacco beatificato a Varsavia - Padre Popieluszko esempio per i sacerdoti e i laici - Dopo la consegna dell'Instrumentum laboris dell'assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei vescovi - al termine della messa di domenica 6 giugno nel palazzo dello sport Eleftherìa di Nicosia - il Papa ha guidato la preghiera dell'Angelus, che ha introdotto con le seguenti parole. - L'Osservatore Romano - 7-8 giugno 2010
Cari fratelli e sorelle in Cristo,
a mezzogiorno è tradizione della Chiesa rivolgersi in preghiera alla Beata Vergine Maria, ricordando con gioia il suo pronto assenso a divenire la madre di Dio. È stato un invito che l'ha riempita di trepidazione e che lei avrebbe potuto appena comprendere. Era un segno che Dio aveva scelto lei, sua umile ancella, per cooperare con lui nell'opera di salvezza. Come non rallegrarci per la generosità della sua risposta! Attraverso il suo "sì" la speranza della storia è divenuta una realtà, l'Unico che Israele aveva da lungo atteso venne nel mondo, dentro la nostra storia. Di lui l'angelo ha annunciato che il suo regno non avrebbe avuto fine (Lc 1, 33).
Circa trent'anni dopo, trovandosi Maria piangente ai piedi della croce, dev'essere stato difficile mantenere viva questa speranza. Le forze delle tenebre sembrava che avessero avuto il sopravvento. E nel suo intimo lei avrebbe ricordato le parole dell'angelo. Ma anche nella desolazione del Sabato Santo la certezza della speranza la sostenne fino alla gioia della mattina di Pasqua. Ed anche noi, suoi figli, viviamo nella stessa fiduciosa speranza che la Parola fatta carne nel seno di Maria, mai ci abbandonerà. Egli, il Figlio di Dio e il Figlio di Maria, fortifica la comunione che ci lega insieme così che noi possiamo divenire testimoni di lui e del potere del suo amore che guarisce e riconcilia.
Ora desidero dire alcune parole in lingua polacca nella lieta circostanza dell'odierna beatificazione di Jerzy Popieluszko, sacerdote e martire.
Rivolgo un cordiale saluto alla Chiesa in Polonia, che oggi gioisce dell'elevazione agli altari del padre Jerzy Popieluszko. Il suo zelante servizio e il martirio sono particolare segno della vittoria del bene sul male. Il suo esempio e la sua intercessione accrescano lo zelo dei sacerdoti e infiammino d'amore i fedeli laici.
Imploriamo ora la Vergine Maria, nostra Madre, di intercedere per tutti noi, per il popolo di Cipro e per la Chiesa del Medio Oriente, con Cristo suo Figlio, il Principe della Pace.
(©L'Osservatore Romano - 7-8 giugno 2010)

La messa a Nicosia con i sacerdoti, i religiosi, le religiose, i diaconi, i catechisti e i laici impegnati di rito latino - Un mondo senza croce è un mondo senza speranza - Nel pomeriggio di sabato 5 giugno, Benedetto XVI ha celebrato la messa per il clero, i consacrati, i diaconi, i catechisti e i rappresentanti dei movimenti ecclesiali di rito latino, nella chiesa della Santa Croce a Nicosia. All'inizio del rito, il Patriarca di Gerusalemme dei Latini Fouad Twal ha salutato il Pontefice a nome dei presenti. Dopo la proclamazione delle letture, il Papa ha pronunciato l'omelia. - L'Osservatore Romano - 7-8 giugno 2010
Cari fratelli e sorelle in Cristo,
il Figlio dell'Uomo deve essere innalzato, affinché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (cfr. Gv 3, 14-15). In questa Messa votiva adoriamo e lodiamo il nostro Signore Gesù Cristo, poiché con la sua Santa Croce ha redento il mondo. Con la sua morte e risurrezione ha spalancato le porte del Cielo e ci ha preparato un posto, affinché a noi, suoi seguaci, venga donato di partecipare alla sua gloria.
Nella gioia della vittoria redentrice di Cristo, saluto tutti voi riuniti nella chiesa della Santa Croce e vi ringrazio per la vostra presenza. Apprezzo molto il calore con il quale mi avete accolto. Sono particolarmente grato a Sua Beatitudine il Patriarca latino di Gerusalemme per le sue parole di benvenuto all'inizio della Messa, e per la presenza del Padre Custode di Terra Santa. Qui a Cipro, terra che fu il primo porto di approdo dei viaggi missionari di san Paolo attraverso il Mediterraneo, giungo oggi fra voi, sulle orme di quel grande Apostolo, per rinsaldarvi nella vostra fede cristiana e per predicare il Vangelo che offre vita e speranza al mondo.
Il centro della celebrazione odierna è la Croce di Cristo. Molti potrebbero essere tentati di chiedere perché noi cristiani celebriamo uno strumento di tortura, un segno di sofferenza, di sconfitta e di fallimento. È vero che la croce esprime tutti questi significati. E tuttavia a causa di colui che è stato innalzato sulla croce per la nostra salvezza, rappresenta anche il definitivo trionfo dell'amore di Dio su tutti i mali del mondo.
Vi è un'antica tradizione che il legno della croce sia stato preso da un albero piantato da Seth, figlio di Adamo, nel luogo dove Adamo fu sepolto. In quello stesso luogo, conosciuto come il Golgota, il luogo del cranio, Seth piantò un seme dall'albero della conoscenza del bene e del male, l'albero che si trovava al centro del giardino dell'Eden. Attraverso la provvidenza di Dio, l'opera del Maligno sarebbe stata sconfitta ritorcendo le sue stesse armi contro di lui.
Ingannato dal serpente, Adamo ha abbandonato la filiale fiducia in Dio ed ha peccato mangiando i frutti dell'unico albero del giardino che gli era stato proibito. Come conseguenza di quel peccato entrarono nel mondo la sofferenza e la morte. I tragici effetti del peccato, e cioè la sofferenza e la morte, divennero del tutto evidenti nella storia dei discendenti di Adamo. Lo vediamo dalla prima lettura di oggi, che fa eco alla caduta e prefigura la redenzione di Cristo.
Come punizione dei propri peccati, il popolo di Israele, mentre languiva nel deserto, venne morso dai serpenti ed avrebbe potuto salvarsi dalla morte solo volgendo lo sguardo al simbolo che Mosè aveva innalzato, prefigurando la croce che avrebbe posto fine al peccato e alla morte una volta per tutte. Vediamo chiaramente che l'uomo non può salvare se stesso dalle conseguenze del proprio peccato. Non può salvare se stesso dalla morte. Soltanto Dio può liberarlo dalla sua schiavitù morale e fisica. E poiché Dio ha amato così tanto il mondo, ha inviato il suo Figlio unigenito non per condannare il mondo - come avrebbe richiesto la giustizia - ma affinché attraverso di Lui il mondo potesse essere salvato. L'unigenito Figlio di Dio avrebbe dovuto essere innalzato come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così che quanti avrebbero rivolto lo sguardo a lui con fede potessero avere la vita.
Il legno della croce divenne lo strumento per la nostra redenzione, proprio come l'albero dal quale era stato tratto aveva originato la caduta dei nostri progenitori. La sofferenza e la morte, che erano conseguenze del peccato, divennero il mezzo stesso attraverso il quale il peccato fu sconfitto. L'agnello innocente fu sacrificato sull'altare della croce, e tuttavia dall'immolazione della vittima scaturì una vita nuova: il potere del maligno fu distrutto dalla potenza dell'amore che sacrifica se stesso.

La croce, pertanto, è qualcosa di più grande e misterioso di quanto a prima vista possa apparire. Indubbiamente è uno strumento di tortura, di sofferenza e di sconfitta, ma allo stesso tempo esprime la completa trasformazione, la definitiva rivincita su questi mali, e questo lo rende il simbolo più eloquente della speranza che il mondo abbia mai visto. Parla a tutti coloro che soffrono - gli oppressi, i malati, i poveri, gli emarginati, le vittime della violenza - ed offre loro la speranza che Dio può trasformare la loro sofferenza in gioia, il loro isolamento in comunione, la loro morte in vita. Offre speranza senza limiti al nostro mondo decaduto.
Ecco perché il mondo ha bisogno della croce. Essa non è semplicemente un simbolo privato di devozione, non è un distintivo di appartenenza a qualche gruppo all'interno della società, ed il suo significato più profondo non ha nulla a che fare con l'imposizione forzata di un credo o di una filosofia. Parla di speranza, parla di amore, parla della vittoria della non violenza sull'oppressione, parla di Dio che innalza gli umili, dà forza ai deboli, fa superare le divisioni, e vincere l'odio con l'amore. Un mondo senza croce sarebbe un mondo senza speranza, un mondo in cui la tortura e la brutalità rimarrebbero sfrenati, il debole sarebbe sfruttato e l'avidità avrebbe la parola ultima. L'inumanità dell'uomo nei confronti dell'uomo si manifesterebbe in modi ancor più orrendi, e non ci sarebbe la parola fine al cerchio malefico della violenza. Solo la croce vi pone fine. Mentre nessun potere terreno può salvarci dalle conseguenze del nostro peccato, e nessuna potenza terrena può sconfiggere l'ingiustizia sin dalla sua sorgente, tuttavia l'intervento salvifico del nostro Dio misericordioso ha trasformato la realtà del peccato e della morte nel suo opposto. Questo è quanto celebriamo quando diamo gloria alla croce del Redentore. Giustamente sant'Andrea di Creta descrive la croce come "più nobile e preziosa di qualsiasi cosa sulla terra (...), poiché in essa e mediante di essa e per essa tutta la ricchezza della nostra salvezza è stata accumulata e a noi restituita" (Oratio X, PG 97, 1018-1019).
Cari fratelli sacerdoti, cari religiosi, cari catechisti, il messaggio della croce è stato affidato a noi, così che possiamo offrire speranza al mondo. Quando proclamiamo Cristo crocifisso, non proclamiamo noi stessi, ma lui. Non offriamo la nostra sapienza al mondo, non parliamo dei nostri propri meriti, ma fungiamo da canali della sua sapienza, del suo amore, dei suoi meriti salvifici. Sappiamo di essere semplicemente dei vasi fatti di creta e, tuttavia, sorprendentemente siamo stati scelti per essere araldi della verità salvifica che il mondo ha bisogno di udire. Non stanchiamoci mai di meravigliarci di fronte alla grazia straordinaria che ci è stata data, non cessiamo mai di riconoscere la nostra indegnità, ma allo stesso tempo sforziamoci sempre di diventare meno indegni della nostra nobile chiamata, in modo da non indebolire mediante i nostri errori e le nostre cadute la credibilità della nostra testimonianza.
In questo Anno Sacerdotale permettetemi di rivolgere una parola speciale ai sacerdoti oggi qui presenti e a quanti si preparano all'ordinazione. Riflettete sulle parole pronunciate al novello sacerdote dal Vescovo, mentre gli presenta il calice e la patena: "Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore".
Mentre proclamiamo la croce di Cristo, cerchiamo sempre di imitare l'amore disinteressato di colui che offrì se stesso per noi sull'altare della croce, di colui che è allo stesso tempo sacerdote e vittima, di colui nella cui persona parliamo ed agiamo quando esercitiamo il ministero ricevuto. Nel riflettere sulle nostre mancanze, sia individualmente sia collettivamente, riconosciamo umilmente di aver meritato il castigo che lui, l'Agnello innocente, ha patito in nostra vece. E se, in accordo con quanto abbiamo meritato, avessimo qualche parte nelle sofferenze di Cristo, rallegriamoci, perché ne avremo una felicità ben più grande quando sarà rivelata la sua gloria.
Nei miei pensieri e nelle mie preghiere mi ricordo in modo speciale dei molti sacerdoti e religiosi del Medio Oriente che stanno sperimentando in questi momenti una particolare chiamata a conformare le proprie vite al mistero della croce del Signore. Dove i cristiani sono in minoranza, dove soffrono privazioni a causa delle tensioni etniche e religiose, molte famiglie prendono la decisione di andare via, e anche i pastori sono tentati di fare lo stesso. In situazioni come queste, tuttavia, un sacerdote, una comunità religiosa, una parrocchia che rimane salda e continua a dar testimonianza a Cristo è un segno straordinario di speranza non solo per i cristiani, ma anche per quanti vivono nella Regione. La loro sola presenza è un'espressione eloquente del Vangelo della pace, della decisione del Buon Pastore di prendersi cura di tutte le pecore, dell'incrollabile impegno della Chiesa al dialogo, alla riconciliazione e all'amorevole accettazione dell'altro. Abbracciando la croce loro offerta, i sacerdoti e i religiosi del Medio Oriente possono realmente irradiare la speranza che è al cuore del mistero che celebriamo nella liturgia odierna.
Rinfranchiamoci con le parole della seconda lettura di oggi, che parla così bene del trionfo riservato a Cristo dopo la morte in croce, un trionfo che siamo invitati a condividere. "Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra" (Fil 2, 9-10).
Sì, amati fratelli e sorelle in Cristo, lungi da noi la gloria che non sia quella nella croce di Nostro Signore Gesù Cristo (cfr. Gal 6, 14). Lui è la nostra vita, la nostra salvezza e la nostra risurrezione. Per lui noi siamo stati salvati e resi liberi.
(©L'Osservatore Romano - 7-8 giugno 2010)


Quel sentiero dalla fede alla cultura l’intervento - Negri: la catechesi dev’essere lavoro di approfondimento e comunicazione dei contenuti forti per una visione unitaria e organica - DI LUIGI NEGRI - vescovo di San Marino Montefeltro – Avvenire, 8 giugno 2010
D a quando vivo la mia responsabilità di ve scovo, e quindi mi sono dovuto assumere il compito di guida del cam mino catechetico della dio cesi, mi è tornata spesso in mente questa affermazio ne: «la catechesi è il sentie ro che guida dalla fede alla cultura» che ripeteva spes so a noi studenti il nostro grande professore di dog matica don Pino Colombo. Le Chiese locali lavorano molto sulla catechesi, ed anche le strutture naziona li di aiuto alla vita pastora­le: sussidi, documenti, con vegni, riviste più o meno specializzate; ma se si giu dica il «prodotto finito», sembra che non si possa es sere molto contenti.

La catechesi nelle sue varie fasi e nella varietà dei suoi interlocutori non aiuta alla nascita di una autentica cultura della fede, né nella comunità né nella persona. Mi sembra in questi anni di avere compreso il punto di crisi. La catechesi è un la voro di approfondimento e di comunicazione dei con tenuti «forti» della fede: ap profondimento e comuni cazione che devono essere condotti nel modo più a deguato possibile, anche dal punto di vista del me todo e addirittura delle tec niche.

Chiediamoci lealmente: «Ma noi partiamo dai con tenuti forti della fede? Par­tiamo dal Catechismo del la Chiesa Cattolica e dal Compendio?» Troppo spesso il lavoro ca techetico rischia di esaurir si in questioni di metodo logia, si impantana in tan te problematiche che con troppo ottimismo si posso no definire esegetiche, cer ca di chiarire le conse guenze psicologiche, affet tive ed etiche della fede, an ziché insegnare la fede cat tolica nella sua oggettività. Così troppo spesso i dogmi fondamentali vengono in segnati in modo approssi mativo, generico, e comun que inadeguato.

Nel settembre del 2005, al la fine del corso per i ve scovi neoeletti a cui parte­cipavo, Benedetto XVI, ri cevendoci a Castelgan dolfo, ci disse che ci conse­gnava il Compendio del Ca techismo della Chiesa Cat tolica come lo strumento fondamentale della nostra pastorale.

Mi sembra di avere preso sul serio questo suggeri mento del Papa, impostan­do la catechesi nella dioce si, a tutti i livelli, come ap profondimento critico e si­stematico della fede e co me movimento a che si ge neri una visione culturale unitaria ed organica.

A distanza di cinque anni mi sembra di registrare più di un sintomo positivo: la nascita di quell’«entusia smo critico della fede» in cui consiste per Origene il cuore dinamico e vibrante della fede stessa.
*vescovo di San Marino Montefeltro


Tutti i sospetti sul killer di monsignor Padovese: pazzo o anti cristiano? - di Andrea Tornielli - © Copyright Il Giornale, 7 giugno 2010
Nel dicembre 2007, dopo l’ennesimo attacco a un prete cattolico - il francescano Adriano Franchini - monsignor Luigi Padovese, il Vicario apostolico dell’Anatolia assassinato tre giorni fa in Turchia, aveva dichiarato: «La nostra volontà di restare qui si rafforza dopo queste aggressioni. Tuttavia c’è da dire che nonostante che la popolazione turca sia generalmente buona, eventi del genere testimoniano che c’è un ramo malato nel grande albero della popolazione locale». Anche in quel caso si era trattato di uno «squilibrato», una persona psicologicamente instabile, un giovane che voleva convertirsi al cristianesimo dall’islam ma voleva farlo immediatamente. Tre anni fa, l’arcivescovo di Smirne, Ruggero Franceschini, aveva usato le stesse parole che ripete ora: «Ancora una volta diranno che questo è un atto di un pazzo. Ma allora dobbiamo ammettere che da un anno e mezzo circa in Turchia gli atti da matto sono notevolmente aumentati, guarda caso contro i religiosi cristiani stranieri».
Dopo la morte di don Andrea Santoro nel febbraio 2006, dopo l’aggressione a padre Martin Kmetec, dopo le minacce subite dai francescani nella parrocchia di Mersin; dopo l’accoltellamento di un sacerdote cattolico di nazionalità francese, padre Pierre Brunissen, che aveva appena riaperto la chiesa di don Santoro; dopo la morte di tre cristiani protestanti, torturati, incaprettati e uccisi a coltellate mentre lavoravano a Malatya nella casa editrice Zirve, che pubblica Bibbie e libri di matrice religiosa cristiana; dopo l’accoltellamento di padre Franchini, e ora dopo la barbara uccisione per sgozzamento del vescovo Padovese, si continua a parlare di pazzi «instabili di mente». Pazzi isolati, come è sempre stato definito Ali Agca, l’attentatore turco appartenente ai Lupi Grigi che il 13 maggio 1981 ferì gravemente Giovanni Paolo II in Piazza San Pietro. Giovani «instabili» che spesso si scopre essere stati in contatto con gruppi ultra-nazionalisti e anticristiani.
Molti sono ancora i punti oscuri di questa vicenda. Innanzitutto, monsignor Padovese è stato colpito con una violenza efferata. Padre Roberto Ferrari, missionario in Turchia, che ha visto il corpo del presule, riferisce che «la testa si è staccata come quella di San Giovanni». Si sa che l’assassino, l’autista del vescovo, il ventiseienne turco Murat Altun, è arrivato nella casa del prelato a Iskenderun in motorino, accompagnato dal fratello. Ha agito da solo, perché ispirato da «una rivelazione divina», come egli stesso ha dichiarato, oppure qualcuno l’ha aiutato?
L’arcivescovo di Smirne, Franceschini ha detto al Tg1 che «Murat non era affatto malato di mente. Si era sottoposto ad accertamenti presso l’ambulatorio di psicologia e psichiatria dell’università solo per precostituirsi un alibi. Anche la persona che ha gettato una bomba molotov sulla nostra cattedrale di San Policarpo, qui a Smirne, è stato definito “un malato mentale”. E ci può essere sempre qualcuno che approfitta di difficoltà psicologiche per spingere a fare queste cose».
Murat Altun, al contrario di quanto si è detto, non si era convertito al cristianesimo ed era rimasto musulmano, come ha voluto chiarire il suo avvocato. L’autista era ben inserito nell’ambiente della sua città e la voce secondo la quale ultimamente ci sarebbero stati dei dissapori con monsignor Padovese – il quale, tra l’altro, attesta il vescovo emerito di Verona, Flavio Carraro, si era dato molto da fare per trovargli un posto di lavoro in Italia per permettergli di aiutare la sua famiglia – non basta certo per giustificare un assassinio.
Resta infine il mistero del viaggio a Cipro annullato la mattina del giorno dell’omicidio. Monsignor Padovese aveva collaborato intensamente al documento preparatorio del Sinodo, doveva essere vicino al Papa nei tre giorni della visita, aveva prenotato il volo per sé e per Murat Altun, ma poi ha annullato i biglietti. Perché? Si è detto che il prelato non si sentiva bene, forse aveva avuto una crisi di diabete. Ma fino al giorno prima non aveva interrotto le sue attività pastorali. E quell’appuntamento a Cipro era certamente uno dei più importanti dell’anno nella sua agenda.
© Copyright Il Giornale, 7 giugno 2010


I MIRACOLI E LA SCIENZA - Un libro offre risposte per gli scettici - di padre John Flynn, LC
ROMA, domenica, 6 giugno 2010 (Zenit.org).- I cattolici sono abituati a sentir parlare di miracoli e di gente guarita per intercessione dei santi, ma la cultura materialistica guarda al miracolo con scetticismo.
L’autore britannico John Cornwell ha pubblicato di recente un libro sul Cardinale John Henry Newman. Il Sunday Times gli ha dato grande spazio per esporre i suoi dubbi sulla validità del miracolo che è stato riconosciuto dal Vaticano e che è alla base della beatificazione di Newman, prevista per settembre.
Nel suo articolo del 9 maggio, Cornwell ha sostenuto che la documentazione del Vaticano sul miracolo “si addentra nell’ambito fortemente arcano del linguaggio e della mentalità medievali”. Cornwell prosegue poi mettendo in dubbio l’affidabilità scientifica della guarigione, senza dimenticarsi di aggiungere una buona dose di critiche a Benedetto XVI.
L'autore non è il solo a guardare con scetticismo alle guarigioni miracolose. Lo scorso dicembre, dopo che da Roma era stata annunciata l’approvazione del miracolo richiesto per la canonizzazione della suora australiana Mary MacKillop, un medico di Sydney, David Goldstein, ha espresso i propri dubbi al riguardo. In un articolo pubblicato il 22 dicembre sul quotidiano Australian, ha detto che è impossibile determinare se i miglioramenti dei pazienti sono dovuti alle preghiere.
Anche il Vescovo anglicano della parte settentrionale di Sydney, Glenn Davies, ha espresso delle critiche, secondo un servizio apparso il 24 dicembre sull’Australian. “Chi può dimostrare che i presunti miracoli sono effettivamente da attribuire a Mary MacKillop?”, ha chiesto.
Fortunatamente, lo scorso anno, la dottoressa Jacalyn Duffin, titolare della Hanna Chair di Storia della Medicina presso la Queen’s University dell'Ontario (Canada), ha scritto una utile guida per affrontare queste e altre obiezioni analoghe. Nel libro dal titolo “Medical Miracles: Doctors, Saints, and Healing in the Modern World” (Oxford University Press), l’autrice esamina 1.400 miracoli riportati nelle canonizzazioni succedutesi tra il 1588 e il 1999.
La sua curiosità sui miracoli è nata dopo essere stata coinvolta nell’esame di tessuti che successivamente ha saputo essere elementi di un processo di canonizzazione. Avendo ricevuto in dono una copia della “positio”, la documentazione del miracolo, la Duffin si è resa conto che questo tipo di fascicoli esisteva per ogni santo canonizzato.
Durante i suoi numerosi soggiorni a Roma, ha estratto centinaia di questi documenti, stimando di poter esaminare da un terzo alla metà di tutti i miracoli depositati negli archivi del Vaticano, sin dalla regolamentazione del 1588 delle canonizzazioni.
Le prove
Le nuove regole, che rientrano nelle riforme della Controriforma, prescrivono un’attenta raccolta di prove e un esame scrupoloso da parte di esperti medici e scienziati. Paolo Zacchia (1584-1659) ha svolto un ruolo importante nella formulazione di queste linee guida, spiega la Duffin.
Nei suoi scritti, egli propone una categorizzazione dei diversi tipi di miracoli e precisa che una guarigione può essere considerata miracolosa se riguarda una malattia incurabile e se avviene in modo completo e istantaneo. La Duffin osserva che i medici che lavorano per il Vaticano continuano a citare Zacchia in tutto il XX secolo.
Alcuni criticano il fatto che le guarigioni fisiche costituiscano la base per la dichiarazione di santità, ma secondo la Duffin la necessità di avere prove credibili ha portato a optare per le guarigioni, che consentono la presenza di testimonianze indipendenti come quelle dei medici.
Nel corso del tempo, alcune modalità del processo di canonizzazione sono cambiate, ma nel considerare i fascicoli degli ultimi quattro secoli l’autrice dice di essere rimasta colpita dalla sorprendente continuità nell’affidamento alla scienza.
In effetti, la Chiesa ha sempre fatto leva sullo scetticismo scientifico per mettere alla prova la validità dei miracoli. Nella documentazione sui miracoli, Duffin ha sempre riscontrato che il clero si rimetteva prontamente all’opinione degli scienziati. Le autorità religiose si astenevano dal dichiarare il carattere sovrannaturale prima di essere state convinte dagli esperti che si trattava di un caso inspiegabile.
“La religione si affida alla migliore saggezza umana, prima di imporre un giudizio ispirato dalla dottrina”, afferma la Duffin.
Un punto che l’autrice aggiunge, con riguardo al rapporto tra religione e scienza, è che la religione tende ad essere più aperta verso la scienza rispetto al contrario.
Nei processi, alcuni medici si sentono a disagio, come se la loro collaborazione costituisse un tradimento del loro impegno per l’idea occidentale di medicina in cui si rifiuta la possibilità che le malattie o le guarigioni possano essere di origine divina.
La Duffin osserva che nel XIX secolo i cattolici e i protestanti discutevano sull'ipotesi che l’assenza di una spiegazione per una guarigione dovesse veramente significare che si trattava di un miracolo. Quel dibattito continua ancora oggi – aggiunge –, come quando un suo collega ha affermato che sebbene talvolta si possa non conoscere la spiegazione naturale, questa esiste comunque.
Questo tipo di approccio, obietta tuttavia, non affronta realmente la questione più essenziale relativa ai miracoli nella medicina.
L’atteggiamento positivistico, che rifiuta di accettare i miracoli, sostiene che se qualcosa non è spiegabile va rifiutato come un’illusione o una menzogna, perché esiste solo il mondo naturale. Tale fiducia nella spiegazione naturale è, in effetti, una credenza mascherata da fatto, sostiene la Duffin. In altre parole, asserire che i miracoli semplicemente non esistono non è più razionale e meno un atto di fede rispetto all’asserzione che questi esistono.
La differenza tra l’approccio religioso e quello positivistico sta nell’interpretazione delle prove, osserva la Duffin. Il canone medico è immerso in una tradizione antiteistica, mentre per la religione prima di poter dichiarare l’esistenza di un miracolo deve essere stata considerata ogni plausibile spiegazione scientifica.
In entrambi i casi, ciò che avanza è ignoto, ma l’osservatore religioso è pronto ad accettare l’idea di un intervento divino.
Conoscenza medica
Mentre alcuni si rifiutano di ammettere la possibilità di un intervento divino, la Chiesa cattolica è certamente attenta a utilizzare tutte le risorse della medicina per considerare ogni possibile spiegazione naturale delle guarigioni. In uno dei capitoli del libro, la Duffin parla dell’uso della conoscenza medica nei processi di canonizzazione.
Anzitutto, il Vaticano non riconosce i miracoli di guarigione in pazienti che hanno rifiutato la medicina ortodossa per affidarsi solo alla fede. L’intervento del medico fornisce una prova scientifica oggettiva che evita ogni possibile manipolazione del caso in questione.
Nello studio dei fascicoli, la Duffin ha rilevato che nel corso del tempo la testimonianza dei medici aumenta e diventa preponderante. Nei documenti del XVII secolo, vengono citati in media una volta per ogni fascicolo, ma solo una piccola parte di loro dava la sua testimonianza personale. Dopo il 1700, invece, almeno un terzo o più dei medici citati in un fascicolo forniva una testimonianza.
Nella seconda metà del XVII secolo, la prova dei medici curanti è stata affiancata da osservatori medici indipendenti. Alla fine, il numero degli esperti medici consultati è aumentato fino ad essere pari o maggiore a quello dei medici curanti.
La Duffin sottolinea inoltre che la Chiesa non si affida esclusivamente ai medici cattolici. Le inchieste considerano la fede di tutti i testimoni, compresi i medici. Fino al XX secolo, la maggior parte dei miracoli proveniva da Paesi europei, dove la maggioranza dei medici era cattolica.
Ciò nonostante, molti di questi ammettevano di non praticare regolarmente la fede e alcuni erano persino stati scomunicati. Nessuno, però, veniva scartato nella sua qualità di testimone.
Più di recente, sono stati chiamati anche medici di altre fedi o che apertamente non professano alcuna religione.
Alla fine, il miracolo è dichiarato tale solo quando i medici sono pronti ad ammettere la loro ignoranza su come la persona sia guarita, dopo che la migliore scienza medica aveva fallito. Un’ammissione che la mentalità contemporanea, fiera della sua conoscenza e della scienza, trova difficile da fare.


COPPIE DI FATTO: TESTIMONIANZA DI UNA CRISI - di Cristina Rolando* - * Cristina Rolando è avvocato e docente. Fa parte del Comitato editoriale della Rivista “Iustitia”, edita dalla Casa Editrice Giuffrè, ed è docente di Istituzioni di Diritto Privato presso la Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma.
ROMA, domenica, 6 giugno 2010 (ZENIT.org).- In quasi tutti i Paesi dell’Occidente è in atto, o si è appena conclusa, una vivace discussione sul problema della regolazione giuridica di un complesso di rapporti interpersonali non riconducibili alla tradizionale figura del matrimonio.
Le società del passato hanno distinto con sufficiente chiarezza i rapporti di coniugio da quelle relazioni che tali non erano, riconoscendo e tutelando i primi e lasciando, invece, all’ambito esclusivamente privato le seconde. Ma nella post-modernità i confini tra pubblico e privato, un tempo ben delineati, sono diventati così sfumati da stimolare l’insorgenza di un tertium genus (le convivenze stabili eterosessuali), con il conseguente passaggio da un bipolarismo (matrimonio e relazioni di fatto) a un tripolarismo sociale (matrimoni, convivenze non matrimoniali stabili, relazioni di fatto). E questa trasformazione sembra mettere in discussione l’istituzione stessa del matrimonio, accentuando una crisi di identità già in atto.
È davvero così? Alcuni potrebbero sostenere che giuridicizzare queste forme di relazione e conferire loro una certa dignità sociale potrebbe indurre a ritenere rafforzato l’istituto stesso della coniugio, che verrebbe esteso anche a coloro che fino ad allora ne erano esclusi. Ma un orientamento simile non può che dirsi limitato e parziale. È privo, infatti, di quel duplice riconoscimento che rappresenta la profonda sostanza etica (e non solo giuridica) dell’autentico matrimonio. In altri termini, nel vincolo coniugale la società riconosce, da un lato, la decisione di un uomo e di donna di creare una durevole comunione di vita mentre, dall’altro, richiede loro di istituzionalizzare quel rapporto codificando una relazione che cessa da quel momento di essere privata e diventa parzialmente pubblica (atto amministrativo del pubblico ufficiale).
Diversamente, la convivenza non esige detti requisiti poiché, pur aspirando ad essere giuridicizzata, rifiuta, al contempo, il riconoscimento richiedendo la salvaguardia dell’esclusiva privatezza. In conclusione, se il matrimonio rappresenta la sintesi tra l’ambito pubblico e quello privato, la convivenza, invece, appartiene in toto a quest’ultimo.
Ma che cosa succederebbe se, come precedentemente anticipato, i confini tra pubblico e privato si dissolvessero fino quasi a confondersi?
Proprio questo è il potenziale fattore di crisi del matrimonio. Pertanto, diventerebbe oggetto di discussione non tanto la coniugio in re ipsa quanto, piuttosto, quel coacervo di relazioni tra persone che, nel contesto della post-modernità, risulterebbe essere profondamente diverso da quello del passato più recente.
Probabilmente sono le stesse dinamiche socio-culturali a considerare anacronistica un’ istituzione stabile all’interno di una società mobile; un’istituzione che, radicata sul valore della fedeltà, non trova riscontro in un contesto teso ad esaltare una libertà arbitraria e priva di quel discrimen necessario alle scelte ed ai sentimenti. In tal senso, la convivenza risponde perfettamente a questa logica interna della post-modernità in quanto è espressione di una società fluttuante e precaria, in cui nessuna scelta è ritenuta definitiva e nessuna relazione viene privilegiata rispetto alle altre.
Ma ciononostante, il matrimonio conserva due punti di forza, quegli stessi che, a detta di alcuni, ne indicherebbero la decadenza. Il primo è la sua capacità di rappresentare una struttura di stabilità nella sfera dei sentimenti e nell’ambito della vita quotidiana, specie nella società odierna in cui l’accelerazione smisurata di ogni cosa produce instabilità e insicurezza. Il secondo è l’intrinseca attitudine a dare la vita e a prendersene cura, diversamente da quanto accade nel rapporto di convivenza che – volutamente precario nella struttura e, quindi, passibile di essere continuamente rimesso in discussione – contiene in re ipsa una minore propensione all’accettazione di quel rischio rappresentato dal figlio.

Ecco, allora, ecco il paradosso. Come è possibile riconoscere valore e dignità al matrimonio ma, di fatto, privarlo del significato suo proprio assimilandolo ad altre forme di relazione senza adeguato fondamento etico?
Impegnarsi reciprocamente alla fedeltà ed essere aperti alla nuova vita significa elevarsi al rango di coniugi (dal latino cum iogum) affrontando insieme, all’interno del vincolo imposto dalla morsa del giogo, ciò che la stessa esistenza propone. Dunque omologare il matrimonio ad una serie di rapporti e pattuizioni individuali, sia pure meritevoli di parziale riconoscimento, significherebbe aggiungere ulteriore precarietà e instabilità ad una società già di per sé provvisoria e mutevole.
Nel doveroso rispetto delle persone e delle scelte di ciascuno, pur se eticamente discutibili, occorre riconoscere l’impossibilità di equiparare istituti che sono e permangono oggettivamente disuguali. Come si evince all’art. 3 della Carta Costituzionale, una disciplina uniforme è posta a tutela di situazioni uguali ed omogenee, mentre una disciplina differenziata riconosce e tutela situazioni di diversità. Del resto, se così non fosse, il principio costituzionale di uguaglianza formale rimarrebbe lettera morta.

Per ulteriori informazioni sul tema, si suggerisce di consultare il libro di Cristina Rolando “Famiglia di fatto. Problema giuridico e di bioetica relazionale” (Cantagalli)
Ha pubblicato numerosi saggi e volumi, tra cui “Alimenti e mantenimento nel diritto di famiglia. Tutela civile, penale, internazionale” (Giuffrè 2008) e “Bioetica e persona. Quale rapporto?” (Edizioni Art 2009).


SU FACEBOOK, TESTIMONIANZE SULLA RICCHEZZA DELL'AMICIZIA CON UN SACERDOTE - I membri del gruppo "Ho un amico sacerdote che è fantastico" sono ormai quasi 60.000
BARCELLONA, lunedì, 7 giugno 2010 (ZENIT.org).- I membri del gruppo di Facebook "Ho un amico sacerdote che è fantastico anche se i media dicono di no", creato in Messico a marzo (cfr. ZENIT, 30 aprile 2010), non smettono di aumentare e sono ormai quasi 60.000.
Lo spazio ha incorporato contenuti in varie lingue oltre allo spagnolo, ha spiegato a ZENIT uno dei suoi amministratori, Miquel Mundet, di Barcellona (Spagna), che ha sottolineato la volontà di estendere l'iniziativa a molti Paesi del mondo.
L'obiettivo del gruppo è difendere l'onore dei sacerdoti e la verità del sacerdozio.
Molte persone, soprattutto giovani, apportano la propria testimonianza - oltre a fotografie, video, testi e collegamenti - sull'importanza che un sacerdote ha avuto nella loro vita.
"Avevo un ottimo confessore, che mi capiva e mi aiutava ad essere ogni giorno migliore - ha scritto Guada -. Un giorno, durante la confessione, gli raccontai che avevo conosciuto un ragazzo e che mi piaceva molto".
"Mi chiese come si chiamava, e quando glielo dissi mi raccontò, senza riuscire a trattenere una sonora risata, che era il suo migliore amico".
Guada spiega che fu difficile per lei continuare a "chiacchierare delle mie cose, del mio fidanzamento con il suo migliore amico", ma aggiunge che "ci ha accompagnato come amico e come guida per tutto il fidanzamento".
"Poi ci ha sposati, e in seguito gli abbiamo chiesto di essere il padrino del nostro primo figlio, ha battezzato gli altri due e ha seppellito l'ultimo". Per la ragazza, questo sacerdote è "un altro membro della nostra famiglia".
Questo venerdì, la giovane Cristina Amerise ha ricordato sulla bacheca del gruppo che "mancano pochi giorni alla fine dell'Anno Sacerdotale" e ha invitato a elevare "molte preghiere per i presbiteri, perché continuino a guidarci e a mostrarci le vere vie che ci conducono al Signore".
In un forum dello stesso gruppo intitolato "Sacerdoti abusatori?" si legge: "Quando ero un bambino, senza coscienza, senza libertà, senza la possibilità di difendermi, uno di loro mi ha reso figlio di Dio, erede della Vita Eterna, Tempio dello Spirito Santo e membro della Chiesa. Non potrò mai perdonarlo per avermi fatto tanto bene".
Il testo prosegue in tono ironico: "Un altro ha insistito nella mia infanzia a inculcarmi, violando la mia volontà, il rispetto del nome di Dio, la necessità assoluta della preghiera quotidiana, l'obbedienza e il rispetto nei confronti dei miei genitori e l'amore per la mia patria, mi ha insegnato l'utopia di non mentire, non rubare, non parlare male degli altri, perdonare e tutte quelle cose che ci rendono così bigotti e ridicoli...".
"Stiamo attenti a non trattare con loro - conclude -, non diamo loro i nostri dati, non guardiamoli negli occhi, non consultiamoli su nulla, non seguiamo alcuno dei loro passi, perché corriamo il rischio, un giorno, di cadere nella loro trappola e di salvarci".


UN MARTIRE CHE HA SCONFITTO LA DITTATURA COMUNISTA - E' stato beatificato padre Jerzy Popiełuszko, il capellano di “Solidarność” - di don Mariusz Frukacz
VARSAVIA, lunedì, 7 giugno 2010 (ZENIT.org).- “Padre Jerzy era semplicemente un leale sacerdote cattolico, che difendeva la sua dignità di ministro di Cristo e della Chiesa e la libertà di tutti coloro che, come lui, erano oppressi e umiliati”. Lo ha detto l’Arcivescovo Angelo Amato S.D.B., prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, durante l’omelia per la beatificazione del sacerdote e martire polacco Jerzy Popiełuszko.
Alla solenne celebrazione, svoltasi il 6 giugno nella piazza Maresciallo Józef Pilsudski, a Varsavia, hanno partecipato i fedeli di tutta la Polonia, i membri del sindacato di “Solidarność”, le autorità civili e militari, i sacerdoti, i consacrati e le consecrate, la madre del beato, Marianna Popiełuszko, e i familiari del sacerdote martire.
“La religione, il Vangelo, la dignità della persona umana, la libertà – ha detto ancora nell'omelia mons. Amato – non erano in sintonia con l’ideologia marxista. Per questo, contro di lui si scatenò la furia omicidia del grande mentitore, nemico di Dio e oppressore dell’umanità, di colui che odia la verità e diffonde la menzogna”.
Per la Polonia, per la Chiesa polacca e specialmente per “Solidarność” la deatificazione di padre Popiełuszko rappresenta la storia. Il ricordo di una difesa eroica dei diriti delle persone, un ritorno alle radici cattoliche del sindacato polacco.
In particolare padre Jerzy Popiełuszko ha ricordato a tutti i polacchi le tre dimensioni che hanno dato vita a ”Solidarność” e cioè la difesa e la rivendicazione della presenza della Croce di Cisto nella sfera della vita pubblica, la solidarietà sociale e la libertà.
Padre Jerzy Popiełuszko ha insegnato che bisogna essere fedeli ogni giorno allo spirito di solidarietà e al vero patriottismo di una nazione la cui identità è stata ed è profondamente cattolica.
“Il beato è il Patrono della solidarietà sociale e di tutti quelli che danno testimonianza della Verità”, ha detto a ZENIT Janusz Śniadek attuale Presidente del sindacato di “Solidarność”.
Un operaio del cantiere navale di Gdynia ha aggiunto: “La beatificazione di padre Popiełuszko è per me una vera gioia. Come sacerdote era una persona aperta a tutti, specialmente verso i poveri e verso gli operai perseguitati”.
La Santa Messa è stata concelebrata da di più 100 tra Arcivescovi, Vescovi e Cardinali. Erano presenti anche i Cardinali Wiliam Levada - prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede - Stanisław Dziwisz, Józef Glemp, Franciszek Macharski, Henryk Gulbinowicz, Adam Maida e Kazimierz Świątek, l’Arcivescovo Józef Kowalczyk, Nunzio Apostolico in Polonia, e il nuovo Primate della Polonia, l'Arcivescovo Kazimierz Nycz, Metropolita di Varsavia. Tra gli altri c'erano anche Arcivescovi e Vescovi dalla Repubblica Ceca, della Lituania, della Bielarussia, dell’Ucraina.
Prima della Messa la preghiera del rosario è stata presieduta dalla madre del beato, Marianna Popiełuszko.
L’Arcivescovo Angelo Amato durante l’omelia ha sottolineato che padre Popiełuszko “con le sole armi spirituali della verità, della giustizia e della carità, cercò di mantenere e testimoniare la libertà della sua coscienza di cittadino e di sacerdote”.
“Ma l’ideologia malefica non sopportava lo splendore della verità e della giustizia – ha affermato il Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi –. Per questo l’inerme sacerdote fu spiato, perseguitato, catturato, torturato e, come ultimo scempio, incaprettato e, ancora agonizzante, buttato in acqua. I suoi carnefici, che non rispettavano la vita, non rispettarono nemmeno la morte. Lo abbandonarono, come si abbandona la carcassa di un animale. Fu ritrovato solo dopo dieci giorni”.
Il Prefetto del Dicastero vaticano ha sottolineato che “il sacrificio del giovane prete non fu una sconfitta. I suoi carnefici non potevano uccidere la Verità. La tragica morte del nostro martire, infatti, fu l’inizio di una generale conversione dei cuori al Vangelo. La morte dei martiri è infatti il seme per i cristiani”.
L’Arcivescovo Amato ha ricordato le parole del Papa Benedetto XVI, secondo cui padre Popiełuszko “vinse il male col bene fino all’effusione del sangue”.
Dopo la Messa di beatificazione le reliquie di padre Popiełuszko sono state portate in processione per 14 chilometri fino al Tempio della Divina Providenza, nella zona di Wilanów.
Padre Jerzy Popiełuszko era nato il 14 settembre 1947 a Okopy, nel voivodato nordorientale di Białystok, in una famiglia rurale profondamente cristiana.
Entrato nel 1965 nel Seminario maggiore di Varsavia, ricevette l'anno dopo l’ordine di chiamata alle armi, dovendo svolgere il servizio triennale di leva in una unità speciale, dove le autorità militari comuniste svolgevano opera di indottrinamento antiecclesiale e antireligioso per distogliere i seminaristi dalla loro vocazione. Fu oggetto di vessazioni e persecuzioni, che indebolirono il suo stato di salute.
Venne ordinato sacerdote il 28 maggio 1972 dal Cardinale Stefan Wyszyński, Primate della Polonia. Scelse il motto della sua vita sacerdotale, riprendendo le parole del profeta Isaia e del Vangelo di Luca: “mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati”.
Dopo la proclamazione della legge marziale, nel 1981, padre Popiełuszko si impegnò nella celebrazione delle “Messe per la Patria”, nelle cui omelie affrontava temi religiosi e spirituali ma anche questioni di attualità, di carattere sociale e politico-morale, illustrando i documenti fondamentali della Dottrina sociale della Chiesa e gli insegnamenti al riguardo di Giovanni Paolo II e del Cardinale Stefan Wyszyński.
Il 19 ottobre 1984 venne sequestrato da funzionari dei Servizi di Sicurezza del regime e assassinato. Ai suoi funerali parteciparono più di mille sacerdoti e centinaia di migliaia di fedeli.
Sulla sua tomba presso la Chiesa di San Stanislao Kostka nella zona di Żoliborz a Varsavia (dal 1984 fino a 2010) hanno pregato 18 milioni di pellegrini in gruppi organizzati.
In 26 anni i polacchi provenienti da 7.512 tra città e paesi sono venuti a pregare sulla tomba di padre Popiełuszko. Trecentodiecimila sono stati i pellegrini stranieri provenienti da 134 paesi.
Fra le persone che hanno visitato e pregato sulla tomba del sacerdote martire ci sono stati: il Santo Padre Giovanni Paolo II (14 giugno 1987), il Cardinale Joseph Ratzinger (oggi Benedetto XVI), il Cardinale Jean-Marie Lustiger l’Arcivescovo di Parigi, l’ex Presidente degli Stati Uniti George Bush, Margaret Thatcher, già Primo ministro britannico, Vaclav Havel, Presidente della Repubblica Ceca, Giulio Andreotti, Primo ministro d’Italia.
Secondo un sondaggio fatto da CBOS (il Centro di Ricerca dell'Opinione Pubblica) prima della beatificazione l’80% dei polacchi adulti dichiarava di conoscere padre Jerzy Popiełuszko e per il 78% degli intervistati la beatificazione di padre Popiełuszko ha una dimensione e un significato di carattere nazionale.
La commemorazione liturgica del beato padre Jerzy Popiełuszko, secondo le volontà di Benedetto XVI, sarà celebrata il 19 ottobre.


I SEGNI DI LIBERAZIONE - Nel caso della possessione diabolica, le prime volte il Demonio dice all'esorcista: "lo qui sto bene!", "Non me ne andrò mai" - Carlo Di Pietro – dal sito Pontifex.roma.it
Nel caso della possessione diabolica, le prime volte il Demonio dice all'esorcista: "lo qui sto bene!", "Non me ne andrò mai", "Tu non puoi niente contro di me!". Poi comincia a dire: Tu mi hai vinto!", "Non ne posso più!". Altre volte il Demonio, sentendosi incapace di resistere alle preghiere dell'esorcismo, invoca aiuto; ossia invoca che altri Demoni vengano ad aiutarlo. Molte volte mi è-capitato di sentire il Maligno invocare l'aiuto delle persone che avevano fatto il maleficio (e così si è saputo anche chi è stato a colpire quei poveretti). I Demoni chiedevano che con preghiere (a Lucifero, naturalmente; preghiere che quelli che fanno il maleficio conoscono molto bene) che il loro potere malefico che stava per cedere, venisse rafforzato. Spesso, a tale scopo, chiedono celebrazioni di Messe Nere che hanno una grande potenza malefica. Altro segno: il Demonio cerca di comunicare alle persone colpite i suoi stessi sentimenti. ...

... Avvicinandosi la liberazione, il Demonio vede che la sua resistenza è inutile e la persona colpita pensa: "E' inutile che io vada a farmi esorcizzare; per me è tutto inutile!". Oppure ha la convinzione: "L'esorcista non ha capito niente, io ho bisogno del manicomio!". (Notate bene: i veri matti non credono mai di essere matti!).

Per cui il colpito si scoraggia e dice: "Non vado più a ricevere esorcismi!". Diversi sono i casi di persone che, quasi alla vigilia della loro liberazione, hanno cessato di venire Perché convinte che ormai per loro non c'era niente da fare e che gli esorcismi erano inutili.

Altri segni di liberazione: un pianto dirotto (sono lacrime liberatorie), battere forte i denti e con velocità, irrigidirsi come un cadavere, tanto da sembrare come morto. Spesso capita questo: mentre nelle comuni malattie il malato migliora a mano a mano fino alla guarigione, qui avviene il contrario, ossia la persona colpita sta sempre peggio e, quando proprio non ne può più, avviene la guarigione. Non è così tutte le volte, ma questo è il caso più frequente. Dopo la liberazione è molto importante che la persona liberata non trascuri tutte le sue preghiere, la Messa e la Santa Comunione quotidiana, un serio impegno di vita cristiana. E ogni tanto fa bene a chiedere ancora qualche benedizione Perché il Demonio cerca sempre di ritornare.

Molte ricadute sono causate dalla diminuzione o dall'abbandono della preghiera e della S. Messa con la Comunione quotidiana o, peggio, Perché si ritorna a peccare. Allora in tale situazione è molto più difficile giungere alla liberazione Perché il Demonio (come ci dice il Vangelo di Matteo 12,43 - 45) ritorna con altri sette spiriti peggiori di lui. Perciò attenti a non ricadere! [Tratto da un testo di don Pasqualino Fusco]
Carlo Di Pietro


Ci mancava la Papessa...- Lunedì 07 Giugno 2010 - Enzo Pennetta dal sito: libertà e persona
Dopo l’Ipazia, da qualcuno definita “illuminista”, portata sul grande schermo con il film Agorà, è adesso la volta del film La Papessa del regista Sonke Wortmann. In attesa di una eventuale prossima uscita di Pippo Pluto e Paperino in Vaticano possiamo goderci quest’ultima mega produzione europea la quale propone un falso medievale piuttosto grossolano che fu messo in giro dalla nobiltà antipapista tedesca per cercare di screditare il papato in un momento in cui esso rivendicava la sua indipendenza dal potere politico. La vicenda venne nei secoli successivi ripresa da vari autori tra i quali Boccaccio e il Belli, la storia che viene raccontata è quella di una donna che riesce ad entrare in seminario e a percorrere tutti i gradi delle gerarchie ecclesiastiche fino a farsi eleggere papa nel’anno 855 col nome di Giovanni VIII. Peccato però che nell’855 venne eletto papa Benedetto III che regnò fino all’anno 858, e non il presunto ...

... Giovanni VIII che sarà realmente eletto nell’anno 872.

Con l’uscita di questa pellicola un pubblico già logorato ai fianchi dalla saga di Dan Brown, colpito allo stomaco dall’uccisione della bella Ipazia, potrebbe pericolosamente barcollare sotto il peso di una papessa medievale che si fa beffe del collegio cardinalizio e finisce per di più uccisa dai cattolici proprio come la sfortunata collega filosofa di Alessandria.

Ma sorprendentemente una “papessa” è esistita veramente, però è una figura che non essendo cattolica risulta molto meno appetibile dai media, tanto che quando si è parlato di uno scandalo che l’ha riguardata lo spazio dedicato è stato un classico trafiletto. Il 24 febbraio 2010 compariva sui quotidiani la notizia che la presidente della Chiese evangeliche tedesche, la cinquantaduenne Margot Kaessmann, eletta “papa” nel 2009 era stata denunciata dalla polizia di Hannover con l’accusa di guida in stato di ubriachezza. Il giorno dopo la Kaessmann rassegnava le dimissioni ponendo fine alla sua esperienza di papessa durata solo quattro mesi.

La realtà spesso è meno avvincente della fantasia, le Chiese evangeliche tedesche poi non interessano quanto la chiesa Cattolica, fortunatamente non vedremo sullo schermo la storia della papessa ubriaca.
Enzo Pennetta dal sito: libertà e persona


Il cancro dell'intellettualismo - Pigi Colognesi - lunedì 7 giugno 2010 – ilsussidiario.net
Un lettore mi ha chiesto di approfondire il significato dell’espressione «cristianesimo intellettuale» che ho usato nell’editoriale della scorsa settimana.
Anzitutto va detto che l’intellettualismo non è una malattia che ha infettato soltanto il cristianesimo. È un’epidemia che ha intaccato gli strumenti di comunicazione e le aule scolastiche, i talk show e i chiostri universitari, il dibattito politico e le discussioni più intime.
Sostanzialmente si tratta di una operazione per cui si toglie ai sentimenti, ai pensieri, agli atti di volontà (e alle parole che li esprimono) ogni peso di concretezza e ogni realtà di avvenimento. Resta solo la buccia vuota, con la quale si ritiene di poter giocare a piacimento, perché tanto non “succede” niente. Ecco, l’intellettualismo è quel modo di pensare, di sentire, di agire (e conseguentemente di parlare) in cui non succede mai niente.
L’ha descritto con parole definitive Péguy: «Vi è un’immensa turba di uomini che sente attraverso sentimenti bell’e fatti, nella stessa proporzione in cui vi è un’immensa turba di uomini che pensa secondo idee bell’e fatte, e nella stessa proporzione vi è un’immensa turba di uomini che agisce secondo volontà bell’e fatte».
È un «intellettualismo universale», cioè una «pigrizia universale che consiste nel servirsi sempre del bell’e fatto». E così non accade mai niente; perché succede qualcosa solo se ci si imbatte e paragona con “qualcosa” che avviene al di fuori di sentimenti, pensieri, volontà già acquisiti. Qualcosa che ferisce, richiede un approfondimento, spinge a cambiare. Le idee bell’e fatte sono fatte da qualcuno. Dal potere che le sforna in continuazione perché si nutre di quella «pigrizia universale».
Veniamo all’intellettualismo specificamente cristiano. Come mai la povera reliquia del velo della Madonna giace abbandonata in una cappella laterale di Chartres? Perché sul fatto sempre nuovo della fede di un popolo che cammina è prevalso il dogma positivista della corretta analisi storica. Che nel tempo può essere sostituito da quello della morale eretta a criterio ultimo per valutare la religione o da quello della religione stessa interpretata come supplemento sentimentale delle nostre aride vite. Sempre e comunque un’idea bell’e fatta, estranea alla vitalità dinamica dell’avvenimento cristiano
L’intellettualismo toglie al cristianesimo la concretezza carnale, lasciandogli solo la magra evanescenza di una idea. Per questo, notava con orrore Péguy, una rocciosa litania della Madonna come turris eburnea (torre d’avorio) può essere tradotta con l’esangue e moralistico «modello di purezza». Per questo assistiamo a liturgie in cui dilaga la spiegazione “simbolica”, velo troppo trasparente sotto il quale si vede chiaramente la nudità imbarazzante del fatto che concretamente si pensa che non stia succedendo niente e si sostituisce il vuoto con ingiunzioni precettistiche. Si potrebbe continuare a lungo.
Il cristianesimo intellettualistico non regge il confronto col tempo; prima si dissecca e poi, come una crosta, si stacca dalla pelle, lasciando un segno passeggero che subito scompare. Il cristianesimo come avvenimento resta invece infitto nella profondità dell’essere.
Me l’ha scritto un’altra lettrice dell’ultimo editoriale. Ricordava il piccolo santuarietto della Madonna che sorge a fianco del cimitero del suo paese, quel santuario dove andava a giocare, mentre i grandi dicevano il rosario, durante il mese di maggio; quello che visitava alla festa dei morti o raggiungeva a piedi nelle sere d’estate.
“Quella” Madonna (non un’idea, ma un fatto), anche dopo una vita coi suoi alti e bassi, coi suoi dolori ed errori, col suo desiderio di compimento, “quella” Madonna «non invecchia mai».


PAPA/ Magister: a Cipro la "sapienza" di Benedetto ha unito oriente e occidente - INT. Sandro Magister - lunedì 7 giugno 2010 – ilsussidiario.net
«Questo Papa ha metaforicamente piantato una nuova croce in quelle terre». Ilsussidiario.net ha fatto con Sandro Magister, vaticanista de L’Espresso, un bilancio del viaggio di Benedetto XVI a Cipro. Una terra difficile, tra Europa e Asia, teatro di uno degli ultimi muri oggi ancora in piedi. Alla ricerca, dice ancora Magister, «di una “sapienza naturale” che può costituire un “alfabeto” parlato contemporaneamente dall’occidente e dal mondo islamico».
Qual è il significato storico di questo primo viaggio di un pontefice a Cipro?
Una valutazione complessiva è legata al fatto che Cipro è innanzitutto un simbolo dei primi tempi del cristianesimo e del diffondersi della Chiesa nell’ecumene del mondo allora conosciuto. Oggi rimane un crocevia tra Asia ed Europa, tra oriente e occidente. Rappresentato il primo dalle grandi chiese dell’ortodossia separate da Roma, e segno - attraverso la chiesa cattolica che ha sede a Cipro - del cammino ecumenico che attende la Chiesa di Roma.
È questo che spiega il grande valore della consegna dell’instrumentum Laboris in vista del prossimo Sinodo per il Medio oriente, in autunno prossimo?
Certamente. Le chiese cristiane che vivono all’interno di un mondo che era quello cristiano delle origini, e che oggi lo è solo nella misura in cui queste presenze continuano a essere vive, fanno di quelle comunità un «libro aperto» davanti agli occhi del mondo. Per la Chiesa il futuro di queste terre è legato alla presenza di queste popolazioni cristiane, minoritarie ma straordinariamente significative.
A proposito delle ultime tensioni in Medio oriente, il Papa ha detto che di fronte alla violenza «la soluzione è la pazienza del bene». È un messaggio più religioso o più politico?

È un concetto che Benedetto XVI ha ribadito anche in altre occasioni. Dalla Chiesa non c’è da attendersi, come sua espressione originale, un progetto politico, una soluzione riguardante gli equilibri internazionali, perché la sua ragione d’essere è l’annuncio del Vangelo. Questo Papa ha metaforicamente piantato una nuova croce in quelle terre. Non è un caso che sia stato lo stesso Benedetto XVI a dire che il viaggio a Cipro è una continuazione del viaggio del 2009 in Terra santa. Ha dedicato un’intera omelia alla croce, vera e unica via di salvezza e di liberazione dal male.
Un messaggio che va al di là delle salvezze provvisorie tipiche del terreno politico.
Sì ed è per questo che ha così insistito sulla virtù della pazienza. Che non è un atteggiamento rinunciatario, in attesa di qualcosa portato da chissà chi, ma il saper riconoscere che nella storia agisce un principio di salvezza che viene dall’alto, e che è quello che rende non sterile il lavoro che l’uomo fa per cercare di migliorare la vita sulla terra.
Altro tema centrale è stato quello del dialogo. Come lo ha affrontato Benedetto XVI?
In un discorso poco notato dai media, quello pronunciato sabato davanti al corpo diplomatico, c’è un passaggio molto interessante relativo al rapporto coi musulmani. È là dove il papa parla delle radici generali della sapienza politica, che risalgono a Platone e Aristotele. Anche l’islam ha fatto riferimento a queste due figure capitali del pensiero greco nell’ispirare la sua visione del mondo. È un richiamo importante, perché si riferisce a un periodo del pensiero musulmano che oggi si è inaridito, quello in cui la cultura musulmana guardava e recepiva con grande apertura gli apporti della sapienza greca, risultati determinanti per l’occidente.
Dove sta l’importanza di questo rilievo?
La tesi è: l’islam non è strutturalmente incapace di trovare un terreno comune con l’occidente, perché quel precedente storico dimostra che l’incontro è avvenuto. Secondo Benedetto XVI esiste una “sapienza naturale” che può costituire un “alfabeto” parlato contemporaneamente dall’occidente e dal mondo islamico.
Sempre nel discorso al corpo diplomatico, il Papa ha detto che «promuovere la verità morale nella vita pubblica esige uno sforzo costante per fondare la legge positiva sui principi etici della legge naturale». Che senso ha questo richiamo fatto sulla base di termini che potremmo definire ormai “estranei” al mondo della cultura?

È il fondamento di quella “sapienza”. Cipro è il simbolo dell’incontro tra la cultura greca, il potere e la legge di Roma e la fede di Gerusalemme. Il papa si è trovato nell’opportunità di riandare agli elementi costitutivi comuni della nostra civiltà, che possono consentire, con la sapienza e la pazienza necessaria, di affrontare in modo costruttivo quelle divisioni di cui ancora Cipro purtroppo è un grande segno, reso manifesto dal muro che l’attraversa.
Il papa è arrivato a Cipro in un momento non facile, dopo il blocco da parte di Israele degli aiuti a Gaza e dopo la morte in Turchia del vescovo Padovese. Quanto secondo lei questi fattori hanno pesato sul viaggio?
La mia impressione è che la Chiesa e il Papa abbiano fatto di tutto per non farsi “imprigionare” da questo fatto tragico. Benedetto XVI ha tentato, è vi è in larga parte riuscito, a non legare l’esito di un messaggio che si vuole per il futuro, non solo immediato, alle vicende di un giorno. Che a loro volta restano però emblematiche, e non va dimenticato, di una situazione generale nella quale si trovano i cristiani di queste terre. Tutti i cristiani che vivono in Medio oriente sanno di essere continuamente esposti al pericolo a causa della loro fede, e la loro testimonianza è legata ogni volta ad una scelta coraggiosa.
Il Papa ha rinnovato l’appello alla comunità internazionale a intervenire in Terra santa contro la violazione dei diritti umani e del diritto internazionale di cui sono vittime i palestinesi. Quanto può contare il richiamo della Chiesa?
Dal punto di vista politico, il ruolo che possono svolgere la Chiesa e il Papa è a mio giudizio modesto. Sono decenni che la Chiesa si esprime sul dramma israelo-palestinese, l’ascolto di questi appelli è minimo e la capacità di incidere, purtroppo, è altrettanto ridotta. La Chiesa ha un ruolo minore, come è ormai minore il ruolo dei cristiani in quelle terre. Non è tanto una ricetta politica che la Chiesa è in grado di offrire, ma le ragioni di una speranza che vale per tutti gli attori politici disponibili a prendere sul serio la posta in gioco della pace.


IL CASO/ Una società pro aborto inglese usa i fondi pubblici per "aiutare" i cinesi a non aver figli - Gianfranco Amato - lunedì 7 giugno 2010 – ilsussidiario.net
Lo scorso lunedì 24 maggio si sono accese le luci della ribalta su Marie Stopes International a causa degli spot pubblicitari abortisti andati in onda sulla rete televisiva britannica Channel 4. Per capire di più chi siano questi signori che amano ispirarsi al razzismo eugenetico di Marie Stopes, è sufficiente dare un’occhiata al sito ufficiale della fondazione.
Sono rimasto letteralmente basito, infatti, quando ho scoperto che i seguaci della paleobotanica di Edimburgo, foraggiati dal governo britannico a fior di milioni di sterline, hanno una prestigiosa ed elegante sede a Pechino, presso il quartiere Chao Yuan, al n.172 della Bei Yuan Road.
Sono già cinque le cliniche di MSI che si vantano di avere come “major partner” strutture pubbliche cinesi, tra cui le Commissioni della Pianificazione Demografica dello Jiangsu, dello Xian, dello Henan, nonché il Centro Distrettuale per il Controllo delle Malattie di Qingdao Shinan, l’Ufficio Sanitario della città di Baoshan, l’Ufficio Provinciale per l’Educazione e la Prevenzione dell’Aids del Guangxi e l’Ufficio Provinciale per il Problema dell’HIV dello Yunnan.
I programmi futuri di MSI prevedono, tra l’altro, l’apertura di tre nuove cliniche nel Dongsuan e nello Zhengzhou, la consulenza alle cliniche gestite dalla Commissione della Pianificazione Demografica del Guizhou, e l’organizzazione di corsi di educazione sessuale nelle scuole per bambini di lavoratori immigrati nella città di Pechino.
Quale sia il core business di Marie Stopes International in quello che fu il Celeste Impero è presto detto: jihua shengyu, ovvero programma di pianificazione delle nascite. MSI nel suo sito traduce il termine cinese con “family planning”, ma è mera mistificazione. In Cina è lo Stato che pianifica le nascite e non le famiglie. E lo jihua shengyu in quel Paese ha un suono sinistro perché è sinonimo di sterilizzazione e aborto forzati.
Mentre Amnesty International denuncia al mondo civilizzato gli orrori della politica demografica cinese e le relative violazioni dei diritti dell’uomo, Marie Stopes International si vanta di essere la prima Ong presente in Cina per cooperare con il governo comunista alla piena realizzazione della sua disumana politica demografica.
Mentre dal 1998 una legge degli Stati Uniti, promossa grazie all’iniziativa del deputato repubblicano Chris Smith, vieta l’ingresso negli USA ai funzionari del partito comunista cinese addetti alla pianificazione delle nascite, in quanto persone non gradite, Marie Stopes International li annovera fra i suoi “major partner”. Mentre quella stessa legge statunitense prevede permessi speciali di asilo politico per le vittime degli aborti e delle sterilizzazioni forzate, Marie Stopes International si pregia di essere coprotagonista di quelle aberrazioni eugenetiche. In piena sintonia, peraltro, con lo spirito della fondatrice.

Non c’è abbastanza spazio per descrivere le atrocità della politica demografica cinese. A chi voglia approfondire il tema consiglio caldamente il libro intitolato Strage di Innocenti, scritto da Harry Wu, che ho avuto l’onore e il piacere di incontrare personalmente durante la scorsa edizione del Meeting di Rimini.
Il titolo originale del libro è Better Ten Graves Than One extra Birth (Meglio dieci tombe che una nascita fuori piano), uno degli slogan in voga nella provincia di Henan, la cui Commissione per la Pianificazione Demografica è considerata, con vanto, da Marie Stopes International una “major partner”. Del resto, non abbiamo dubbi sul fatto che la stessa MSI concordi, in linea di principio, con gli altri slogan governativi del tipo «Alleva meno bambini e più maiali», «Un altro bambino significa un’altra tomba», e amenità simili.
L’ultimissima atrocità è stata denunciata dal londinese Times lo scorso 17 aprile con un articolo di Jane Macartney intitolato «La Cina tenta di sterilizzare 10.000 genitori in virtù della legge sul figlio unico». Lo scenario descritto in quell’articolo è impressionante.
Alcuni medici nel sud della Cina hanno lavorato giorno e notte per soddisfare l’obiettivo del governo di sterilizzare - con la forza se necessario - quasi 10 mila uomini e donne che avevano violato le politiche di controllo delle nascite. Le autorità addette alla pianificazione delle nascite sono arrivate al punto di fermare le coppie che avevano messo al mondo più figli rispetto a quanto previsto dalla legge, e a trattenere i familiari di coloro che resistevano alla sterilizzazione.
Circa 1.300 persone sono state rinchiuse in spazi angusti nella città di Puning, nella provincia del Guangdong, mentre i funzionari locali hanno fatto pressioni sulle coppie che avevano avuto figli illegali, per costringerli a sottoporsi al processo di pianificazione demografica. La campagna è durata 20 giorni, nei quali si è proceduto alla sterilizzazione di 9.559 persone nella sola Puning. Per avere un’idea di cosa sia successo, il Times racconta di un medico del villaggio di Daba che, assistito dal proprio team, è stato costretto a operare, quotidianamente e a pieno regime, a partire dalle 8 del mattino fino alle 4 del mattino del giorno successivo.
Lizhao Zhang, trentottenne, padre di due figli di età compresa tra 6 e 4 anni, ha raccontato di essersi precipitato a casa per sottoporsi alla sterilizzazione verso tarda notte, dopo un giro d’acquisti di nespole per la sua impresa di frutta all’ingrosso, e di aver saputo che il proprio fratello maggiore era stato trattenuto dalle forze dell’ordine. Sua moglie si era già presentata ai poliziotti per consentire che il fratello venisse liberato.
Zhang ha raccontato: «Mia moglie mi ha chiamato e mi ha detto che la stavano costringendo a farci sterilizzare oggi. Ha supplicato la clinica di attendere perché aveva il ciclo mestruale, ma le hanno riferito che non avrebbero aspettato un solo giorno. Ho chiamato e chiesto loro di pazientare, ma hanno replicato con un secco no. Così mi sono affrettato a tornare. Sono fortunato perché ho due figli».
Migliaia di altri sfortunati cittadini di Puning hanno rifiutato di presentarsi e i funzionari hanno continuato a tenere in ostaggio i loro parenti, compresi i genitori anziani, per costringere i riluttanti a sottoporsi ad intervento chirurgico. Gli ostaggi, tra l’altro, sono stati obbligati ad ascoltare le lezioni sullo jihua shengyu e sulla normativa in materia di pianificazione demografica.
Lo scorso 10 aprile il quotidiano cinese The Southern Countryside Daily ha riferito che circa 100 persone, per lo più anziani, sono state trattenute in un locale malsano non più grande di 200 metri quadri. Il giornale ha così descritto la scena: «C’erano alcune stuoie sul pavimento, ma l’ambiente era troppo piccolo per tutte le persone e non vi era sufficiente spazio per sdraiarsi e dormire, così i giovani hanno dovuto stare in piedi o accovacciati. A causa della mancanza di coperte, molti si rannicchiavano per combattere il freddo». Tra queste persone trattenute vi era il padre sessantottenne di Ruifeng Huang, che ha tre figlie e che si era rifiutato di presentarsi per la sterilizzazione obbligatoria.
Un funzionario dell’Ufficio di Pianificazione demografica di Puning, che si è coperto dietro l’anonimato, ha riferito al Times: «Non è raro che l’autorità della pianificazione demografica adotti alcune tattiche dure». A volte si utilizzano anche altri metodi dissuasivi. Per esempio, le coppie con figli illegali e i loro parenti che richiedono i permessi per costruire una casa vedono le loro pratiche respinte, mentre per i figli illegali è prevista la mancata registrazione all’anagrafe, con la conseguente perdita del diritto all'assistenza sanitaria e all'istruzione. Le autorità sul controllo demografico - quelle con cui Marie Stopes International si vanta di collaborare - hanno scoperto, tuttavia, che tali metodi dissuasivi sono assai meno efficaci del sequestro dei parenti.
Ecco, questo è il contesto in cui meglio opera, a proprio agio, Marie Stopes International. Un’organizzazione che riceve contributi dall’erario britannico, la quale ha realizzato uno spot pubblicitario pro-aborto con fondi dell’erario britannico, e che ha utilizzato per tale reclame una rete televisiva sovvenzionata dall’erario britannico. Se fossi un contribuente di Sua Maestà avrei certamente qualcosa da ridire.


Avvenire.it, 8 giugno 2010 - Coraggio e pazienza: l’insegnamento del Papa nei giorni della visita a Cipro - La tela da ritessere di Mimmo Muolo
I viaggi di Benedetto XVI, al di là del loro grande valore pastorale, si stanno rivelando un utile strumento per approfondire la conoscenza del pensiero e della personalità del Pontefice. È accaduto anche nella tre-giorni di Cipro, una visita che aveva all’inizio diversi fuochi d’interesse (pace in Medio Oriente e presenza dei cristiani, rapporto con gli ortodossi, dialogo con i musulmani i tre sicuramente preminenti), e che proprio nei giorni della vigilia si era colorata di tinte inopinatamente fosche a causa dell’attacco israeliano alle navi degli attivisti filo-palestinesi e dell’omicidio di monsignor Luigi Padovese.

Invece, una volta di più, Papa Ratzinger ha dimostrato di avere, di fronte alle acque agitate della cronaca, la fermezza propria di chi è stato chiamato a governare con saggezza la barca di Pietro. Non solo ha raccomandato di seguire la rotta della pace, della riconciliazione e del dialogo in tutti gli incontri della fitta agenda del viaggio.

Ma ha anche fornito la bussola sicura per far sì che da quella rotta non ci si allontani anche quando il barometro dei rapporti tra i popoli e le religioni – e, putroppo, continua ad accadere – si mette a tempesta. «Bisogna avere il coraggio e la pazienza di ricominciare sempre di nuovo», ha detto ai giornalisti nella consueta conferenza stampa tenuta sull’aereo durante il volo di andata. Più che una semplice esortazione, una regola d’oro che offre la cifra interpretativa non solo del viaggio, ma anche di tutte le bufere che questo pontificato ha attraversato in poco più di cinque anni. In sostanza, quasi capovolgendo la famosa immagine della tela di Penelope, Benedetto XVI invita a ritessere alla luce della retta ragione quello che altri distruggono e disfano nelle ombre di inumane passioni.

Lo dice naturalmente in primis ai cristiani, ma con loro anche a tutti gli uomini di buona volontà, a partire da quelli che operano negli organismi politici nazionali e internazionali. Mai pensare che di fronte alla violenza, anche la più ingiusta ed efferata, nulla ci sia da fare. Al contrario, le vie della pace, proprio come quelle di Dio, sono infinite. Un messaggio, questo, che da Cipro risuona innanzitutto sulle vicine sponde del Medio Oriente martoriato.

Ma che si può applicare anche ai rapporti cattolico-ortodossi, alla ricerca della difficile soluzione della questione cipriota, al dialogo non sempre agevole con l’islam. Pazienza e coraggio, dunque, per ricominciare a trattare, per fermare il bagno di sangue, per promuovere la pacifica convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani. Pazienza e coraggio per non arrendersi di fronte alle «gelate» (che pure ci sono state e non molto tempo orsono) del cosiddetto «inverno ecumenico». Pazienza e coraggio, infine, per ricordare a tutti (musulmani compresi) che i diritti umani hanno valore universale. E che, tra di essi, la libertà di religione e di coscienza non sono certamente degli optional.

Per Benedetto XVI queste non sono solo parole. Egli per primo ha mostrato di crederci a tal punto da applicarle anche quando per fraintendimenti causati in gran parte dai media (discorso di Regensburg e conseguente crisi con gli islamici, remissione della scomunica ai lefebvriani e problemi con gli ebrei) o per colpe altrui (questione dei preti pedofili) ha dovuto ritessere da capo rapporti e ricentrare attenzioni. Le stesse parole pronunciate sull’omicidio di monsignor Padovese si iscrivono in questo contesto. Cioè nella profonda convinzione di un uomo del Vangelo che ha in Cristo la vera pace e non si stanca di annunciarla al mondo, vivendola ogni giorno. Anche quando le vicende della vita costringono a ricominciare da capo. Con coraggio e pazienza.
Mimmo Muolo