domenica 6 giugno 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) La ragione e il bene comune - L'Osservatore Romano - 6 giugno 2010
2) Caterina a Loreto…- da http://www.antoniosocci.com - Antonio Socci - da “Libero”, 5 giugno 2010
3) IL PAPA: LA CHIESA HA BISOGNO DEI TESORI DELL’ORIENTE E DELL’OCCIDENTE - Nel discorso tenuto nella Cattedrale di Nicosia - di Mirko Testa
4) Anche a Cipro il papa porta la sua croce. Con letizia - Tutti la meritiamo per i nostri peccati, spiega. Ma grazie a Gesù, agnello innocente, essa è divenuta la speranza del mondo, la definitiva rivincita su tutti i mali. L'omelia della sera di sabato 5 giugno 2010 a Nicosia - di Benedetto XVI
5) LA TERAPIA PIÙ EFFICACE È QUELLA DELL’AMORE - Intervista alla Presidente della Quercia Millenaria, Sabrina Pietrangeli - di Massimo Losito
6) L’omicidio di mons. Padovese e il “solito” pazzo “isolato”… - L’assassino è stato dichiarato instabile psicologicamente, ma la Turchia negli ultimi anni (e ancora più indietro, ricordate un certo Ali Agca?) sembra diventata la patria dei pazzi che guarda caso prendono di mira proprio i religiosi cristiani, tentando di ammazzarli. Mi hanno colpito le parole dell’arcivescovo di Smirne, Ruggero Franceschini, che dopo l’accoltellamento di un frate francescano, nel 2007, aveva detto: “Ancora una volta diranno che questo è un atto di un pazzo. Ma allora dobbiamo ammettere che da un anno e mezzo circa in Turchia gli atti da matto sono notevolmente aumentati, guarda caso contro i religiosi cristiani stranieri”. – per approfondire si riporta un dossier che contiene diversi articoli
7) Politica gnostica di Eric Voegelin - Come intendere bene la sostanza del fenomeno gnostico, le sue rotture col mondo della conoscenza e i canoni della realtà, nonché le ricadute sulla condotta politica attuale. La «gnosi», vera e propria malattia dello spirito, «deragliamento» rispetto alla realtà, si riaffaccia come funesta insidia per tutta l’umanità. - [Da Trascendenza e gnosticismo in Eric Voegelin, Astra, Roma 1979, pp. 143-175] – dal sito http://www.kattoliko.it
8) Corpus Domini, autentico ristoro dell'anima. Si rinforzi in noi il desiderio di adorazione eucaristica e la gratitudine verso colui che ha dato corpo e sangue per il nostro riscatto – Bruno Volpe – dal sito pontifex.roma.it
9) IL «SEGNO» CRISTIANO - PER NON PERDERSI NEI MEANDRI DI UNA STORIA SPEZZATA - LUIGI GENINAZZI – Avvenire, 6 giugno 2010
10) L’INSUFFICIENZA DELLE POLITICHE REGIONALI (CON ECCEZIONI) - La maternità valore sociale: unica via per sostenerla davvero - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 6 giugno 2010
11) Suor Mainetti, 10 anni dopo Il chicco ha portato frutto - DA COMO ENRICA L ATTANZI – Avvenire, 6 giugno 2010


La ragione e il bene comune - L'Osservatore Romano - 6 giugno 2010
Da Cipro il Papa lancia alla comunità internazionale un nuovo e forte appello alla ragione. Con uno scopo che può essere compreso e accettato da tutti, al di là di ogni divisione: servire il bene comune. E questo in un Paese diviso innaturalmente e sulle soglie di una regione - il Vicino e il Medio Oriente - segnata da conflitti che sembrano non avere fine e costituiscono un pericolo permanente per la pace mondiale. Con la conseguenza gravissima di allargare l'abisso dell'odio e di mettere a rischio l'esistenza stessa di antichissime Chiese cristiane, proprio là dove il cristianesimo è nato e si è sviluppato nei primi secoli.
Non si deve scambiare il pacato ragionare di Benedetto XVI per un esercizio teorico e sterile di raffinata intellettualità. Al contrario, si tratta di parole che risuonano con immediata concretezza nel drammatico scenario della Terra santa - e Cipro vi appartiene da sempre - e dell'intero Medio Oriente. Parole basate su principi di cui erano convinti già Platone, Aristotele e gli stoici, ripresi nel medioevo da filosofi islamici e cristiani, come ha voluto ricordare il Papa con una sottolineatura carica di significato e di implicazioni esigenti per una contemporaneità che spesso non riconosce più la tradizione culturale su cui pure è fondata.
Dopo i discorsi pronunciati nel 2006 all'università di Ratisbona e nel 2008 a New York davanti alle Nazioni Unite, questo di Nicosia ai politici e diplomatici può essere considerato la terza grande variazione di Benedetto XVI sul tema della ragione, che deve governare i comportamenti di ogni persona. Ma, in concreto, come è possibile servire il bene comune dell'unica famiglia umana e purificare la politica dagli interessi di parte? Tre sono le vie indicate dal Papa nella città che il presidente cipriota Dimitris Christofias ha definito l'ultima capitale europea ancora divisa: agire sulla base della conoscenza dei fatti reali, destrutturare le nefaste ideologie politiche che hanno disseminato di tragedie il Novecento, fondarsi sui principi etici della legge naturale.
L'appello alla fiducia e alla convivenza è risuonato nell'incontro con la comunità cattolica nella scuola maronita, una gioiosa festa inondata dal sole e scandita da preghiere, canti struggenti, musiche (anche di Mikis Theodorakis) e danze coloratissime di bambini. In una celebrazione della memoria che ha reso percepibile, con efficacia toccante, l'anima di un popolo allontanato dai suoi villaggi, i cui nomi sono stati ricordati da Benedetto XVI. Proprio il sostegno a queste piccole comunità è il motivo primo della visita del Papa che, parlando ai cattolici ciprioti, si è di fatto rivolto a quelli in tutto il Medio Oriente per esortarli a ricercare l'unità nella carità con gli altri cristiani e al dialogo con gli appartenenti alle altre religioni per creare fiducia.
Dunque non a caso gli stessi accenti sono ritornati nell'incontro con l'arcivescovo Crisostomo II, che oggi guida una delle Chiese ortodosse più antiche e autorevoli. Questa Chiesa, talmente legata alle sorti del popolo di Cipro che nel 1960, ottenuta l'indipendenza, il suo capo religioso - Macario III, alla cui memoria il Papa ha reso omaggio - ne divenne anche il primo presidente, si è impegnata con decisione nel dialogo ecumenico. In questo le è vicina quella sorella di Roma, per contribuire alla costruzione di una società che rispetti ogni diritto, inclusi quelli alla libertà di coscienza e di culto. Come ha mostrato a tutti l'abbraccio di Benedetto XVI e Crisostomo II, che ha ricordato quello a Gerusalemme tra Atenagora e Paolo VI.
g. m. v.
(©L'Osservatore Romano - 6 giugno 2010)


Caterina a Loreto…- da http://www.antoniosocci.com - Antonio Socci - da “Libero”, 5 giugno 2010
La meglio gioventù è in cammino nella notte del nostro tempo. Sabato andrà a Loreto, verso la piccola e povera casa di Maria di Nazaret dove – con l’Annunciazione – sorse il sole che squarciò le tenebre delle nostre vite.

E’ uno spettacolo da non perdersi e i nostri media sicuramente lo perderanno.

La bella gioventù, migliaia di bei volti – l’anno scorso erano 60 mila (ripeto: sessantamila!) – in silenzio o in preghiera, sfileranno veloci nella notte fra il 12 e il 13 giugno nelle dolci campagne marchigiane verso l’abbraccio di colei che è eternamente giovane ed eternamente bella e che li aspetta, tutti, uno ad uno.

Sono le campagne di Giacomo Leopardi (Recanati e lì) e tutti questi giovani hanno nel cuore le grandi domande della sua poesia e quella sua nostalgia dell’Infinito. Che si è fatto Uomo.

Mia figlia Caterina ogni anno andava dalla Madre di Cristo, percorrendo nella notte i 32 chilometri che separano Macerata da Loreto, con i suoi amici universitari di Comunione e liberazione.

Quest’anno per la prima volta non ci sarà. Dal 12 settembre – quando il suo cuore si fermò – sta attraversando un’altra notte, ma siamo certi che anche questo cammino finirà in un bel mattino, fra le braccia della Madonna, dove tutti i destini e tutte le strade trovano la loro meta.

Lei che è la grande soccorritrice, la “Salus infirmorum” e che già ha protetto la vita di Caterina, quel 12 settembre, facendo di nuovo battere il suo cuore, la risolleverà.

Il caso vuole, peraltro, che il pellegrinaggio quest’anno si svolga proprio il 12 giugno, a nove mesi esatti dal dramma di Caterina. E che sia un sabato (giorno di Maria), come il 12 settembre, che il pellegrinaggio cominci a quella stessa ora in cui Caterina cadde “morta” in terra, le 20.30 e che sia la festa del Cuore Immacolato di Maria, al quale Caterina era affidata e al quale il Papa ha consacrato la Chiesa e l’intera umanità.

La consacrazione a Cristo

Quante volte, alla fine del lungo cammino, Caterina, a Loreto ha recitato, insieme a migliaia di amici, l’Atto di consacrazione che chiude il pellegrinaggio: l’ “Atto di Consacrazione della nostra vita a Cristo attraverso Maria, perché la Chiesa diventi sorgente di vita nuova per tutti i popoli”.

Ecco la preghiera che viene recitata dai 60 mila giovani:

“Maria, tu sei la Madre di Cristo, Madre della Comunione che Tuo Figlio ci dà, come dono sempre nuovo e potente, che è un gusto di vita nuova. Attraverso di Te noi perciò consacriamo tutto noi stessi, tutte le gioie e le sofferenze che Tuo Figlio sceglie per noi e la nostra stessa vita, affinché Tu diventi la Madre della Vita e Cristo doni a tutti gli uomini lo stesso gusto di vita nuova che ha donato a noi, Amen”.

Come non pensare che attraverso l’offerta delle loro sofferenze il Signore della storia salvi il mondo e riversi un fiume di benedizioni e di grazia sull’umanità smarrita?

E’ stato il Papa, in una sua enciclica, a ricordare che “è grazie a pochi sconosciuti che il mondo vive” e a Fatima – parlando di Giacinta e Francesco – ci ha indicato nella loro offerta di sé e della propria vita, la potentissima arma con cui Dio fa vincere l’amore sul Male che è scatenato nel mondo.

Così, anche se quest’anno a Loreto Caterina non ci sarà fisicamente, sarà portata nel cuore e nelle preghiere da tanti suoi amici che chiederanno alla Vergine di guarirla per farla tornare l’anno prossimo.

E arrivando si accorgeranno che Caterina (come ogni sofferente) c’è, misteriosamente, anche quest’anno, lì fra le braccia della Madonna, con la testa appoggiata al suo cuore….

In tanti ogni anno sono commossi da questo lungo fiume di giovinezza, da questo popolo in cammino.

E tanti, per vie sconosciute a noi, saranno colpiti, vedranno sorgere l’aurora della loro buia vita, grazie al sacrificio di chi si consacra a Cristo attraverso Maria e si offre per la salvezza del mondo. Perché è come offrirsi in riscatto per dei prigionieri, per liberare degli schiavi.

Oasi

E’ stupefacente che vi siano luoghi al mondo dove dei giovani sono educati a questo slancio verso l’infinito, dove si innamorano della Bellezza e della Purezza abbracciandoli con la scelta di una vita eroica (l’umile vita quotidiana).

Il pellegrinaggio della tradizione cristiana da secoli esprime questa sapienza antica. Ci fa capire che la vita non è un girovagare senza meta, dove quindi i passi non hanno senso e non hanno valore e la vita è inutile.

No, la vita non è un vagare annoiato nella notte, ma è un camminare lieto e certo, assieme a dei fratelli, verso una casa, verso Casa. E’ un camminare nella notte verso l’alba di un abbraccio di Madre che ti aspetta.

Tradizione che rinasce

Questo pellegrinaggio cominciò nel 1978, anno dell’elezione di Giovanni Paolo II, su proposta di don Giancarlo Vecerrica, insegnante di religione, ai suoi studenti.

Don Giancarlo, che era il sacerdote di CL a Macerata, lo propose come gesto di ringraziamento alla Madonna alla fine dell’anno scolastico. Era un’antica tradizione che si era persa nel tempo, soprattutto in quegli anni Settanta.

La prima volta parteciparono in trecento, perlopiù di Macerata. Sembravano già tantissimi. Oggi superano sessantamila, da tutta Italia. E il 19 giugno 1993 il pellegrinaggio ha avuto addirittura la visita di Giovanni Paolo II che, alla partenza del cammino notturno, consegnando la Croce, lasciò ai pellegrini questo compito:

“Ora affido a voi, cari giovani, la Croce che vi farà da guida al vostro Pellegrinaggio al santuario di Loreto. Imparate dall’esperienza di questa notte a seguire, anche sulle strade del vostro quotidiano cammino, la Croce di Cristo, nella quale è salvezza, vita e resurrezione”.

Da quel giorno quella stessa Croce ogni anno sta in cima al pellegrinaggio che si conclude in un’atmosfera davvero commovente. L’anno scorso Caterina stava proprio dietro la Croce.

Il pellegrinaggio alla casa di Maria, fra i poveri mattoni dove lei ricevette l’annuncio dell’Angelo, dove il Verbo si fece carne e venne ad abitare fra noi, è antichissimo.

Nella parte della casa di Maria rimasta a Nazaret sono stati trovati antichi graffiti di pellegrini dei primi secoli, uno dei quali, sotto il disegno di una barchetta, recita: “Siamo venuti dalla Bella Ragazza”.

In effetti tutti coloro che, nelle apparizioni moderne, da Lourdes a Medjugorje, hanno visto Maria faccia a faccia, concordano nel testimoniare che si tratta di una bellezza sconvolgente, che non ha eguali sulla terra e che perfino le più famose bellezze celebrate dai mass media sembrano misere al confronto.

La bellezza della Vergine e la sua eterna giovinezza (nelle apparizioni è sempre una ragazza sui 18 anni) non ha un significato semplicemente estetico.

Lei, unica con Gesù a essere nella gloria col suo stesso corpo di carne, preannuncia così a noi l’eterna giovinezza a cui siamo destinati con la resurrezione.

Dicevo delle due parti di quella casa di Maria perché a Nazaret c’è ancora la grotta scavata nella roccia che costituiva una parte (è contenuta nella Basilica dell’Annunciazione).

Ma appoggiata alla pietra stava un piccolo locale in muratura che è quello che dal 1294 (dopo che i crociati furono sconfitti e cacciati) si venera a Loreto.

Scienza e miracoli

La tradizione dice che fu portata in Italia dagli angeli e si è pensato finora che sotto la leggenda vi fosse in realtà la potente famiglia Angeli – o De Angelis – che avrebbe organizzato il trafugamento e il trasporto della casupola.

Tuttavia gli studi tecnici sulla struttura e i materiali della casa, che confermano la compatibilità con una provenienza mediorientale e con l’epoca di Gesù, ultimamente hanno evidenziato che la casetta, che non ha fondamenta ed è appoggiata su una pubblica via, sopra un arbusto, mai sarebbe stata smontata e rimontata e alcuni dettagli della sua comparsa in quel luogo non sono compatibili con un trasporto umano per nave.

In fondo gli angeli esistono…

Quel che conta è che lì, fra poverissime mura, cambiò la storia dell’umanità e la vita di tutti. E lì sorge il sole.
Antonio Socci - da “Libero”, 5 giugno 2010


IL PAPA: LA CHIESA HA BISOGNO DEI TESORI DELL’ORIENTE E DELL’OCCIDENTE - Nel discorso tenuto nella Cattedrale di Nicosia - di Mirko Testa
ROMA, sabato, 5 giugno 2010 (ZENIT.org).- La Chiesa non può fare a meno dei tesori delle tradizioni orientali e occidentali. Lo ha ricordato Benedetto XVI nel discorso tenuto questo sabato nella Cattedrale di Nicosia, dopo la visita a Chrysostomos II, Arcivescovo di Nuova Giustiniana e di Tutta Cipro.
Al suo arrivo in automobile il Santo Padre è stato accolto dall'Arcivescovo Chrysostomos II e dai 17 membri del Santo Sinodo della Chiesa di Cipro all'ingresso principale del Palazzo arcivescovile, che alcuni chiamano "Makarios Palace", un edificio piuttosto recente finito di costruire nel 1960, dopo la proclamazione dell'indipendenza da parte di Cipro.
Subito dopo c'è stato un colloquio privato tra i due leader religiosi.
Il Papa si è quindi recato nel giardino per visitare brevemente il monumento dedicato alla memoria di Makarios III, che fu Arcivescovo della Chiesa ortodossa autocefala di Cipro dal 1960 al 1977, guidò il suo Paese nella lotta per l'indipendenza dalla Gran Bretagna e divenne nel 1959 il primo Presidente della neonata Repubblica. E' a lui che si deve, inoltre, la firma dei rapporti diplomatici tra la Repubblica di Cipro e la Santa Sede nel 1973.
Successivamente il Papa e l'Arcivescovo ortodosso si sono recati nella vicina Cattedrale di San Giovanni risalente al 1665.
Qui l'Arcivescovo Chrysostomos II ha pronunciato un breve indirizzo di saluto ricordando che la "Chiesa di Cipro ha percorso 20 secoli di vita e di cammino storico, a partire dal 45 d.C., quando fu la prima Chiesa tra le nazioni ad essere fondata dai santi apostoli Barnaba e Paolo".
"In questo lungo periodo ha lasciato forti testimonianze di una spiritualità ricca e piena di splendore - ha aggiunto -. I santi padri della Chiesa di Cipro hanno partecipato a tutti i Concili Ecumenici e spesso hanno svolto un ruolo teologico molto attivo e decisivo".
"Inoltre - ha continuato Chrysostomos II - il Terzo Concilio Ecumenico di Efeso nel 431 d.C. attraverso il suo canone ottavo ha riconosciuto l'autocefalia della Chiesa di Cipro", ovvero la sua indipendenza, che "in seguito è stata rinforzata con privilegi e titoli imperiali da parte dell'imperatore bizantino Zenone", ratificati dal Concilio Ecumenico Quinisesto del 691 d.C.
"Nonostante il numero ridotto dei suoi fedeli - ha riconosciuto -, la Chiesa di Cipro ricopre una posizione eminente all'interno dell'Ortodossia e intrattiene relazioni fraterne con tutte le Chiese".
"Specialmente adesso - ha continuato -, agli inizi del XXI secolo che rappresenta un'epoca di dialogo, di riavvicinamento e riconciliazione abbiamo deciso di continuare questo cammino significativo e pieno di pace perché siamo sicuri che questa sia la missione affidataci dalla volontà di Dio".
Nel prendere subito dopo la parola, il Pontefice ha ricordato che nell'ottobre del 2009 Paphos ha ospitato l'ultimo incontro della Commissione Congiunta Internazionale per il Dialogo Teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa incentrato sul ruolo del Vescovo di Roma, e si è detto "grato per il sostegno che la Chiesa di Cipro [...] ha sempre dato all'impegno del dialogo".
A questo proposito ha auspicato che si possa giungere a una "piena e visibile comunione tra le Chiese dell'Oriente e dell'Occidente, una comunione che deve essere vissuta nella fedeltà al Vangelo e alla tradizione apostolica, in modo che apprezzi le legittime tradizioni dell'Oriente e dell'Occidente, e che sia aperta alla diversità dei doni tramite i quali lo Spirito edifica la Chiesa nell'unità, nella santità e nella pace".
Il Santo Padre ha quindi ringraziato per il contributo che la Chiesa di Cipro ha donato alle vittime del terremoto dell'Aquila del 2009 e ha detto di pregare "perché tutti gli abitanti di Cipro, con l'aiuto di Dio, trovino la saggezza e la forza di lavorare insieme per una giusta soluzione dei problemi che ancora sono da risolvere, impegnandosi per la pace e la riconciliazione".
Benedetto XVI ha infatti sottolineato la necessità di prestare soccorso ai cristiani di Terra Santa, di cui Cipro fa tradizionalmente parte, ed ha espresso l'auspicio che le comunità cristiane di quest'isola del Mediterraneo "possano trovare un ambito molto fruttuoso per la cooperazione ecumenica, pregando e lavorando insieme per la pace, la riconciliazione e la stabilità nelle terre benedette dalla presenza terrena del Principe della Pace".


Anche a Cipro il papa porta la sua croce. Con letizia - Tutti la meritiamo per i nostri peccati, spiega. Ma grazie a Gesù, agnello innocente, essa è divenuta la speranza del mondo, la definitiva rivincita su tutti i mali. L'omelia della sera di sabato 5 giugno 2010 a Nicosia - di Benedetto XVI
Cari fratelli e sorelle in Cristo, il Figlio dell’Uomo deve essere innalzato, affinché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (cfr. Giovanni 3, 14-15). In questa messa adoriamo e lodiamo il nostro Signore Gesù Cristo, poiché con la sua santa croce ha redento il mondo. Con la sua morte e risurrezione ha spalancato le porte del cielo e ci ha preparato un posto, affinché a noi, suoi seguaci, venga donato di partecipare alla sua gloria.

Nella gioia della vittoria redentrice di Cristo, saluto tutti voi riuniti nella chiesa della Santa Croce e vi ringrazio per la vostra presenza. [...] Qui a Cipro, terra che fu il primo porto di approdo dei viaggi missionari di san Paolo attraverso il Mediterraneo, giungo oggi fra voi, sulle orme di quel grande apostolo, per rinsaldarvi nella vostra fede cristiana e per predicare il Vangelo che offre vita e speranza al mondo.

Il centro della celebrazione odierna è la croce di Cristo. Molti potrebbero essere tentati di chiedere perché noi cristiani celebriamo uno strumento di tortura, un segno di sofferenza, di sconfitta e di fallimento. È vero che la croce esprime tutti questi significati. E tuttavia a causa di colui che è stato innalzato sulla croce per la nostra salvezza, rappresenta anche il definitivo trionfo dell’amore di Dio su tutti i mali del mondo.

Vi è un’antica tradizione che il legno della croce sia stato preso da un albero piantato da Seth, figlio di Adamo, nel luogo dove Adamo fu sepolto. In quello stesso luogo, conosciuto come il Golgota, il luogo del cranio, Seth piantò un seme dall’albero della conoscenza del bene e del male, l’albero che si trovava al centro del giardino dell’Eden. Attraverso la provvidenza di Dio, l’opera del Maligno sarebbe stata sconfitta ritorcendo le sue stesse armi contro di lui.

Ingannato dal serpente, Adamo ha abbandonato la filiale fiducia in Dio ed ha peccato mangiando i frutti dell’unico albero del giardino che gli era stato proibito. Come conseguenza di quel peccato entrarono nel mondo la sofferenza e la morte. I tragici effetti del peccato, e cioè la sofferenza e la morte, divennero del tutto evidenti nella storia dei discendenti di Adamo. Lo vediamo dalla prima lettura di oggi (Numeri 21, 4-9), che fa eco alla caduta e prefigura la redenzione di Cristo.

Come punizione dei propri peccati, il popolo di Israele, mentre languiva nel deserto, venne morso dai serpenti ed avrebbe potuto salvarsi dalla morte solo volgendo lo sguardo al simbolo che Mosè aveva innalzato, prefigurando la croce che avrebbe posto fine al peccato e alla morte una volta per tutte. Vediamo chiaramente che l’uomo non può salvare se stesso dalle conseguenze del proprio peccato. Non può salvare se stesso dalla morte. Soltanto Dio può liberarlo dalla sua schiavitù morale e fisica. E poiché Dio ha amato così tanto il mondo, ha inviato il suo Figlio unigenito non per condannare il mondo – come avrebbe richiesto la giustizia – ma affinché attraverso di lui il mondo potesse essere salvato. L’unigenito Figlio di Dio avrebbe dovuto essere innalzato come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così che quanti avrebbero rivolto lo sguardo a lui con fede potessero avere la vita.

Il legno della croce divenne lo strumento per la nostra redenzione, proprio come l’albero dal quale era stato tratto aveva originato la caduta dei nostri progenitori. La sofferenza e la morte, che erano conseguenze del peccato, divennero il mezzo stesso attraverso il quale il peccato fu sconfitto. L’agnello innocente fu sacrificato sull’altare della croce, e tuttavia dall’immolazione della vittima scaturì una vita nuova: il potere del maligno fu distrutto dalla potenza dell’amore che sacrifica se stesso.

La croce, pertanto, è qualcosa di più grande e misterioso di quanto a prima vista possa apparire. Indubbiamente è uno strumento di tortura, di sofferenza e di sconfitta, ma allo stesso tempo esprime la completa trasformazione, la definitiva rivincita su questi mali, e questo lo rende il simbolo più eloquente della speranza che il mondo abbia mai visto. Parla a tutti coloro che soffrono – gli oppressi, i malati, i poveri, gli emarginati, le vittime della violenza – ed offre loro la speranza che Dio può trasformare la loro sofferenza in gioia, il loro isolamento in comunione, la loro morte in vita. Offre speranza senza limiti al nostro mondo decaduto.

Ecco perché il mondo ha bisogno della croce. Essa non è semplicemente un simbolo privato di devozione, non è un distintivo di appartenenza a qualche gruppo all’interno della società, ed il suo significato più profondo non ha nulla a che fare con l’imposizione forzata di un credo o di una filosofia. Parla di speranza, parla di amore, parla della vittoria della non violenza sull’oppressione, parla di Dio che innalza gli umili, dà forza ai deboli, fa superare le divisioni, e vincere l’odio con l’amore. Un mondo senza croce sarebbe un mondo senza speranza, un mondo in cui la tortura e la brutalità rimarrebbero sfrenati, il debole sarebbe sfruttato e l’avidità avrebbe la parola ultima. L’inumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo si manifesterebbe in modi ancor più orrendi, e non ci sarebbe la parola fine al cerchio malefico della violenza. Solo la croce vi pone fine. Mentre nessun potere terreno può salvarci dalle conseguenze del nostro peccato, e nessuna potenza terrena può sconfiggere l’ingiustizia sin dalla sua sorgente, tuttavia l’intervento salvifico del nostro Dio misericordioso ha trasformato la realtà del peccato e della morte nel suo opposto. Questo è quanto celebriamo quando diamo gloria alla croce del Redentore. Giustamente sant’Andrea di Creta descrive la croce come “più nobile e preziosa di qualsiasi cosa sulla terra […], poiché in essa e mediante di essa e per essa tutta la ricchezza della nostra salvezza è stata accumulata e a noi restituita” (Oratio X, PG 97, 1018-1019).

Cari fratelli sacerdoti, cari religiosi, cari catechisti, il messaggio della croce è stato affidato a noi, così che possiamo offrire speranza al mondo. Quando proclamiamo Cristo crocifisso, non proclamiamo noi stessi, ma lui. Non offriamo la nostra sapienza al mondo, non parliamo dei nostri propri meriti, ma fungiamo da canali della sua sapienza, del suo amore, dei suoi meriti salvifici. Sappiamo di essere semplicemente dei vasi fatti di creta e, tuttavia, sorprendentemente siamo stati scelti per essere araldi della verità salvifica che il mondo ha bisogno di udire. Non stanchiamoci mai di meravigliarci di fronte alla grazia straordinaria che ci è stata data, non cessiamo mai di riconoscere la nostra indegnità, ma allo stesso tempo sforziamoci sempre di diventare meno indegni della nostra nobile chiamata, in modo da non indebolire mediante i nostri errori e le nostre cadute la credibilità della nostra testimonianza.

In questo Anno Sacerdotale permettetemi di rivolgere una parola speciale ai sacerdoti oggi qui presenti e a quanti si preparano all’ordinazione. Riflettete sulle parole pronunciate al novello sacerdote dal Vescovo, mentre gli presenta il calice e la patena: “Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore”.

Mentre proclamiamo la croce di Cristo, cerchiamo sempre di imitare l’amore disinteressato di colui che offrì se stesso per noi sull’altare della croce, di colui che è allo stesso tempo sacerdote e vittima, di colui nella cui persona parliamo ed agiamo quando esercitiamo il ministero ricevuto. Nel riflettere sulle nostre mancanze, sia individualmente sia collettivamente, riconosciamo umilmente di aver meritato il castigo che lui, l’Agnello innocente, ha patito in nostra vece. E se, in accordo con quanto abbiamo meritato, avessimo qualche parte nelle sofferenze di Cristo, rallegriamoci, perché ne avremo una felicità ben più grande quando sarà rivelata la sua gloria.

Nei miei pensieri e nelle mie preghiere mi ricordo in modo speciale dei molti sacerdoti e religiosi del Medio Oriente che stanno sperimentando in questi momenti una particolare chiamata a conformare le proprie vite al mistero della croce del Signore. Dove i cristiani sono in minoranza, dove soffrono privazioni a causa delle tensioni etniche e religiose, molte famiglie prendono la decisione di andare via, e anche i pastori sono tentati di fare lo stesso. In situazioni come queste, tuttavia, un sacerdote, una comunità religiosa, una parrocchia che rimane salda e continua a dar testimonianza a Cristo è un segno straordinario di speranza non solo per i cristiani, ma anche per quanti vivono nella Regione. La loro sola presenza è un’espressione eloquente del Vangelo della pace, della decisione del Buon Pastore di prendersi cura di tutte le pecore, dell’incrollabile impegno della Chiesa al dialogo, alla riconciliazione e all’amorevole accettazione dell’altro. Abbracciando la croce loro offerta, i sacerdoti e i religiosi del Medio Oriente possono realmente irradiare la speranza che è al cuore del mistero che celebriamo nella liturgia odierna.

Rinfranchiamoci con le parole della seconda lettura di oggi (Filippesi 2, 5-11), che parla così bene del trionfo riservato a Cristo dopo la morte in croce, un trionfo che siamo invitati a condividere. “Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra”. Sì, amati fratelli e sorelle in Cristo, lungi da noi la gloria che non sia quella nella croce di Nostro Signore Gesù Cristo (cfr. Galati 6, 14). Lui è la nostra vita, la nostra salvezza e la nostra risurrezione. Per lui noi siamo stati salvati e resi liberi.


LA TERAPIA PIÙ EFFICACE È QUELLA DELL’AMORE - Intervista alla Presidente della Quercia Millenaria, Sabrina Pietrangeli - di Massimo Losito
ROMA, sabato, 5 giugno 2010 (ZENIT.org).- Esiste una associazione dove le persone non si abbattono e non abbandonano la vita neanche di fronte alla più infausta delle diagnosi prenatali.
Si chiama “Quercia Millenaria” (http://www.laquerciamillenaria.org/) ed è stata ideata e attivata proprio da genitori che hanno già vissuto questo dramma e che desiderano offrire la loro esperienza e il loro aiuto.
La Quercia Millenaria è il luogo in cui i genitori condividono il percorso di accoglienza di un figlio considerato "incompatibile con la vita", o che vivrà con una malformazione, e si sostengono reciprocamente con amore fraterno, aiuto concreto e preghiera comunitaria.
Nel sito della Quercia Millenaria è scritto: “In caso di malformazione fetale, l'aborto non è la soluzione: noi possiamo aiutarti”.
Ed ancora: “Esiste un’alternativa all’aborto, e si chiama 'accompagnamento': amare fino alla fine. Sono due strade di sicuro dolore entrambe: solo una delle due, però, contiene Amore, e questo farà la differenza di un dono finale: pace, speranza, slancio a riaprirsi presto alla vita, unità della coppia. Rivolgetevi a noi con fiducia, da oggi non siete più soli. La Quercia Millenaria sarà accanto a voi”.
Per saperne di più, ZENIT ha intervistato la Presidente della Quercia Millenaria, Sabrina Pietrangeli.
Dove trovano la forza, le vostre famiglie, nell’accogliere un figlio destinato a morte certa?
Pietrangeli: Intanto debbo dire che “morte certa” e “feto terminale”, sebbene esprimano in modo chiaro la evidente problematica del bambino, sono terminologie che sappiamo non essere sempre delle sentenze di morte. Ne abbiamo collezionati di “fatti inspiegabili” che hanno cambiato la storia naturale di un bambino, per poter affermare questo! Proprio la nostra associazione nasce dalla storia di un bambino portatore di quello che sulla cartella clinica è stato descritto come “risoluzione naturale” ma che è una inspiegabile “risoluzione miracolosa”, pur se non senza conseguenze.
A parte questo, i piccoli che nel momento della diagnosi sembrano essere realmente destinati a non avere vita fuori dal grembo materno, sono per i genitori un dono stupendo comunque. Il loro modo di accompagnare questi bambini è intriso sì di sofferenza, ma mai di disperazione. Il rifiuto di questi figli avrebbe scatenato l’aborto sin dal momento della diagnosi: così non è stato, e quindi l’accompagnamento, anche fino alla morte stessa, risulta possibile perché condito di amore e accettazione, animato dalla convinzione che dietro quella vita apparentemente inutile e senza futuro, si nasconda un progetto di amore che verrà rivelato nel tempo. E normalmente, il tempo dà ragione a queste famiglie… altrimenti non avremmo totalizzato 32 testimonianze in due soli libri, e altre ne arrivano in continuazione, alcune delle quali pubblicate regolarmente sul nostro sito.
La Quercia Millenaria è promotrice di un convegno che ha per titolo “Il contenimento del dubbio diagnostico: il counselling per la vita prenatale”. Che importanza riveste per lei la possibilità di parlare al mondo medico?
Pietrangeli: Direi una importanza fondamentale. Non a caso, la difficoltà più grande che incontrano oggi le famiglie nel corso di una diagnosi prenatale è proprio il linguaggio errato degli operatori sanitari e la mancanza di delicatezza, unita molto spesso, purtroppo, ad una grande superficialità nell’esporre un problema legato al bambino atteso. La carenza di informazioni sulle reali possibilità di cura di un bambino con problemi, a volte per mancanza di conoscenza, altre volte per non “dirottare” i genitori in altri Centri… questo è contrario al primo dovere di un medico, che è prendersi cura del malato.
E come pensate di risolvere questo divario?
Pietrangeli: Certo non incentivando denunce o rappresaglie, come oggi si tende a fare. Negli ultimi anni si è creato un vero strappo nel rapporto tra ginecologi e famiglie, non si sente altro che diagnosi sbagliate, e cose del genere. La Quercia Millenaria si sta delicatamente inserendo come “ponte” tra medici e famiglie. Una sorta di mediazione che, se da una parte, vuole tranquillizzare i genitori con un counselling corretto e una iniezione di fiducia sul come portare avanti una gravidanza particolare, dall’altra fa conoscere agli operatori sanitari il mondo fragile e delicato dei sogni e delle proiezioni di una mamma in attesa, e delle ansie di una famiglia alle prese con un problema. E’ sicuramente un lavoro lungo, che richiederà anni, ma siamo qui per questo!
Quindi c’è un altro libro in programma, dopo “Il figlio terminale”?
Pietrangeli: Sì. Per correttezza debbo spiegare che il grande lancio che stiamo facendo de “Il figlio terminale”, è in corso perché questa riedizione si è arricchita di moltissimi inediti, che altro non sono che le prosecuzioni di quasi tutte le testimonianze contenute nel libro. Per il resto, non ci sono stati altri cambiamenti, a parte il nuovo editore. “Il figlio terminale” infatti, fu pubblicato nel gennaio del 2007 e subito nell’aprile dello stesso anno ci fu una ristampa da parte della Nova Millennium Romae, per un totale di 5000 volumi venduti in soli tre anni e per lo più distribuiti dall’associazione stessa. Il nuovo editore, IF-Press, ha messo in grande risalto quel piccolo volumetto volendo ampliarne la forma e il contenuto, e quello che è venuto fuori è un piccolo gioiello, piccolo solo apparentemente, ma noi sappiamo bene a quante persone ha cambiato la vita!
Il volume di prossima pubblicazione “La terapia dell’accoglienza”, oltre alla sua valenza testimoniale (ci sono altri 14 racconti di genitori all’interno, ndr), ha anche una inestimabile valenza scientifica ed etica. Al suo interno infatti, si alternano relazioni che parlano di counselling e tecniche di diagnosi prenatale, di come viene affrontato il lutto in termini psicologici da parte dei genitori, di come il bambino con handicap vive la sua condizione in seno alla famiglia e dinanzi alla società, di quale peso oggi parole come “handifobia” e “sindrome del feto perfetto” siano lo specchio di questa società edonista in cui viviamo, e soprattutto di come i mass-media tendano a mistificare la realtà di temi come l’aborto, l’eutanasia e l’handicap in generale. E’ insomma un trattato che desidera cambiare la cultura imperante, quella della perfezione a tutti i costi. All’interno del libro c’è anche una riflessione di Carlo Casini, presidente nazionale del Movimento per la Vita Italiano, da sempre silenzioso ma ammirato spettatore della nostra attività.
Cosa si auspica per il futuro della Quercia?
Pietrangeli: Il grande auspicio è quello di poter lasciare un solco su questa terra, un cambiamento di mentalità, soprattutto. Quello che in 30 anni di legge 194 è divenuto un genocidio di massa, un abominio terribile, può e deve essere totalmente ribaltato in un sano, concreto rispetto per la vita nascente. E’ un lavoro duro, ma noi vogliamo esserci.


L’omicidio di mons. Padovese e il “solito” pazzo “isolato”… - L’assassino è stato dichiarato instabile psicologicamente, ma la Turchia negli ultimi anni (e ancora più indietro, ricordate un certo Ali Agca?) sembra diventata la patria dei pazzi che guarda caso prendono di mira proprio i religiosi cristiani, tentando di ammazzarli. Mi hanno colpito le parole dell’arcivescovo di Smirne, Ruggero Franceschini, che dopo l’accoltellamento di un frate francescano, nel 2007, aveva detto: “Ancora una volta diranno che questo è un atto di un pazzo. Ma allora dobbiamo ammettere che da un anno e mezzo circa in Turchia gli atti da matto sono notevolmente aumentati, guarda caso contro i religiosi cristiani stranieri”. – per approfondire si riporta un dossier che contiene diversi articoli
La violenza efferata con cui è stato ammazzato Padovese - al quale è stata quasi staccata la testa [ndr. l’ambasciatore d’Italia ad Ankara Carlo Marsili ha dichiarato: «Ho avuto modo di leggere il referto di tre pagine dell’esame autoptico condotto sul corpo di mons Padovese ed in effetti si parla di una grande ferita al collo, che potrebbe essere stata quella fatale, e di altre ferite minori all’addome»] - non si spiega con un litigio.
Il suo assassino è arrivato a casa del vescovo in motorino insieme al fratello, e con tutta probabilità aveva con sé l’arma del delitto (non si taglia la testa a una persona con un coltello da tavola…). Inoltre Murat Altun, il ventiseienne autista del vescovo, che aveva preso il posto del padre al servizio del Vicario apostolico in Anatolia, non era un convertito al cristianesimo. Era invece ben inserito nell’ambiente della sua città e non si esclude che fosse in contatto con elementi nazionalisti radicali. Resta poi da spiegare perché monsignor Padovese abbia disdetto, poche ore prima di morire, i due biglietti aerei per Cipro, dove sarebbe dovuto andare per essere vicino al Papa durante la visita. Padovese aveva collaborato alla stesura dell’Instrumentum laboris del Sinodo per il Medio Oriente che viene consegnato questa mattina da Benedetto XVI alle Chiese dell’area.
E’ comprensibile che il Papa, con le pochissime informazioni a disposizione tre giorni fa, iniziando un viaggio a rischio strumentalizzazione, abbia gettato acqua sul fuoco minimizzando ciò che è accaduto al Vicario dell’Anatolia. Ma Ratzinger ha anche detto che bisognerà aspettare di saperne di più. E la “verità” fino ad oggi emersa lascia irrisolti molti dubbi. (Blog di Andrea Tornielli)
Per un approfondimento leggere il “dossier” che segue.


Tutti i sospetti sul killer di monsignor Padovese: pazzo o anti cristiano?
Il vescovo di Smirne: «L’assassino non era malato di mente. La visita psichiatrica è stato il tentativo di crearsi un alibi».
Nel dicembre 2007, dopo l’ennesimo attacco a un prete cattolico - il francescano Adriano Franchini - monsignor Luigi Padovese, il Vicario apostolico dell’Anatolia assassinato tre giorni fa in Turchia, aveva dichiarato: «La nostra volontà di restare qui si rafforza dopo queste aggressioni. Tuttavia c’è da dire che nonostante che la popolazione turca sia generalmente buona, eventi del genere testimoniano che c’è un ramo malato nel grande albero della popolazione locale». Anche in quel caso si era trattato di uno «squilibrato», una persona psicologicamente instabile, un giovane che voleva convertirsi al cristianesimo dall’islam ma voleva farlo immediatamente. Tre anni fa, l’arcivescovo di Smirne, Ruggero Franceschini, aveva usato le stesse parole che ripete ora: «Ancora una volta diranno che questo è un atto di un pazzo. Ma allora dobbiamo ammettere che da un anno e mezzo circa in Turchia gli atti da matto sono notevolmente aumentati, guarda caso contro i religiosi cristiani stranieri».
Dopo la morte di don Andrea Santoro nel febbraio 2006, dopo l’aggressione a padre Martin Kmetec, dopo le minacce subite dai francescani nella parrocchia di Mersin; dopo l’accoltellamento di un sacerdote cattolico di nazionalità francese, padre Pierre Brunissen, che aveva appena riaperto la chiesa di don Santoro; dopo la morte di tre cristiani protestanti, torturati, incaprettati e uccisi a coltellate mentre lavoravano a Malatya nella casa editrice Zirve, che pubblica Bibbie e libri di matrice religiosa cristiana; dopo l’accoltellamento di padre Franchini, e ora dopo la barbara uccisione per sgozzamento del vescovo Padovese, si continua a parlare di pazzi «instabili di mente». Pazzi isolati, come è sempre stato definito Ali Agca, l’attentatore turco appartenente ai Lupi Grigi che il 13 maggio 1981 ferì gravemente Giovanni Paolo II in Piazza San Pietro. Giovani «instabili» che spesso si scopre essere stati in contatto con gruppi ultra-nazionalisti e anticristiani.
Molti sono ancora i punti oscuri di questa vicenda. Innanzitutto, monsignor Padovese è stato colpito con una violenza efferata. Padre Roberto Ferrari, missionario in Turchia, che ha visto il corpo del presule, riferisce che «la testa si è staccata come quella di San Giovanni». Si sa che l’assassino, l’autista del vescovo, il ventiseienne turco Murat Altun, è arrivato nella casa del prelato a Iskenderun in motorino, accompagnato dal fratello. Ha agito da solo, perché ispirato da «una rivelazione divina», come egli stesso ha dichiarato, oppure qualcuno l’ha aiutato?
L’arcivescovo di Smirne, Franceschini ha detto al Tg1 che «Murat non era affatto malato di mente. Si era sottoposto ad accertamenti presso l’ambulatorio di psicologia e psichiatria dell’università solo per precostituirsi un alibi. Anche la persona che ha gettato una bomba molotov sulla nostra cattedrale di San Policarpo, qui a Smirne, è stato definito “un malato mentale”. E ci può essere sempre qualcuno che approfitta di difficoltà psicologiche per spingere a fare queste cose».
Murat Altun, al contrario di quanto si è detto, non si era convertito al cristianesimo ed era rimasto musulmano, come ha voluto chiarire il suo avvocato. L’autista era ben inserito nell’ambiente della sua città e la voce secondo la quale ultimamente ci sarebbero stati dei dissapori con monsignor Padovese – il quale, tra l’altro, attesta il vescovo emerito di Verona, Flavio Carraro, si era dato molto da fare per trovargli un posto di lavoro in Italia per permettergli di aiutare la sua famiglia – non basta certo per giustificare un assassinio.
Resta infine il mistero del viaggio a Cipro annullato la mattina del giorno dell’omicidio. Monsignor Padovese aveva collaborato intensamente al documento preparatorio del Sinodo, doveva essere vicino al Papa nei tre giorni della visita, aveva prenotato il volo per sé e per Murat Altun, ma poi ha annullato i biglietti. Perché? Si è detto che il prelato non si sentiva bene, forse aveva avuto una crisi di diabete. Ma fino al giorno prima non aveva interrotto le sue attività pastorali. E quell’appuntamento a Cipro era certamente uno dei più importanti dell’anno nella sua agenda.
di Andrea Tornielli
Il Giornale domenica 06 giugno 2010
Dubbi sull'omicidio Padovese
Il nunzio in Turchia mons. Lucibello ha riferito al segretario di Stato Bertone una serie di inquietanti incongruenze nella versione ufficiale con cui la polizia turca derubrica l’omicidio Padovese a «gesto di un folle solitario». Nell’«inner circle» papale, crescono i sospetti su tutto (movente, possibili mandanti e reale matrice dell’esecuzione). È stato lo stesso assassino, Murat Altun, ad organizzare la visita psichiatrica come a precostituirsi un alibi, mentre l’arcivescovo di Smirne, Franceschini nega che fosse pazzo e che abbia agito da solo.
C’è l'impronta conciliante di monsignor Padovese sulla storica preghiera papale alla Moschea blu di Istanbul nel 2006, nei dossier interreligiosi riservati al Palazzo Apostolico e nell’appello alla pacificazione e all libertà religiosa che sotto i suoi occhi oggi Joseph Ratzinger avrebbe lanciato al mondo consegnando ai vescovi il documento-base del Sinodo sul Medio Oriente. Era stato il vescovo francescano Luigi Padovese, uomo-ponte nel sempre più complicato dialogo con l’Islam, a convincere il Vaticano della necessità di favorire l’ingresso della Turchia in Europa. Da presidente della conferenza episcopale, Padovese si era conquistato sul campo i gradi di ufficiale di collegamento tra il governo Erdogan e l’«inner circle» di Benedetto XVI, al punto da influenzare documenti e pronunciamenti della Santa Sede sul Medio Oriente in fiamme. Nella diplomazia pontificia ci si chiede se l’omicidio di un paladino della pace come Padovese non si inserisca nell’ormai lunga e sanguinosa scia dei religiosi cristiani aggrediti o uccisi in Turchia, quasi sempre con la falsa accusa di fare proselitismo. Aggressioni ed omicidi compiuti tutti da fanatici, poi riconosciuti insani di mente in processi-farsa e scarcerati in breve tempo. Di fare proseliti era stato accusato dagli islamo-nazionalisti di Trebisonda padre Andrea Santoro, ucciso in chiesa con due colpi di pistola nel febbraio del 2006 da un ragazzo di 16 anni probabilmente emissario di un gruppo di persone nella cui ideologia si fondono integralismo islamico e nazionalismo. Ma, forse, Padovese la spiegazione di quell’escalation la conosceva. Il 16 dicembre 2007, commentando l’agguato al francescano Adriano Franchini, accoltellato quella stessa mattina in una chiesa di Izmir da un giovane subito definito «pazzo» dalla polizia, il leader dell’episcopato(come prevedendo il proprio destino) aveva affermato che «nonostante la popolazione turca sia generalmente buona, eventi del genere testimoniano che c’è un ramo malato nel grande albero della popolazione locale». Nel seguito papale è forte lo smarrimento. Padovese sapeva di esporsi al rischio di ritorsioni nazionalistico-religiose per il suo ruolo di «pontiere» e sospettava mandanti dietro l’aggressione mortale quattro anni fa al missionario don Andrea Santoro. E un politico cattolico come il sottosegretario Carlo Giovanardi si spinge a dire che «ancora una volta il fanatismo del fondamentalismo islamico ha colpito chi vuole continuare a testimoniare, sia pur tra mille difficoltà, la libertà di religione nei Paesi musulmani».

I vertici diplomatici del Vaticano concordano che non è stata solo uccisa una «colomba»: è stato reciso un formidabile canale tra Roma e la regione più incandescente del pianeta.
Nella guerra sotterranea tra Turchia laica e settori islamisti, il vescovo Padovese, da buon milanese, sentiva di essere manzonianamente il «vaso di coccio fra quelli di ferro», ma, pur di difendere la presenza cristiana nel Paese, rifiutava ogni altra destinazione. A chi gli ipotizzava persino un approdo sulla cattedra di Sant’Ambrogio ripeteva: «E perché? Non sto facendo bene il mio lavoro quaggiù?». La sua agenda includeva Ankara nell’Ue e una «internazionale» delle religioni da costruire in riva al Bosforo con ortodossi e musulmani. Nel seguito papale la parola d’ordine è «depotenziare» l’effetto dirompente dell’assassinio, ma la versione ufficiale sembra un argine troppo debole. Che l’eliminazione di monsignor Padovese sia il gesto di un folle, una tragedia personale senza motivi politici appare una «verità di Chiesa» che non convince neppure il suo predecessore alla guida dell’episcopato turco. «Conoscevo l’autista e non era pazzo, ha lavorato con me per undici anni ed era una persona tranquilla e serena che non aveva bisogno di alcun aiuto psicologico - taglia corto monsignor Ruggero Franceschini, oggi arcivescovo di Smirne ed ex presidente della Conferenza episcopale della Turchia - Si può pensare che qualcuno si sia servito di lui. Lui da solo non può averlo fatto. Tutti i nostri dipendenti vengono sottoposti ad uno screening accurato da parte della sicurezza. Faccio fatica a credere a quello che dice la polizia. Era un musulmano, ma molto buono, molto tranquillo». Insomma «quello dell’instabilità mentale dell’omicida è un luogo comune che era già stato utilizzato per l’assassinio di don Andrea Santoro», precisa l’arcivescovo: «L’aggressione di uno squilibrato è la soluzione più facile per chiudere il caso». E punta l’indice contro «focolai di estremisti religiosi». L’omicida potrebbe «essere stato irretito da uno di questi gruppi». Del resto «è già successo diverse volte» e «anche la persona che ha gettato una bomba molotov sulla nostra cattedrale di San Policarpo, qui a Smirne, è stato definito un malato mentale». E «ci può essere sempre qualcuno che approfitta di difficoltà psicologiche per spingere a fare queste cose». Padovese «ha lavorato benissimo, ha seminato molto e, come diceva Tertulliano, il sangue dei martiri genera nuovi . Intanto il Pontefice corre in soccorso dei cristiani che a Est «soffrono privazioni a causa delle tensioni etniche e religiose». Molte famiglie «prendono la decisione di andare via, e anche i pastori sono tentati di fare lo stesso», ma «restare e dare testimonianza a Cristo è un segno straordinario non solo per i cristiani, ma anche per quanti vivono nella regione», anche se spesso dagli Stati e dall’Onu arriva il cattivo esempio. Solo persone dotate di una «chiara visione morale» e di «coraggio» possono «promuovere una genuina riconciliazione» nelle crisi internazionali. Le ideologie politiche sopprimono la verità e la dignità umana». Negando i principi etici della «legge naturale» il mondo rischia di diventare un «luogo pericoloso». Colpa dei «tentativi di promuovere pseudo valori con il pretesto della pace, dello sviluppo e dei diritti umani». Nell’attuale escalation di violenza il dialogo «non indebolisce, bensì rafforza» e «nessun odio, nessun conflitto, nessun muro può resistere al perdono». Trentamila icone sono sparite dalle chiese nella zona Nord, protestano gli ortodossi, così il Pontefice lancia un appello affinché «tutti gli abitanti di Cipro trovino la saggezza e la forza di lavorare insieme per una giusta soluzione dei problemi ancora da risolvere, impegnandosi per la pace e la riconciliazione». Fuori, a capeggiare il drappello dei dissenzienti c’è Anastasios, metropolita di Limassol, per il quale Benedetto XVI è un «eretico» che non avrebbe mai dovuto posare piede in terra ortodossa. Il Papa passeggia lungo la linea verde verso la parrocchia della Santa Croce, nella zona di nessuno, controllata dai caschi blu, per incontrare lo sceicco Nazin che si scusa: «Mi perdoni se ho aspettato seduto su questa sedia, ma sono molto vecchio». Benedetto XVI, che già indossa i paramenti per la messa, sorride: «Sono vecchio anche io». Contro la pedofilia la Chiesa ha bisogno di «preti buoni, santi, preparati», al Medio Oriente servono libertà religiosa e «politici moralmente rigorosi». Il Papa esorta i governanti dell’area più incandescente del pianeta a «lavorare al bene comune per destrutturare le ideologie del XX secolo superando gli egoismi» e chiede alle comunità cristiane sempre più minoritarie di restare nella terra di Gesù: «La vostra presenza è espressione del Vangelo della pace e impegno al dialogo».Il muro che da trent’anni separa la Cipro europea e cristiana da quella turca e musulmana va abbattuto: la riunificazione è indispensabile a una Turchia che ambisce all’Ue con il «placet» della Santa Sede. Però, a pochi giorni dal sanguinoso blitz israeliano contro la flottiglia pacifista diretta a Gaza e dall’assassinio del presidente dei vescovi turchi, Padovese, nell’«isola divisa» la convivenza interreligiosa è così complicata che ieri il Gran Muftì (massima autorità islamica cipriota, sostituito da un anziano leader Sufi) e cinque metropoliti ortodossi su 17 hanno disertato l’incontro con Benedetto XVI.
di G. Galeazzi
Blog Oltretevere - domenica 06 giugno 2010
Un missionario reggiano a fianco del vescovo ucciso:
"Morto come San Giovanni"
Il frate reggiano 84enne della diocesi di Iskenderun conosce anche l'autista che ha assassinato monsignor Padovese: "Ma non ho paura. Abbiamo l’angelo dei missionari, oltre all’angelo custode".
«Siamo stati a vederlo prima che facessero l’autopsia. Era irriconoscibile. Gli hanno tagliato la gola completamente, la testa si è staccata come quella di San Giovanni».
È stata un’esperienza impressionante quella vissuta l’altro pomeriggio da padre Roberto Ferrari e dai confratelli cappuccini della diocesi di Iskenderun.
Monsignor Padovese era stato ucciso poche ore prima. «Una cosa tremenda», dice il frate originario di Reggio Emilia, 84 anni, da 60 missionario in Turchia, impegnato a Mersin in Anatolia, 200 chilometri da Iskenderun, da decenni stretto collaboratore del vescovo assassinato, che era vicario apostolico e presidente della Conferenza episcopale turca.
Padre Roberto, quando ha visto l’ultima volta padre Padovese?
«Martedì, due giorni prima che fosse ucciso. A Iskenderun c’era la riapertura di una chiesa siriano cattolica che era stata soppressa sessant’anni fa. Una solennità, patriarchi, cardinali. Mi ha detto più volte: ‘Ci vediamo in Cappadocia per un ritiro dei missionari. Devo andare là a tenere conferenze’».
Conosce l’autista accusato dell’omicidio? Avrebbe detto di avere agito per voce divina.
«Certo che lo conosco: fin da bambino. Suo papà lavorava qui da vent’anni e lui lo accompagnava fin da piccolo. Un uomo molto gentile, molto servizievole. Martedì abbiamo anche parlato io e lui. Con tutti i vescovi che c’erano, giunti da Aleppo, Damasco, ha fatto molti servizi con la macchina. Mai si sarebbe pensato...».
Sembra avesse appena concluso una terapia psichiatrica.
«Tutti i casi che abbiamo avuto qui sono sempre di malati psichiatrici...».
Cosa intende far capire? Che dietro ci potrebbe essere una motivazione religiosa?
«Sono cose che... Non sempre si può dire tutto. Capisce?»
Lei è stato perseguitato? Ha subito violenze?
(Ride) «Io sono stato due volte in prigione, anni fa, accusato di cose tremende: di essere una spia internazionale, di avere venduto una campana, di essere amico di terroristi. La prima volta sono stato dentro un mese, la seconda una settimana. Sono stato espulso da Antiochia. Sono ancora qui. È quello che vuole il Signore. Abbiamo l’angelo dei missionari, oltre all’angelo custode».
Ha paura?
«No, assolutamente. Per tre volte mi hanno proposto la scorta della polizia. Io non l’ho voluta».
Il Resto del Carlino 5 giugno 2010
La madre: «Per mio figlio don Luigi era un padre»
«Sono triste perché è morto il vescovo e non perché mio figlio è in prigione». Lo dice Sultan Altun, madre di Murat, l’assassino di monsignor Luigi Padovese. «Mio figlio amava il vescovo. Dava seguito a tutte le sue richieste e direttive. Lo rispettava molto», ha detto la donna in lacrime davanti ai giornalisti. Aggiungendo poi che suo figlio considerava Padovese «come un padre». «Ha avuto gravi problemi psicologici negli ultimi due mesi - ha voluto chiarire la donna -. Ha passato in chiesa tutta la settimana scorsa. Lo avevo chiamato per invitarlo a casa, ma aveva rifiutato, dicendo che stava bene lì. Stava riposando a casa due giorni fa quando il vescovo lo ha chiamato e gli ha chiesto di uscire per una passeggiata. Mio figlio gli ha detto che era stanco, ma il vescovo ha insistito. Ho parlato con il vescovo e mi ha detto che avrebbe portato fuori mio figlio per una passeggiata e un pranzo».
Il Giornale domenica 06 giugno 2010


Politica gnostica di Eric Voegelin - Come intendere bene la sostanza del fenomeno gnostico, le sue rotture col mondo della conoscenza e i canoni della realtà, nonché le ricadute sulla condotta politica attuale. La «gnosi», vera e propria malattia dello spirito, «deragliamento» rispetto alla realtà, si riaffaccia come funesta insidia per tutta l’umanità. - [Da Trascendenza e gnosticismo in Eric Voegelin, Astra, Roma 1979, pp. 143-175] – dal sito http://www.kattoliko.it
Il movimento puritano del 17° secolo ebbe una frangia radicale, che intendeva la rivoluzione come l’attuazione del regno-di-Dio sulla terra. I santi del Signore, guidati dal Figlio e pieni di Spirito, lottavano per la presa del potere, non al fine di inaugurare una nuova era politica, ma perché seguisse un nuovo eone gnostico a quello vecchio della «perdizione» (N.d.A. - Solo in un contesto più ampio è possibile fornire una definizione soddisfacente del fenomeno che passa in questo scritto sotto il nome di «gnosi». Qui, è sufficiente richiamare l’attenzione sul fatto che il problema della gnosi ha preso sostanzialmente le mosse da Harnack. Sulla condizione attuale informa Simone Pétrement: «Le dualisme chez Platon, les Gnostiques et les Manichéens», Paris 1947; sulla continuità tra gnosi dell’antichità e movimenti settari medievali, Hans Soederberg: «La religion des Cathares. Étude sur le gnosticisme de la basse antiquité e du Moyen Age», Uppsala 1949; sul parallelo della moderna gnosi con quella del primo cristianesimo, la introduzione di Hans Urs von Balthasar al suo «Irenaeus. Die Gedult des Reifens», Basel 1943; sulla gnosi nell’idealismo tedesco, Hans Urs von Baithasar, «Prometheus», Heidelberg 1947; sulla continuità della problematica politico-escatologica dell’antichità, Jacob Taubes: «Abenlaendische Eschatologie» Bern 1947). Questa frangia radicale esprimeva il suo atteggiamento nei confronti della società e del mondo a mezzo di una simbologia biblica. Si era ormai verificata la frattura tra i tempi che Esdra (II 6: 9) profetizza, e doveva giungere a compimento quanto annunziato da Isaia (65: 17-19): «Dunque ascoltate, io voglio realizzare un nuovo paradiso e una nuova terra, dove l’uomo non conoscerà piä sofferenze, ma vivrà eternamente felice grazie a ciò che farò. Voglio fondare Gerusalemme sulla delizia e il suo popolo sulla gioia; voglio rallegrarmi del destino di questa città e della mia gente; non devono pii:i sentirsi le voci del pianto e del lamento» (1).

Queste cose, come fatti storici, sono ben note; meno conosciuta ancora oggi è la decisiva influenza da loro avuta sullo sviluppo della moderna politica. La sua comprensione incontra delle difficoltà, poiché noi siamo implicati troppo a fondo nella visione del mondo che fu costruita dalla gnosi dei rivoluzionari puritani e dei loro successori secolarizzati; manca la distanza critica e soprattutto mancano i mezzi critici concettuali nella coscienza di massa — giacché la presenza di tali criteri di orientamento nell’opera di filosofi o letterati ha scarso valore in un’epoca di democrazia di massa, dove il ragionamento ha perso il suo carattere autorevole. Oggi, addirittura, la mancanza di questi mezzi concettuali è maggiore che nel periodo puritano, quando era più attenta la coscienza cristiana (2).

Il tentativo di fondare il regno-di-Dio sul campo di battaglia, mediante generali (ufficiali combattenti), anche in quel periodo fu percepito nella sua assurdità, e i libelli dei radicali puritani furono costretti sulle difensive rispetto alle repliche cristiane, così come erano aggressivi nella condanna del regno-delle-tenebre, regno che doveva essere annientato. Sotto la pressione critica, furono indotti, predicatori in armi e comandanti di sètte, a caratterizzare con maggior precisione le particolarità della loro impresa in contrasto con la tradizione cristiana; l’esame dell’uno o dell’altro dei vari argomenti difensivi potrà introdurre le nostre successive considerazioni.

Gli «eletti-di-Dio», armati fino ai denti, avevano pur considerato l’espressione di Cristo: «Il mio regno non è di questo mondo». Ma la difficoltà rappresentata da queste parole veniva in parte superata con sofistici e troppo letterali riferimenti ad altri passi delle Scritture. Certamente Cristo ha detto che non è di questo mondo il suo regno; ma avrebbe forse egli negato che deve essere fondato sulla terra? Al contrario, l’Apocalisse di Giovanni (5: 10) assicura esplicitamente: «Tu ci hai fatto, o Dio nostro, re e sacerdoti, e noi saremo re sulla terra». Mondo e terra devono quindi essere distinti. Mondo indica il tempo del potere terreno, della monarchia umana, a cui i puritani sono sottomessi; e questo mondo sarà seguito sulla terra da quell’altro di cui parla l’Ebreo (2:5): «il mondo futuro, di questo noi parliamo».

Conduce più a fondo nel tema di questa contrapposizione testuale una predica che Thomas Collier, nel 1647, tenne presso il quartier generale di Cromwell. Collier andò da un tono difensivo a uno aggressivo. Il nuovo cielo e la nuova terra sono il regno-di-dio nello spirito dei santi; il cielo come luogo di grazia soprannaturale è da ritenersi un malinteso: «Noi avevamo, e abbiamo tuttora, delle immagini del cielo molto vili e materiali, dal momento che lo consideriamo come luogo di gloria posto su, nel firmamento, invisibile, di cui poter godere le gioie solo dopo la vita. Ma Dio stesso è il regno dei Santi, il suo godimento e la sua gloria. Dove Dio si manifesta là è il regno suo e dei Santi, ed egli si manifesta nei Santi. Qui è il grande e secreto mistero dell’evangelo, questa nuova creazione nei Santi».

Il passo della predica di Collier ora citato appartiene a uno dei documenti più importanti della speculazione puritana, in quanto vi si esprime ciò che altrove può essere solo intuito come un recondito motivo ispiratore. Si danno un vecchio e un nuovo mondo, una vecchia e una nuova creazione. Ambedue i mondi sono sulla «terra», ambedue sono nella storia. Come inerente alla terra deve ritenersi ha costituzione dell’essere e in particolare dell’essere che vive in società. Inerente al mondo è da ritenersi la condizione gnostica dell’essere di-tenebre-non-redente, ovvero di-luce-redentrice. La terra, com’essa è, può rivelarsi mondo delle tenebre o mondo della luce, regno-del-demonio o regno-di-dio.

Siamo a una chiara rottura col cristianesimo. Il mondo cristiano, come creazione di Dio, non è un regno delle tenebre; di certo, esso è oscurato per l’universalità della caduta (il peccato originale), ma attraverso il sacrificio di Dio viene di nuovo nobilitato come il luogo della umanità perfetta, nei limiti in cui può essere perfetta la creatura.

Ora, questa tensione cristiana tra l’essere creaturale e l’essere divino, tra i limiti dell’essere e la trasfigurazione, mediante la grazia, nella morte, viene disciolta in un processo storico immanente, che abbraccia mondo e sovramondo, come eoni temporali consecutivi. Questa immanentizzazione elimina persino il simbolo del «cielo», nel momento in cui, al mistero della beata visione di Dio nella morte essa sostituisce un paradiso materialistico, e poi, di contro a questa «rappresentazione inferiore», sostiene la realizzazione mondana del regno eterno come suo intendimento spirituale (3). In questo rovinoso attacco al simbolismo cristiano, Collier è andato lontano quanto uomo potesse andare, senza perô riuscire a sconvolgerlo del tutto. La tecnica di propaganda antifilosofica e anticristiana degli intellettuali illuministi, consistente non nel’intendere un simbolo della genesi come analogico dell’essere, ma nel fraintenderlo in senso letterale, come affermazione diretta su di un oggetto finito, in modo da fame un ridicolo non-senso, è già, in ogni caso, pienamente sviluppata. La linea storica è prestabilita: sulla scia della politica gnostica, si abbandonerà il linguaggio dei simboli cristiani, per giungere infine al simbolismo anticristiano del marxismo (4).

La natura di una cosa è ciò che, nella sua essenza, è proprio di questa e non di un’altra. La natura è ex definitione immutabile. I politici gnostici invece vogliono mutare la natura, in maniera, per il momento, non più esattamente precisata. Per quanto il disegno di compiere l’impossibile venga fatto in vista di un’azione politica, in effetti il programma può restare irrealizzato; se si pensa una cosa del genere, si tradisce l’essenza spirituale dell’uomo, di cui tali politici hanno una visione psicopatologica. La sostanza della politica gnostica dev’essere vista in una malattia dello Spirito, come un nosos, nel senso in cui lo intendono Platone e Schelling, un disturbo nella vita dello spirito, a differenza di una malattia dello spirito in senso psicopatologico.

Se non c’è chiarezza su questo punto, diventa impossibile un’interpretazione critica della politica gnostica. Il linguaggio filosofico della tradizione classica e cristiana è stato foggiato in riferimento a determinati problemi di ricerca. Come linguaggio ontologico, esso è risultato dalla teoria, dalla contemplazione dell’essere e del suo ordine; come linguaggio metafisico, dal tentativo di estrapolazione speculativa di un fondamento dell’essere; come linguaggio teologico, dall’interpretazione dell’esperienza della trascendenza. Quello filosofico è perciò il linguaggio del tentativo, di chi vuole comprendere l’ordine del mondo e, in questo, la posizione dell’uomo. Non è il linguaggio della pazzia, e perciò non può dialogare con questa. Non offre alcun mezzo per provare ha validità del programma gnostico, per misurarne le azioni sul metro della razionalità dei suoi scopi o per discutere i termini della morale gnostica sul terreno proprio di questa. Il linguaggio filosofico può trattare questo programma, le sue azioni, i suoi termini morali, soltanto come sintomo della malattia, nel momento in cui dimostra a qual punto giunge la rottura con la realtà, il deragliamento (Jaspers ha fatto lo stesso nel caso di Nietzsche). Una ricerca critica del pensiero gnostico dovrà perciò eliminare la confusione terminologica sulla «realtà». La natura transfigurata dello spirito, la «realtà» dello gnostico, non è la realtà come questa è considerata dalla coscienza dell’ordine filosofico; eppure il politico gnostico ne parla e vi opera come se fosse una realtà nel senso normale (5). Per risolvere questa fondamentale difficoltà, nell’analisi dei sintomi cui ci accingiamo, a indicare la «realtà gnostica», faremo uso brevemente della espressione «realtà-di-sogno».

Della «realtà-di-sogno» non abbiamo esperienza alcuna, né il nostro impegno potrebbe toglierle il carattere illusorio e renderla attuale. Lo gnostico tuttavia ne deve parlare come se davvero ne avesse contezza e deve agire quasi che la potesse porre in essere. E, dal suo punto di vista, egli deve fare l’una e l’altra cosa in questa realtà-quaggiù, da cui vuole irrompere in quella di-sogno. Per intendere come il fenomeno sia patologico, non c’è bisogno di tanti altri esempi chiarificatori, poiché lo sconquasso prodotto dalla gnosi nazionalsocialista è ancora vivo nella memoria di tutti. Possiamo proporci immediatamente un paio di questioni, cui lo gnostico deve trovare risposta. La prima chiede: come può essere costruita un’immagine della realtà-di-sogno, tale da provocare concrete tensioni esistenziali, su cui fondare la «terra», e poi essere ipotizzata la trasfigurazione in una condizione di luce?

E la seconda: come può essere supposto un programma d’azione, con finalità immanenti e reali, che non abbia per obbiettivo una realtà attuale, ma di-sogno?

Gli gnostici sono malati nello spirito, ma non sono stupidi; vogliono cose impossibili, ma sanno bene quel che vogliono. Essi desiderano trapassare in una realtà-di-sogno intesa come vera, ma sanno che quella di-sogno è una realtà di tipo diverso e che i suoi caratteri essenziali non hanno nulla da spartire con la realtà effettiva. Nella consapevolezza di una tale difficoltà, mostrano incidentalmente la tendenza, quando è possibile, a non rispondere per niente alla prima domanda. Nell’Apocalisse giudaica, a Esdra, che insiste a pregare il Signore per conoscere i particolari della cesura dei tempi, il Signore rivolge l’ammonimento: «Esdra, non porre altre domande!». La soluzione perfetta è nella canzone della Hitlerjugend: «Noi marciam, noi marciam verso l’avvenir!» — infatti qui, una formula caricata con tensione escatologica suscita profonde aspirazioni di redenzione, mentre non dice nulla della realtà-di-sogno che deve attendersi nella dimensione storica (6).

I politici gnostici, pur partendo da un comune stadio intellettuale, trovano soluzioni personali alle difficoltà che incontrano, ognuno a suo modo, a seconda dei propri temperamenti e coscienza. Bakunin era dell’idea che il processo storico del passaggio dal vecchio al nuovo mondo richiedesse qualche tempo. La prima fase dell’azione, quella che toccava alla sua generazione, consisteva nella radicale distruzione del vecchio; le istituzioni coattive del vecchio mondo, la forza organizzata dello stato e della burocrazia dovevano essere annientate; tale processo di distruzione e il conseguente disordine avrebbero chiesto terribili sacrifici; ma questi sacrifici si rendevano necessari, perché sulle rovine del vecchio, la natura umana, di per sé buona e liberata ora da ogni nefasta influenza, potesse fondare la sua vita perfetta sull’autogestione. Come, questa vita perfetta prenderà forma, non c’è nulla da dire, poiché noi stessi apparteniamo alla generazione corrotta; possiamo, distruggendo il passato, spingere il mondo verso la perfezione, ma conoscere quel che sia la nuova vita, è riservato alle generazioni che la vivranno, a loro che saranno arrivate alla libertà grazie alla nostra azione (7).

Bakunin visse così a fondo nel convincimento di una redenzione attraverso l’atto, attraverso l’«impegno» — come gli gnostici nazionalsocialisti definivano la volontà cieca — che finì col non aver bisogno di conoscere. Perciò poteva sapere, forse meglio di altri, che questa conoscenza non esisteva. Comunque, il tratto rilevante di Bakunin è il concludersi della gnoseologia nel sogno. Proprio perché, secondo lui, la realtà-di-sogno del nuovo mondo non doveva cercarsi nell’immaginazione, ma solo in un ambito esistenziale, egli poteva concentrarsi interamente sul vecchio mondo, ovvero, sul momento negativo della distruzione. Per il fatto di non conoscere, dichiaratamente e totalmente, la realtà-di-sogno, la volontà di distruzione, opposta alle forze dell’ordine, fu isolata come l’unica componente della politica gnostica accessibile all’esperienza. Nella fideistica tensione bakuniana tra nulla e nulla, si esprimeva in maniera chiarissima il nihilismus della moderna gnosi. E siccome tale tensione pervadeva tutta la vita di Bakunin, questa può considerarsi il prototipo di un’esistenza rivoluzionaria gnostica.

Non tutti gli gnostici, tuttavia, sono così moderati come Bakunin. Essi vogliono proclamare quel che riempie il loro cuore. E laddove la realtà-di-sogno non può essere resa nelle categorie del reale, essi mettono a punto una particolare forma di comunicazione: la visione, o previsione, del futuro. Nell’ambito del movimento puritano, questo aspetto veniva configurato in un «pamphlet» del 1641, che portava il titolo A Glimpse of Zion’s Glory L’inglese glimpse non ha un preciso equivalente in tedesco; allude a uno sguardo fulmineo gettato su qualcosa attraverso una fessura, sguardo che dura lo spazio di un momento, incapace di comprendere distintamente, laddove la gloria smagliante confonde i contorni.

Cosa esprime quindi questo sguardo sulla «Zion’s Glory»? Innanzi tutto il carattere rivoluzionario del movimento, il quale, come per Bakunin, si pone contro l’ordine esistente. Dio si servì del popolo semplice, per annunciare il regno di suo figlio. La voce di Cristo « ... risuonò primieramente tra la folla, tra il popolo dei semplici. Qui, prima che altrove, essa viene ascoltata. Dalla gente semplice e dalle moltitudini giunge l’annuncio che Dio è il Signore, l’Onnipotente, il Re«. Cristo non è venuto per i saggi, gli eletti, i ricchi; è venuto per i poveri. Lo spirito dell’anticristo domina nelle classi superiori; perciò l’opera della riforma e lo smascheramento dell’anticristo ebbe inizio tra le moltitudini, dei semplici e dei poveri». Nel nuovo mondo, infatti, nuovi rapporti di potenza rappresentano la realtà delle cose. I governanti del vecchio mondo non solo riconosceranno il loro torto, ma, per di più, saranno soccorsi dal popolo di Dio, a causa della degradazione della loro capacità di discernimento. Del resto, Isaia ha profetizzato (49: 23): «E i re devono essere i tuoi protettori e le loro principesse le tue nutrici. Essi si getteranno davanti a te con la faccia a terra e con la lingua ti leveranno la polvere dai piedi. Allora tu capirai che io sono il Signore, colui che non disdegna quelli che lo attendono». I santi dal canto loro «... andranno tutti vestiti di tela bianca, come si addice all’onestà dei santi, alla integrità che essi hanno da Cristo, e per la quale sono giusti dinnanzi a Dio i santi dinnanzi alla gente. La santità sarà scritta sulle loro stoviglie e sui loro attrezzi; su tutto splenderà la loro benedizione in abbondanza per la gloria di Dio». Il simbolismo di queste immagini è oggi divenuto obsoleto anche in Israele. I nuovi gnostici sostituiscono all’antico simbolo orientale della sottomissione il campo di concentramento e la camera a gas; e invece del bianco lino, ad attestare l’appartenenza al regno, viene scelta la camicia bruna, azzurra, nera o di altri colon, che reggono più facilmente lo sporco. Ma il principio della questione dovrebbe essere chiaro.

Lo sguardo che abbiamo lanciato ci permette di cogliere qualcos’altro. Le forme del diritto e della economia, nella realtà-di-sogno, saranno diverse. La presenza di Cristo nel suo regno renderà probabilmente superfluo che vi siano giuste sanzioni. «È discutibile se le prescrizioni del diritto saranno ancora necessarie, quanto meno nel modo in cui lo sono oggi... La presenza di Cristo si sostituirà al disordine statale». La preoccupazione economica per la scarsità dei beni, inoltre, verrà soppiantata da una condizione di abbondanza e di prosperità. Poiché è Cristo il padrone del mondo intero; egli lo ha acquistato per i santi, a cui consegnerà il potere sulla terra. In tutta franchezza, l’autore dichiara il motivo della sua convinzione: «Voi vedete che adesso i santi nel mondo hanno poco; ora sono i più poveri e i più disgraziati di tutti; ma quando il figlio di Dio ne avrà interamente preso la guida, allora il mondo sarà loro... Non solo il cielo deve essere il vostro regno, ma questo mondo nella sua concretezza esistenziale». Anche in questi punti, la visione si riferisce non già a significati allegorici, ma a immagini di un mondo reale. I paradisi sognati sono chiaramente un elenco di negazioni di bisogni esistenziali; in un paradiso non devono più esserci povertà, malattia, monte, oppressione e bisogni sessuali. Le immagini del Glimpse puntano sulle necessità economico-politiche, sulla miseria e sulla violenza dell’autorità. Sono le costanti, che si trovano anche in altre visioni gnostiche, come nel freedom from want and fear della Atlantic Charter, o nel paradiso terrestre dei comunisti, dove lo stato scomparirà e ognuno godrà di beni in misura dei suoi bisogni (8).

Colui che prevede, sta nella realtà e ci offre una immagine-di-sogno del futuro. Con la sua visione anticipatrice, egli vuole procurare ad altri, uomini che vivono come lui nella realtà, una rappresentazione della condizione di vita percepita e vuole accaparrarseli come compagni, che lo aiutino a portare il sogno nel tempo e nella storia. Per l’osservatone critico, l’elemento patologico della visione e del proposito che la motiva sta nel deragliamento, nella frattura con la realtà. Egli sa che il sogno è irrealizzabile, e che l’azione immaginifica, una volta intrapresa, dopo terribili distruzioni dell’ordine preesistente, conduce a una nuova dimensione reale che non ha nulla a che fare con la ipotizzata realtà-di-sogno. A questo punto la prospettiva del filosofo viene non a caso condivisa dagli gnostici più illuminati. Anche lo gnostico infatti teme un deragliamento, ma il senso del suo timore è opposto. Poiché, quello che il filosofo vede come necessario, lo gnostico deve temere come possibile: che i santi rivoluzionari distruggano con successo il vecchio ordine, ma, dopo aver completato il misfatto, si rivelino persone come tutte le altre e per nulla santi. Con la conseguenza che i sacrifici della distruzione si sarebbero prodotti invano (9).

In quale senso procederà questo deragliamento sconsacrato, è già molto chiaro nel Glimpse puritano. Le immagini-di-sogno sono l’espressione di una feroce avidità di potere carica di risentimento, che già Hobbes (e prima di lui Richard Hooker) con magistrale arte psicologica ha individuate, come essenza del puritanesimo radicale. È certo infatti che i santi vittoriosi costituiranno una nuova classe dominante d’inaudita brutalità e che i membri della vecchia saranno scrupolosamente perseguitati — come sempre del resto può succedere nel corso di una rivoluzione gnostica. Non si tratta delle brutte conseguenze che inevitabilmente colpiscono colono che soccombono in una disputa accanita, ma si tratta della legittimazione della violenza come punizione spirituale di quelle forze che si oppongono al regno-della-luce. La condizione dello sconfitto è terribile, perché, nella immagine fantasiosa degli gnostici, egli non è un semplice avversario politico in lotta per la conquista del potere, ma un avversario cosmico nella contrapposizione della luce alle tenebre. Quel che aspetta i rappresentanti del vecchio mondo è un giudizio cosmico. Se si considera questo travisamento patologico diventano del resto comprensibili anche gli sconvolgimenti «dialettici» di cui soprattutto Marx era maestro. Formule come «oppressione degli oppressori» o «espropriazione degli espropriatori», come pretese reali, sono eticamente contraddittorie; nella speculazione-di-sogno invece hanno il loro buon senso, perché oppressione ed espropriazione, quando sono opera gnostica, significano liberazione. La lotta con le forze delle tenebre, che è la fase negativa nel processo di costruzione del regno, è, come già è stato detto, la sola parte del programma gnostico che può essere attuata; e ha buone probabilità di realizzarsi, dato che pone nel soddisfacimento di bassi istinti il premio di un atto che non è soltanto buono, ma di liberazione — una combinazione, questa, che è sempre ricca di stimolo psicologico e che, nell’epoca delle masse ridotte a plebi, ispira potenti sommovimenti politici, per mezzo degli intellettuali secolarizzati.

Lo gnostico che, esattamente come il filosofo, intravede questa condotta degli Acheronta, non può non temere che il suo movimento si limiti alla fase della negazione, che i suoi seguaci considerino il crollo delle istituzioni, l’uccisione e il saccheggio degli avversari, come il momento essenziale nella fondazione del regno, e che il millennio si esaurisca in un piratesco regime di violenza brulicante di ladri e di assassini. Marx ha visto questo rischio e perciò ha tenuto distinto il comunismo spicciolo da quello vero e proprio. Comunismo spicciolo è «la socializzazione della proprietà privata». Esso è così assillato dall’importanza del possesso, che intende distruggere tutto quello che non può essene proprietà di tutti; il possesso immediato e materiale gli appare come unico scopo dell’esistenza; non vuole abolire il modello esistenziale del lavoratore, ma estenderlo a tutti gli uomini; e vuole perciò eliminare decisamente ogni talento che si distingua. Il mondo del possesso passa dal rapporto familiare con il proprietario privato al rapporto di generale prostituzione con la società (10). Questo comunismo nega la personalità degli individui. Il tipico desiderio della proprietà privata si manifesta in un modo nuovo, dal momento che l’invidia per l’altrui possesso si configura come una pubblica forza. Concorrenza, nella società capitalistica, significa invidia e aspirazione di adeguamento della piccola proprietà al livello della grande; il comunismo spicciolo costituisce il superamento di quest’invidia con il suo livellamento su un minimo generalizzato. Esso distrugge la civiltà con il suo ritorno a un’innaturale semplicità di vita, tipica di povera gente, che non vede nulla oltre la proprietà privata e a questa non si è avvicinata nemmeno una volta. Si configura una comunione del lavoro e l’eguaglianza dei redditi, che la stessa collettività paga come se fosse il solito capitalista. Nel comunismo spicciolo si manifesta «... il tratto più basso della proprietà privata, che si vuole porre come la sostanza positiva della comunità».

Questa caratteristica (del comunismo spicciolo) è rilevata in un primo lavoro di Marx, i Manoscritti economico-filosofici del 1844 (11). Essi sono una acuta analisi del deragliamento che si produce nella realtà, e risultano condotti con intuizione psicologica pari a quella di Hobbes. Tale disamina ha un suo pregio particolare, poiché rileva gli elementi di continuità tra la realtà, che lo gnostico si propone di superare, e le componenti realistiche del suo sogno. Per quanto riguarda la sconvolgente lotta del nostro tempo, tra movimenti gnostici e loro avversari, e tra camicie di diverso colore, ci si dimentica troppo facilmente che questi movimenti non nascono dal niente, ma sono strettamente collegati al concreto susseguirsi di precedenti storici; che il puritanesimo radicale è il logico sviluppo ulteriore di un cristianesimo già corrotto, che il positivismo, il comunismo e il nazionalsocialismo sono prodotti cannibaleschi di una corrotta società liberale (12).

Lo gnostico deve temere di deragliare dalla condizione-di-sogno. Il problema è per lui complicato dal fatto che scendere nella realtà significa accadere nel tempo. Nella realtà, va condotta la lotta contro il vecchio mondo; e nella realtà, uno scontro gnostico tra quelli delle SA e i loro avversari non si distingue da qualsiasi altro scontro non-gnostico. Il nuovo mondo comincia con la distruzione del vecchio, con un rovesciamento delle istituzioni; e quando si tratta di un nuovo mondo comunista, questo apparirà inevitabilmente, sia dal punto di vista psicologico che da quello istituzionale, come la fase primitiva del comunismo di cui ci parla Marx. Il nuovo eone dunque viene associato alla immediatezza storica. Ma a qual punto allora comincia la trasfigurazione? E se questa non inizia subito, quanto bisogna attendere per rendersi conto che con questa trasfigurazione qualcosa non ha funzionato come doveva?

Nei suoi giovani anni, nell’opera l’Ideologia tedesca del 1845-46 (13), Marx si occupava della nascita del «nuovo uomo» (come sinonimi vennero usati: uomo totale, uomo socialista, superuomo). Il nuovo uomo, l’uomo illuminato, doveva prendere corpo nella prassi dell’azione rivoluzionaria. Per la formazione di una coscienza comunista di massa, è necessario che le stesse persone si trasformino in massa, e questo può verificarsi solo attraverso la prassi rivoluzionaria (14). La rivoluzione si rende quindi necessaria non solo per rovesciare la classe dominante, ma soprattutto per portare la classe rivoluzionaria a quel grado in cui, «libera dal vecchio fango», sia messa in grado di fondare la nuova società. Questo strano rappresentarsi la creazione del superuomo, mediante la tensione rivoluzionaria della lotta, dimostra come i nuovi gnostici siano strettamente affini tra loro, anche quando, sulla scena della storia, si combattono a vicenda. La furia del sangue marxista attiene allo stesso tipo simbolico della mistica nazionalsocialista, che, attraverso i misteriosi chimismi di corpo e sangue, plasma gli uomini del millennio; e nello scritto di un teorico di diritto costituzionale del periodo nazionalsocialista noi troviamo, in effetti, nel corso di certe considerazioni sulle brutalità del regime, la medesima formula di Marx: «il fango deve essere eliminato!».

Dobbiamo ribadire che gli gnostici non sono stupidi. L’idea marxista di creare il superuomo attraverso l’azione rivoluzionaria può portare a serie difficoltà nella prassi politica. Come mai, una volta che la rivoluzione è compiuta e i nuovi signori solidamente detengono il potere nelle loro mani, le persone sono sempre le stesse di prima? e persino le splendide «élites» che hanno provveduto alla eliminazione di un borghese, di un giudeo o di un comunista, vanno a loro volta ora liquidate, poiché la furia del sangue non le ha sollevate alla statura del super uomo? Potrebbe mai darsi che tali osservazioni distolgano lo gnostico dall’incanto? si desterebbe egli dal sogno per accettare la realtà? Niente affatto! Egli si rende conto di questa possibilità e, con l’astuzia del folle, la trasfigura nel suo sogno. Marx si trovò a correggere l’entusiasmo precipitoso della sua gioventù e, negli anni successivi, considerando questa eventualità, elaborô un’alternativa. Sotto l’impressione della Comune del 1871 egli diede formulazione definitiva a un’idea che era in nuce sin dal fallito tentativo del 1848: dopo la conquista del potere, ci sarà ancora uno stato, forse anche più oppressivo di quello precedente; ma i detentori del potere saranno diversi. È uno stato che è governato da santi (o da compagni, o da camerati), si distingue da tutti gli altri stati, per il fatto che tenderà a scomparire mano a mano che cresceranno i nuovi uomini al suo interno. Lo stato dei santi rappresenta un periodo di transizione dal vecchio al nuovo mondo. Il periodo della transizione può durare un tempo indeterminato, forse secoli, cosicché non ci si possa porre la spiacevole domanda se il suo ritardo sia da imputarsi a un tentativo mancato. E chi non crede che le brutture della realtà costituiscono soltanto una transizione verso il regno-di-dio, costui è, a seconda del secolo e della sua posizione sociale, un indemoniato, un borghese, un ebreo, un comunista o un fascista. Questa tappa obbligata della speculazione-di-sogno diventa il tocco finale della follia gnostica, così come lo stesso Marx la sviluppò nella Critica del programma di Gota (1875) (15) e Lenin la proseguì in Stato e rivoluzione (1917) (16). È la teoria della dittatura del proletariato intesa come fase di transizione, cui farà seguito la seconda fase del comunismo vero e proprio, in uno spazio di tempo non ben determinato.

La teoria delle due fasi ha trovato la sua prima ed esplicita formulazione nella seconda metà del 19° secolo. Come premessa più o meno chiara dell’incidenza gnostica nella realtà, essa è ben presente sin da quando esiste una politica di questo tipo; già il grande ritratto puritano di Richard Hooker, alla fine del 16° secolo, mostra come sia contenuta con tutta chiarezza nell’argomentazione dei suoi avversati. Questa logica intrinseca all’azione gnostica, già prima di giungere a formulazione espressa, ha cambiato notevolmente l’idea di rivoluzione. Questa, così come viene intesa da tale teoria, non e più il grande e improvviso sconvolgimento sociale, ben determinato nel tempo e nell’oggetto, con cui un regime politico è soppiantato da un altro, ma un processo tinato avanti all’infinito, in cui la stessa conquista del potere è soltanto una fase, per quanto decisiva e significativa. Decenni di lavoro rivoluzionario possono preparare questo colpo determinante, e secoli possono fargli seguito prima che venga raggiunto lo scopo effettivo, la realtà-di-sogno. È ii concetto della «rivoluzione permanente».

Il termine «rivoluzione» è entrato per la prima volta nell’uso corrente con la rivoluzione francese del 1789. Il motto della «rivoluzione in permanenza» fu coniato nel regno di Francia, durante le crisi liberali della monarchia restaurata. Charles Comte e Charles Dunoyer svilupparono nel «Censeur», dopo il 1815, l’idea di una politica che doveva impedire l’esplodere di moti sociali violenti, seguiti da altrettanto violente e dispotiche restaurazioni — come aveva ampiamente dimostrato l’evolversi della grande rivoluzione dal Terrore all’Impero — con opportuna riforma degli inconvenienti e una «rivoluzione permanente e saggiamente regolata».

Questo tentativo di recepire l’idea gnostica di rivoluzione attraverso la riforma sociale, è significativo per più di un riguardo. Innanzi tutto dimostra che il fatto patologico della gnosi è penetrato nella politica moderna per qualcosa di più che non il semplice attivismo rivoluzionario. All’ombra delia gnosi si sviluppa un’ala «destra», liberale e progressiva, che accetta l’idea di rivoluzione, ma vuole ovviare alla sua violenza distruttiva mediante un processo di ordinata evoluzione. La formazione di quest’ala può avvenire all’interno stesso del movimento attivistico, come mostra ii caso della socialdemocrazia revisionista tedesca. Ovvero essa può esprimersi, come nd caso dei liberali del Censeur, in una politica delle concessioni «reali», in una politica del peaceful change, come pure avvenne in America tra le due guerre mondiali. Ed essa può arrivare, nd settore della politica internazionale, fino al tentativo di creare un’istituzione denominata «Società delle nazioni» o «Nazioni unite», che vuole porre rimedio alla crisi gnostica delle civiltà occidentali e occidentalizzate attraverso una regola di diritto, intendendo costruire a poco prezzo sulla terra un regno-di-dio completamente pacificato.

Il momento rilevante di questi tentativi sta, in primo luogo, nell’ibrido di una politica in cui manca una vera e propria volontà di assetto, e che pretende di sostenere impegni precari e malfermi con una serie di mezzucci, ma si riduce a «prendere il vento dalle vele». In secondo luogo, allo stato attuale del rapporti, sta nell’errore di ritenere che il «vento» della politica gnostica consista in una pretesa riformatrice, e perciò che il tanto biasimato sbandamento intellettuale rispetto a Marx sia nella realtà l’essenza del sogno gnostico, con la conseguenza che in effetti, nella prospettiva di una graduale evoluzione, si possa costruire meglio quel che la rivoluzione solo in apparenza sembrava di poter rendere «reale». Questo grave errore ha motivato nel recente passato la politica occidentale dell’appeasement, e motiva ancora oggi numerosi interventi particolari nella politica delle buone intenzioni, che vuole prevenire il comunismo.

Che si tratti qui di uno spiacevole errore, diviene chiaro quando si pensi a ciò che la «rivoluzione permanente» significa per gli attivisti gnostici. L’espressione appare per la prima volta in Marx nel Discorso alla lega dei comunisti del 1850. La presidenza della lega doveva spiegare ai suoi membri come mai il fallito colpo del 1848 non rappresentasse la fine di tutto e perché l’azione rivoluzionaria doveva essere proseguita a ogni costo. La soluzione è semplice: non ci possono essere colpi mancati per la rivoluzione; essa procede sempre e permanentemente tende all’obiettivo-di-sogno che resta immutabile; ci sono soltanto delle difficoltà materiali che vanno superate mediante una linea costante di condotta politica, per la quale Marx coniò il termine di «tattica» (17).

La condotta politica gnostica di cui Marx sviluppò l’idea, si muove nella realtà, ma ha per obiettivo la realtà-di-sogno. Ora, poiché la realtà-di-sogno non può venire attuata in concreto, sorge la questione di come dirigere un mezzo proprio di questa realtà verso un obiettivo che non le è proprio; e ancora, di come comprendere nelle categorie della nostra realtà un tale ordine-di-sogno. Di certo questo non costituisce un tipo di condotta razionale, ed e già discutibile che si possa ancora parlare di condotta politica. La definizione di tattica data a questa condotta-di-sogno, è la soluzione terminologica che ci viene fornita dagli stessi gnostici.

Al di là di questa distinzione linguistica, resta l’obiettiva pericolosità rappresentata dal fatto che la politica gnostica costituisce un fenomeno patologico che va oltre il normale calcolo politico. Quello che significa tattica in concreto, può intendersi dai consigli dati da Marx sulla situazione del 1850. I comunisti non devono interessarsi a conciliare i contrasti esistenti tra le classi, ma devono pensare alla abolizione delle classi stesse; non devono pensare alla riforma della società presente, ma a fondarne una nuova. Per tenere in vita una lotta, si deve impedire a ogni costo una stabilizzazione della situazione politica. Durante un conflitto rivoluzionario — e immediatamente dopo — dovevano impedire qualsiasi tentativo volto a quietare le coscienze. Ai tumulti di massa non si doveva porre ostacolo né offrire una passiva accettazione, ma si doveva procedere alla loro programmazione e organizzazione per mettere in crisi la compagine democratica. Laddove viene instaurato un ordine costituzionale, i comunisti devono scavalcare con le loro richieste radicali qualunque provvedimento dei democratici. Se i democratici chiedono la statalizzazione di fabbriche e ferrovie dietro un equo indennizzo, allora i comunisti chiedano la loro confisca; se i democratici intendono imporre una tassa moderatamente progressiva, i comunisti devono chiederne una che colpisca i redditi dei ceti piü elevati, e così via. Per principio, le richieste dei comunisti devono sempre ispirarsi alle concessioni e ai provvedimenti dei democratici. Il criterio di questa direttiva è valido per tutte le situazioni, di politica estera e interna.
Tattica è la negazione patologica della politica, in quanto essa non intende per principio creare un ordine, ma distruggerlo.
Il mutamento della rivoluzione da sconvolgimento politico a lotta tattica senza fine, poggia sulla logica degli eoni-di-sogno. Né può realizzarsi l’eone della luce, né la realtà può essere cancellata. L’azione gnostica deve perciò assumere il carattere della lotta permanente contro gli uomini, le istituzioni e le idee, che rappresentano di volta in volta i concreti ostacoli tattici del momento. Che vi possa essere un ordine concreto della realtà è cosa impossibile, dato che, quanto costituisce ii contenuto concreto della realtà, va sempre superato. La rivoluzione permanente della gnosi è un’ulcera cancerosa nel corpo della realtà; essa significa la fine di una civiltà, a meno che non venga arrestata da una forza più decisa ancora. Perciò, il problema della gnosi, visto realisticamente, non consiste nell’avvento del nuovo eone, ma nella lotta di forze concrete e reali contro la funesta minaccia proveniente da un sogno patologico.

Anche questo punto non è sfuggito agli gnostici. Un documento puritano, il Queries to Lord Fairfax del 1649, tratta in dettaglio l’assunzione del potere e la presumibile resistenza da parte della vittima designata. L’assunzione del potere viene preparata mediante l’organizzazione federativa degli affiliati in sezioni locali, dalla comune dei santi in su. Quando l’organizzazione ha raggiunto ii livello del parlamento ecclesiastico regionale, «allora Dio distribuirà la sua autorità e ii suo dominio sulle nazioni e i regni del mondo». In concreto, l’organizzazione dei Santi subentrerà alle istituzioni inglesi. I «parlamenti e le magistrature cristiane» d’Inghilterra devono essere sostituiti da coloro che sono deporitari dell’immediato potere spirituale. cioè dai santi, dai «funzionari di Cristo». Non basta che i governanti siano cristiani; essi devono essere santi. «Ma come doveva essere costruito un regno dei santi, quando santi non sono (ungodly) né gli elettori né coloro che sono eletti?». Nessun compromesso è consentito con la vecchia classe governante, «come poteva essere ammesso allora di correggere la vecchia direzione del mondo?». L’unica condotta permessa è la «soppressione definitiva dei nemici della Santità (godliness)».

L’attacco radicale alle evolute istituzioni inglesi, la esigenza di bandire senza compromessi il nemico dalla vita pubblica e la sua soppressione (noi avremmo detto, oggi: liquidazione) acquistano un carattere particolare nei Queries, per ii fatto che i «funzionari di Cristo» si ribellano a Cristo stesso. La terminologia è ancora incerta. Le autorità inglesi sono indicate come «magistrati cristiani»; ma in altro luogo, quando l’ostilità prorompe, vengono definite dall’avversario come «anticristo». Spiritualmente affine alla predica di Collier, il cristianesimo puritano dei Queries si spinge a un punto tale che si distingue a mala pena da un movimento anticristiano, da un attacco micidiale alla dimensione storica di una società statale e cristiana, con l’intento di cancellarla.

Gli autori dei Queries ben sapevano che i cristiani non avrebbero ceduto il campo senza opporre resistenza. Il nuovo regno aveva la pretesa di un dominio universale; esso doveva estendersi «universalmente su tutte le persone e le cose». (Il senso dell’«universale» del 17° secolo sarebbe stato reso oggi con il termine «totale»). I santi si aspettavano che la pretesa universale della loro confederazione avrebbe suscitato un’alleanza altrettanto universale di forze a loro avverse. Essi dovevano quindi «unirsi contro le forze anticristiane del mondo»; e queste a loro volta si sarebbero «coalizzate tutte contro di loro». I due mondi, che dovevano susseguirsi nel tempo, avrebbero così armato due campi universali, sul piano della storia reale, che si sarebbero battuti fino alla morte. Già qui, nella mistica puritana dei due mondi contrapposti, cominciano a profilarsi le guerre universali che sono poi scoppiate nel 20° secolo. La pretesa di dominio universale professata dai settari gnostici genera l’alleanza universale contro di essi. Quel che è veramente pericoloso nelle odierne guerre mondiali non è l’estensione su tutta la terra del teatro di guerra, ma il loro carattere di conflitti tra mondi in senso gnostico, i quali possono avere termine soltanto con l’annientamento dell’avversario.

Le precedenti considerazioni hanno tentato di mostrare i tratti tipici della politica gnostica, facendo riferimento a quello che si è scelto di definire come suo fondamento. Con ciò tuttavia il problema non si esaurisce. Onde evitare malintesi, si tenga dunque presente in conclusione il limite del nostro scritto, così come il fatto che esistono altre questioni da noi non trattate.

Per determinare l’essenza della gnosi politica, bisogna considerare alla lettera le intenzioni dei pensatori gnostici. Essi vogliono forgiare un’immagine autentica della realtà umana, sociale e storica, e legittimano il loro operato con la verità di questa immagine. Il critico perciò è costretto a definire come verità l’essenza gnostica, ed egli non può fare altro, poiché la commisura ai criteri della propria conoscenza della realtà. Il risultato è la definizione di tale essenza come il tentativo patologico di tradurre un regno di perfezione trascendente in una realtà storica immanente. Questa definizione induce a significative considerazioni sulla decadenza della cultura razionale e dell’esercizio della ragione nel nostro tempo. Tuttavia non risponde a una serie di domande che pur s’impongono. Quali sono i processi dello spirito e della «psiche» che, nel crollo dell’individuo, portano all’errore patologico? In quali condizioni storiche questo errore diventa un movimento di massa? Quando e perché è propriamente comparso questo errore gravido di profonde ripercussioni sociali?

Sono questi grossi temi, che vanno oltre l’ambito di una ricerca sostanziale, qual è la presente. Ma le fonti sono state scelte in modo tale da far intravedere alcune possibilità di risposta. Documenti puritani e fonti del recente passato potrebbero in egual misura essere presi per pezze d’appoggio. Una tale scelta doveva far intendere che la gnosi politica è un processo sociale dalle profonde radici storiche. E i documenti puritani mostrano come essa abbia ulteriori radici persino nelle sétte ereticali del 12° e, ancor prima, dell’11° secolo. La rilevanza di queste origini storiche deve essere tenuta presente se si vuole comprendere la rilevanza dei movimenti gnostici nel nostro tempo. La loro forza distruttrice non proviene dalle sciocchezze di un paio d’intellettuali del 19° e del 20° secolo; essa è piuttosto l’effetto cumulato del problema non risolto di un millennio di storia occidentale e del suo tentativo di soluzione. Il fatto di aver avuto origine nei movimenti ereticali dell’alto medio evo, mostra inoltre trattarsi di problema di elevata cultura, in fase di espansione, a livello municipale e statale, alla cui soluzione il cristianesimo istituzionalizzato dell’epoca non fu in grado di far fronte (18).

Infine, si rammenti ancora che la politica gnostica è un nucleo canceroso in seno alla civiltà occidentale, un cancro nel cuore della sua tradizione classica e cristiana. Queste tradizioni sono oggi rifiutate, pesantemente pregiudicate e tenute in discredito grazie a secoli di propaganda intellettuale antifilosofica e anticristiana; ma non hanno certo ceduto all’interno. Al contrario, l’ultimo mezzo secolo potrebbe apparire, con uno sguardo storico retrospettivo, il momento decisivo del loro rinascere; a confronto dei tempi intorno al 1900, noi oggi abbiamo di nuovo una scienza dell’umanità, nella società e nella storia, che possa definirsi tale senza destare scherno. Ma l’incidenza sociale di questa risorta disciplina dell’intelletto e dello spirito è ancora molto limitata, soverchiata com’è dagli schiamazzi degli intellettuali politicizzati e del loro seguito, in posizioni stabilmente assicurate — siano esse accademiche, partitiche, sindacali, editoriali, giornalistiche e comunque proprie di altri capisaldi sociali. Occorrerà molto tempo, convincimento, lavoro e probabilmente anche l’uso della forza, per respingere questi fattori distruttivi anche e soltanto fino al punto che non arrechino più danno, come già hanno fatto. Ma il compito non è disperato.

Note (a cura di G. Vignelli – G. Serra)

(1) È opportuno qui ricordare che l’intero Occidente, alla notizia dell’avvenuta scoperta delle Americhe, fu percorso da una nuova ondata di millenarismo, e quasi dovunque si poteva respirare un’atmosfera carica di attesa e di speranza nell’avvento del «nuovo mondo rigenerato», concepito in opposizione alla vecchia Europa delle monarchie e soprattutto in opposizione alla Chiesa cattolica, considerata alla stregua di una «nuova Babilonia», corrotta e nemica della morale «naturale» e del libero pensiero. La Riforma protestante venne appunto esaltata come I’inizio del trionfo di questa «nuova era», ma poi, dopo le inevitabili delusioni provocate dal perverso Stato «teocratico» (in realtà gnostico) della Ginevra calvinista, le speranze si rivolsero verso le comunità pionieristiche puritane dell’America civilizzata, le quali furono considerate come il fermento che avrebbe fatto lievitare la nuova «comunità universale» degli eletti, cosicché l’America sarebbe diventata il centro del prossimo «nuovo mondo» sul quale Dio avrebbe regnato poi per un millennio; l’americanismo internazionalista ed interventista della prima metà del nostro secolo può esser considerato l’ultimo frutto di questa mentalità neo-gnostica (Cfr. Mircea Eliade, «Paradiso e utopia: il messianismo nella società americana», in «La Destra», a. II, n. 10, Milano 1972, pp. 11-31).
Per quanto riguarda il millenarismo in genere, nella sua storia, si veda Norman Cohn, «I fanatici dell’Apocalisse», Comunità, Milano 1976. Per i rapporti tra il protestantesimo (anche puritano) e le dottrine e le sette neo-gnostiche, si vedano: Ronald Konox, «Enthusiasm», Clarendon Press, Oxford 1950, e, dello stesso autore, «Illuminati e carismatici», Il Mulino, Bologna 1970; inoltre, F. Yates, «L’illuminismo dei Rosa-Croce», Einaudi, Milano 1974, e, dello stesso autore, «Asthrea», che sarà presto tradotto in italiano. Per la moderna gnosi politica in genere, invece, resta sempre utile il sintetico libro di Thomas Molnar, «L’utopia eresia perenne», Borla, Torino 1968, cui è bene aggiungere il più approfondito testo di Jakob Talmon, «Political messianism», Praeger, New York 1960. Per l’antica gnosi, infine, si veda ad es. Hans Jonas, «The gnostic religion», Beacon Press, Boston 1963.

(2) Effettivamente, dopo la Riforma protestante, la «distruzione della ragione» già esaltata da parte dell’antica gnosi (dal manicheismo a Carpocrate fino alla Kabbala ebraica) comincia ad essere attuata radicalmente da parte della nuova gnosi (si pensi già a Jakob Böhme e a Francis Bacon, ambedue aderenti alla setta dei Rosa-Croce). Secondo la lucida analisi di un celebre studioso, il padre Cornelio Fabro, il processo dissolutivo della ragione (e della filosofia) ha il suo punto di partenza decisivo già nella dottrina cartesiana del «cogito», secondo la quale è il dubbio che fonda la certezza, e la negazione che permette l’affermazione (di conseguenza, è il nulla che fonda l’essere, non viceversa); in seguito, da Spinoza fino a Hegel, la nuova gnosi tenta l’impossibile creazione di una nuova ragione, alla luce del principio (di derivazione cartesiana) secondo il quale è la coscienza che «pone» la realtà, che si proclama dio e che reclama il suo culto, la «religione dell’umanità» (Cfr. Cornelio Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, Studium, Roma 1969, spec. le pp. 1004-1100). La nuova gnosi assolutizza la ragione per meglio eliminarla, proprio come il puritanesimo assolutizzava (disincarnandola) la morale per meglio dissolverla. Il risultato inevitabile è l’attuale vicolo cieco della «metafisica del nulla» vissuta nella squallida disperazione esistenziale.

(3) È qui evidente quella che viene definita «immanentizzazione dell’eschaton cristiano», tipica della mentalità millenaristica, il cui risultato è l’identificazione fra la «Città di Dio» ultraterrena e la «Città degli uomini», identificazione che avverrà alla fine dei tempi. La posizione cattolica è ovviamente tutta diversa, come è evidente in S. Agostino (Cfr. R.T. Calmel, Per una teologia della storia, Borla, Torino 1967). Essendo schiettamente immanentista e credendo nella possibilità di realizzare la perfezione divina sulla terra, la nuova gnosi identifica (nel futuro) Gerusalemme celeste e Gerusalemme terrena, giustificando cosi l’avvento dello Stato divinizzato, cioè del totalitarismo.

(4) La nuova gnosi — al contrario di quella dei primi secoli dell’era cristiana — si mostra attenta alla lettura letteraria, alla interpretazione materialistica delle Sacre Scritture, e ciò deriva forse anche dalla necessità moderna di trascinare le masse verso il «nuovo mondo». Queste moltitudini finiscono quindi col perdere il prezioso senso del simbolo, dell’analogia, del legame cioè tra materiale e spirituale, e tra immanente e trascendente (Cfr. Santiago Ramirez, De analogia, CISC., Madrid 1974).


(5) Il linguaggio dialettico, la dialettica stessa, è l’arma tipica della nuova gnosi (anche se già preparata dall’antica); con la sua irriducibile ambiguità, con la sua tensione tra realtà e utopia, presente e futuro, vero e falso, essa è un vero dissolvente, capace di far leva sui punti deboli dell’uomo e della società, e di far scoppiare una serie di rivoluzioni a catena. Per la dimostrazione dell’assurdità razionale della dialettica (sia hegeliana che marxista), si vedano i saggi introduttivi di Cornelio Fabro all’antologia di Hegel (La dialettica) e di Feuerbach - Marx - Engels (Materialismo dialettico e materialismo storico) pubblicate da La Scuola, Brescia 1973 e 1962.

(6) Voegelin ha scritto sui «divieti» — come tentativo di «ostruzione della ratio» — nella sua celebre opera La nuova scienza politica, (Borla, Torino); in Marx, ad esempio, l’uomo socialista deve dissolvere nell’attivismo della prassi l’eterno problema (essenziale ed esistenziale) dell’arché: ciò, ha rilevato Del Noce, è un «dovere morale» da parte del rivoluzionario, in quanto bisogna eliminare lo scandalo della limitatezza e della dipendenza dell’uomo; bisogna dunque eliminare l’«abominevole concezione del Peccato Originale» (Garaudy), che vuole compromettere in radice l’autodivinizzazione dell’uomo (Cfr. U. Spirito, A. Del Noce, Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?, Rusconi, Milano 1971, p. 46 e passim). Così facendo, la nuova gnosi vuole mascherare l’atto di fede su cui si basa (cioè il mito della perfettibilità dell’uomo) e lo maschera mistificandolo.

(7) Si noti qui come la società futura è descritta in modo simile alla visione del Paradiso intuita da S. Paolo nel Nuovo Testamento; ma l’atteggiamento morale è tipico della mentalità protestante imbevuta della «fides fiducialis» luterana, che è ben diversa dalla cattolica virtù della speranza.

(8) Per i caratteri gnostici del «regno della libertà» profetizzato dal marxismo, e che dovrà realizzarsi nella «società senza classi», si vedano A. Del Noce, Lezioni sul marxismo, Giuffré, Napoli 1972, e Robert Tucker, Philosophy and myth in Karl Marx, Cambridge University Press, 1961.

(9) Si avrebbe in tal caso quello che è stato descritto come «tradimento della rivoluzione», si cadrebbe nella «rivoluzione tradita», studiata a fonda, nel caso del comunismo sovietico soprattutto, da Del Noce (in Tramonto o eclissi...?, cit., pp. 212-235, e in altre opere).

(10) L’odio che il comunismo ha per la categoria del privato (non solo per la proprietà privata) deriva dal fatto che, per la gnosi marxista, ciò che è privato e espressione di un individualismo che si oppone all’istanza cosmica di rigenerazione universale e di creazione del nuovo universo collettivizzato nel quale ogni differenza è annullata nel Tutto.

(11) Ed. it. Einaudi, Torino 1977.

(12) Il legame tra Riforma protestante, Illuminismo (Rivoluzione Francese) e Comunismo è ben delineato in diversi testi, ad es. da Marcel De Corte in certi passaggi del suo libro L’intelligenza in pericolo di morte (Volpe, Rorna 1973), ed ancor meglio da Plinio Correa de Oliveira nel suo sintetico testo «Rivoluzione e Contro-Rivoluzione» (Cristianità, Piacenza 1977), il quale esamina anche i metodi e le caratteristiche della Rivoluzione moderna.

(13) Ed. Riuniti, Roma 1969.

(14) Si pensi alla frase di Lenin: «Non esistono persone: in generale esistono soltanto masse», frase che non è una constatazione, bensì un programma.

(15) Ed. Riuniti, Roma 1968.

(16) Ed. Riuniti, Roma 1975.

(17) La tattica comunista, dunque, è un compromesso in vista di un più sicuro trionfo definitivo, è rivoluzione strisciante, è lotta di classe occulta (interessanti aspetti della storia del comunismo sono rivelati, a questo proposito, da Léon De Poncins, nella sua Histoire du communisme, Diffusion de la Pensée Francaise, Vouillé 1973).

(18) È bene notare che, se la Cristianità nel tardo medioevo non ha saputo bloccare il dilagare della gnosi, ciò non è certo dovuto a una ipotetica deficienza intellettuale del Cristianesimo dell’epoca: lo spinoso problema dell’esistenza del male, che è sempre stato il punto di forza dottrinale della gnosi medievale (Manselli) e la sua «testa di turco» contro la visione cattolica della realtà, era stato già risolto felicemente da S. Agostino, e infine, nel tardo medioevo, da S. Tommaso, nelle sue celebri «Quaestiones disputatae de malo», dirette contro i neo-manichei. La causa del crollo della Cristianità, e del lento successo della nuova gnosi a partire dal Rinascimento, è da cercarsi piuttosto nella debolezza morale delle moltitudini cattoliche dell’epoca: il disordine morale ha finito col provocare il disordine intellettuale e a fornire quindi terreno coltivabile da parte dei seguaci dello gnosticismo moderno; il che era già stato temuto da S. Bernardo e S. Tommaso (Noi possiamo da tutto ciò dedurre la lezione che la sconfitta della nuova gnosi potrà avvenire soltanto se — come dice lo stesso Voegelin — viene creato il terreno propizio per una rinascita spirituale che favorisca e accompagni la rinascita intellettuale e la restaurazione della filosofia e della società civile).


Corpus Domini, autentico ristoro dell'anima. Si rinforzi in noi il desiderio di adorazione eucaristica e la gratitudine verso colui che ha dato corpo e sangue per il nostro riscatto – Bruno Volpe – dal sito pontifex.roma.it
La Chiesa cattolica celebra con gioia la solennità del Corpus Domini, ovvero il Corpo di Nostro Signore. Una tappa davvero importante e carica di significato. Chiediamo un parere su questa solennità al noto teologo e professor Don Renzo Lavatori. Professor Lavatori, che cosa ci dice il Corpus Domini?: " ha vari significati, uno storico e ricorda il miracolo di Bolsena quando, senza spiegazione, il corporale del sacerdote venne trovato intriso del divino sangue". Poi a ruota segue quello teologico: " dietro la ostia santa si cela il grande, inspiegabile, sommo mistero della trasformazione del pane in Corpo di Cristo e del vino nel suo Sangue. Il Dio che si fa carne e sangue per noi, per la nostra liberazione dalla schiavitù del peccato. Nel Corpus Domini facciamo memoria particolare della Eucarestia che é fonte e culimine della nostra vita cristiana e senza la quale la nostra fede perderebbe significato". Poi precisa: ...

... " la solennità del Corpus Domini é stata adeguatamente sottolienata da San Tommaso Di Aquino con inni bellissimi e commoventi che accompagnano tutta la liturgia e sono un invito toccante e mirabile al grande mistero che andiamo a celebrare con gioia e allo stesso ammirazione".

Pare di capire che nel Corpus Domini si esalti il valore e la centralità della Eucarestia: " certo. La Eucarestia ci accompagna ogni giorno ed ogni domenica, ma l' uomo ha anche bisogno di segni e la solennità del Corpus Domini esalta questo mistero e ci invita alla contemplazione della Eucarestia come mistero di amore per noi peccatori, nella eucarestia si ravviva la fede dei cristiani, dei sacerdoti, del popolo di Dio. Ma l' Eucarestia da sola non basta".

Che cosa serve?: " recuperare, anche se fortunatamente questa tendenza é in atto da qualche tempo, la pratica della adorazione eucaristica, il fermarsi in silenzio e contemplazione almeno una ora al giorno davanti al Tabernacolo, per meditare e riflettere su questo mistero e rendere grazie al Signore".

In una società che vive di fretta spesso questo non accade: " questo é innegabile, ma fermarsi in contemplazione e preghiera davanti al tabernacolo fa bene e non male, ristora il nostro animo. E' una specie di fonte di salute per l' anima, un soccorso spirituale da non sottovalutare. Dopo il Concilio Vaticano II, non per colpa del Concilio, questa pia e devota pratica é sembrata cadere in disuso, quando anche per ragioni architettoniche il tabernacolo é stato collocato lateralmente o in cappellette. Invece sarebbe opportuno ricuperare la centralità del tabernacolo, e ammirare il mistero che Cristo ci ha donato, in silenzio e preghiera".

Che altro ci dice il Corpus Domini?: " che Cristo é sacramentalmente presente con noi nelle specie del corpo e del sangue, una presenza che orienta deve orientare la nostra esistenza. Ecco il motivo per il quale é necessario rivalutare e sviluppare il rito dell' adorazione eucaristica se possibile anche di notte o comunque in modo continuo come molte diocesi saggiamente stanno facendo".

Che invito rivolge ai fedeli?: " celebrate degnamente questa solennità non con una partecipazione distratta alla Messa, ma fermatevi in adorazione davanti al santissimo, contemplate il mistero di Colui che ha dato la vita per noi, riscoprite la bellezza della adorazione eucaristica, medicina dell' anima".
Bruno Volpe


IL «SEGNO» CRISTIANO - PER NON PERDERSI NEI MEANDRI DI UNA STORIA SPEZZATA - LUIGI GENINAZZI – Avvenire, 6 giugno 2010
L’ affermazione suona quasi pro vocatoria, ma è lo stile a cui ci ha abituato il Papa-teo logo. «Il mondo ha bisogno della cro ce », ha detto ieri sera Benedetto X VI, nell’unica ome lia finora tenuta nel corso della visita a Cipro. E forse val la pena partire da qui, da queste parole pronunciate significa­tivamente nella chiesa di Santa Croce, circondata dal filo spinato lungo la li­nea di demarcazione che divide in due il Paese, per capire il senso profondo di un viaggio difficile in una terra la cerata.


A Cipro, crocevia politico e religioso di identità e conflitti, c’è il rischio di per­dersi nei meandri di una storia che ha spezzato la geografia con la violenza di una guerra civile le cui ferite, dopo trentasei anni, non si sono ancora ri­marginate. Ma solo la croce, dice il Pa pa, può porre fine all’odio e a soffe renze come quelle che sono state ri cordate più volte in questi giorni dal le autorità cipriote. Di fronte ai discorsi roboanti del capo della Chiesa orto dossa che ha voluto far sentire il suo grido di dolore a tutto il mondo, de nunciando l’occupazione turca e la profanazione continua degli edifici re ligiosi, qualcuno forse si sarà meravi gliato del tono apparentemente re missivo tenuto dal Pontefice. Ma sa rebbe sbagliato considerarlo sempli cemente frutto di una prudenza di plomatica. Al contrario è l’esito di quella «pazienza del bene», come ha detto Benedetto XVI con un’espres sione inedita e suggestiva, che do vrebbe essere l’atteggiamento di colo ro che credono nella realtà misteriosa ed efficace della croce.

È questo il messaggio fondamentale che il Papa sta delineando durante quest’intensa visita pastorale. La pace ha bisogno dei cristiani che hanno «un ruolo insostituibile per la riconcilia zione tra i popoli», una riflessione che non a caso si sviluppa in questo lem bo di Terra Santa, nell’isola che vide il primo viaggio missionario di San Pao lo ed oggi intende essere ponte tra cat­tolicesimo e mondo ortodosso, tra Eu ropa e Medio Oriente. È un messaggio rivolto prima di tutto all’interno della Chiesa, ai cattolici che devono essere promotori di «una maggiore unità nel la carità con gli altri cristiani ma anche del dialogo interreligioso», ha ricorda to il pastore della Chiesa universale al piccolo gregge che spesso si è sentito abbandonato e dimenticato.

La visita di Benedetto XVI, la prima di un Papa a Cipro in duemila anni di sto­ria, ha rappresentato un evento colmo di gioia e consolazione per la mino­ranza cattolica dell’isola. Ma il Ponte fice è andato oltre e l’ha invitata a tra­sformare il peso storico delle soffe renze in opportunità di dialogo con i musulmani. Una sfida coraggiosa se si pensa che è stata lanciata a chi dovet te subire l’islamizzazione forzata nel nord dell’isola. Parole molto impe­gnative che hanno avuto un riscontro concreto nell’abbraccio caloroso tra il Papa ed uno sceicco musulmano del la comunità turco-cipriota, un gesto carico di simbolismo avvenuto lungo la 'linea verde' che taglia in due l’ul timo Paese diviso d’Europa dopo la ca duta del Muro di Berlino. «I musulma ni sono nostri fratelli», ha detto Bene detto XVI sull’aereo che lo portava a Cipro, un’espressione che finora era stata usata solo da Giovanni Paolo II. Una fratellanza non facile in Terra San ta dove si fa sentire il peso quotidiano delle sofferenze e i cristiani sono ten tati d’andarsene. Ma chi rimane di venta «un segno straordinario di spe ranza per tutti quanti vivono nella re gione ». Ecco perché il mondo ha biso gno della croce.


L’INSUFFICIENZA DELLE POLITICHE REGIONALI (CON ECCEZIONI) - La maternità valore sociale: unica via per sostenerla davvero - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 6 giugno 2010
S scarse e disorganiche: così sono le politiche per il sostegno alla maternità messe in campo dalle nostre amministrazioni regionali, come mostra l’indagine che Avvenire pubblica oggi nelle pagine interne. I provvedimenti sono mal distribuiti sul territorio italiano: una pennellata qua e un’altra là, poche tracce di colore che non seguono la trama di un disegno complessivo. C’è il recentissimo fondo Nasko della Regione Lombardia, a sostegno esplicito di gravidanze difficili, dedicato a chi ha già fatto richiesta di abortire per motivi economici: un primo, meritorio passo che alcune regioni hanno già dichiarato di voler seguire. La Puglia, invece, ha messo da poco a disposizione 'prime doti', cioè finanziamenti rivolti a famiglie a basso reddito. Altrove si parla di leggi per la famiglia, asili nido, fondi di sostegno all’alloggio: iniziative disomogenee sul territorio, a volte episodiche, spesso poco finanziate, e che soprattutto sembrano più il frutto della buona volontà di alcuni amministratori piuttosto che di una strategia definita per raggiungere obiettivi ben individuati, sia pure a livello regionale. Quel che emerge è una generale mancanza di consapevolezza del 'bene maternità' nella politica italiana, comune a tutti gli schieramenti e alle differenti amministrazioni locali e nazionali che nel tempo si sono avvicendate, nessuna delle quali sembra aver lasciato finora un segno tangibile in questo ambito. Il costante calo degli aborti e la sostanziale tenuta delle reti dei rapporti familiari, che fanno dell’Italia una felice eccezione nel panorama occidentale, appaiono l’esito di una cultura diffusa più che di politiche mirate, ma non sono bastati comunque ad evitare la grave emergenza demografica in cui versa il nostro Paese, dove nascono sempre meno bambini. Le cause sono molteplici e complesse, ma non innanzitutto e non solamente economiche, visto che siamo una delle nazioni più ricche del mondo, e che generalmente non sono le famiglie a reddito più elevato quelle con più figli. Possiamo dire, in generale, che la maternità non è percepita come un valore sociale: è un fatto che riguarda le coppie ed eventualmente i singoli individui, spesso una scelta personale che però non viene vissuta come un fatto positivo per tutta la società, piuttosto come un percorso da affrontarsi soprattutto dal punto di vista sanitario e che, dopo l’evento della nascita, è quasi ignorato. Di conseguenza, la politica fa fatica a occuparsene in modo sistematico e organico, a riconoscerne l’importanza e a metterla fra le priorità della sua agenda.

Quindi, politiche di sostegno alla maternità – a partire da quelle più fragili, come sono quelle rifiutate – anche se non risolveranno il problema demografico, sono un segno necessario e importantissimo per il riconoscimento del valore pubblico della maternità, del valore di ogni singola maternità per l’intera società, laddove per maternità non si intende solamente la nascita di una nuova persona, ma anche e soprattutto il suo rapporto con chi l’ha fatta venire al mondo. Il sostegno alla maternità si allarga inevitabilmente a quello alla paternità, per diventare sostegno alla famiglia tutta.

La sfida è quella di un’iniziativa politica che può essere intrapresa anche a livello locale, nell’ottica federalista verso cui si sta andando, ma che per essere efficace ha bisogno di una profonda consapevolezza dell’importanza del 'bene maternità', e della necessità di un disegno complessivo adeguato per sostenerlo. È soprattutto in momenti di crisi come questo che se ne sente il bisogno.


Suor Mainetti, 10 anni dopo Il chicco ha portato frutto - DA COMO ENRICA L ATTANZI – Avvenire, 6 giugno 2010
Sono trascorsi dieci anni da mer coledì 7 giugno 2000, quando Chiavenna - e con essa l’Italia intera, ebbero un risveglio da incu bo. La notte precedente, quella del 6 giugno, suor Maria Laura Mainetti, religiosa delle Figlie della Croce di Sant’Andrea e superiora della Co munità dell’Istituto Immacolata, era stata uccisa in via una stradina al l’imbocco del Parco delle Marmitte dei Giganti. Teresina (Maria Laura) Mainetti, nacque a Colico (Lc) il 20 a gosto 1939. Era suora dal 25 agosto 1964 e per tutta la vita si era dedica ta all’insegnamento. Le indagini portarono all’arresto di tre giovani, tutte minorenni: Ambra, Milena, Veronica che confessarono di averla uccisa in una sorta di rito satanico. La scelta ricadde sulla suo ra per la figura esile e il carattere mi te. L’inganno utilizzato per attirarla fuori dal convento (una di loro dis se di aspettare un bambino frutto di una violenza). Le coltellate inferte seguendo un rito feroce e macabro (decisero di colpirla sei volte cia scuna). Alla fine le ferite mortali fu rono diciannove. Gli inquirenti chia marono l’inchiesta “Raggio di luce” «per il messaggio di speranza che ci arriva da suor Laura», ebbe a spie gare l’allora procuratore di Sondrio Gianfranco Avella. Mentre le giova ni la colpivano, infatti, suor Laura, in ginocchio, pregava, assicurando lo ro il suo perdono e implorando la Misericordia divina per le sue tre as sassine.

Nel luogo del martirio è stata posta una Croce in granito dove campeg gia il motto evangelico «Se il chicco di grano muore, porta molto frutto». Da dieci anni è meta di pellegrinag gi: «La gente ha capito la generosità estrema di suor Mainetti, e lì si ri trova per pregare e per pregarla», os serva l’arciprete di Chiavenna Am brogio Balatti. Per suor Maria Laura è in corso il processo di beatifica zione. «La sua - ricordava Alessan dro Maggiolini, vescovo della dioce si di Como all’epoca dei fatti - è sta ta un’esistenza fatta di carità, umiltà, preghiera. Non ha cercato il martirio. Ma quando ha compreso quanto si stava compiendo, lo ha accettato».

Attualissimo il messaggio che giun ge dal sacrificio della religiosa: «Suor Maria Laura – chiosa monsignor Ba latti – ha dimostrato con la vita che il bene è più forte del male». «Suor Lau ra – afferma il vescovo di Como mon signor Diego Coletti – è un dono grande per la diocesi e per il mondo. La sua morte si colloca nel quadro di una vita tutta spesa per l’educazione dei giovani».

«Conoscevo suor Laura fin dai tem pi del noviziato - ricorda suor Beatri ce Mariani, curatrice del libro che raccoglie un’antologia degli scritti della Mainetti - . Tre i valori che l’hanno sempre ispirata: la coscienza dell’onni presenza di Dio; la volontà di essere fe lice anche nelle diffi coltà; l’impegno ad amare ogni uomo in quanto tale».

In memoria di suor Mainetti sono nate associazioni educa tive, centri di aiuto alla vita, attività di solidarietà e accoglienza. Oggi po meriggio - giorno anniversario del l’assassinio - alle ore 16.30, nella Col legiata di San Lorenzo, Chiavenna e la Chiesa di Como ricordano suor Ma ria Laura nella Santa Messa presie duta dall’arvivescovo Francesco Coc copalmerio, presidente del Pontificio Consiglio per i testi legislativi del Va ticano. Al termine sarà inaugurato il centro di prima accoglienza della Ca ritas intitolato a suor Mainetti.