Nella rassegna stampa di oggi:
1) PAPA: CELIBATO E' IL CONTRARIO DEL NON SPOSARSI DI MODA OGGI - Salvatore Izzo - (AGI) - CdV, 10 giu 2010
2) Elogio del sacerdozio firmato Francesco d'Assisi - Quel testamento che non si cita mai - Pubblichiamo alcuni stralci del libro Dio nelle nostre mani. Lettera di Francesco sul sacerdozio e l'Eucarestia (Assisi, Edizioni Porziuncola, 2010, pagine 32, euro 3). - di Marco Guida - Pontificia Università Antonianum - L'Osservatore Romano - 11 giungo 2010
3) 10/06/2010 - TURCHIA – VATICANO - Arcivescovo di Smirne: Sul martirio di mons. Padovese vogliamo la verità e non “pie bugie” - di Bernardo Cervellera - Mons. Ruggero Franceschini è in Italia per partecipare ai funerali di mons. Luigi Padovese a Milano. Egli conferma l’uccisione con rituale islamico del Vicario dell’Anatolia. E conferma anche la sanità di mente dell’assassino, da lui conosciuto da molto tempo. Un omicidio programmato e studiato nei particolari da gruppi eversivi, che vogliono allontanare la Turchia dall’Europa. La richiesta di aiuto alla Chiesa universale e a Roma.
4) Cristiani nel mirino - Mario Mauro - venerdì 11 giugno 2010 – ilsussidiario.net
5) Islam: approvo la linea di basso profilo della Santa Sede con la Turchia, non é realistica altra soluzione si rischia lo scontro. L'assassinio del vescovo non é un caso isolato, ma frutto di fondamentalismo. Anche Oddifreddi é nostro fratello, pensate - Bruno Volpe intervista il professor Massimo Introvigne – dal sito pontifex.roma.it
6) I comunisti mangiano i bimbi. Ecco le prove dalla rossa Cina - Marco RESPINTI - Il Giornale – dal sito pontifex.roma.it
7) ABORTO - Ru486, la prima paziente rinuncia al ricovero - Polverini contrariata, varato il protocollo - http://roma.repubblica.it
8) MEETING/ Weiler (NY University): i sei ingredienti che creano un successo di fede e ragione - Joseph Weiler - venerdì 11 giugno 2010 – ilsussidiario.net
9) Avvenire.it, 11 giugno 2010 - ANNO SACERDOTALE - «La gioia di essere preti» - A Roma da tutto il mondo - Stefania Careddu
10) «Alunni disabili, diritti negati» la denuncia - Il Coordinamento delle associazioni che lavorano coi bimbi Down lancia l’allarme: un terzo delle classi con disabili supera il tetto massimo dei venti studenti - DA ROMA – Avvenire, 11 giugno 2010
11) Un popolo nella notte verso la Casa del «sì» - DI GIORGIO PAOLUCCI - Avvenire, 11 giugno 2010
PAPA: CELIBATO E' IL CONTRARIO DEL NON SPOSARSI DI MODA OGGI - Salvatore Izzo - (AGI) - CdV, 10 giu 2010
"Puo' sorprendere questa critica continua contro il celibato in un tempo dove sempore piu' diventa moda non sposarsi, ma il celibato dei preti e' una cosa fondamentalemente diversa dal non sposarsi di tanti oggi, che e' un non volere vincoli per vivere solo per se stessi".
Benedetto XVI ha risposto cosi' alla domanda di un sacerdote che chiedeva come rispondere alle critiche del mondo al celibato sacerdotale.
"Oggi - ha detto - molti dicono un no al vincolo, alla definitivita' del matrimonio per avere la vita solo per se stessi.
Il nostro celibato e' totalmente diverso, e' un lasciarsi prendere per mano da Dio ,un atto di fedelta' e fiducia che suppone la stessa fedelta' del matrimonio. E' infatti un obbligarsi a un si' definitivo". In questo senso, per il Papa il matrimonio e il sacerdozio sono sacramenti che si richiamano l'uno con l'altro. "Se scompare il matrimonio tra uomo e donna - ha detto - scomapre la radice della nostra cultura". Ed anche la testimonianza del sacerdote celibe e' un appello alla verita'.
"Il celibato sacerdotale - ha detto il Pontefice - e' anticipazione della grazia del Signore che ci spinge a trascendere verso il futuro che diventa presente oggi". "Ma oggi - ha aggiunto - non si pensa piu' al futuro di Dio, sembra sufficiente solo il presente, a Dio in questo mondo chiudiamo le porte al futuro. Il senso del celibato e' aprire queste porte al futuro che va vissuto per noi come presente, crediamo realmente che Dio c'e' possiamo fondare su questo la vita.
Dove Dio non c'entra il celibato e' un grande scandalo".
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Elogio del sacerdozio firmato Francesco d'Assisi - Quel testamento che non si cita mai - Pubblichiamo alcuni stralci del libro Dio nelle nostre mani. Lettera di Francesco sul sacerdozio e l'Eucarestia (Assisi, Edizioni Porziuncola, 2010, pagine 32, euro 3). - di Marco Guida - Pontificia Università Antonianum - L'Osservatore Romano - 11 giungo 2010
Nella primavera del 1226 frate Francesco è a Siena, dove le sue condizioni di salute si fanno sempre più gravi. I frati temono che la morte del loro fratello e padre sia ormai imminente. Così chiedono a Francesco di lasciare loro un memoriale della sua volontà, che questi prontamente detta a un frate sacerdote: "Scrivi che benedico tutti i miei frati, che sono in questa Religione e quelli che vi entreranno sino alla fine del mondo (...) E siccome a motivo della debolezza e per la sofferenza della malattia non posso parlare, brevemente manifesto ai miei frati la mia volontà in queste tre parole, e cioè: in segno e memoria della mia benedizione e del mio testamento, sempre si amino gli uni gli altri, sempre amino e osservino nostra signora la santa povertà, e sempre siano fedeli e sottomessi ai prelati e a tutti i chierici della santa madre Chiesa". All'amore vicendevole e all'amore per la signora santa povertà - cardini della sua esperienza cristiana - Francesco unisce indissolubilmente la fedeltà e la sottomissione ai prelati e a tutti i chierici della santa madre Chiesa, quale garanzia e condizione per vivere cattolicamente la comunione fraterna e la povertà. Non è irrilevante che Francesco, prossimo alla morte, ribadisca e ricordi ai frati questa priorità. La sua salute sembra ristabilirsi, ma l'appuntamento con "sorella morte" giunge nell'autunno dello stesso anno. Così al Testamento di Siena, breve ed essenziale, Francesco può aggiungere e dettare per i suoi frati un ampio e pensato Testamento nel quale ripercorre la sua esperienza cristiana, e che definisce "un ricordo, un'ammonizione, un'esortazione e il mio testamento" (Testamento, 34) ricordo della sua conversione e della nascita della fraternità, ammonizione a non allontanarsi dalla vocazione ricevuta dal Signore, esortazione a vivere la vita e la Regola evangelica in piena comunione con la Chiesa. Anche in questa occasione Francesco ricorda la sua fede e sottomissione ai chierici perché anche i suoi frati facciano lo stesso: "Poi il Signore mi dette e mi dà una così grande fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a motivo del loro ordine, che se mi facessero persecuzione, voglio ricorrere proprio a loro. E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e trovassi dei sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie in cui dimorano non voglio predicare contro la loro volontà. E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come miei signori, e non voglio considerare in loro il peccato, poiché in essi io discerno il Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio questo perché dello stesso altissimo Figlio di Dio nient'altro vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il santissimo sangue suo, che essi ricevono ed essi soli amministrano agli altri" (Testamento, 6-10).
È l'eucaristia il motivo della grande fede di Francesco nei sacerdoti, lo stupore del suo cuore e dei suoi occhi nel contemplare il Figlio di Dio presente nel pane e nel vino consacrati. Così si esprime nella Ammonizione sul Corpo del Signore: "Perciò: Figli degli uomini, fino a quando sarete duri di cuore? (Salmi, 4, 3). Perché non conoscete la verità e non credete nel Figlio di Dio? (cfr. Giovanni, 9, 35). Ecco, ogni giorno egli si umilia (cfr. Filippesi, 2, 8), come quando dalla sede regale (Sapienza, 18, 15) discese nel grembo della Vergine; ogni giorno egli stesso viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre (cfr. Giovanni, 1, 18) sull'altare nelle mani del sacerdote" (Ammonizione, 1, 14-18). È questa la ragione per cui Francesco rivolgendo ai frati un'altra Ammonizione li esorta a onorare i chierici: "Beato il servo di Dio che ha fede nei chierici che vivono rettamente secondo la forma della santa Chiesa romana. E guai a coloro che li disprezzano; quand'anche infatti siano peccatori, tuttavia nessuno li deve giudicare, poiché il Signore in persona riserva solo a se stesso il diritto di giudicarli. Infatti, quanto maggiore di ogni altro è il ministero che essi svolgono riguardo al santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo, che essi ricevono ed essi soli amministrano agli altri, così quelli che peccano contro di loro hanno un peccato tanto più grande, che se peccassero contro tutti gli altri uomini di questo mondo" (Ammonizione, 26, 1-4). Le affermazioni di Francesco sono un'attestazione chiara e decisa della sua estraneità alle posizioni dei movimenti ereticali del tempo ostili ai chierici che vivevano nel peccato e vuole che i fedeli, imparando dal suo esempio e da quello dei suoi frati, abbiano venerazione per i chierici ministri dell'eucaristia: "Dobbiamo anche visitare frequentemente le chiese e venerare e usare riverenza verso i chierici, non tanto per loro stessi, se sono peccatori, ma per l'ufficio e l'amministrazione del santissimo corpo e sangue di Cristo, che essi sacrificano sull'altare e ricevono e amministrano agli altri. E tutti dobbiamo sapere fermamente che nessuno può essere salvato se non per mezzo delle sante parole e del sangue del Signore nostro Gesù Cristo, che i chierici pronunciano, annunciano e amministrano. Ed essi soli debbono esserne ministri e non altri" (Lettera ai fedeli, 2, 33-35).
Negli ultimi anni della sua vita Francesco, gravato dal peso delle malattie e non potendo più raggiungere i frati e i fedeli per predicare loro e incontrarli di persona, intensifica il suo apostolato epistolare (alla parola scritta riconosceva una grande importanza, contrariamente a quanto si crede). Scrive ai fedeli e scrive ancor più ai frati. A loro radunati in Capitolo - l'incontro che annualmente si teneva alla Porziuncola in occasione della Pentecoste - invia una lettera nella quale scrive parole di accorata intensità e partecipazione, rivolgendosi soprattutto a coloro che nella fraternità sono anche sacerdoti: "Prego poi nel Signore tutti i miei frati sacerdoti, che sono e saranno e desiderano essere sacerdoti dell'Altissimo, che quando vorranno celebrare la Messa, puri e con purezza compiano con riverenza il vero sacrificio del santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo, con intenzione santa e monda, non per motivi terreni, né per timore o amore di alcun uomo, come se dovessero piacere agli uomini (cfr. Efesini, 6, 6; Colossesi, 3, 22)" (Lettera a tutto l'Ordine, 14). Francesco non solo vuole che i suoi frati venerino i sacerdoti a motivo del loro ministero, ma che gli stessi frati sacerdoti siano santi e abbiano in grande venerazione il corpo e sangue del Signore di cui sono ministri e servi: "Ascoltate, fratelli miei. Se la beata Vergine è così onorata, come è giusto, perché lo portò nel suo santissimo grembo; se il Battista tremò di gioia e non osò toccare il capo santo del Signore; se è venerato il sepolcro, nel quale egli giacque per qualche tempo; quanto deve essere santo, giusto e degno colui che tocca con le sue mani, riceve nel cuore e con la bocca e offre agli altri perché ne mangino, Lui non già morituro, ma in eterno vivente e glorificato, sul quale gli angeli desiderano volgere lo sguardo (1 Pietro, 1, 12)!" (Lettera a tutto l'Ordine, 21-22). Francesco esige che i suoi frati sacerdoti siano santi giusti e degni di toccare con le proprie mani il corpo del Signore. Ed è questo contatto diretto, materiale, delle mani con l'eucaristia che suscita in Francesco l'atteggiamento di venerazione per i chierici di cui le antiche fonti biografiche ci danno notizia. Tommaso da Celano negli anni 1246-1247 scrive che Francesco "voleva che si dimostrasse grande riverenza alle mani del sacerdote, perché a esse è stato conferito il potere di consacrare questo sacramento. Diceva spesso: "Se mi capitasse di incontrare insieme un santo che viene dal cielo e un sacerdote poverello, saluterei prima il sacerdote e correrei a baciargli le mani. Direi infatti: Oh! Aspetta, san Lorenzo, perché le mani di costui toccano il Verbo della vita (cfr. 1 Giovanni, 1, 1) e possiedono un potere sovrumano!" (Tommaso da Celano, Memoriale nel desiderio dell'anima, 201). Francesco non si limita a esortare e ammonire solo i sacerdoti del suo Ordine, ma, quale vero dispensatore dei doni ricevuti dal Signore, vuole che a tutti i chierici giunga la sua convinta esortazione attraverso i suoi scritti, o attraverso alcuni fratelli da lui incaricati.
(©L'Osservatore Romano - 11 giungo 2010)
10/06/2010 - TURCHIA – VATICANO - Arcivescovo di Smirne: Sul martirio di mons. Padovese vogliamo la verità e non “pie bugie” - di Bernardo Cervellera - Mons. Ruggero Franceschini è in Italia per partecipare ai funerali di mons. Luigi Padovese a Milano. Egli conferma l’uccisione con rituale islamico del Vicario dell’Anatolia. E conferma anche la sanità di mente dell’assassino, da lui conosciuto da molto tempo. Un omicidio programmato e studiato nei particolari da gruppi eversivi, che vogliono allontanare la Turchia dall’Europa. La richiesta di aiuto alla Chiesa universale e a Roma.
Parma (AsiaNews) – Mons. Ruggero Franceschini, 71 anni, da 6 anni arcivescovo latino di Smirne, è schietto: dopo il martirio di mons. Luigi Padovese la Chiesa in Turchia è prostrata e ferita, ma più unita. Cattolici, ortodossi, armeni, caldei sono molto più fraterni. Il vescovo è schietto anche su un altro aspetto: la Chiesa in Turchia vuole sapere “tutta la verità e solo la verità” sui moventi dell’assassino di mons. Padovese. La Chiesa turca non crede all’omicidio a sfondo sessuale, o alla “pia bugia” della malattia mentale di Murat Altun. Sa che l’uccisione è avvenuta seguendo un rituale islamico, ma anche dietro a questo apparente fanatismo c’è dell’altro. Tanto più che l’omicida non è mai stato un musulmano fervente. Mons. Franceschini ipotizza che l’assassinio è stato studiato con precisione, il killer istruito per bene, e i mandanti devono avere come scopo la destabilizzazione del Paese e l’allontanamento della Turchia dall’Europa.
Con la limpidezza che lo contraddistingue, egli chiede a Roma e alla Chiesa universale di mostrarsi più vicina alla Chiesa di Turchia con intelligenza e solidarietà fattiva. E fa un appello perché volontari, insegnanti, suore e religiosi, vadano in missione in Turchia, a tenere aperte soprattutto le poche scuole cattoliche.
Dopo aver partecipato al funerale di mons. Padovese a Smirne, mons. Franceschini è venuto in Italia per partecipare ai funerali solenni del vescovo ucciso che si terranno nel Duomo di Milano il prossimo 14 giugno alle 10.30. Ecco l’intervista che ci ha rilasciato.
Eccellenza, dopo il martirio di mons. Luigi Padovese come sta la Chiesa in Turchia?
È senz’altro prostrata, addolorata, ma unita. Al funerale di mons. Padovese, tenutosi nella cattedrale di Iskenderun il 7 giugno scorso, erano presenti diversi vescovi. Vicino a me vi era il vescovo coadiutore degli armeni. Non siamo riusciti a fargli dire nemmeno una parola: era distrutto. È una reazione dovuta allo shock per la morte. Il vicario dei caldei non è venuto, anche se vi erano molti sacerdoti caldei. Vi era pure un vescovo dei siro-ortodossi. Tutti erano prostrati e distrutti. Sul volto di questo armeno si leggeva: “La storia continua”, forse pensando a quanto è avvenuto agli armeni col genocidio del ‘900.
Anche noi latini non eravamo baldanzosi. Con tutto ciò, abbiamo vissuto un bel momento di unità. E non ci arrendiamo e cerchiamo di tenere in rotta questa barca della Chiesa. Al funerale sono venuti anche tutte le autorità civili della provincia.
Come vede questo assassinio del Vicario dell’Anatolia?
Sull’uccisione di mons. Padovese quello che noi cerchiamo è anzitutto la verità. Il giorno prima del funerale sono giunti a Iskenderun il ministro della giustizia insieme al giudice delegato al processo per questo assassinio. Il giudice non ha detto una parola. Hanno chiesto di vedermi in una saletta riservata e lì ho detto loro: “Noi vogliamo tutta la verità, ma solo la verità. Non vogliamo altre menzogne: che erano in tanti, che erano in pochi, che era un delitto passionale. Non dobbiamo nascondere nulla”.
Io credo che per questo assassinio, che ha un elemento così esplicitamente religioso, islamico, siamo di fronte a qualcosa che va al di là del governo; va oltre, verso gruppi nostalgici, forse anarchici, che vogliono destabilizzare lo stesso governo.
La stessa modalità con cui è avvenuta l’uccisione serve a manipolare l’opinione pubblica. Dopo avere ucciso il vescovo, il giovane Murat Altun ha gridato “Ho ucciso il grande satana. Allah Akbar”. Ma questo è davvero strano. Murat non aveva mai detto queste frasi violente. Io lo conoscevo da almeno 10 anni. Sono io che l’ho assunto al lavoro per la Chiesa. E non si era mai espresso in questo modo. Non era un musulmano praticante. Era un giovane che aveva una cultura cristiana, senza essere cristiano. Né lui, né suo padre erano delle persone nostre nemiche. A mio avviso, sono stati uno strumento nelle mani di altri.
L’uso del rituale islamico serve per deviare le interpretazioni: è come suggerire che la pista è religiosa e non politica. Inoltre, spingendo all’interpretazione religiosa, di un conflitto fra islam e cristiani, si riesce ad infiammare l’opinione pubblica in un ambito in cui noi siamo debolmente creduti e non abbiamo alcuna forza. Del resto, anche il primo ministro Erdogan, ha gli appoggi più forti non nell’islam radicale, ma in quello moderato. E temo che ormai non abbia più nemmeno quello.
Murat Altun ha anche parlato di omosessualità del vescovo e si è detto “depresso e instabile”…
L’assassino ha “confessato” anche la pista sessuale, dicendo che mons. Padovese lo pagava per dei “servizi”. Ma anche questa è un pista che serve a confondere. E non crediamo nemmeno alla solita e frettolosa pia bugia che Murat era malato di mente e un fanatico. Non era né l’uno, né l’altro. Giorni prima ha cercato di farsi passare per pazzo, ma i medici gli han detto di non farsi vedere più perché lui è sano di mente.
Immagino che abbia avuto dei buoni avvocati come consiglieri per preparare questi alibi e far sì che se condannato, potrebbe cavarsela solo con una condanna di qualche anno.
Qualcuno pensa che date queste violenze, la Turchia non dovrebbe mai entrare in Europa…
Di certo nel movente di questo assassinio, così ben studiato, c’è il desiderio di qualche settore della società turca che non vuole entrare a far parte dell’Europa, e non vuole nessuna novità.
Speriamo che questa uccisione, invece di allontanarci, ci avvicini di più all’Europa. Anzi, noi speriamo che la nostra amicizia si allarghi ad altri Paesi europei, per collaborare per il nostro benessere e per il vostro, dato che ormai la Turchia è divenuta un grande Paese.
Come vive la piccola Chiesa in Turchia?
La Chiesa di Turchia non è piccola, ma è molto variegata nelle diverse confessioni, anche se in questi ultimi tempi abbiamo imparato a volerci bene. Ai funerali di mons. Padovese vi erano tutti: latini, armeni, cattolici, ortodossi, siro-ortodossi, caldei. Ogni confessione ha fatto una preghiera attorno al feretro.
Avremmo bisogno di sentirci ancora più uniti a Roma. Questo lo dicono anche gli ortodossi, che ormai sempre di più guardano a Roma. Abbiamo bisogno di sentire di più che il cuore della cattolicità pulsa anche per noi. Ci sentiamo un poco abbandonati. Vero è che adesso ci sarà il Sinodo per le Chiese del Medio oriente, che dovrebbe servire anche a far maturare la solidarietà fra noi e la Chiesa universale. Speriamo che sia così; speriamo che il documento del Sinodo non sia solo un documento culturale, che lascia poi il tempo che trova. Deve cambiare qualcosa.
Se qui in Turchia non ci fossimo noi cappuccini, qualche domenicano, e qualche altro ordine religioso, non vi sarebbero preti. A Smirne vi è solo un sacerdote locale, che ho ordinato io. Gli altri preferiscono andare a vivere all’estero, dove sono più liberi. Non hanno una mentalità di servizio e missione.
Cosa chiede alla Chiesa italiana e universale?
Prima di tutto la preghiera, ma una preghiera consapevole della posta in gioco, su cui non vogliamo rinunciare malgrado le difficoltà: qui è nata la comunità cristiana e qui sono avvenuti i primi concili e non possiamo abbandonare questi luoghi. Occorre una solidarietà non solo proclamata, ma attiva. Ogni anno abbiamo bisogno di aiuti per riparare qualche chiesa, e non sappiamo come fare. Poi occorre comprare un appartamento per far risiedere il prete, uno per farci vivere le suore e poi occorre che vi siano laici e sacerdoti che vengano a vivere con noi.
Purtroppo, soprattutto gli istituti femminili, quando vedono che venendo in Turchia non possono aprire una casa per accogliere vocazioni, decidono di non venire più. Ma anche se vi sono difficoltà per la libertà religiosa, il lavoro è tanto. In Turchia non c’è libertà a proclamare il Vangelo nelle piazze, non c’è libertà di aprire seminari, o di costruire nuove chiese, ma possiamo lavorare nelle nostre parrocchie già fondate, incontrare persone, trasformare i nostri saloni in chiese…
Quali sono i bisogni più urgenti?
Quello di sostenere le nostre scuole. In Turchia abbiamo ancora qualche scuola, aperta grazie a titoli antichi, quelli ancora prima di Ataturk. Una volta queste scuole erano le migliori della Turchia, ora sopravvivono a malapena. Ma cerchiamo comunque di valorizzarle per salvare i nostri giovani, che nelle scuole statali sono molto maltrattati.
Purtroppo, i Fratelli delle scuole cristiane si sono ritirati. In campo educativo sono rimaste solo le Suore di Ivrea, ma sono molto anziane. Occorrono insegnanti, volontari per due o tre anni, e istituti religiosi femminili che vengano qui a sostenere queste scuole. Dovrebbero venire anche se non possono aprire una casa per raccogliere vocazioni. É importante andare in Turchia per donare, non per accumulare. Occorre imparare a donare qualcosa a Gesù, oltre che chiedere sempre qualcosa.
Del resto, è difficile, ma non impossibile far nascere vocazioni, soprattutto maschili. Finora io sono riuscito a ordinare due sacerdoti. Ma queste vocazioni vengono dall’estero, per i quali è importante imparare la lingua turca, che non è facile. Occorre che vi siano vocazioni locali.
Per migliorare la nostra comunicazione con la Chiesa, stiamo preparando un sito legato a una onlus, che sarà pronta entro un anno. Si chiama Associazione Santa Claus, con un sito che sta per essere varato on-line.
Cristiani nel mirino - Mario Mauro - venerdì 11 giugno 2010 – ilsussidiario.net
Ci sono ormai pochi dubbi sul fatto che l’omicidio di Monsignor Padovese abbia una matrice fondamentalista. La chiesa turca, per bocca di Monsignor Ruggero Franceschini, arcivescovo latino di Smirne, ha addirittura bollato l’ipotesi della malattia mentale dell’assassino come una “pia bugia”, raccontata per ottenere uno sconto sulla pena. O peggio per nascondere i mandanti, che hanno come scopo la destabilizzazione del paese.
È un’usanza ormai consolidata in tutto il mondo quella di uccidere i cristiani per destabilizzare una comunità. Accade in Iraq come in Pakistan, Indonesia, Egitto o Somalia. In tutti i continenti, a qualunque latitudine.
Viene allora da chiedersi, come ha fatto ieri sulle pagine de Il Foglio il giornalista francese René Guitton, se davvero “serviva un altro omicidio islamista per denunciare l’orda dei cristianofobici?”. Di fronte a tali episodi, la Comunità internazionale ha il compito di assicurare a tutti, soprattutto alle minoranze, di esprimere liberamente il proprio credo in nome di quegli ideali di pace e di giustizia su cui si fondano le nostre società.
E invece, la stessa comunità internazionale, con la complicità delle numerose lobby laiciste che dirigono la maggioranza dei mezzi di informazione, si chiude puntualmente nel silenzio ipocrita di chi sembra infastidito dalla verità, dal fatto che oggi, nel mondo, essere cristiani significa convivere quotidianamente con la paura, o spesso con la certezza di morire a causa del proprio credo.
I numeri dicono che siamo di fronte a un dramma che sembra non avere freni. Dall’inizio del nuovo millennio Fides, l’agenzia di notizie vaticana, conta 263 uccisioni di vescovi, preti, suore, seminaristi e catechisti.
I luoghi del loro martirio coprono tutti e cinque i continenti, Europa compresa (è il caso di Don Robert De Leener, ucciso a Bruxelles il 5 maggio del 2005 a motivo della sua caritatevole accoglienza nei confronti degli immigrati). Quel che preoccupa non è solo la vasta diffusione del fenomeno, ma la sua costante crescita. L’annuale lista di Fides stima per l’anno 2009 37 omicidi causati dall’odio anticristiano, quasi il doppio di quelli avvenuti nel corso del 2008.
Le violenze subite dai cristiani nel mondo rappresentano una ferita e una sfida contemporanea alla dignità della persona. Occuparsi della libertà religiosa dei cristiani, allora, vuol dire innanzitutto affrontare una grave emergenza del nostro tempo, soprattutto perché è evidente come la democrazia, termine di cui tutti oggi si riempiono la bocca impropriamente, non può fare a meno del contributo del cristianesimo.
Ce lo fa capire molto bene Louis Sako, arcivescovo di Mosul, in Iraq, dove i cristiani sono da anni un capro espiatorio tra le mille fratture sociali e politiche: “Non esiste uno Stato, una patria e le divisioni settarie sono un dato evidente. Ai cristiani non interessano i giochi di potere, l’egemonia economica, ma la creazione di uno Stato in cui le diverse etnie possano convivere in modo pacifico”.
Non si tratta quindi di difendere persone che hanno la mia stessa fede. Non sono rivendicazioni “sindacali”. Difendere i cristiani perseguitati significa combattere per la libertà e per la dignità di tutti i popoli e di tutti gli uomini.
Islam: approvo la linea di basso profilo della Santa Sede con la Turchia, non é realistica altra soluzione si rischia lo scontro. L'assassinio del vescovo non é un caso isolato, ma frutto di fondamentalismo. Anche Oddifreddi é nostro fratello, pensate - Bruno Volpe intervista il professor Massimo Introvigne – dal sito pontifex.roma.it
Il caso deprecabile dell' assassinio del vescovo italiano in Turchia, ha riportato alla luce in problema delle non facili relazioni tra cattolici e islamici, specie in paesi come la Turchia. Un problema davvero molto serio e da affrontare con calma e senza isterismi. Ne abbiamo parlato con il professor Massimo Introvigne, sociologo tra i più affermati, esperto serio e competente di questioni religiose, insomma una vera autorità, al quale prestare la massima attenzione, le sue analisi risultano nella maggior parte dei casi, indovinate e veritiere. Professor Introvigne, in tutta sincerità, per quanto riguarda il Vescovo Padovese trucidato, condivide la pista del pazzo squilibrato?: " che in fondo possa esserci un elemento di pazzia, é possibile. Voglio dire che trovare uno squilibrato é facile, specie se esaltato. Ma la mia sensazione é che fosse un gesto preordinato e già messo in conto, figlio di quel fondamentalismo islamico presente un poco ...
... dappertutto". Resta il fatto che la Santa Sede stia tenendo un tono soft sul tema: " questo é innegabile e qualche organo di stampa ha chiesto il perché e ha lanciato qualche frecciatina, compresa un' agenzia cattolica. Comprendo la indignazione che é del tutto giustificata, ma talvolta, occorre fare prevalere il realismo sulla emotività".
In che senso?: " la diplomazia della Santa Sede ha sempre o quasi visto giusto e a mio avviso, lo sta facendo anche ora. Strillare e alzare i toni serve a poco e solo ad esasperare gli animi e non ne ricaveremmo nulla. In fondo pensare di cambiare da un giorno all' altro le cose in Turchia ha solo dell' utopia e non delle concrete possibilità. Bisogna rassegnarsi che per molto tempo ancora il governo e l' andazzo sarà quello e che pertanto con le urla non si ricava nulla e allora meglio limitare i danni".
Dunque lei pensa che la Santa Sede abbia volutamente tenere i toni bassi: " ritengo di sì, e lo ribadisco, apprezzo questa liena che non sempre viene facilmente compresa specie sotto l' aspetto della emotività che é anche giusta, intendiamoci. E' doloroso vedere un vescovo o comunque un cristiano morire in quel modo, ma nelle cose della diplomazia bisogna saper calcolare in una sapiente analisi, costi e benefici".
Che cosa intende dire?: " la vita dei cristiani in alcuni paesi islamici si protrae in condizioni difficili e molto problematiche. Non é per nulla comoda e la paragono a uno che cammina in una polveriera con una fiammifero acceso, basta davvero poco a fare scoppiare un incendio o una esplosione. Pertanto penso che la Santa Sede nel voler mantenere i toni bassi, salve sorprese, ha soppesato queste reali e concrete conseguenze e le ripercussioni sui cristiani che vivono in quei posti ed ha scelto il male minore".
Il Papa ha usato per gli islamici il termine fratelli, condivide?: " so che qualche vescovo ha un poco mugugnato e pur rispettosamente nei loro confronti, la penso diversamente e sono in sintonia col Papa. Ovvero, anche gli islamici sono figli di Dio e come tali nostri fratelli. Pensi che lo sono persino Oddifreddi e la Bonino, siamo in ottima compagnia".
Bruno Volpe
I comunisti mangiano i bimbi. Ecco le prove dalla rossa Cina - Marco RESPINTI - Il Giornale – dal sito pontifex.roma.it
Un dossier della Laogai Foundation del dissidente Wu denuncia crimini e crudeltà della politica del figlio unico Negli atti ufficiali dei municipi si cantano le lodi dell’eugenetica. Sembrano carte naziste - «Le donne in età fertile con un figlio devono sottoporsi all’inserimento chirurgico della spirale entro 2 mesi dal parto. Quelle che non lo faranno entro 4 mesi saranno sterilizzate senza eccezioni». Siamo in Cina, e questo è il comma «A» dell’art. 2 delle Direttive per migliorare la realizzazione degli obiettivi di pianificazione familiare, emesse il 1° gennaio 1996 dall’Ufficio per la pianificazione familiare della città di Yonghe. È solo uno di molti documenti vigenti nella Cina postcomunista che celebra ora i 60 anni di vita mostrando al mondo i muscoli militari; la Cina di oggi, impenitente e solo ristrutturata, straordinario e riuscito caso di perestroika che paghiamo noi acquistando merce o taroccata o cheap frutto del lavoro schiavistico di ...migliaia di campi di detenzione.
Eccone un altro: «In ottemperanza», bla bla bla, «città, municipi e unità di lavoro devono vigorosamente darsi da fare per fare pubblicità e diffondere le conoscenze di base dell’eugentica, della ginecologia, dell’ostetricia e della pediatria». Eugenetica! E non è Adolf Hitler, grande fan di quella «scienza nuova» fondata da Sir Francis Galton, cugino di Charles Darwin, ma il punto 5 del capitolo III, dei Provvedimenti del Governo del popolo della contea di Wuqing in relazione alla completa applicazione delle norme del Municipio di Tianjin (1991) sulla pianificazione familiare. E un altro: «Per migliorare la qualità delle statistiche della pianificazione familiare, per porre fine a rapporti artefatti o non consegnati, per assicurare l’autenticità dei dati statistici demografici, per ubbidire allo spirito di ricerca della verità, riportare la verità, dire la verità, per la crescita di tendenza positiva nei dati sulla sanità, per migliorare lo stile di lavoro in modo pratico ed efficiente, per migliorare le nostre attività di pianificazione familiare, basandoci sui dati delle nostre ricerche, abbiamo deciso di creare un sistema informativo remunerato con lo scopo di scoprire le omissioni e i dati nei rapporti di nascita, i primi matrimoni, le donne fertili fuori controllo ecc.» (Avviso sulla creazione di un sistema di informazioni retribuite, Quanzhou, 1998). Assoldano spie.
Leggo tutto nel libro “Strage di innocenti. La politica del figlio unico in Cina” (Guerini, Milano, pagg.186, euro 21,5) prodotto dalla Laogai Research Foundation di Washington e in edizione italiana curato da Francesca Romana Poleggi e Antonello «Toni» Brandi, infaticabile presidente della sezione italiana della Fondazione. Che di suo è quella preziosissima, creata e diretta da Harry Wu, classe 1937, dissidente cinese che si è fatto la bellezza di 19 anni nei lager del comunismo asiatico, appunto i laogai.
I cinesi sono oggi un miliardo e 300 milioni. Troppi per il governo, che sembra avere imparato a memoria la lezione settecentesca del reverendo anglicano Thomas Robert Malthus stando al quale la cara vecchia Terra non ce la farebbe a stare dietro a tutte le bocche da sfamare. O quasi. Nonostante i neomalthusiani, infatti, Malthus proponeva solo la paternità responsabile, ovvero l’astinenza; non certo la sterilizzazione di uomini e donne trattati alla stregua di bestie, o l’aborto coatto. Peraltro, detto tra noi, Malthus, ha cannato alla grande ogni valutazione, come documentano studiosi di tutte le estrazioni, persino nelle austere aule della Banca Mondiale.
Evidentemente, però, in Cina queste sono sottigliezze. Tant’è vero che impera il rigido criterio politico dell’una e una sola creatura per famiglia, il resto in pattumiera. Oltre il primogenito, infatti, anzi l’unicogenito, lo Stato-partito costringe le donne all’aborto; se però il nascituro è femmina (le donne sono ritenute di scarsissimo valore sociale), scatta l’aborto eugenetico anche alla prima gravidanza. Qualora qualcosa sfuggisse, sarebbero dolori: arresti per le madri, i padri e i parenti, vessazioni, persino torture.
All’inizio, dopo aver fondato il 1° ottobre 1949, la comunistissima Repubblica Popolare Cinese, Mao Zedong si mise a predicare un «andate e moltiplicatevi» funzionale alle strategie espansionistiche e produttive dell’epoca (più la necessità di ripianare i buchi demografici dovuti alle guerre civili e alle lotte interne). Un po’ Mao s’ispirò all’Unione Sovietica staliniana che premiava le «madri patriottiche». Ma nel 1953 il censimento contò 600 milioni di abitanti, troppi da seguire, controllare, punire. Nel mezzo ci mise lo zampino pure l’«economista» Ma Yinchu, che scrisse, lo fanno tutti, un libro, “Il controllo della popolazione e la ricerca scientifica”. Se qualcuno ha presente cosa successe in Urss quando l’agronomo staliniano Trofim D. Lysenko applicò il lamarckismo alla coltivazione del grano, capisce bene cosa succede quando certa gente usa la parola «scienza».
La ricreazione cinese finì allora nel 1964 quando il Pc cambiò rotta creando la Commissione per la pianificazione familiare, presentata come un invito alla sorveglianza demografica volontaria. Solo che i cinesi non ascoltavano, e figliavano, e così a partire dal 1979 il controllo della popolazione è divenuto obbligatorio. E vige ancora oggi, dal 2002 solo formalizzato, razionalizzato con apposita legge.
Il libro della Laogai Foundation produce documenti a valanga. Dalle cellule locali di partito dipendono il bello e il cattivo tempo. Se un secondo figlio scappa alla programmazione, lo si finisce in fretta dopo il parto. L’unica eccezione sono certe zone rurali del Paese, dove alle coppie è consentito avere un secondogenito se il primo è nato, che rogna, femmina... Quelli che scampano al boia alimentano il commercio degli infanti. Nel marzo 2003, 28 bimbe sono state rinvenute in autobus in viaggio dal Guagxi all’Anhui. «Le neonate erano drogate e rinchiuse dentro borse di nylon». Alla mal parata ci sono i tuguri detti «orfanotrofi della morte» dove finiscono di preferenza le bimbe, sempre loro, e gli handicappati.
E i feti dei bimbi abortiti? Scatenate l’immaginazione. Il cannibalismo dell’era maoista è oramai ampiamente documentato in diversi testi seri (non tradotti), e non solo per fame, ma pure per rito: mangiare i «nemici del popolo» è umiliarli e vincerli in eterno. Che però ciò avvenga ancora oggi, e a danno di bimbi, per di più abortiti, è raccapricciante. Il libro della Laogai Foundation pubblica un ennesimo documento, timbro rosso e intestazione dell’Ospedale ostetrico e ginecologico di Nanjiing, un foglietto con su scritto: «Il presente buono non è in vendita. Vale una placenta. Scade il 13/12/1997». Cannibalismo legale. I lavoratori degli ospedali che hanno accesso alle placente spesso le mangiano. Dicono sia «cibo salutare ed energetico». Non perdetevi il settimo capitolo di “Strage di innocenti”, dove si racconta che l’Unfpa, l’agenzia Onu sulla popolazione mondiale, appoggia, finanzia e tace, così come pure gli Stati Uniti, con George W. Bush jr. no, ma con Bill Clinton prima e ora Barack Hussein Obama sì.
Marco RESPINTI - Il Giornale
ABORTO - Ru486, la prima paziente rinuncia al ricovero - Polverini contrariata, varato il protocollo - http://roma.repubblica.it
La donna lascia il Grassi di Ostia dopo la somministrazione della pillola abortiva. La 'fuga in avanti' dell'ospedale non piace alla governatrice del Lazio, che stigmatizza l'operato dei medici. Nel pomeriggio presenta gli obblighi per i sanitari, rinviando l'utilizzo del farmaco a dopo l'individazione delle strutture idonee, che saranno autorizzate in base ai posti letto disponibili. In arrivo anche la riforma dei consultori: "Magari le convinciamo a non farlo"
Nel giorno in cui la giunta regionale ha approvato "il protocollo operativo per l'uso della Ru486", con le indicazioni operative per l'uso della pillola abortiva (somministrazione esclusiva in regime di ricovero ordinario), la prima paziente del Lazio a ricorrere all'aborto farmacologico rinuncia all'ospedalizzazione dopo l'assunzione del farmaco. Una decisione personale della donna che il presidente della Regione non discute, ma una 'fuga in avanti' dell'ospedale di Ostia stigmatizzata pesantemente da Renata Polverini: "Al posto del Grassi non l'avrei fatto".
"Mi auguro che non succeda nulla, ma se accadesse qualcosa ognuno si assumerà le sue responsabilità. Perché non vorrei mai trovarmi - ha aggiunto - in una Regione in cui, se accadesse qualcosa, non sapremmo con chi prendercela". A margine della conferenza stampa di presentazione delle disposizioni vincolanti per gli ospedali (che dispone colloqui, visite e procedura di assistenza durante la degenza) la governatrice ha sottolineato l'importanza del documento "che stabilisce la filiera delle responsabilità. Con l'assistenza ospedaliera si rischia di meno ma - ha spiegato - ma non possiamo incidere certo sulla libertà delle persone". Il prossimo passo sarà l'individuazione delle strutture ospedaliere idonee nel Lazio, le sole che saranno autorizzate, anche in base alla disponbilità di posti letto. A detta dei critici, un modo per rinviare ulteriormente l'uso della pillola.
MEETING/ Weiler (NY University): i sei ingredienti che creano un successo di fede e ragione - Joseph Weiler - venerdì 11 giugno 2010 – ilsussidiario.net
Ieri a Roma c’è stata la conferenza stampa di presentazione della XXXI edizione del Meeting di Rimini che si terrà dal 22 al 29 agosto. Riportiamo il testo dell’intervento di Joseph Weiler, professore alla New York University.
Quando fui invitato per la prima volta al Meeting, nel 2003, molti dei miei amici italiani ne furono estremamente sorpresi: “Cosa ci fa uno come te a un evento organizzato da loro?”. Capii che mi ero imbattuto in qualcosa di interessante quando questi amici mi chiesero: “Come mai sei stato invitato?”.
Sette anni dopo, sorprendentemente, il Meeting continua a invitarmi e io non esito mai nell’accettare. Il successo del Meeting di Rimini in base agli indici di classificazione di eventi del genere - per esempio il numero di accessi - non solo è indiscusso, ma sembra crescere di anno in anno. Provo a fare qualche ipotesi sulle ragioni di questo successo.
1 - Unicità. Ho fatto più volte il giro del mondo e non conosco nulla di simile: un’organizzazione che affitta lo spazio di una fiera commerciale e lo trasforma in una festa per la mente, per l’intelletto e per l’anima. Ho parlato di un libro davanti a una folla di 5000 persone!
Ok, lo confesso, era un libro di don Giussani… Ebbene, le uniche realtà di portata analoga si trovano nell’universo dei grandi eventi commerciali. Le fiere che vantano oltre mezzo milione di accessi in una settimana sono a livello del Salone dell’automobile di Detroit o Zurigo o del ComDex di Las Vegas. Mentre qui vengono in migliaia ad ascoltare una lezione su Beethoven, a visitare una mostra sulla natura della luce o a sentire un incontro con un filosofo.
2 - Apertura intellettuale. Questo è il più grande degli eventi cattolici e anche il più cattolico. Sono stato al tavolo dei relatori con un Bersani o un Barbera, ma anche con un Frattini o un Pisanu. Io, religioso ortodosso, ho condiviso il palco con altrettanti ortodossi laici. Io, ebreo, ho condiviso il palco con musulmani, protestanti e altri ancora. Questa è Comunione e Liberazione ma, contrariamente alle aspettative, bisogna continuamente aspettarsi l’inaspettato.
Non conosco nessuna organizzazione politica, religiosa o spirituale che sia così fiduciosa, così impegnata nella ricerca della verità, che non senta la necessità di proteggere i suoi aderenti dalle posizioni opposte, dalla critica e dallo scetticismo. La profondità che trovo qui è ammirevole. È un evento in cui regna la Ragione. L’adesione in base a una fede cieca è sgradita - si preferisce optare per una convinzione ragionata. E questa non si può ottenere chiudendo la mente e sbarrando i saloni del Meeting.
Questa apertura non va confusa con un atteggiamento relativistico o scettico riguardo alla conoscenza. Qui si va incontro all’oppositore con cortesia e rispetto, ma l’incontro avviene anche sul piano della ragione e della discussione. Si formulano giudizi morali; la vaghezza epistemica trova chiarezza. Si sperimenta l’eccitante intensità che scaturisce dal serio impegno nella ricerca della verità.
3 - Vita, gioventù, famiglia. Beethoven, Fassino, Finkielkraut - istintivamente pensi: Heaviness. Lourdeur. Pesantezza. Riflettiamoci meglio. C’è un’atmosfera contagiosa al Meeting, che proviene dalla sindrome che potremmo definire dello “spaccato di vita”. Nonni e nipoti, single, coppie, famiglie. Una gran quantità di donne incinte. Masse di bambini.
Questo è il vero “pro-life”, l’aiuto alla vita che genera la vita e gioisce in essa. Eppure alla fine siamo sempre voi e io, la stessa accozzaglia di persone che troveresti alla stazione Termini di Roma, con gli stessi sogni di amore, di successo e di felicità; con le stesse delusioni e tristezze che fanno parte della vita. Il Meeting è insieme speciale ma anche estremamente familiare e organico.
4 - Gravitas. C’è sempre anche una serietà sottesa che fa parte dell’identità del Meeting. Dentro questa forma aperta, elettrica, vibrante, troviamo al tempo stesso un’interessante esplorazione e articolazione non tanto delle radici cristiane europee, quanto dei suoi rami viventi, delle foglie e dei frutti - la tradizione vivente di una civiltà cristiana, fondamento dell’identità europea e della civiltà occidentale.
C’è una esplorazione e una articolazione di ciò che significa essere un cristiano praticante - umile ma senza vergogna - in questo mondo. I partecipanti non si limitano a divertirsi - immensamente. Sanno anche che il Meeting rappresenta qualcosa di importante, di grave, di serio, un esempio di cosa significa vivere una esistenza piena di significato.
5 - Gratuità. Viviamo in un periodo in cui la semplice celebrazione dell’uomo come essere creato a immagine di Dio è stata confusa con una celebrazione dell’ego e dell’“io” prima di tutto. È sorprendente, e sorprendentemente edificante, assistere all’enorme successo di ogni edizione del Meeting, se si pensa che gran parte di quel successo è dovuta alle migliaia di volontari che si offrono disinteressatamente per svolgere qualsiasi servizio, dalla gestione delle cucine all’accoglienza degli ospiti, al servire a tavola, riuscendo in generale a far sì che il Meeting funzioni impeccabilmente, come se si stesse svolgendo a Ginevra piuttosto che a Rimini.
6 - L’ingrediente segreto. L’ingrediente segreto, infine, è lo spirito di don Giussani che continua ad aleggiare sull’intero evento, rianimato dal suo successore, don Carrón. Questo non si può cogliere dalla stampa, che in fondo si interessa soltanto a tutto ciò che fa notizia, spesso con accenti un po’ polemici.
Giussani, nella seconda fase del suo insegnamento, non solo ha insistito sul fatto che la politica non potrà mai essere al primo posto, ma ha sempre detto che la vita spirituale dell’uomo di fede non è radicata semplicemente nella ragione, ma in una reale coscienza della Presenza. La fede non è solo un fatto cognitivo, ma anche, e soprattutto, sperimentale. E così è anche per il Meeting: va sperimentato, vissuto, per cogliere la sua piena e straordinaria combinazione di vitalità e gravitas.
Avvenire.it, 11 giugno 2010 - ANNO SACERDOTALE - «La gioia di essere preti» - A Roma da tutto il mondo - Stefania Careddu
C’è chi è arrivato con lo spirito del pellegrino; chi, essendo a Roma per motivi di studio, non ha voluto mancare all’appuntamento. Mentre fanno la fila per entrare a San Paolo fuori le Mura e a San Giovanni in Laterano, c’è chi si mescola nel gruppo, chi ritrova vecchi compagni di corso, chi si fa fotografare con la Basilica alle spalle. Dai volti, segnati dal tempo o giovanissimi, si riescono ad intuire alcune delle provenienze. Sono circa diecimila i preti di un centinaio di nazioni giunti nella capitale per la chiusura dell’Anno Sacerdotale. Tra questi c’è anche chi è tornato dopo ben 39 anni nello stesso luogo dove ha studiato.
Don Simon Pazhukayil è del Kerala, in India, e dal 1968 al 1971 è stato a Roma, al Collegio di Propaganda Fide. Subito dopo l’ordinazione, è rientrato nel suo Paese («solo il 2% della popolazione è cristiana, ma la Chiesa è viva e ha molte vocazioni», tiene a precisare) e poi è stato inviato in Germania, dove vive attualmente. «L’Anno Sacerdotale – spiega – è stato un’occasione per organizzare incontri nelle parrocchie e capire cosa la gente si aspetta dai preti, ma anche per promuovere momenti di condivisione a livello diocesano con il vescovo, i sacerdoti e i loro familiari».
Per don Simon, si tratta di «uno stimolo ad andare avanti uniti, anche in questo tempo problematico, di sofferenza». «Rispondiamo all’invito del Papa, siamo qui per stare insieme e rinnovare il nostro sacerdozio», gli fa eco don Agostino Nguyen Van Du, coordinatore della comunità vietnamita in Italia. «Quello che stiamo vivendo – rileva – è un momento particolare di comunione ecclesiale, in un tempo in cui la Chiesa soffre per gli errori commessi da alcuni nostri confratelli».
Don Agostino è in Italia da trent’anni: «Quando sono arrivato qui – ricorda – ero ancora diacono, sono stato ordinato sacerdote da solo, senza i miei compagni. Oggi sono molto contento perché sono presenti 200 preti vietnamiti: alcuni lavorano in Italia o all’estero, ma circa 150 arrivano direttamente dal Vietnam». «È molto bello – continua – perché il Signore ha guidato la storia, mostrando segni di speranza per un futuro migliore». «Siamo qui da tutto il mondo per esprimere la nostra fede e riscoprire la nostra missione», aggiunge don Do Trong Huy, vietnamita della diocesi di Thai Binh. Per lui, l’Anno Sacerdotale è stato «importantissimo per rinnovare il dono dello Spirito Santo ricevuto con l’ordinazione» e un incoraggiamento «a predicare il Vangelo a tutte le nazioni del mondo». «L’Anno Sacerdotale ci ha ricordato che dobbiamo sforzarci di essere sale della terra e luce del mondo», sottolinea da parte sua don Pietro Vaccari della diocesi di Cosenza-Bisignano per il quale «lo straordinario incontro tra confratelli provenienti da tutto il mondo» è un’opportunità «per pregare insieme e ricaricare le batterie».
Se don Emil Adler della Polonia lo definisce «una conferma della verità del Vangelo», don Raphael Dila della Repubblica Democratica del Congo lo chiama «risveglio». «È una grande gioia ritrovarci qui, sacerdoti di tutto il mondo, intorno al Papa», dice con un grande sorriso. «Una forte emozione, un’occasione per aumentare la grazia della mia vocazione e per viverla stando sempre attento ai segni dei tempi», rivela Ethelbert Arua, nigeriano. Per don John Henry Munoz si tratta di «una grazia di Dio che ci aiuta a rafforzare l’impegno a servizio della Chiesa e della comunità».
Don John è colombiano, ha scoperto la vocazione grazie ad esperienze di promozione vocazionale nelle scuole. Dopo l’ordinazione, è stato incaricato dal vescovo di occuparsi della pastorale missionaria, in particolare di quella dei bambini. «Ho potuto sperimentare – confida – la paternità grande a livello spirituale, la gioia di poter entrare in contatto con persone di tutte le età ed essere per tutti strumento di speranza». Per don John, questo incontro di chiusura dell’Anno Sacerdotale «non è la fine, ma uno stimolo ad andare avanti, a continuare a testimoniare Cristo con autenticità».
Stefania Careddu
«Alunni disabili, diritti negati» la denuncia - Il Coordinamento delle associazioni che lavorano coi bimbi Down lancia l’allarme: un terzo delle classi con disabili supera il tetto massimo dei venti studenti - DA ROMA – Avvenire, 11 giugno 2010
Più di una classe su tre, con a lunni disabili, supera il tetto dei ventidue studenti. Il mas simo previsto. Il 59% dei disabili in età scolare trascorre meno di dodi ci ore a settimana con un insegnan te di sostegno. E nel 26% dei casi, in una classe è stato inserito più di un alunno con disabilità. È una scuola di “diritti negati” quella raccontata ieri a Roma dal Coordinamento nazionale associazioni delle persone con sindrome di Down (Coordown). Una scuola che «rende sempre più diffici le l’integrazione scolastica e nega il diritto allo studio dei bambini disabili e dei loro compagni». Se poi le cose non cambieranno entro il prossimo an no scolastico – ha assicurato il coordinatore nazionale di Coordown, Sergio Silvestri – «il primo ottobre organizzeremo una manifestazione nazionale a Roma». Da un’indagine condotta su 711 classi di tutta Italia con almeno un alunno disabile, emerge che le aule più affollate sono quelle delle scuole del l’infanzia: il 61% delle classi supera i ventidue alunni, con il caso limite del le Isole, dove le classi fuori norma sono il 75%. Per quanto riguarda la scuo la primaria, le classi che hanno superato il tetto sono il 25%, quelle della scuo la media il 39% e quelle della scuo la superiore il 34%. Il 75% dei ragaz zi disabili iscritti alle superiori tra scorre meno di dodici ore settima nali con l’insegnante di sostegno (la percentuale sale all’83% al Sud). Un grosso problema anche alle scuole medie (60%), alle elementari (54%) e alle scuole dell’infanzia (43%). Gli istituti superiori sono quelli che con tano più classi con oltre un alunno disabile: il 34%, contro il 27% della scuola media, il 23% della primaria e il 17% dell’infanzia. «Un’indagine conoscitiva del Miur – ha spiegato Silvestri – ha registrato 5.500 classi con più di due alunni con disabilità. Ci sono 18mila persone a rischio integrazione scolastica. Un problema risentito anche dai loro compagni e che peggio rerà coi tagli alla scuola». Il Coordown, insieme alle organizzazioni di vo lontariato e alle associazioni che si occupano della difesa dei diritti dei di sabili, «ha chiesto un incontro al ministero dell’Istruzione lo scorso mag gio, ma non abbiamo ottenuto risposta». E se l’incontro non avverrà entro metà luglio – ha concluso Silvestri – «usciremo dall’Osservatorio ministe riale sulla disabilità» e «avvieremo azioni legali per il mancato rispetto del le norme sulla sicurezza nelle aule». (P.Cio.)
Un popolo nella notte verso la Casa del «sì» - DI GIORGIO PAOLUCCI - Avvenire, 11 giugno 2010
L’anno scorso arrivarono in ottan tamila, per quello che da tempo è diventato il pellegrinaggio a piedi più partecipato tra quelli che si svol gono nel nostro Paese. Quest’anno gli or ganizzatori, in base alle iscrizioni che stanno giungendo dall’Italia e dall’estero, prevedono ancora più gente, forse novantamila. Ma dietro l’imponenza dei nu meri, e dentro il lungo fiume di gente che percorrerà i 28 chilometri da Macerata a Loreto, stanno le facce, le storie, le attese di ciascuno. Il pellegrinaggio Macerata-Loreto, promosso dal 1978 da Comunio ne e liberazione, è da sempre gesto di po polo e gesto dell’io, della singola persona che si mette in cammino per misurarsi con i grandi interrogativi sul senso della vita, sulla felicità, sulla gioia e sul dolore. E che in questo cammino incontra altri che condividono le stesse domande e cer cano una risposta alla quale affidarsi.
Si parte alla sera da uno stadio e si arriva al mattino a un santuario tra i più vene rati, attraversando campi e piccoli paesi dove la gente attende il passaggio dei pel legrini ai bordi delle strade, affacciata al le finestre e ai balconi, si unisce al canto e alla preghiera, osserva questo strano po polo della notte con un misto di stupore, affetto e curiosità. Partecipano soprattut to giovani (il pellegrinaggio è nato per rin graziare la Madonna a conclusione dell’anno scolastico), ma ci si trova un vasto campionario di umanità: gruppi di ami ci, intere famiglie, anziani che ritornano sui passi di un itinerario percorso negli anni della gioventù, disabili accompagnati in carrozzina, gente devota a Maria e gen te che ha accettato l’invito di un compa gno di classe o di un insegnante. Un po polo di cercatori, che per tutta la notte – nel silenzio, nella preghiera, nel canto – si misura con la stessa sete d’infinito che bruciava nel cuore di uno come Giacomo Leopardi, che proprio in quelle terre ha scritto parole intramontabili.
«Un popolo non è una massa indistinta di persone, è fatto di tante storie individua li e irripetibili, di persone alla ricerca del compimento di sé – dice monsignor Gian carlo Vecerrica, vescovo di Fabriano-Ma telica , fondatore e guida storica della Ma cerata- Loreto –. La Chiesa si fa compagna di strada in questa ricerca, come Gesù si è fatto compagno di coloro che ha incon trato in Palestina, e accoglie la domanda che Nicodemo fece a Gesù: come può un uomo rinascere di nuovo quando è vec chio? Come è possibile sperare, come è possibile guardare all’esistenza con un volto positivo in un contesto dove sem brano prevalere il male, il pessimismo, la negatività? Il pellegrinaggio vuole aiutare a tenere deste queste domande, a non censurarle, a non ridurne la portata. E in sieme indica la strada da percorrere per trovare la risposta: l’uomo può rinascere perché c’è qualcuno che si china sul suo limite, ne ha misericordia, lo prende per mano e lo accompagna verso la meta. Sia mo gente che cammina, ma non siamo vagabondi. La meta è la Santa Casa, quel le pietre custodite a Loreto che conserva no la memoria di un fatto che ha cam biato la storia dell’umanità: il ’sì’ di una ra gazza palestinese allo scandaloso an nuncio dell’angelo: tu, Maria, partorirai l’Emanuele, il Dio con noi. Quella ragaz za è diventata la madre della Chiesa, una madre che genera e rigenera: la storia del pellegrinaggio è ricca di persone che so no state rigenerate dall’incontro con Ma ria, tornate a casa con una direzione nuo va per l’esistenza, che hanno testimonia to agli altri la vibrazione di umanità sperimentata in questa notte. Una vibrazio ne che commuove il cuore, e perciò muo ve la persona. E diventa contagiosa, come testimonia l’aumento della partecipazio ne di gente d’ogni tipo, anche di gente lontana dalla Chiesa ma desiderosa di cer tezze ». Il lungo cammino notturno che comin cerà domani sera dopo la Messa celebra ta allo stadio di Macerata dal cardinale Caffarra, sarà accompagnato dalla recita del Rosario, da canti di diverse tradizioni, dalla lettura di brandi del magistero di Be nedetto XVI e dalle testimonianze di per sone che raccontano come l’incontro col cristianesimo ha cambiato radicalmente la loro esistenza. Testimoni di fede: ciò che più serve per rendere credibile l’an nuncio di Cristo.