giovedì 3 giugno 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa esprime cordoglio per le vittime del blitz israeliano e chiede giuste soluzioni per Gaza - La violenza non risolve le controversie - All'udienza generale catechesi su Tommaso d'Aquino maestro di teologia e di realismo pastorale - "Soluzioni giuste" per garantire alle popolazioni di Gaza "migliori condizioni di vita, in concordia e serenità": le ha auspicate Benedetto XVI esprimendo il suo cordoglio per le vittime del blitz israeliano sulla "Freedom Flotilla" e ribadendo che "la violenza non risolve le controversie". Il Papa ha pronunciato il suo appello al termine dell'udienza generale di mercoledì 2 giugno, in piazza San Pietro. - ©L'Osservatore Romano - 3 giugno 2010
2) Con i lefebvriani fare ecumenismo costa caro - Chi dialoga con loro rischia l'accusa di tradire il Concilio Vaticano II. Il papa ci prova e un teologo tedesco torna a criticarlo. Ma intanto, molti gruppi tradizionalisti hanno già fatto pace con la Chiesa - di Sandro Magister
3) L’inferno per i pedofili? - Va bene, ma adesso per favore attenti a non esagerare - Padre Gabriele Amorth al Foglio: “Ho sentito sabato il promotore di giustizia della Congregazione per la dottrina della fede, monsignor Charles Scicluna, dire sostanzialmente che per i sacerdoti colpevoli di abusi sessuali su minori l’inferno sarà più duro che per gli altri. Anche se nel merito può avere ragione, dico che occorre fare attenzione a non far diventare la Chiesa più giustizialista dei tribunali civili”… - di Paolo Rodari - IL FOGLIO 1 giugno 2010
4) Gesù, gli uomini e l'Eucaristia - Un destino preparato dall'eternità - di Inos Biffi - ©L'Osservatore Romano - 3 giugno 2010
5) Una chiazza nera sulla ragione - Lorenzo Albacete - giovedì 3 giugno 2010 – ilsussidiario.net
6) MEDIO ORIENTE/ Ecco perché l’Italia sta con gli Usa (e Israele) per fare la pace - INT. Carlo Jean - giovedì 3 giugno 2010 – ilsussidiario.net
7) Avvenire.it, 2 Giugno 2010 - Le processioni del Corpus Domini - Luce da ritrovare oltre un opaco velo, Marina Corradi
8) L’aborto, un «progresso sociale»? I dubbi della Spagna – Avvenire, 3 giugno 2010
9) il dibattito - No ai brevetti sul Dna: l’allarme del Nobel Sulston – Avvenire, 3 giugno 2010


Il Papa esprime cordoglio per le vittime del blitz israeliano e chiede giuste soluzioni per Gaza - La violenza non risolve le controversie - All'udienza generale catechesi su Tommaso d'Aquino maestro di teologia e di realismo pastorale - "Soluzioni giuste" per garantire alle popolazioni di Gaza "migliori condizioni di vita, in concordia e serenità": le ha auspicate Benedetto XVI esprimendo il suo cordoglio per le vittime del blitz israeliano sulla "Freedom Flotilla" e ribadendo che "la violenza non risolve le controversie". Il Papa ha pronunciato il suo appello al termine dell'udienza generale di mercoledì 2 giugno, in piazza San Pietro. - ©L'Osservatore Romano - 3 giugno 2010
Con profonda trepidazione seguo le tragiche vicende avvenute in prossimità della Striscia di Gaza. Sento il bisogno di esprimere il mio sentito cordoglio per le vittime di questi dolorosissimi eventi, che preoccupano quanti hanno a cuore la pace nella regione. Ancora una volta ripeto con animo accorato che la violenza non risolve le controversie, ma ne accresce le drammatiche conseguenze e genera altra violenza. Faccio appello a quanti hanno responsabilità politiche a livello locale e internazionale affinché ricerchino incessantemente soluzioni giuste attraverso il dialogo, in modo da garantire alle popolazioni dell'area migliori condizioni di vita, in concordia e serenità. Vi invito ad unirvi a me nella preghiera per le vittime, per i loro familiari e per quanti soffrono. Il Signore sostenga gli sforzi di coloro che non si stancano di operare per la riconciliazione e la pace.

In precedenza il Pontefice aveva dedicato la catechesi a san Tommaso d'Aquino, il Dottore Angelico, indicando nella sua figura una sintesi fra il teologo che parlava "con semplicità e fervore ai fedeli" e il predicatore dotato di "sano realismo pastorale".

Cari fratelli e sorelle,
dopo alcune catechesi sul sacerdozio e i miei ultimi viaggi, ritorniamo oggi al nostro tema principale, alla meditazione cioè di alcuni grandi pensatori del Medio Evo. Avevamo visto ultimamente la grande figura di san Bonaventura, francescano, e oggi vorrei parlare di colui che la Chiesa chiama il Doctor communis: cioè san Tommaso d'Aquino. Il mio venerato Predecessore, il Papa Giovanni Paolo ii, nella sua Enciclica Fides et ratio ha ricordato che san Tommaso "è sempre stato proposto dalla Chiesa come maestro di pensiero e modello del retto modo di fare teologia" (n. 43). Non sorprende che, dopo sant'Agostino, tra gli scrittori ecclesiastici menzionati nel Catechismo della Chiesa Cattolica, san Tommaso venga citato più di ogni altro, per ben sessantuno volte! Egli è stato chiamato anche il Doctor Angelicus, forse per le sue virtù, in particolare la sublimità del pensiero e la purezza della vita.
Tommaso nacque tra il 1224 e il 1225 nel castello che la sua famiglia, nobile e facoltosa, possedeva a Roccasecca, nei pressi di Aquino, vicino alla celebre abbazia di Montecassino, dove fu inviato dai genitori per ricevere i primi elementi della sua istruzione. Qualche anno dopo si trasferì nella capitale del Regno di Sicilia, Napoli, dove Federico ii aveva fondato una prestigiosa Università. In essa veniva insegnato, senza le limitazioni vigenti altrove, il pensiero del filosofo greco Aristotele, al quale il giovane Tommaso venne introdotto, e di cui intuì subito il grande valore. Ma soprattutto, in quegli anni trascorsi a Napoli, nacque la sua vocazione domenicana. Tommaso fu infatti attratto dall'ideale dell'Ordine fondato non molti anni prima da san Domenico. Tuttavia, quando rivestì l'abito domenicano, la sua famiglia si oppose a questa scelta, ed egli fu costretto a lasciare il convento e a trascorrere qualche tempo in famiglia.
Nel 1245, ormai maggiorenne, poté riprendere il suo cammino di risposta alla chiamata di Dio. Fu inviato a Parigi per studiare teologia sotto la guida di un altro santo, Alberto Magno, sul quale ho parlato recentemente. Alberto e Tommaso strinsero una vera e profonda amicizia e impararono a stimarsi e a volersi bene, al punto che Alberto volle che il suo discepolo lo seguisse anche a Colonia, dove egli era stato inviato dai Superiori dell'Ordine a fondare uno studio teologico. Tommaso prese allora contatto con tutte le opere di Aristotele e dei suoi commentatori arabi, che Alberto illustrava e spiegava.
In quel periodo, la cultura del mondo latino era stata profondamente stimolata dall'incontro con le opere di Aristotele, che erano rimaste ignote per molto tempo. Si trattava di scritti sulla natura della conoscenza, sulle scienze naturali, sulla metafisica, sull'anima e sull'etica, ricchi di informazioni e di intuizioni che apparivano valide e convincenti. Era tutta una visione completa del mondo sviluppata senza e prima di Cristo, con la pura ragione, e sembrava imporsi alla ragione come "la" visione stessa; era, quindi, un incredibile fascino per i giovani vedere e conoscere questa filosofia. Molti accolsero con entusiasmo, anzi con entusiasmo acritico, questo enorme bagaglio del sapere antico, che sembrava poter rinnovare vantaggiosamente la cultura, aprire totalmente nuovi orizzonti. Altri, però, temevano che il pensiero pagano di Aristotele fosse in opposizione alla fede cristiana, e si rifiutavano di studiarlo. Si incontrarono due culture: la cultura pre-cristiana di Aristotele, con la sua radicale razionalità, e la classica cultura cristiana. Certi ambienti erano condotti al rifiuto di Aristotele anche dalla presentazione che di tale filosofo era stata fatta dai commentatori arabi Avicenna e Averroè. Infatti, furono essi ad aver trasmesso al mondo latino la filosofia aristotelica. Per esempio, questi commentatori avevano insegnato che gli uomini non dispongono di un'intelligenza personale, ma che vi è un unico intelletto universale, una sostanza spirituale comune a tutti, che opera in tutti come "unica": quindi una depersonalizzazione dell'uomo. Un altro punto discutibile veicolato dai commentatori arabi era quello secondo il quale il mondo è eterno come Dio. Si scatenarono comprensibilmente dispute a non finire nel mondo universitario e in quello ecclesiastico. La filosofia aristotelica si andava diffondendo addirittura tra la gente semplice.
Tommaso d'Aquino, alla scuola di Alberto Magno, svolse un'operazione di fondamentale importanza per la storia della filosofia e della teologia, direi per la storia della cultura: studiò a fondo Aristotele e i suoi interpreti, procurandosi nuove traduzioni latine dei testi originali in greco. Così non si appoggiava più solo ai commentatori arabi, ma poteva leggere personalmente i testi originali, e commentò gran parte delle opere aristoteliche, distinguendovi ciò che era valido da ciò che era dubbio o da rifiutare del tutto, mostrando la consonanza con i dati della Rivelazione cristiana e utilizzando largamente e acutamente il pensiero aristotelico nell'esposizione degli scritti teologici che compose. In definitiva, Tommaso d'Aquino mostrò che tra fede cristiana e ragione sussiste una naturale armonia. E questa è stata la grande opera di Tommaso, che in quel momento di scontro tra due culture - quel momento nel quale sembrava che la fede dovesse arrendersi davanti alla ragione - ha mostrato che esse vanno insieme, che quanto appariva ragione non compatibile con la fede non era ragione, e quanto appariva fede non era fede, in quanto opposta alla vera razionalità; così egli ha creato una nuova sintesi, che ha formato la cultura dei secoli seguenti.
Per le sue eccellenti doti intellettuali, Tommaso fu richiamato a Parigi come professore di teologia sulla cattedra domenicana. Qui iniziò anche la sua produzione letteraria, che proseguì fino alla morte, e che ha del prodigioso: commenti alla Sacra Scrittura, perché il professore di teologia era soprattutto interprete della Scrittura, commenti agli scritti di Aristotele, opere sistematiche poderose, tra cui eccelle la Summa Theologiae, trattati e discorsi su vari argomenti. Per la composizione dei suoi scritti, era coadiuvato da alcuni segretari, tra i quali il confratello Reginaldo di Piperno, che lo seguì fedelmente e al quale fu legato da fraterna e sincera amicizia, caratterizzata da una grande confidenza e fiducia. È questa una caratteristica dei santi: coltivano l'amicizia, perché essa è una delle manifestazioni più nobili del cuore umano e ha in sé qualche cosa di divino, come Tommaso stesso ha spiegato in alcune quaestiones della Summa Theologiae, in cui scrive: "La carità è l'amicizia dell'uomo con Dio principalmente, e con gli esseri che a Lui appartengono" (ii, q. 23, a.1).
Non rimase a lungo e stabilmente a Parigi. Nel 1259 partecipò al Capitolo Generale dei Domenicani a Valenciennes dove fu membro di una commissione che stabilì il programma di studi nell'Ordine. Dal 1261 al 1265, poi, Tommaso era ad Orvieto. Il Pontefice Urbano iv, che nutriva per lui una grande stima, gli commissionò la composizione dei testi liturgici per la festa del Corpus Domini, che celebriamo domani, istituita in seguito al miracolo eucaristico di Bolsena. Tommaso ebbe un'anima squisitamente eucaristica. I bellissimi inni che la liturgia della Chiesa canta per celebrare il mistero della presenza reale del Corpo e del Sangue del Signore nell'Eucaristia sono attribuiti alla sua fede e alla sua sapienza teologica. Dal 1265 fino al 1268 Tommaso risiedette a Roma, dove, probabilmente, dirigeva uno Studium, cioè una Casa di studi dell'Ordine, e dove iniziò a scrivere la sua Summa Theologiae (cfr. Jean-Pierre Torrell, Tommaso d'Aquino. L'uomo e il teologo, Casale Monf., 1994, pp. 118-184).
Nel 1269 fu richiamato a Parigi per un secondo ciclo di insegnamento. Gli studenti - si può capire - erano entusiasti delle sue lezioni. Un suo ex-allievo dichiarò che una grandissima moltitudine di studenti seguiva i corsi di Tommaso, tanto che le aule riuscivano a stento a contenerli e aggiungeva, con un'annotazione personale, che "ascoltarlo era per lui una felicità profonda". L'interpretazione di Aristotele data da Tommaso non era accettata da tutti, ma persino i suoi avversari in campo accademico, come Goffredo di Fontaines, ad esempio, ammettevano che la dottrina di frate Tommaso era superiore ad altre per utilità e valore e serviva da correttivo a quelle di tutti gli altri dottori. Forse anche per sottrarlo alle vivaci discussioni in atto, i Superiori lo inviarono ancora una volta a Napoli, per essere a disposizione del re Carlo i, che intendeva riorganizzare gli studi universitari.
Oltre che allo studio e all'insegnamento, Tommaso si dedicò pure alla predicazione al popolo. E anche il popolo volentieri andava ad ascoltarlo. Direi che è veramente una grande grazia quando i teologi sanno parlare con semplicità e fervore ai fedeli. Il ministero della predicazione, d'altra parte, aiuta gli stessi studiosi di teologia a un sano realismo pastorale, e arricchisce di vivaci stimoli la loro ricerca.
Gli ultimi mesi della vita terrena di Tommaso restano circondati da un'atmosfera particolare, misteriosa direi. Nel dicembre del 1273 chiamò il suo amico e segretario Reginaldo per comunicargli la decisione di interrompere ogni lavoro, perché, durante la celebrazione della Messa, aveva compreso, in seguito a una rivelazione soprannaturale, che quanto aveva scritto fino ad allora era solo "un mucchio di paglia". È un episodio misterioso, che ci aiuta a comprendere non solo l'umiltà personale di Tommaso, ma anche il fatto che tutto ciò che riusciamo a pensare e a dire sulla fede, per quanto elevato e puro, è infinitamente superato dalla grandezza e dalla bellezza di Dio, che ci sarà rivelata in pienezza nel Paradiso. Qualche mese dopo, sempre più assorto in una pensosa meditazione, Tommaso morì mentre era in viaggio verso Lione, dove si stava recando per prendere parte al Concilio Ecumenico indetto dal Papa Gregorio x. Si spense nell'Abbazia cistercense di Fossanova, dopo aver ricevuto il Viatico con sentimenti di grande pietà.
La vita e l'insegnamento di san Tommaso d'Aquino si potrebbero riassumere in un episodio tramandato dagli antichi biografi. Mentre il Santo, come suo solito, era in preghiera davanti al Crocifisso, al mattino presto nella Cappella di San Nicola, a Napoli, Domenico da Caserta, il sacrestano della chiesa, sentì svolgersi un dialogo. Tommaso chiedeva, preoccupato, se quanto aveva scritto sui misteri della fede cristiana era giusto. E il Crocifisso rispose: "Tu hai parlato bene di me, Tommaso. Quale sarà la tua ricompensa?". E la risposta che Tommaso diede è quella che anche noi, amici e discepoli di Gesù, vorremmo sempre dirgli: "Nient'altro che Te, Signore!" (Ibid., p. 320).
(©L'Osservatore Romano - 3 giugno 2010)


Con i lefebvriani fare ecumenismo costa caro - Chi dialoga con loro rischia l'accusa di tradire il Concilio Vaticano II. Il papa ci prova e un teologo tedesco torna a criticarlo. Ma intanto, molti gruppi tradizionalisti hanno già fatto pace con la Chiesa - di Sandro Magister
ROMA, 2 giugno 2010 – Tra due giorni Benedetto XVI viaggerà alla volta di Cipro. Sarà la prima volta che un papa visiterà l'isola, invitato e accolto dalla locale Chiesa ortodossa. Nemmeno Giovanni Paolo II vi era riuscito.

Questa visita sarà l'ennesima prova dei progressi senza precedenti che l'ecumenismo di papa Joseph Ratzinger ha prodotto in pochi anni ad Oriente, col vasto mondo dell'ortodossia.

Ma c'è anche un altro versante ecumenico sul quale Benedetto XVI è impegnato.

È quello con i seguaci dell'arcivescovo Marcel Lefebvre, tuttora in stato di scisma con la Chiesa di Roma a motivo del loro rifiuto dell'integralità del Concilio Vaticano II.

All'inizio del 2009, la decisione del papa di cancellare la scomunica ai quattro vescovi ordinati illecitamente da Lefebvre (vedi foto) – decisione mal comunicata e mal compresa dentro e fuori la Chiesa – provocò un uragano di fraintendimenti e di polemiche.

Per chiarire il senso del suo gesto, il 10 marzo dell'anno scorso Benedetto XVI scrisse una lettera ai vescovi. Nella quale spiegò che la revoca della scomunica era un richiamo "al pentimento e al ritorno all'unità". E ribadì che il cammino di riconciliazione restava ancora tutto da compiere, poiché il dissidio era di natura dottrinale e riguardava l'accettazione del Concilio Vaticano II e il magistero post-conciliare dei papi.

A conferma di questa natura dottrinale del dissidio, il papa collegò strettamente la pontificia commissione "Ecclesia Dei" – incaricata di dialogare con i lefebvriani e con altri gruppi affini – con la congregazione per la dottrina della fede.

Nella stessa lettera ai vescovi, Benedetto XVI spiegò che il richiamo all'unità di fede deve valere con tutti i cristiani. E che quindi non ha senso "lasciare andare alla deriva lontani dalla Chiesa" i 491 sacerdoti, i 215 seminaristi, i 6 seminari, le 88 scuole, i 2 istituti universitari, i 117 frati, le 164 suore e le migliaia di fedeli che compongono la comunità lefebvriana.

Ma il papa fece anche notare, con rammarico, che nella Chiesa scatta contro i lefebvriani un'intolleranza che colpisce sia loro sia quelli che "osano avvicinarglisi".

Lo stesso Benedetto XVI è bersaglio di questa intolleranza. Ai vescovi ha scritto che a motivo dei suoi sforzi di riconciliare i lefebvriani alla Chiesa "alcuni hanno accusato apertamente il papa di voler tornare indietro a prima del Concilio Vaticano II".

Queste critiche sono tornate ad affiorare di recente anche in forme teologicamente sofisticate. Ad esempio in un dotto commento scritto da Eberhard Schockenhoff, professore di teologia morale all'università di Friburgo, sul numero di aprile del 2010 della rivista dei gesuiti tedeschi "Stimmen der Zeit", riprodotto integralmente in italiano sull'ultimo numero di "Il Regno".

Schockenhoff è professore di teologia morale all'università di Friburgo ed è stato discepolo ed assistente di Walter Kasper, oggi cardinale e presidente del pontificio consiglio per l'unità dei cristiani.

Nel suo commento, giustamente Schockenhoff scrive che il vero dissidio tra la Chiesa di Roma e i lefebvriani non riguarda la messa in latino ma la dottrina del Vaticano II, specie sull'ecclesiologia e sulla libertà di coscienza e di religione.

Ma scrive anche che Roma sbaglia a escogitare interpretazioni restrittive dei testi conciliari da offrire ai lefebvriani nella speranza che siano accettate da loro. Perché a giudizio di Schockenhoff è proprio questo che starebbe accadendo, negli incontri a porte chiuse promossi dalla "Ecclesia Dei".

Roma – scrive Schockenhoff – vorrebbe strappare un riconoscimento verbale della libertà di coscienza e di religione, cioè dei capisaldi cella cultura moderna, proprio da gente come i lefebvriani che sono i nemici più irriducibili della modernità. Ma fare ciò è come tentare "la quadratura del cerchio", cioè l'impossibile. Nessuno crederà mai alla sincerità di una simile riconciliazione, anche qualora fosse sottoscritta.

Nel denunciare il "funambolismo ermeneutico" con cui la Chiesa di Roma vorrebbe riconciliare a sé i lefebvriani con grave danno della giusta interpretazione del Concilio, Schockenhoff cita ripetutamente il teologo Ratzinger e la sua "concezione platonico-agostiniana della coscienza": una concezione "troppo diversa" – scrive – da quella della dichiarazione conciliare "Dignitatis humanae" sulla libertà religiosa.

Il saggio di Ratzinger citato è del 1992. Inspiegabilmente, però, Schockenhoff non cita un testo molto più pertinente e recente dello stesso Ratzinger, nel frattempo divenuto papa.

Questo testo capitale è la parte conclusiva del memorabile discorso tenuto da Benedetto XVI alla curia romana il 22 dicembre 2005, sull'interpretazione del Concilio Vaticano II.

Nello spiegare come interpretare correttamente il Concilio, Benedetto XVI mostra come esso abbia segnato sì delle novità rispetto al passato, ma sempre in continuità con "il patrimonio più profondo della Chiesa".

E come esempio riuscito di questo intreccio fra novità e continuità il papa illustra proprio le tesi conciliari sulla libertà di religione: cioè il punto principale di rottura tra la Chiesa e i lefebvriani.

Da questo suo discorso in poi, risulta evidente che per Benedetto XVI i lefebvriani potranno riconciliarsi con la Chiesa solo se accetteranno in tutto ciò che scrive la "Dignitatis humanae" nell'interpretazione che ne ha dato lo stesso papa, e non in un'altra interpretazione più restrittiva, o "platonico-agostiniana".

Qui di seguito, l'ampio passaggio conclusivo del discorso di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005.

E a seguire, una dettagliata nota di padre Giancarlo Rocca, direttore del "Dizionario degli istituti di perfezione", sui gruppi tradizionalisti finora riportati all'obbedienza dalla pontificia commissione "Ecclesia Dei", la stessa che si occupa dei lefebvriani. La nota è uscita su "L'Osservatore Romano" dell'11 maggio 2010.

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"IN QUESTO PROCESSO DI NOVITÀ NELLA CONTINUITÀ..."
di Benedetto XVI


[...] Il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna. Questo rapporto aveva avuto un inizio molto problematico con il processo a Galileo. Si era poi spezzato totalmente, quando Kant definì la “religione entro la pura ragione” e quando, nella fase radicale della rivoluzione francese, venne diffusa un'immagine dello stato e dell'uomo che alla Chiesa ed alla fede praticamente non voleva più concedere alcuno spazio. Lo scontro della fede della Chiesa con un liberalismo radicale ed anche con scienze naturali che pretendevano di abbracciare con le loro conoscenze tutta la realtà fino ai suoi confini, proponendosi caparbiamente di rendere superflua l’”ipotesi Dio”, aveva provocato nell'Ottocento, sotto Pio IX, da parte della Chiesa aspre e radicali condanne di tale spirito dell'età moderna. Quindi, apparentemente non c'era più nessun ambito aperto per un’intesa positiva e fruttuosa, e drastici erano pure i rifiuti da parte di coloro che si sentivano i rappresentanti dell'età moderna.

Nel frattempo, tuttavia, anche l'età moderna aveva conosciuto degli sviluppi. Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese. Le scienze naturali cominciavano, in modo sempre più chiaro, a riflettere sul proprio limite, imposto dallo stesso loro metodo che, pur realizzando cose grandiose, tuttavia non era in grado di comprendere la globalità della realtà.

Così, tutte e due le parti cominciavano progressivamente ad aprirsi l’una all'altra. Nel periodo tra le due guerre mondiali e ancora di più dopo la seconda guerra mondiale, uomini di stato cattolici avevano dimostrato che può esistere uno stato moderno laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo. La dottrina sociale cattolica, via via sviluppatasi, era diventata un modello importante tra il liberalismo radicale e la teoria marxista dello Stato. Le scienze naturali, che senza riserva facevano professione di un proprio metodo in cui Dio non aveva accesso, si rendevano conto sempre più chiaramente che questo metodo non comprendeva la totalità della realtà e aprivano quindi nuovamente le porte a Dio, sapendo che la realtà è più grande del metodo naturalistico e di ciò che esso può abbracciare.

Si potrebbe dire che si erano formati tre cerchi di domande, che ora, nell'ora del Vaticano II, attendevano una risposta.

Innanzitutto occorreva definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne; ciò riguardava, del resto, non soltanto le scienze naturali, ma anche la scienza storica perché, in una certa scuola, il metodo storico-critico reclamava per sé l'ultima parola nella interpretazione della Bibbia e, pretendendo la piena esclusività per la sua comprensione delle Sacre Scritture, si opponeva in punti importanti all’interpretazione che la fede della Chiesa aveva elaborato.

In secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni ed ideologie, comportandosi verso queste religioni in modo imparziale e assumendo semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e tollerante tra i cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria religione.

Con ciò, in terzo luogo, era collegato in modo più generale il problema della tolleranza religiosa – una questione che richiedeva una nuova definizione del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo. In particolare, di fronte ai recenti crimini del regime nazionalsocialista e, in genere, in uno sguardo retrospettivo su una lunga storia difficile, bisognava valutare e definire in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e la fede di Israele.

Sono tutti temi di grande portata – erano i grandi temi della seconda parte del Concilio – su cui non è possibile soffermarsi più ampiamente in questo contesto. È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione.

È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma.

In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole.

Bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare.

Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata come espressione dell'incapacità dell'uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l'uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza.

Una cosa completamente diversa è invece il considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall'esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del convincimento.

Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa.

Essa può essere consapevole di trovarsi con ciò in piena sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso (cfr Mt 22,21), come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi. La Chiesa antica, con naturalezza, ha pregato per gli imperatori e per i responsabili politici considerando questo un suo dovere (cfr 1 Tm 2,2); ma, mentre pregava per gli imperatori, ha invece rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto chiaramente la religione di Stato. I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede – una professione che da nessuno stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza.

Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve necessariamente impegnarsi per la libertà della fede. Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura al contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro intimo, aspettano – una risposta con cui la molteplicità delle culture non si perde, ma cresce invece l'unità tra gli uomini e così anche la pace tra i popoli.

Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi; essa prosegue “il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”, annunziando la morte del Signore fino a che Egli venga (cfr Lumen gentium, 8).

Chi si era aspettato che con questo “sì” fondamentale all'età moderna tutte le tensioni si dileguassero e l’”apertura verso il mondo” così realizzata trasformasse tutto in pura armonia, aveva sottovalutato le interiori tensioni e anche le contraddizioni della stessa età moderna; aveva sottovalutato la pericolosa fragilità della natura umana che in tutti i periodi della storia e in ogni costellazione storica è una minaccia per il cammino dell'uomo. Questi pericoli, con le nuove possibilità e con il nuovo potere dell'uomo sulla materia e su se stesso, non sono scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni: uno sguardo sulla storia attuale lo dimostra chiaramente.

Anche nel nostro tempo la Chiesa resta un “segno di contraddizione” (Lc 2,34) – non senza motivo papa Giovanni Paolo II, ancora da cardinale, aveva dato questo titolo agli esercizi spirituali predicati nel 1976 a papa Paolo VI e alla curia romana. Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell'uomo. Era invece senz'altro suo intendimento accantonare contraddizioni erronee o superflue, per presentare a questo nostro mondo l'esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e purezza.

Il passo fatto dal Concilio verso l'età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme.

La situazione che il Concilio doveva affrontare è senz'altro paragonabile ad avvenimenti di epoche precedenti. San Pietro, nella sua prima lettera, aveva esortato i cristiani ad essere sempre pronti a dar risposta (apo-logia) a chiunque avesse loro chiesto il logos, la ragione della loro fede (cfr 3,15). Questo significava che la fede biblica doveva entrare in discussione e in relazione con la cultura greca ed imparare a riconoscere mediante l'interpretazione la linea di distinzione, ma anche il contatto e l'affinità tra loro nell'unica ragione donata da Dio.

Quando nel XIII secolo, mediante filosofi ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso d'Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo.

La faticosa disputa tra la ragione moderna e la fede cristiana che, in un primo momento, col processo a Galileo, era iniziata in modo negativo, certamente conobbe molte fasi, ma col Concilio Vaticano II arrivò l’ora in cui si richiedeva un ampio ripensamento. Il suo contenuto, nei testi conciliari, è tracciato sicuramente solo a larghe linee, ma con ciò è determinata la direzione essenziale, cosicché il dialogo tra ragione e fede, oggi particolarmente importante, in base al Vaticano II ha trovato il suo orientamento.

Adesso questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta da noi proprio in questo momento. Così possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa. [...]

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VENTIDUE ANNI DI "ECCLESIA DEI". UN BILANCIO
di Giancarlo Rocca

Il 2 luglio 1988 veniva istituita la pontificia commissione "Ecclesia Dei" con l'omonimo motu proprio di Giovanni Paolo II. L'obiettivo iniziale era quello di facilitare il rientro nella piena comunione della Chiesa di sacerdoti, seminaristi, religiosi, religiose, gruppi e singoli che, non condividendo la riforma liturgica del concilio Vaticano II, si erano legati alla fraternità sacerdotale San Pio X fondata da monsignor Marcel Lefebvre, ma non avevano condiviso il gesto, da lui compiuto nel 1988, di consacrare alcuni vescovi.

In seguito, la "Ecclesia Dei" ha ampliato le proprie competenze, ponendosi al servizio di tutti coloro che, anche senza legami con i gruppi di monsignor Lefebvre, desiderano conservare la liturgia latina anteriore nella celebrazione dei sacramenti, in particolar modo dell'eucarestia. In pratica, alla "Ecclesia Dei" è stato attribuito il compito di conservare e preservare il valore della liturgia latina della Chiesa fissata nella riforma del 1962 da Giovanni XXIII.

Il cammino percorso dalla "Ecclesia Dei" in questi quasi ventidue anni è stato notevole.

Nel 1988, anno della sua fondazione, ha concesso l'approvazione pontificia alla fraternità sacerdotale San Pietro e alla fraternità san Vincenzo Ferreri.

La prima era stata fondata subito dopo lo scisma del 1988 e aveva avuto come primo superiore don Joseph Bisig, già assistente generale della fraternità San Pio X con monsignor Lefebvre.

La seconda era nata nel 1979 per opera di padre Louis-Marie de Blignières, che aveva ritenuto la dichiarazione conciliare "Dignitatis humanae" sulla libertà religiosa contraria all'insegnamento tradizionale della Chiesa, e poi, dopo uno studio più accurato, si era convinto che il Vaticano II non rappresentava una rottura.

Sono seguite altre approvazioni pontificie di istituti:

– l'abbazia Santa Maddalena, fondata nel 1970 dal padre Gerardo Calvet, un monaco della congregazione benedettina sublacense (1989);

– l'abbazia Nostra Signora Annunciazione, con sede a Le Barroux, in Francia, fondata nel 1979 come ramo femminile dell'abbazia Santa Maddalena, fondata dal padre Calvet (1989);

– le madri della Santa Croce, con casa generalizia in Tanzania, fondate nel 1976 da suor Maria Stieren, delle benedettine missionarie di Tutzing, e da padre Cornelio Del Zotto, dei frati minori (1991);

– i servi di Gesù e Maria, fondati nel 1988 dal sacerdote ex gesuita padre Andrea Hönisch e attualmente con sede in Austria (1994);

– le canonichesse regolari della Madre di Dio, fondate in Francia nel 1971 e collegate con i canonici regolari della Madre di Dio (2000);

– i missionari della Santa Croce, con casa generalizia in Tanzania, fondati nel 1976, che costituiscono il parallelo maschile delle madri della Santa Croce (2004);

– l'istituto San Filippo Neri, fondato nel 2003 da don Gerald Goesche, con sede a Berlino, in Germania (2004);

– l'istituto del Buon Pastore, fondato nello stesso anno in Francia da don Philippe Laguérie insieme con alcuni sacerdoti usciti dalla fraternità sacerdotale san Pio X (2006);

– l'oasi di Gesù Sacerdote, fondata nel 1965 da padre Pedro Muñoz Iranzo e con sede ad Argentona, in Spagna (2007);

– l'istituto Cristo Re sommo sacerdote, fondato da monsignor Gilles Wach nel 1988, con sede a Sieci, Firenze (2008);

– le adoratrici del Cuore regale di Gesù Cristo sommo sacerdote, fondate nel 2000, con sede a Sieci, Firenze, che costituiscono il ramo femminile dell'istituto Cristo Re sommo sacerdote (2008).

Sono attualmente in corso le approvazioni di diritto diocesano dei figli del Santissimo Redentore, fondati nel 1988 e con sede in Scozia, e della fraternità di Cristo sacerdote e Santa Maria Regina, con sede a Toledo, in Spagna.

Molte altre sono le fondazioni – singoli monasteri e conventi di suore – che celebrano la liturgia secondo il rito del 1962 ed è impossibile elencarli. Qui però è necessario ricordare il cammino percorso dalla diocesi di Campos in Brasile, il cui vescovo, vicino alle posizioni di monsignor Lefebvre, nel 1981 ha rassegnato le dimissioni per raggiunti limiti di età e in seguito ha fatto parte della società sacerdotale di San Giovanni Battista Maria Vianney. Nel 2002 la società è rientrata nella comunione della Chiesa ed è stata costituita come amministrazione apostolica personale – limitata al territorio della diocesi di Campos – per i fedeli legati alla tradizione tridentina. In questa nuova amministrazione apostolica nel 2008 ha ricevuto l'approvazione di diritto diocesano l'istituto del Cuore Immacolato di Maria, che era stato fondato nel 1976.

Come si vede, sono già un discreto numero gli istituti che hanno ottenuto l'approvazione pontificia, con la possibilità di seguire il rito tradizionale nella Chiesa. Presi singolarmente, si tratta di piccoli istituti, attorno ai quali, però, ruota un certo numero di fedeli.

Il gruppo più numeroso sembra essere quello della fraternità sacerdotale di San Pietro, che conta una trentina di case negli Stati Uniti d'America, una ventina in Francia, poi alcune altre in Austria, Germania, Canada, Svizzera, Belgio. A Roma nel 2008 è stata affidata alla fraternità una parrocchia personale per i fedeli che preferiscono il rito di Pio V: come loro centro è stata designata la chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini. Gli altri istituti sono di entità molto minore, a eccezione dell'istituto Cristo Re sommo sacerdote, presente in una cinquantina di diocesi con circa 70 sacerdoti.

In ogni caso, è difficile quantificare il numero di coloro che in vario modo sono sottoposti alla "Ecclesia Dei". Si parla di circa 370 sacerdoti, 200 religiose, un centinaio di religiosi non sacerdoti, circa 300 seminaristi e alcune centinaia di migliaia di fedeli.

Come risulta da questi dati, la "Ecclesia Dei" è stata a volte molto rapida nel concedere l'approvazione pontificia a istituti che desideravano rientrare nella Chiesa. E questo modo di operare appare chiaramente se raffrontato con la prassi della congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, che attende parecchi anni prima di concedere l'approvazione pontificia a un istituto.

Il modo con cui queste istituzioni sono state approvate è altrettanto significativo ed è chiaramente espresso nei documenti relativi.

Erigendo l'amministrazione apostolica personale San Giovanni Maria Vianney, nel 2002, la congregazione per i vescovi concedeva la facoltà di celebrare l'eucarestia, gli altri sacramenti e la liturgia delle ore secondo il rito codificato da Pio V e con gli adattamenti introdotti sino al 1963 col pontificato di Giovanni XXIII.

Approvando nel 2008 l'istituto Cristo Re sommo sacerdote, la "Ecclesia Dei" lo presentava come una società di preti che si proponevano di celebrare "decore ac sanctitate cultus liturgici secundum formam extraordinariam Ritus Romani".

E sempre nel 2008 la commissione concedeva all'abbazia trappista di Mariawald, in Germania, un ritorno completo alla liturgia in uso nell'ordine trappista sino al 1963-1964.

Il diverso regime appare ancor più evidente se si tiene conto che questi istituti, elencati nell'Annuario Pontificio, dipendono unicamente dalla "Ecclesia Dei", anche se per la loro erezione di diritto pontificio si richiede di sentire il prefetto della congregazione per gli istituti di vita consacrata e per le società di vita apostolica.

Due documenti di Benedetto XVI hanno precisato l'ambito di azione della "Ecclesia Dei" e la vita di coloro che si sentono legati all'antico rito della Chiesa.

Nel motu proprio "Summorum Pontificum", del 7 luglio 2007, il papa afferma che il messale di Paolo VI è espressione ordinaria della preghiera della Chiesa cattolica di rito latino, mentre quello edito da Giovanni XXIII ne è espressione straordinaria. Le due forme dell'unico rito latino, cioè, non sono più considerate l'una in sostituzione dell'altra. Di conseguenza, l'uso del messale romano nella edizione del 1962 viene liberalizzato e regolamentato secondo le disposizioni normative del "Summorum Pontificum". Tutti i sacerdoti che lo desiderano possono celebrare secondo l'antico rito senza bisogno di alcun permesso. E anche gli istituti religiosi possono celebrare seguendo il messale romano anteriore, con il consenso dei loro superiori maggiori se si tratta di una celebrazione abituale o permanente. L'effetto di queste misure, certamente voluto, è di non contrapporre il messale risalente a Pio V a quello di Paolo VI o viceversa – facendone un elemento di frizione – ma di considerarli due forme dell'unico rito.

Il secondo documento è la lettera apostolica motu proprio "Ecclesiae unitatem", del 2 luglio 2009, con la quale il pontefice ha collegato strettamente la "Ecclesia Dei" alla congregazione per la dottrina della fede. Questo aggiornamento della sua struttura è finalizzato ad adattare la pontificia commissione alla nuova situazione creatasi con la remissione della scomunica – avvenuta il 21 gennaio 2009 – ai quattro vescovi consacrati da monsignor Lefebvre. Poiché i problemi in vista della ricomposizione della divisione della fraternità sacerdotale San Pio X sono di natura essenzialmente dottrinale, Benedetto XVI ha deciso di ampliare le competenze della "Ecclesia Dei", subordinandola direttamente alla congregazione per la dottrina della fede.
(Da "L'Osservatore Romano" dell'11 maggio 2010).


L’inferno per i pedofili? - Va bene, ma adesso per favore attenti a non esagerare - Padre Gabriele Amorth al Foglio: “Ho sentito sabato il promotore di giustizia della Congregazione per la dottrina della fede, monsignor Charles Scicluna, dire sostanzialmente che per i sacerdoti colpevoli di abusi sessuali su minori l’inferno sarà più duro che per gli altri. Anche se nel merito può avere ragione, dico che occorre fare attenzione a non far diventare la Chiesa più giustizialista dei tribunali civili”… - di Paolo Rodari - IL FOGLIO 1 giugno 2010
Anche padre Gabriele Amorth, probabilmente il più grande esorcista vivente, può impressionarsi a sentire parlare d’inferno. Dice al Foglio: “Ho sentito sabato il promotore di giustizia della Congregazione per la dottrina della fede, monsignor Charles Scicluna, dire sostanzialmente che per i sacerdoti colpevoli di abusi sessuali su minori l’inferno sarà più duro che per gli altri. Anche se nel merito può avere ragione, dico che occorre fare attenzione a non far diventare la Chiesa più giustizialista dei tribunali civili. A mio avviso si sta esagerando. I tribunali civili italiani, ad esempio, oramai non ammettono più nemmeno l’ergastolo – chiunque riesce a cavarsela con non più di trent’anni di detenzione – e noi invece scomunichiamo a vita. Mi sembra che stiamo tutti un po’ troppo esagerando”.
La Chiesa è troppo dura coi preti pedofili? “Non ho detto questo. Penso però che Dio sia misericordia. E che ogni peccatore, tramite la confessione e la penitenza, può sempre ricominciare. Certo: un prete che ha commesso certi peccati ha davanti a sé un’esistenza difficile, nella quale si porterà dietro e dentro sempre le proprie colpe. Perché certe colpe non è con una lavata di spugna che si cancellano dalla propria esistenza. Queste, seppure in qualche modo redente, staranno sempre innanzi a chi le ha commesse. Carità, preghiera e penitenza saranno il senso del suo vivere se davvero pentito. Ma la Chiesa non deve dimenticarsi che la parola che meglio di altre definisce chi è Dio è misericordia. E nessuno può sapere come il giudizio di Dio avverrà. Nessuno può sapere fino a dove la misericordia di Dio sarà capace di arrivare. Fino a dove Dio saprà perdonare”.
Padre Amorth passa le giornate a fare esorcismi su posseduti. Dice che i demoni sono migliaia, vivono fuori dal tempo e dallo spazio e sono talmente tanti che se si potessero vedere oscurerebbero il sole. Dice: “I demoni hanno scelto liberamente di ribellarsi a Dio e di stare nell’inferno. L’inferno, qui ha detto giusto padre Scicluna, è fatto di tante gradazioni. Come anche il paradiso. Questo è come se fosse composto da tantissime stelle che brillano ognuna in modo diverso. E’ ovvio che l’anima di san Francesco brilli in modo diverso da quella di un grande peccatore che si converte soltanto all’ultimo istante di vita. Così anche l’inferno è fatto di molti dannati, tutti sottomessi al principe delle tenebre, Satana, tutti gerarchicamente sottomessi”.
Una gerarchia dantesca? “Più o meno sì. Ricordo il racconto che mi fece una volta l’esorcista da cui ho imparato tutto: padre Candido, che per trent’anni è stato esorcista a Roma alla Scala Santa. Stava esorcizzando un posseduto quando al demonio che stava dentro questa persona disse: ‘Perché non te ne vai via dall’inferno? Perché non lasci le tenebre in cui ti sei messo? Perché non torni alla luce?’. Il demone gli rispose: ‘Tu non sai niente’ – per noi esorcisti quando un demonio dice così significa che sta per dire una cosa vera, che non sta mentendo – ‘Tu non sai niente’ disse il demonio a padre Candido. E ancora: ‘Se me ne vado Satana mi punisce’. Voglio dire: in un certo senso Scicluna ha ragione: esiste una gerarchia anche all’inferno. Tutti sono sottomessi all’angelo decaduto. Tutti si odiano e si osteggiano e cercano di primeggiare sugli altri. Ma tutti temono Satana”.
Padre Amorth dice di non avere mai sentito un demone parlargli dei peccati del clero nei confronti dei bambini. I demoni, del resto, “parlano pochissimo. Sono restii a parlare. Durante gli esorcismi è difficilissimo estorcere loro qualche parola. E quando parlano il più delle volte mentono. Dicono tantissime bugie”. Perché? “Perché non vogliono mai svelarsi. L’esorcismo li costringe e uscire allo scoperto, a dire chi sono e quindi ad andarsene dalla persona posseduta. Mentre loro vogliono restare coperti. E distruggere la vita di coloro che posseggono”. Racconta padre Amorth che una volta durante un esorcismo un demonio gli ha detto: “Non capisci che io ho avuto la forza di disobbedire a Dio? Questo vuol dire che sono superiore a lui”.
di Paolo Rodari - IL FOGLIO 1 giugno 2010


Gesù, gli uomini e l'Eucaristia - Un destino preparato dall'eternità - di Inos Biffi - ©L'Osservatore Romano - 3 giugno 2010
Nell'imminenza della sua morte Gesù rende i suoi apostoli partecipi del suo corpo dato e del suo sangue sparso. Così, mangiando il pane da lui spezzato e bevendo al calice da lui benedetto, entrano già in comunione con il suo sacrificio. Ma quel gesto di Cristo dovrà essere rinnovato come suo memoriale: la cena del Signore (1 Corinzi, 12, 20) è destinata ad accompagnare la vita dei discepoli. Gesù la annette alla Chiesa, designata così a condividere il suo destino consumato sulla croce, e a interiorizzare, e quasi a inghiottire, la sua immolazione.
Leggiamo Paolo: "Il Signore Gesù, nella notte in cui era consegnato, prese del pane e, reso grazie, lo spezzò e disse: "Questo è il mio corpo, quello per voi. Fate questo in memoria di me". Allo stesso modo, prese anche il calice, dopo aver cenato, dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me"" (1 Corinzi, 11, 23-25). E, infatti, da subito i cristiani celebrarono quella cena, nella consapevolezza che essa era per loro irrinunciabile.
Ma qual è la ragione di questa annessione dell'Eucaristia alla Chiesa? Tale ragione appare pienamente alla luce del disegno divino, che include l'eterna predestinazione del Figlio di Dio crocifisso e glorificato. Il sacrificio di Cristo non è un episodio fortuito e inatteso, o ultimamente derivante dalla volontà dell'uomo.
A rimproverare la stoltezza dei discepoli di Emmaus e la lentezza del loro cuore a credere alle profezie è lo stesso Gesù: "Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui" (Luca, 24, 26-27). Quanto a Pietro, negli Atti degli Apostoli afferma che Gesù di Nazaret è stato consegnato agli uomini d'Israele "secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio", che "lo ha risuscitato" (cfr. 2, 23-24). Nell'eterno piano divino è, dunque, contenuto il Figlio di Dio predestinato redentore.
In verità, noi non sappiamo la ragione di questo progetto che comporta l'umanità crocifissa e gloriosa di Gesù: essa appartiene all'insondabile mistero del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Si dirà che la scelta divina deriva dal peccato dell'uomo e si sa che i teologi si sono chiesti che cosa avrebbe fatto Dio se l'uomo non avesse peccato. Senonché, la domanda è semplicemente improponibile, poiché l'agire di Dio non può in alcun modo dipendere dalla determinazione di una sua creatura.
Possiamo invece riconoscere - evitando di addentrarci nelle sterili vie delle ipotesi - tre cose. La prima: che l'attuale ordine voluto da Dio contiene certamente la dimensione del peccato proveniente dalla libertà dell'uomo (e dell'angelo). La seconda: che questo peccato non solo non fu capace di far fallire il piano divino, ma era, in ogni caso, "preceduto" dall'amore misericordioso. E la terza cosa: che quell'amore si è sommamente manifestato nel sacrificio di Gesù. Secondo la prima lettera di Pietro noi siamo stati liberati dal "sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia", che "fu predestinato già prima della creazione del mondo" (1 Pietro, 1, 19-20).
Questo amore misericordioso è la ragione assoluta e il "principio" del disegno creativo: Dio crea per rivelarsi come grazia. E la "grazia" originaria è l'umanità risorta e glorificata del Figlio. Detto in altre parole: il motivo della creazione è il Redentore, o il Crocifisso risorto. Non è, allora, a partire dal peccato che si capisce la redenzione; al contrario, è a partire dalla redenzione che si può "comprendere" il peccato, che trova in lui, "preventivamente", la sovrabbondanza del perdono.
Ecco perché Gesù appare segnato dalla predestinazione alla passione. Egli viene tra noi per essere "vittima di espiazione per i nostri peccati" (1 Giovanni, 2, 2). La sua umanità porta iscritta la morte redentiva quale condizione ed espressione della sua riuscita. Questa morte non equivale alla sua disfatta né suggella il fallimento del piano di Dio, ma, paradossalmente, ne costituisce e ne proclama il successo e l'esaltazione. L'"innalzamento" di Gesù avvera la sua gloria e lo pone nel cuore dell'umanità e di tutto l'universo (cfr. Giovanni, 12, 32).
Scrive san Tommaso: "Dio ama Cristo non solo più di tutto il genere umano, ma anche più di tutte le creature dell'universo. Né l'eccellenza di Cristo venne meno per il fatto che lo abbia destinato alla morte per la salvezza del genere umano. Che anzi, per questo egli è diventato un vincitore glorioso" (Summa Theologiae, i, 20, 4, 1m).
Ora, nel cenacolo Gesù istituisce l'Eucaristia perché in essa incessantemente possiamo ritrovare l'umanità crocifissa e gloriosa del Signore. Essa è, così, il sacramento del destino del Figlio di Dio, o la presenza reale dell'iniziale disegno di Dio, avveratosi sulla croce e nella risurrezione, e incessantemente professato e donato alla memoria e all'accoglienza della Chiesa, "finché egli venga" (1 Corinzi, 11, 26).
Ma l'Eucaristia, proponendo la morte e la risurrezione di Gesù, per ciò stesso disvela il destino di morte e di risurrezione che è incluso in ogni uomo.
L'umanità crocifissa e gloriosa di Gesù è l'archetipo esclusivo e imprescindibile di qualsiasi umanità. Tutto è stato creato "per mezzo" del Risorto da morte, "in lui" e "in vista di lui" (cfr. Colossesi, 1, 16). Da qui l'impronta del Crocifisso glorificato particolarmente nell'uomo.
Il Risorto da morte è stato scelto, "prima della creazione del mondo" (Efesini, 1, 4), quale "Primogenito tra molti fratelli" (Romani, 8, 29). Gli uomini - secondo un'espressione particolarmente felice - sono stati "compredestinati" o "impredestinati" in lui, e perciò con la vocazione a rinnovare in se stessi le vicissitudini del Crocifisso o a portare nella propria esistenza la sua immagine.
A partire dal Signore paziente trova inizio e significato la passione di ogni uomo, come comunione alla sua croce. A partire da lui risorto traspare l'esito e il traguardo di ogni morte. Nessun uomo è ideato da Dio ed è chiamato a vivere, se non perché, bevendo al calice del Figlio, rifulga eternamente di uno splendore simile al suo.
Paolo interpreta il battesimo come un essere "intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte", in vista della "somiglianza della sua risurrezione" (cfr. Romani, 6, 1-11). Il cristiano, in solidarietà con Cristo, è ordinato a condurre un genere di vita che è di con-morte e di con-risurrezione con lui, in cui si rifletta la stessa sorte del Signore, col quale "ci ha risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli" (Efesini, 2, 6). In ogni sofferenza, anche di là dalla coscienza che se ne possa avere, si rinnova e si riproduce oggettivamente il Calvario di Gesù, proteso verso il compimento pasquale: in ogni dolore e morte umana è seminato il germe della gloria del Signore.
In altre parole: l'uomo viene alla luce "nativamente" designato a replicare la condizione di Cristo, e quindi a mettersi assolutamente nelle mani al Padre, come lui, quando, nell'estremo della desolazione, gli "offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime" (Ebrei, 5, 7), puramente e totalmente sostenuto dalla indubitabile speranza che, lo avrebbe esaudito, come avvenne nella risurrezione.
D'altronde, non può sorprendere che questo destino sia ìnsito in ogni uomo, se, come abbiamo visto, l'umanità incondizionatamente eletta da Dio fin dall'eternità è l'umanità del Figlio risorto, la sola riconosciuta e la sola oggetto della sua piena compiacenza.
E ora siamo in grado di comprendere in pienezza la ragione dell'Eucaristia. Essa appare istituita e trasmessa alla Chiesa non soltanto come immagine sacramentale e presenza reale della passione e della morte, cioè della "sorte", di Gesù, ma anche come l'icona della sorte di tutti gli uomini concepiti a similitudine di lui, che estende a essi la sua predestinazione.
Come nell'Eucaristia leggiamo la sorte del Figlio di Dio, così vi decifriamo la nostra vocazione a prender parte alla donazione del corpo e all'effusione del sangue, per diventare "consorti" del Signore.
La Chiesa celebra la Cena del Signore non solo per tenere "fisso lo sguardo su Gesù, che si sottopose alla croce e siede alla destra del trono di Dio" (cfr. Ebrei, 12, 2), ma per percorrere il suo cammino, trasformando la contemplazione in imitazione.
Quello, però, che abbiamo detto sul disegno di Dio, sulla scelta eterna del Redentore, sull'umanità voluta a lui conforme, e sull'Eucaristia sacramento del destino di Cristo e dell'uomo, può essere conosciuto solo alla luce della Rivelazione e quindi unicamente per fede.
La ragione è all'oscuro di tutto questo e infatti rimane allibita e sconcertata di fronte alla passione che segna fatalmente la vita dell'uomo: resta senza parole specialmente di fronte all'interrogativo sulla sorte finale dell'uomo.
Ne consegue l'urgenza per la Chiesa di predicare il "vangelo" o la "buona novella", però osservando che Dio in ogni modo e da sempre si prende cura di ogni uomo, e che nessuno mai fu lasciato in stato di abbandono, privo dall'amore del Padre e sprovveduto della grazia di Cristo. Tutti gli uomini, fin dall'eternità, sono stati voluti in questa grazia e nessuno è mai caduto dalla "memoria" di Dio, che è Gesù Cristo. Certo, lui solo conosce per quali vie ogni uomo incontri il Figlio redentore.
(©L'Osservatore Romano - 3 giugno 2010)


Una chiazza nera sulla ragione - Lorenzo Albacete - giovedì 3 giugno 2010 – ilsussidiario.net
In un articolo di domenica scorsa su “Week in Review”, sezione di The New York Times, Elizabeth Rosenthal ha esplicitato quella che, a mio parere, è la lezione più importante che si può trarre dal tragico disastro della piattaforma Deepwater Horizon della BP nel Golfo del Messico.
“Gli americani hanno da molto tempo la forte convinzione che la tecnologia ci salverà, come i ‘nostri’ che arrivano quando ormai la battaglia sembrava perduta. Per tutto lo scorso mese, però, gli americani hanno assistito alla lotta degli scienziati per chiudere il pozzo sottomarino ed è apparso evidente che la nostra grande fiducia nella tecnologia era forse mal posta”, ha scritto.
Eppure, anche oggi, “molti esperti nel campo delle esplorazioni petrolifere sottomarine sono convinti che la tecnologia potrà risolvere tutti i problemi delle operazioni condotte a grandissime profondità, malgrado quanto attualmente successo con BP”.
Rosenthal cita come esempio Stefan Mrozewski del Lamont-Doherty Earth Observatory della Columbia University: “Stiamo spingendo le cose al limite estremo, ma personalmente credo che la tecnologia, in termini di attrezzature e procedimenti, sarà capace di mantenere il passo con quanto stiamo facendo, anche se quanto è accaduto può rallentare le cose”. “Secondo lui, l’incidente del mese scorso spingerà progettatori e ingegneri a migliorare tecnologie e procedure, così che un disastro come quello dell’esplosione di Deepwater Horizon non possa accadere di nuovo”.
Dall’altra parte, William Jackson, vice direttore generale dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura di Gland, Svizzera, ritiene fuorviata questa astratta dedizione alla tecnologia: “In questo momento storico, abbiamo una grande fiducia di possedere la capacità tecnologica di risolvere i problemi, ma questa fiducia si è dimostrata in questo caso erronea”.
Rosenthal richiama l’osservazione del famoso fisico Richard Feynman: “Perché la tecnologia abbia successo, la realtà deve avere la precedenza sulle pubbliche relazioni, in quanto la natura non può essere presa in giro”.
Il fallimento della nostra fede nella tecnologia come salvezza, ci porta a riprendere l’analisi dei benefici e dei pericoli della tecnologia che Papa Benedetto XVI fa nella enciclica Caritas in Veritate (specialmente nei paragrafi 70-77).
Secondo il Papa, lo sviluppo tecnologico può far nascere l’idea che la tecnologia basti a se stessa, nel momento in cui le domande sul “come” prendano il sopravvento sulle domande, sottostanti a tutte le attività umane, relative al “perché”. Per questa ragione, afferma, la tecnologia può apparire “ambivalente”, come qualcosa interamente libero da valori, neutrale, che deve essere giudicata secondo le nostre intenzioni, invece che una attività umana con una propria natura.
In realtà, il valore dietro la tecnologia è la libertà, creatività umana diretta ad aumentare la nostra libertà personale. Ma qual è il concetto di libertà che guida l’odierno sviluppo tecnologico?
Papa Benedetto ci avverte che lo sviluppo tecnologico può essere guidato dalla nostra ricerca di libertà assoluta, cioè dal nostro desiderio di liberarci dai limiti intrinseci delle cose. Quando succede questo, la tecnologia diventa ideologia e genera una cultura che impedisce di scoprire un significato, una razionalità, un logos che non sono opera nostra.
In questo caso, il nostro concetto di vero è interamente determinato da ciò che è possibile. Il Papa ci ha messo sull’avviso a tal proposito fin dal 1968, quando era ancora il teologo Joseph Ratzinger, nel suo libro Introduzione al Cristianesimo. In esso, egli documenta lo slittamento dal Verum est ens (La verità è l’essere) della scolastica, al Verum quia factum (La verità è ciò che abbiamo fatto noi stessi), al moderno Verum quia faciendum (La verità è la fattibilità, la dedizione alla realtà fino a che essa si lascia formare).
Tutto questo porta la riduzione della nostra umanità a ciò che può essere manipolato dalla capacità tecnologica di chi ha il potere. Perciò Benedetto insiste: “Dobbiamo riappropriarci del vero significato della libertà” come “una risposta alla chiamata dell’essere”, cominciando dal nostro.
La concezione della verità come ciò che è tecnologicamente fattibile conduce anche a una politicizzazione dello sviluppo umano, reso dipendente da forze esterne, provenienti dal libero mercato o dalla politica internazionale. Abbiamo parecchi esempi anche attualmente, inclusi i patetici sforzi del presidente Obama di spiegare la sua reazione al disastro del Golfo del Messico con gli inviti ogni mattina, mentre si fa la barba, di sua figlia ad affrettarsi a far finire la fuoriuscita di petrolio.
Papa Benedetto mette in chiaro che quando è la sola tecnologia a proporre il modello di un autentico sviluppo umano, il risultato è la “confusione” tra fine e mezzi, per cui l’unico criterio negli affari è aumentare i profitti, nella politica il rafforzamento del potere e nella scienza i risultati della ricerca.
Al fondo si ritrova l’antico nemico della fede cattolica, la guerra gnostica contro la creazione, con la radicale separazione nell’uomo della sua parte spirituale da quella materiale, e la conseguente divisione tra fede e ragione.
Se è così, ma siamo circondati di prove che ci dicono che è così, la sola cosa che ci può salvare è l’esperienza dell’incarnazione del Logos in un Uomo reale, vero uomo e vero Dio. È Lui che rivela in noi il legame tra lo spirituale e il materiale, salvandoci così dalle inclinazioni totalitaristiche della riduzione del reale a ciò che è fattibile.


MEDIO ORIENTE/ Ecco perché l’Italia sta con gli Usa (e Israele) per fare la pace - INT. Carlo Jean - giovedì 3 giugno 2010 – ilsussidiario.net
Il consiglio dei diritti dell’Onu ha messo ai voti una risoluzione in cui si chiede una commissione di inchiesta internazionale sul blitz delle forze militari israeliane, contro un convoglio umanitario lo scorso 31 maggio. 32 paesi su 47 hanno votato a favore, gli Usa hanno votato contro e l’Europa si è divisa: Germania e Francia hanno votato sì, l’Italia ha seguito gli Usa. Il sussidiario ha intervistato Carlo Jean, esperto di politica estera e questioni strategiche, per sapere come sta cambiando il quadro mediorientale dopo la crisi innescata dal tentativo di rifornire Gaza contro il blocco imposto da Israele.
Il segretario di stato Usa Hillary Clinton ha condannato gli atti che hanno portato alla tragedia, ma senza specificare se attribuirne la responsabilità ai pacifisti o a Israele.
A mio avviso gli Usa hanno avuto informazioni molto più dettagliate di quelle che sono state fornite al mondo circa la dinamica dell’incidente. Però la cosa che lascia più perplessi in questa vicenda è come un servizio di intelligence come quello di Israele sia potuto cadere così facilmente nella trappola.
Intanto anche l’Italia ha votato come gli Stati Uniti. Siamo contro le missioni di pace?
Assolutamente no. Il punto mi sembra un altro: in primo luogo l’Italia ha valutato che l’incidente è nato da una provocazione, poi finita in tragedia, nei confronti di Israele; e in secondo luogo il voto italiano mi pare sostenuto dalla convinzione che se la pace in Medio oriente verrà fatta, questo avverrà per le pressioni e l’influenza degli Stati Uniti. Di conseguenza l’ottimizzazione delle possibilità di pace richiede il sostegno all’azione svolta dagli Usa.
Torniamo al caso che ha originato la crisi. Si è trattato di un’astuzia turca, o di una sottovalutazione di parte israeliana del pacifismo organizzato?
Il pacifista che forza un blocco, violando le disposizioni israeliane, compie un atto politico e si espone alle conseguenze. Per quanto riguarda la Turchia, è un fatto che Ankara vuole contare di più nell’ambito del mondo islamico. Hamas appartiene ad una filiazione dei Fratelli musulmani, sunniti, e la Turchia è interessata ad acquisire, nell’ambito delle opinioni pubbliche dei paesi musulmani in cui i Fratelli musulmani costituiscono l’opposizione principale, un certo peso.
Come potrebbe evolversi a causa della crisi lo scenario politico interno israeliano?
Sicuramente accadrà qualcosa. Nell’ambito della coalizione di governo ci sono anime completamente differenti e tutte, da quella religiosa a quella socialdemocratica, hanno fortemente criticato il modo in cui è stata condotta l’operazione. Si tratta ora di capire come verrà trovato il punto d’equilibrio tra svolta politica e necessità di dare al mondo un’immagine di solidità e compattezza. Non dimentichiamo che Israele è un paese minacciato un giorno sì e l’altro no di distruzione completa.
Che ripercussioni avrà questa crisi sul processo di pace?
L’errore commesso da Israele avrà come effetto quello di bloccarlo. Ora nessuno dei leader palestinesi può prender più impegni con Israele senza distruggere la propria carriera politica. Quale interlocutore potrà mettersi d’accordo con Israele, a condizioni accettabili per lo stato ebraico - ammesso e non concesso che ci siano - e facendole accettare ai palestinesi? L’altro risultato è che Hamas si sente molto più forte e legittimata. Non però a proseguire il confronto con Al Fatah. Tra le due formazioni c’è un contrasto di fondo, alimentato da questioni di potere e di ricchezza, tra estremisti radicali e moderati, sostenuti dall’Egitto e dalla massa degli stati arabi. Sono posizioni non conciliabili.
La crisi cambierà la politica degli Usa nell’area?
Gli Usa in questo momento hanno bisogno della Turchia per agevolare il ritiro dall’Iraq. In questa chiave di collaborazione va inquadrata la politica di apertura ai curdi fatta dal premier Erdogan e dal presidente Gul, cose che finora in Turchia non erano state assolutamente accettate. Per quanto riguarda Israele, gli Stati Uniti restano l’interlocutore obbligato.
A cosa prelude la nuova strategia autonoma della Turchia in Medio oriente?
La Turchia acquista un notevole peso nell’ambito di tutto il mondo islamico. La stessa vittoria dell’AKP di Erdogan ha fatto già crescere l’islamizzazione interna, anche se un’involuzione islamica in senso radicale è improbabile perché il paese è governato da un complesso di equilibri che sono quelli di una democrazia. Il vero problema è che a pagare il conto della propria scarsa lungimiranza politica sarà l’Europa.
L’Europa? Perché?
L’Europa ha approfittato della Turchia durante tutta la Guerra fredda come baluardo contro una penetrazione sovietica nel Mediterraneo. Adesso, a causa della politica miope di Merkel e Sarkozy, non la vuole più, ma l’Europa senza la Turchia perde la possibilità di giocare un importante ruolo strategico. Ecco perché la Turchia guarda altrove. L’influenza turca si farà sentire in Siria, provocandone un certo distacco dall’Iran. Per il resto si tratterà di vedere come «sfrutterà» il blocco del processo di pace.


Avvenire.it, 2 Giugno 2010 - Le processioni del Corpus Domini - Luce da ritrovare oltre un opaco velo, Marina Corradi
«Sento ancora il profumo che emanava dai tappeti di fiori; appartengono a questi ricordi anche gli ornamenti in tutte le case, le bandiere, i canti. Sento ancora gli strumenti a fiato della banda locale, che in questo giorno osavano talvolta più di quanto potessero; e lo scoppio dei mortaretti con cui i ragazzi esprimevano la loro prorompente gioia di vivere».

La processione del Corpus Domini nei ricordi infantili di Joseph Ratzinger, come la raccontò, ancora cardinale, in una sua meditazione. In questi giorni nelle nostre città queste processioni si rinnovano. E sono sorelle minori e un po’ timide delle feste di popolo che ricordano i vecchi. Chissà quanti italiani di vent’anni saprebbero dire che cosa celebra esattamente, il Corpus Domini. Quanti sanno che ricorda la presenza reale di Cristo nella Eucaristia; come decretò nel 1264 papa Urbano IV dopo il miracolo di Bolsena, quando un sacerdote che dubitava vide, attonito, che il pane consacrato sull’altare sanguinava.

Forse queste memorie di eventi straordinari, lontani nel tempo, non dicono molto a tanti che oggi hanno vent’anni (e questo giovedì non l’hanno più potuto vivere come festa). Eppure, nelle processioni che si snodavano nelle città e nei paesi c’era un significato profondo; nell’avanzare lento del Santissimo sotto un baldacchino, tra i canti sacri, in mezzo alle case della gente, c’era un senso antico e poderoso. In quella sua meditazione il futuro Benedetto XVI spiegava come il Concilio di Trento avesse affermato che nel Corpus Domini si celebra «la vittoria di Cristo sulla morte». E aggiungeva Ratzinger: «L’Eucarestia è, nella sua essenza, la risposta al problema della morte, l’incontro con l’amore che è più forte della morte. Il Corpus Domini pone al centro la gioia per questa vittoria e accompagna il vincitore nel corteo trionfale lungo le strade».

Ecco cos’era dunque, se pure inconsciamente, la gioia delle processioni dei nostri padri. I bambini esultanti dietro alla banda, come a una grande festa; perché gli era stato insegnato che quel giorno era una grande festa. Nel fondo della coscienza popolare, era il giorno della vittoria sulla morte. Sulla antica nemica. Simile a una marcia di vincitore l’incolonnarsi dei fedeli dietro al prete che tiene alta l’Ostia consacrata. (E non per caso, ma per una antica sapienza, attenta alla lingua dei segni, la celebrazione di questa vittoria cade nel primo montare dell’estate, nei primi giorni di sole trionfante sopra all’erba alta, splendente di papaveri, di giugno).

Poi, scrisse il cardinale Ratzinger, sopraggiunse una «allarmata resistenza a tutto ciò che aveva sapore di trionfalismo, che non sembrava conciliabile con la coscienza cristiana del peccato, e con la tragica situazione del mondo. La celebrazione del Corpus Domini divenne imbarazzante». Nel velo opaco piombato sull’Occidente dopo l’ultima guerra, in quel buio da Sabato Santo che con l’Olocausto ha segnato il Novecento, l’esultanza della processione del Corpus Domini è sembrata a molti insensata. (Oggi, in quanti siamo intimamente certi, davvero, che il nostro Dio ha vinto la morte? Lo speriamo, ma non ci sentiamo in realtà persi e sconfitti ad ogni nuova esplosione del dolore e del male? Oppure, rassegnati, siamo diventati educati nichilisti. Nulla in cui credere, e nulla da aspettare). Ma la certezza del Corpus Domini è il contrario del nulla.

Davanti alla Sindone, un mese fa, Benedetto XVI ha spiegato come la vittoria di Cristo sulla morte sia venuta proprio dal fondo del buio. Da quella notte di inferi – «per un tempo breve, ma immenso e infinito» – si alzò la luce. Il Corpus Domini è la festa di questa luce. Se, smemorati, o distratti, o collusi col nulla, dubitiamo, l’esultanza di quelle processioni ci è incomprensibile. Ci mancano forse i bambini, i figli che non abbiamo, a trascinarci, a insegnarci? Quelli che nei ricordi di Benedetto XVI seguivano la banda e lanciavano i mortaretti, «in una prorompente gioia di vivere».
Marina Corradi


L’aborto, un «progresso sociale»? I dubbi della Spagna – Avvenire, 3 giugno 2010
La riforma dell’aborto finisce di fronte al Tribunale Costituzionale. L’opposizione spagnola ha presentato un ricorso di incostituzionalità contro il testo elaborato dal governo di Zapatero e approvato dal Parlamento, che dovrebbe entrare in vigore il 5 luglio. L’articolo 15 della Carta fondamentale spagnola – denuncia il Partito popolare – riconosce che «tutti hanno diritto alla vita»: la «nuova legge crea invece un sistema in cui la vita del feto nelle prime 14 settimane di gestazione non viene protetta nel modo più assoluto», affermano i popolari. Il centrodestra è andato oltre, e ha promesso che durante la campagna elettorale del 2012 inserirà l’abrogazione della riforma nel suo programma. La responsabile del ministero dell’Uguaglianza, Bibiana Aido, principale promotrice della legge, dice di essere «totalmente convinta della costituzionalità del testo» e accusa il Pp di «opporsi permanentemente alle norme che rappresentano un progresso sociale». Non la pensa così una buona fetta della società spagnola, che – secondo i sondaggi – rifiuta categoricamente la riforma: lo dimostrano anche le manifestazioni di piazza e i documenti firmati da centinaia di scienziati e intellettuali spagnoli.


Nel pieno della bufera economica – con i consensi a picco – lo strappo sull’aborto rischia di trasformarsi in un boomerang per l’esecutivo socialista. In attesa della sentenza del Costituzionale, intanto, emergono i dettagli della nuova legislazione. Oggi le minorenni spagnole possono abortire solo con l’autorizzazione di uno dei genitori o del tutore legale.

A partire dal 5 luglio le 16enni e 17enni che vogliono interrompere la gravidanza potranno farlo anche senza il permesso di madre o padre, purché li informino. Con un’eccezione: se la decisione rischia di provocare violenza familiare, vessazioni o pressioni, la minorenne può evitare di raccontarlo a mamma e papà. Un caso ipotetico: Pilar, 16 anni, una gravidanza di 13 settimane nascosta a tutti. Si presenta in una clinica per abortire. Il medico chiede cosa ne pensano i suoi genitori e lei risponde che – se lo sapessero – esploderebbe l’inferno in casa. Chi decide a quel punto? Il medico deve sempre credere alla ragazza?

Ecco la novità: il ginecologo potrà richiedere l’appoggio di uno psicologo o di un assistente sociale per verificare la versione della minorenne. Lo ha annunciato la ministro della Sanità, Trinidad Jiménez. Se la giustificazione risulterà convincente – e si percepirà «il timore di subire violenza familiare, coazione, pressione, una paura reverenziale di fronte alla possibilità di dirlo ai genitori – allora il medico darà l’ok all’aborto, senza avvertire la famiglia.


Dovrebbe essere solo un’eccezione alla regola: in termini generali, le minorenni potranno abortire solo dopo avere informato i genitori, accompagnate da uno di loro o con una lettera e una fotocopia di un documento di identità che dimostri che sanno cosa sta facendo la figlia. Ma le 'pressioni' non potrebbero diventare una scusa, per evitare qualsiasi discussione nel seno della famiglia su un tema così delicato?

I diretti interessati, i medici, protestano. Il provvedimento ha già incassato una valanga di critiche: i ginecologi sono preoccupati per l’eccessiva responsabilità che ricadrà sulle loro spalle. Secondo l’Organizzazione medica collegiale (Omc), la normativa potrebbe causare «insicurezza giuridica» al personale sanitario. Per questioni legali o questioni etiche, agli ordini dei medici la nuova autonomia concessa alle minorenni non piace.

La legge – approvata a febbraio e pubblicata sulla Gazzetta ufficiale spagnola a marzo – liberalizza completamente l’aborto entro le prime 14 settimane di gestazione e lo permette fino alla 22esima se esiste un rischio per la salute fisica o psicologica della madre o se il feto presenta anomalie. Dopo la 22esima settimana si potrà abortire se viene diagnosticata una malformazione incompatibile con la vita del feto o una malattia incurabile.



il dibattito - No ai brevetti sul Dna: l’allarme del Nobel Sulston – Avvenire, 3 giugno 2010
L’annuncio dato da Craig Venter di aver creato in laboratorio un organismo vivente ha avviato un dibattito sulle implicazioni etiche degli sviluppi della biologia sintetica. La Fondazione Diritti Genetici ne mette in rilevo una in particolare: «Il professor John Sulston, premio Nobel per la medicina e fondatore dell’Institute of Science, Ethics and Innovation all’Università di Manchester, ritiene ad esempio che con le nuove scoperte vada approfondita la questione della proprietà intellettuale. In primo luogo, infatti, non vi sono prove che la possibilità di brevettare i ritrovati della ricerca promuova davvero l’innovazione; negli ultimi dieci anni, inoltre, si è assistito ad un uso eccessivo dei brevetti da parte dei ricercatori, fatto che ha frenato la ricerca pubblica, a danno della società». Sulston e Venter sono due vecchi conoscenti, i cui destini si sono incrociati e poi scontrati. A causare la rottura della collaborazione tra i due «fu proprio la diversità di vedute sulla diffusione dei dati della ricerca sul genoma umano che, secondo il Professore di Manchester, doveva rimanere di dominio pubblico. Dopo 10 anni, la possibilità da parte dello scienziato americano di brevettare la cellula sintetica riapre il confronto. Sulston spera che ciò non avvenga, poiché significherebbe attribuire al Craig Venter Institute (JCVI) il monopolio sull’ingegneria genetica».
Un portavoce di Venter ha risposto alle considerazioni di Sulston ricordando che «ci sono molte realtà che lavorano che nel campo della biologia e della genomica sintetica. E la maggior parte, se non tutte, hanno cercato di ottenere la bre vettabilità di vari aspetti del loro lavoro. Per questo appare im probabile che un singolo gruppo, un centro accademico o un’azienda siano in grado di arrivare al monopolio di alcun ché ». Aggiungendo che lo stesso Venter e il suo istituto auspica no il più ampio dibattito su questi temi, che saranno sempre più centrali, in futuro, nel progresso della ricerca e della sue ap­plicazioni. (A.G.)