giovedì 24 giugno 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) All'udienza generale Benedetto XVI conclude le catechesi dedicate a san Tommaso d'Aquino - L'intelligenza umana di fronte ai misteri della fede - "È ragionevole prestare fede a Dio che si rivela e alla testimonianza degli Apostoli": lo ha affermato il Papa all'udienza generale di mercoledì 23 giugno, nell'Aula Paolo vi, parlando della Summa Theologiae di san Tommaso d'Aquino. - (©L'Osservatore Romano - 24 giugno 2010)
2) IL PAPA PRESENTA L'ESEMPIO DI SAN GIUSEPPE CAFASSO
3) Avvenire.it, 23 Giugno 2010 - CONVEGNO A ROMA - Bagnasco: «Crocifisso, garanzia di libertà religiosa»
4) Avvenire.it, 23 Giugno 2010 - Sono quelli che sfiorano appena la coscienza - Chiediamo perdono per i peccati di omissione - Maurizio Patriciello
5) Cento anni fa la "Notre charge apostolique" di san Pio X: la condanna dei "cattolici adulti" – di Massimo Introvigne
6) IL CASO/ Niente provetta, ora basta un negozio per un figlio artificiale - Luigi Santambrogio - giovedì 24 giugno 2010, il sussidiario.net
7) Avvenire.it, 24 giugno 2010 - I ripensamenti del movimento femminista (ma non in Italia) - Sesso libero, pillola, aborto Il grande freddo - Gianfranco Amato
8) L’umiltà di arrendersi all’evidenza - Era il giugno 2000 quando l’allora ministro della Salute Umberto Veronesi, in merito alla vicenda di Eluana Englaro, dichiarò che «c’è un migliaio di famiglie distrutte dalla penosa presenza di questi morti viventi». di Assuntina Morresi – Avvenire, 24 giugno 2010
9) «Siamo in lotta contro la narcosi del cuore» - A pochi giorni dal Natale, un medico, mio amico, ha ricevuto una telefonata di una paziente che aveva cercato di convincere a non abortire. - di Giuseppe Noia – Avvenire, 24 giugno 2010
10) Sla, salasso per le famiglie - «Ha la Sla, non le resta altro che andare a Lourdes». Come possono reagire a una comunicazione del genere, fatta da un medico, un malato e la sua famiglia? Eppure secondo lo studio realizzato dalla Fiaso (Federazione italiana delle aziende sanitarie e ospedaliere) in collaborazione con la Fondazione Istud e l’Aisla succede anche questo quando si tratta di comunicare al paziente una diagnosi di una malattia terribile perché mortale, ma che, se spiegata nel modo giusto, può essere affrontata diversamente. – Avvenire, 24 giugno 2010
11) Olanda - Il dolore è intollerabile? - Allora muori - Lorenzo Schoepflin – Avvenire, 24 giugno 2010


All'udienza generale Benedetto XVI conclude le catechesi dedicate a san Tommaso d'Aquino - L'intelligenza umana di fronte ai misteri della fede - "È ragionevole prestare fede a Dio che si rivela e alla testimonianza degli Apostoli": lo ha affermato il Papa all'udienza generale di mercoledì 23 giugno, nell'Aula Paolo vi, parlando della Summa Theologiae di san Tommaso d'Aquino. - (©L'Osservatore Romano - 24 giugno 2010)
Cari fratelli e sorelle,
vorrei oggi completare, con una terza parte, le mie catechesi su san Tommaso d'Aquino. Anche a più di settecento anni dopo la sua morte, possiamo imparare molto da lui. Lo ricordava anche il mio Predecessore, il Papa Paolo vi, che, in un discorso tenuto a Fossanova il 14 settembre 1974, in occasione del settimo centenario della morte di san Tommaso, si domandava: "Maestro Tommaso, quale lezione ci puoi dare?". E rispondeva così: "La fiducia nella verità del pensiero religioso cattolico, quale da lui fu difeso, esposto, aperto alla capacità conoscitiva della mente umana" (Insegnamenti di Paolo vi, XII [1974], pp. 833-834). E, nello stesso giorno, ad Aquino, riferendosi sempre a san Tommaso, affermava: "Tutti, quanti siamo figli fedeli della Chiesa possiamo e dobbiamo, almeno in qualche misura, essere suoi discepoli!" (Ibid., p. 836).
Mettiamoci dunque anche noi alla scuola di san Tommaso e del suo capolavoro, la Summa Theologiae. Essa è rimasta incompiuta, e tuttavia è un'opera monumentale: contiene 512 questioni e 2669 articoli. Si tratta di un ragionamento serrato, in cui l'applicazione dell'intelligenza umana ai misteri della fede procede con chiarezza e profondità, intrecciando domande e risposte, nelle quali san Tommaso approfondisce l'insegnamento che viene dalla Sacra Scrittura e dai Padri della Chiesa, soprattutto da sant'Agostino. In questa riflessione, nell'incontro con vere domande del suo tempo, che sono anche spesso domande nostre, san Tommaso, utilizzando anche il metodo e il pensiero dei filosofi antichi, in particolare di Aristotele, arriva così a formulazioni precise, lucide e pertinenti delle verità di fede, dove la verità è dono della fede, risplende e diventa accessibile per noi, per la nostra riflessione. Tale sforzo, però, della mente umana - ricorda l'Aquinate con la sua stessa vita - è sempre illuminato dalla preghiera, dalla luce che viene dall'Alto. Solo chi vive con Dio e con i misteri può anche capire che cosa essi dicono.
Nella Summa di Teologia, san Tommaso parte dal fatto che ci sono tre diversi modi dell'essere e dell'essenza di Dio: Dio esiste in se stesso, è il principio e la fine di tutte le cose, per cui tutte le creature procedono e dipendono da Lui; poi Dio è presente attraverso la sua Grazia nella vita e nell'attività del cristiano, dei santi; infine, Dio è presente in modo del tutto speciale nella Persona di Cristo unito qui realmente con l'uomo Gesù, e operante nei Sacramenti, che scaturiscono dalla sua opera redentrice. Perciò, la struttura di questa monumentale opera (cfr. Jean-Pierre Torrell, La "Summa" di San Tommaso, Milano 2003, pp. 29-75), una ricerca con "sguardo teologico" della pienezza di Dio (cfr. Summa Theologiae, ia, q. 1, a. 7), è articolata in tre parti, ed è illustrata dallo stesso Doctor Communis - san Tommaso - con queste parole: "Lo scopo principale della sacra dottrina è quello di far conoscere Dio, e non soltanto in se stesso, ma anche in quanto è principio e fine delle cose, e specialmente della creatura ragionevole. Nell'intento di esporre questa dottrina, noi tratteremo per primo di Dio; per secondo del movimento della creatura verso Dio; e per terzo del Cristo, il quale, in quanto uomo, è per noi via per ascendere a Dio" (Ibid., i, q. 2). È un circolo: Dio in se stesso, che esce da se stesso e ci prende per mano, così che con Cristo ritorniamo a Dio, siamo uniti a Dio, e Dio sarà tutto in tutti.
La prima parte della Summa Theologiae indaga dunque su Dio in se stesso, sul mistero della Trinità e sull'attività creatrice di Dio. In questa parte troviamo anche una profonda riflessione sulla realtà autentica dell'essere umano in quanto uscito dalle mani creatrici di Dio, frutto del suo amore. Da una parte siamo un essere creato, dipendente, non veniamo da noi stessi; ma, dall'altra, abbiamo una vera autonomia, così che siamo non solo qualcosa di apparente - come dicono alcuni filosofi platonici - ma una realtà voluta da Dio come tale, e con valore in se stessa.
Nella seconda parte san Tommaso considera l'uomo, spinto dalla Grazia, nella sua aspirazione a conoscere e ad amare Dio per essere felice nel tempo e nell'eternità. Per prima cosa, l'Autore presenta i principi teologici dell'agire morale, studiando come, nella libera scelta dell'uomo di compiere atti buoni, si integrano la ragione, la volontà e le passioni, a cui si aggiunge la forza che dona la Grazia di Dio attraverso le virtù e i doni dello Spirito Santo, come pure l'aiuto che viene offerto anche dalla legge morale. Quindi l'essere umano è un essere dinamico che cerca se stesso, cerca di divenire se stesso e cerca, in questo senso, di compiere atti che lo costruiscono, lo fanno veramente uomo; e qui entra la legge morale, entra la Grazia e la propria ragione, la volontà e le passioni. Su questo fondamento san Tommaso delinea la fisionomia dell'uomo che vive secondo lo Spirito e che diventa, così, un'icona di Dio. Qui l'Aquinate si sofferma a studiare le tre virtù teologali - fede, speranza e carità -, seguite dall'esame acuto di più di cinquanta virtù morali, organizzate attorno alle quattro virtù cardinali - la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. Termina poi con la riflessione sulle diverse vocazioni nella Chiesa.
Nella terza parte della Summa, san Tommaso studia il Mistero di Cristo - la via e la verità - per mezzo del quale noi possiamo ricongiungerci a Dio Padre. In questa sezione scrive pagine pressoché insuperate sul Mistero dell'Incarnazione e della Passione di Gesù, aggiungendo poi un'ampia trattazione sui sette Sacramenti, perché in essi il Verbo divino incarnato estende i benefici dell'Incarnazione per la nostra salvezza, per il nostro cammino di fede verso Dio e la vita eterna, rimane materialmente quasi presente con le realtà della creazione, ci tocca così nell'intimo.
Parlando dei Sacramenti, san Tommaso si sofferma in modo particolare sul Mistero dell'Eucaristia, per il quale ebbe una grandissima devozione, al punto che, secondo gli antichi biografi, era solito accostare il suo capo al Tabernacolo, come per sentire palpitare il Cuore divino e umano di Gesù. In una sua opera di commento alla Scrittura, san Tommaso ci aiuta a capire l'eccellenza del Sacramento dell'Eucaristia, quando scrive: "Essendo l'Eucaristia il sacramento della Passione di nostro Signore, contiene in sé Gesù Cristo che patì per noi. Pertanto tutto ciò che è effetto della Passione di nostro Signore, è anche effetto di questo sacramento, non essendo esso altro che l'applicazione in noi della Passione del Signore" (In Ioannem, c. 6, lect. 6, n. 963). Comprendiamo bene perché san Tommaso e altri santi abbiano celebrato la Santa Messa versando lacrime di compassione per il Signore, che si offre in sacrificio per noi, lacrime di gioia e di gratitudine.
Cari fratelli e sorelle, alla scuola dei santi, innamoriamoci di questo Sacramento! Partecipiamo alla Santa Messa con raccoglimento, per ottenerne i frutti spirituali, nutriamoci del Corpo e del Sangue del Signore, per essere incessantemente alimentati dalla Grazia divina! Intratteniamoci volentieri e frequentemente, a tu per tu, in compagnia del Santissimo Sacramento!
Quanto san Tommaso ha illustrato con rigore scientifico nelle sue opere teologiche maggiori, come appunto la Summa Theologiae, anche la Summa contra Gentiles è stato esposto anche nella sua predicazione, rivolta agli studenti e ai fedeli. Nel 1273, un anno prima della sua morte, durante l'intera Quaresima, egli tenne delle prediche nella chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli. Il contenuto di quei sermoni è stato raccolto e conservato: sono gli Opuscoli in cui egli spiega il Simbolo degli Apostoli, interpreta la preghiera del Padre Nostro, illustra il Decalogo e commenta l'Ave Maria. Il contenuto della predicazione del Doctor Angelicus corrisponde quasi del tutto alla struttura del Catechismo della Chiesa Cattolica. Infatti, nella catechesi e nella predicazione, in un tempo come il nostro di rinnovato impegno per l'evangelizzazione, non dovrebbero mai mancare questi argomenti fondamentali: ciò che noi crediamo, ed ecco il Simbolo della fede; ciò che noi preghiamo, ed ecco il Padre Nostro e l'Ave Maria; e ciò che noi viviamo come ci insegna la Rivelazione biblica, ed ecco la legge dell'amore di Dio e del prossimo e i Dieci Comandamenti, come esplicazione di questo mandato dell'amore.
Vorrei proporre qualche esempio del contenuto, semplice, essenziale e convincente, dell'insegnamento di san Tommaso. Nel suo Opuscolo sul Simbolo degli Apostoli egli spiega il valore della fede. Per mezzo di essa, dice, l'anima si unisce a Dio, e si produce come un germoglio di vita eterna; la vita riceve un orientamento sicuro, e noi superiamo agevolmente le tentazioni. A chi obietta che la fede è una stoltezza, perché fa credere in qualcosa che non cade sotto l'esperienza dei sensi, san Tommaso offre una risposta molto articolata, e ricorda che questo è un dubbio inconsistente, perché l'intelligenza umana è limitata e non può conoscere tutto. Solo nel caso in cui noi potessimo conoscere perfettamente tutte le cose visibili e invisibili, allora sarebbe un'autentica stoltezza accettare delle verità per pura fede. Del resto, è impossibile vivere, osserva san Tommaso, senza fidarsi dell'esperienza altrui, là dove la personale conoscenza non arriva. È ragionevole dunque prestare fede a Dio che si rivela e alla testimonianza degli Apostoli: essi erano pochi, semplici e poveri, affranti a motivo della Crocifissione del loro Maestro; eppure molte persone sapienti, nobili e ricche si sono convertite in poco tempo all'ascolto della loro predicazione. Si tratta, in effetti, di un fenomeno storicamente prodigioso, a cui difficilmente si può dare altra ragionevole risposta, se non quella dell'incontro degli Apostoli con il Signore Risorto.
Commentando l'articolo del Simbolo sull'Incarnazione del Verbo divino, san Tommaso fa alcune considerazioni. Afferma che la fede cristiana, considerando il mistero dell'Incarnazione, viene ad essere rafforzata; la speranza si eleva più fiduciosa, al pensiero che il Figlio di Dio è venuto tra noi, come uno di noi, per comunicare agli uomini la propria divinità; la carità è ravvivata, perché non vi è segno più evidente dell'amore di Dio per noi, quanto vedere il Creatore dell'universo farsi egli stesso creatura, uno di noi. Infine, considerando il mistero dell'Incarnazione di Dio, sentiamo infiammarsi il nostro desiderio di raggiungere Cristo nella gloria. Adoperando un semplice ed efficace paragone, san Tommaso osserva: "Se il fratello di un re stesse lontano, certo bramerebbe di potergli vivere accanto. Ebbene, Cristo ci è fratello: dobbiamo quindi desiderare la sua compagnia, diventare un solo cuore con lui" (Opuscoli teologico-spirituali, Roma 1976, p. 64).
Presentando la preghiera del Padre Nostro, san Tommaso mostra che essa è in sé perfetta, avendo tutte e cinque le caratteristiche che un'orazione ben fatta dovrebbe possedere: fiducioso e tranquillo abbandono; convenienza del suo contenuto, perché - osserva san Tommaso - "è assai difficile saper esattamente cosa sia opportuno chiedere e cosa no, dal momento che siamo in difficoltà di fronte alla selezione dei desideri" (Ibid., p. 120); e poi ordine appropriato delle richieste, fervore di carità e sincerità dell'umiltà.
San Tommaso è stato, come tutti i santi, un grande devoto della Madonna. L'ha definita con un appellativo stupendo: Triclinium totius Trinitatis, triclinio, cioè luogo dove la Trinità trova il suo riposo, perché, a motivo dell'Incarnazione, in nessuna creatura, come in Lei, le tre divine Persone inabitano e provano delizia e gioia a vivere nella sua anima piena di Grazia. Per la sua intercessione possiamo ottenere ogni aiuto.
Con una preghiera, che tradizionalmente viene attribuita a san Tommaso e che, in ogni caso, riflette gli elementi della sua profonda devozione mariana, anche noi diciamo: "O beatissima e dolcissima Vergine Maria, Madre di Dio..., io affido al tuo cuore misericordioso tutta la mia vita... Ottienimi, o mia dolcissima Signora, carità vera, con la quale possa amare con tutto il cuore il tuo santissimo Figlio e te, dopo di lui, sopra tutte le cose, e il prossimo in Dio e per Dio".
(©L'Osservatore Romano - 24 giugno 2010)

IL PAPA PRESENTA L'ESEMPIO DI SAN GIUSEPPE CAFASSO
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 23 giugno 2010 (ZENIT.org).- Nei suoi saluti ai pellegrini al termine dell'Udienza Generale di questo mercoledì, Papa Benedetto XVI ha voluto ricordare la figura di San Giuseppe Cafasso, del quale ricorreva la memoria liturgica.
Cafasso, nato a Castelnuovo d'Asti (ora Castelnuovo Don Bosco) nel 1811 e morto a Torino nel 1860, è stato canonizzato da Papa Pio XII nel 1947.
A Torino era popolare soprattutto per l'aiuto che offriva ai carcerati. Venne definito "il prete della forca", perché spesso si presentava alle esecuzioni capitali seguendo il condannato fino al patibolo per abbracciarlo e farlo sentire amato. E' patrono dei carcerati e dei condannati a morte.
Nel 150° anniversario della morte del presbitero, il Pontefice ha voluto proporre la sua figura alle migliaia di fedeli e pellegrini accorse questo mercoledì in Piazza San Pietro.
"L'esempio di questa attraente figura di sacerdote esemplare, cui vorrei dedicare la prossima catechesi del Mercoledì, aiuti voi, cari giovani, a sperimentare personalmente la forza liberatrice dell'amore di Cristo, che rinnova profondamente la vita dell'uomo", ha affermato.
"Sostenga voi, cari malati, ad offrire le vostre sofferenze per la conversione di chi è prigioniero del male".
Il Papa ha presentato la figura del sacerdote anche agli sposi novelli, auspicando che li incoraggi "ad essere segno della fedeltà di Dio anche con il perdono reciproco, motivato dall'amore".


Avvenire.it, 23 Giugno 2010 - CONVEGNO A ROMA - Bagnasco: «Crocifisso, garanzia di libertà religiosa»
La possibilità di esporre il crocifisso in luoghi pubblici è segno di rispetto della libertà religiosa. È quanto afferma il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, in una lettera inviata all'associazione "Umanesimo Cristiano" in occasione della tavola rotonda sul tema "Valori e diritto. Il caso del crocifisso" che si è svolta oggi a Roma. «Riconoscere la legittimità e il valore dell'esposizione del crocifisso significa garantire il rispetto della libertà religiosa e delle tradizioni dei popoli, in armonia con il principio di sussidiarietà che presiede al rapporto tra Stati e istituzioni europee», ha scritto il cardinale Bagnasco.

Il 30 giugno, infatti, la Corte Europea dei diritti dell'uomo si riunirà a Strasburgo per decidere sul ricorso presentato dall'Italia contro la decisione dei giudici Ue per rivedere la prima sentenza che aveva stabilito il divieto di esposizione del crocifisso in uffici e scuole pubbliche. In vista di questo appuntamento, secondo il presidente della Cei è opportuno «richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica sull'importanza che l'esposizione del crocifisso nelle scuole riveste in relazione ai sentimenti religiosi delle popolazioni e alle tradizioni delle nazioni d'Europa». Proprio «in tal senso» si è pronunciata di recente la presidenza della Cei, con una dichiarazione nella quale viene sottolineato fra l'altro come tale esposizione «non si traduce in una imposizione e non ha valore di esclusione, ma esprime una tradizione che tutti conoscono e riconoscono nel suo alto valore spirituale, e come segno di una identità aperta al dialogo con ogni uomo di buona volontà, di sostegno a favore di bisognosi e dei sofferenti senza distinzione di fede, etnia, nazionalità».

«La laicità - spiega il presidente della Cei - non comporta l'esclusione dei simboli religiosi dai luoghi pubblici: da scuole, tribunali, carceri». Al contrario, come insegna papa Benedetto XVI, «la "sana laicita" comporta che lo Stato non consideri la religione come un semplice sentimento individuale, che si potrebbe confinare al solo ambito privato, bensì come presenza comunitaria pubblica».

NAPOLITANO: «LA LAICITA' NON FERISCA SENTIMENTI PROFONDI».
Al dibattito ha partecipato anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha inviato una lettera al presidente di "Umanesimo Cristiano". Nel testo del documento diffuso dal Quirinale, pur precisando «di non voler interferire nelle competenze proprie di organi giudiziari», Napolitano sottolinea come «la laicità dell'Europa non può essere concepita e vissuta in termini tali da ferire sentimenti popolari e profondi, bensì come disponibilità ad accogliere e amalgamare le tradizioni più diverse, senza escluderne alcuna, in una logica non già di indifferenza ed esclusione, ma di inclusione e arricchimento reciproco».

«La questione particolarmente sensibile dell'atteggiamento da tenere nei confronti delle simbologie religiose può essere più opportunamente affrontata dai singoli Stati». ha poi aggiunto Napolitano. Per il presidente, infatti, «i singoli Stati sono in grado di percepirne meglio la valenza, in rapporto ai sentimenti diffusi nelle rispettive popolazioni».

HERRANZ: «FONDAMENTALISMO LAICISTA».
La sentenza della Corte di Strasburgo di rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche è frutto di un «fondamentalismo laicista» e di «cristofobia». Lo ha affermato il cardinale Julian Herranz, già presidente del Pontificio consiglio per i testi legislativi, intervenendo alla tavola rotonda "Valori e diritti. Il valore del Crocifisso".
Per il cardinale, c'è il rischio che l'ideologia relativista, già denunciata da Benedetto XVI in varie occasioni, finisca col prevalere anche in Europa e nelle istituzioni dell'Ue; si tratta di un fodndamentalismo laicista che vuole escludere i simboli religiosi dalla scena pubblica. Secondo Herranz tale dittatura relativista può avere la meglio «anche a livello delle istituzioni officiali dell'Unione europea, se i più avveduti e democratici Stati membri del Consiglio di Europa non cercassero di impedirlo».
«Riguardo alla religione - ha aggiunto - questa ideologia relativista si configura come "fondamentalismo laicista". Esso, allontanandosi dal retto concetto di "laicità", vorrebbe relegare la fede cristiana e il fatto religioso in genere nel solo ambito privato della coscienza personale, escludendo ogni segno, simbolo o manifestazione esterna della fede nei luoghi pubblici e nelle istituzioni civili come scuole e ospedali».

BERTONE: «CROCIFISSO E' ESPRESSIONE IDENTITA' ITALIANA»
«L'esposizione dell'icona del Cristo crocifisso è un'espressione identitaria, strettamente connessa con il sentimento religioso, la storia e la tradizione dell'Italia, come pure dei popoli europei». Lo ha ribadito il segretario di Stato vaticano, cardinale Tarcisio Bertone. «Lungi dal rappresentare una sorta di imposizione o di volontà di esclusione - si legge nel testo inviato dal cardinale - l'esposizione del crocifisso richiama alla solidarietà ed al dialogo con ogni persona di buona volontà».


Avvenire.it, 23 Giugno 2010 - Sono quelli che sfiorano appena la coscienza - Chiediamo perdono per i peccati di omissione - Maurizio Patriciello
I peccati sono brutte bestie. Di alcuni sentiamo più doloroso il morso, altri, invece, riescono a sfiorare appena la coscienza. La bestemmia, menzogna, la calunnia, fanno inorridire un animo cristiano e civile. Le opere, belle o brutte, sono sotto gli occhi di tutti. È l’omissione il peccato su cui facilmente si sorvola. Omettere, far finta di non vedere, tralasciare, farsi gli affari propri. In fondo – diciamolo – è scomodo per tutti ritrovarsi impelagati in tristi storie di sangue, di povertà, di camorra. Se hai visto, sei chiamato a farti avanti, a intervenire, a prendere posizioni, a uscire allo scoperto, a sporcare le tue mani. Sul ciglio della strada qualcuno è stato malmenato e sanguina. Forse ne avrà per poco se il soccorso non arriva. Da lontano sembrava essere solo un sacco di letame, invece è un uomo, un uomo per il quale Gesù Cristo è morto. Ti guarda, implora aiuto. Siete voi due, soli, nessuno vede e tu sei terribilmente libero. Libero di procedere, ingrossando la folla di tanti che non lasceranno tracce, o scendere dal cavallo e calarti nella polvere.

Non erano cattivi i due che non vollero vedere. Avevano solo molta fretta. Impegnati in cose religiose, dimenticarono che Dio è presente là dove un suo figlio si lamenta e soffre. Se non ti fermi, questa notte morirà. Certo tu non lo hai ammazzato, ma neanche lo hai salvato. Avevano paura di fare tardi, i due, e in ritardo arrivarono all’appuntamento con la vita. Un altro uomo passa. È un samaritano, uno straniero e parla un’altra lingua, ma che importa? È uno di quelli che hanno conservato la pietà. Si ferma. Deve fermarsi. Se non lo fa sente di non essere più uomo.

Fermati anche tu, fratello, e guarda. Guarda chi ti cammina accanto e geme. Poni attenzione a chi in questo tempo triste, perdendo tutto ha creduto di perdere la stessa dignità. Vedi quanti, depressi e addolorati, continuano a decidere di togliere il disturbo? Si lasciano morire in modo atroce, abbandonando i loro cari alla disperazione e ai sensi di colpa. Avevano tante volte chiesto aiuto. Con le parole, le facce tristi e allungate, le barbe incolte. Non sono stati compresi. Altri si incattiviscono e si incamminano per strade senza uscita. Si allontanano. Recuperarli, dopo, sarà sempre più difficile.

Amicizia. Sentimento nobilissimo, non molto frequentato. Amico, chi ti trova è ricco. Fa che io possa oggi piangere sulla tua spalla, metterti nel cuore l’angoscia che mi opprime l’animo, lasciami riposare questa notte alla tua ombra. Poi riprenderò le forze, ritroverò il coraggio per continuare a combattere la battaglia della vita. Fallo, e nel giorno senza fine, il Padre ti chiamerà benedetto e ti inviterà a mangiare con Giacobbe e con Abramo, mentre Gesù, indossato ancora una volta il grembiule, passerà a servirti e riasciugherà le lacrime.

Susetta ha già tre figli, ma un quarto ha preso a sussultarle in grembo. Impaurito, il marito, lascia tutto e si rifugia dalla mamma. Susetta è sola, con i suoi dubbi e il suo tormento. Intorno tutto tace, mentre il cuoricino invisibile batte. Unica compassione riservatela: l’aiuto a eliminare l’intruso. Tutto è già pronto mentre intorno tutto ancora tace… La gente compra e vende, organizza le vacanze e vede la partita. Ci avvisano. Corriamo. Siamo poveri anche noi, ma offriamo ciò che abbiamo: un pane, un abbraccio, la promessa di non lasciarla sola. Susetta crede che diciamo il vero, e una nuova vita ancora nascerà. Se femminuccia porterà un nome tanto caro a noi e a papa Benedetto: Fatima.Domenica, a Messa, nel confessarci in pubblico, chiediamo perdono per i peccati di omissione.
Maurizio Patriciello


Cento anni fa la "Notre charge apostolique" di san Pio X: la condanna dei "cattolici adulti" – di Massimo Introvigne
Introduzione
Il 28 agosto 2010 celebriamo il centenario della lettera apostolica di Papa san Pio X (1903-1914) all’episcopato francese – non un’enciclica, ma equivalente a un’enciclica per importanza – Notre charge apostolique, del 28 agosto 1910. La lettera condanna il movimento del Sillon («Solco»), fondato in Francia nel 1902 – sulla scia di una precedente associazione, la Crypte, nata nel 1894 – da Marc Sangnier (1873-1950), all’epoca la principale organizzazione della scuola detta cattolico-democratica. La Notre charge apostolique costituisce il vertice dell’insegnamento sociale di san Pio X, ed è pure una delle descrizioni più complete dell’ideologia cattolica-democratica. Insieme, il documento mostra i riflessi politico-sociali del modernismo, che rappresenta il sistematico cedimento dei cattolici al relativismo filosofico e morale, e costituisce quindi un complemento indispensabile alla grande enciclica Pascendi del 1907 in cui san Pio X descrive e condanna l’eresia modernista. A san Pio X spetta infatti il merito – come affermerà, celebrando il suo santo predecessore, il venerabile Giovanni Paolo II (1978-2005) nel 1985 – di avere denunciato le «pieghe subdole del sistema teologico del modernismo» per «salvare la Chiesa dal rischio di dottrine alienanti per l’integrità del Vangelo (…) affinché la rivelazione non venisse sfigurata nel suo contenuto essenziale» (Giovanni Paolo II, «Omelia nella Solenne concelebrazione liturgica a Treviso», del 16-6-1985, disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/328kstq).

Potremmo chiederci se ha ancora interesse per noi una lettera apostolica di cento anni fa. Per comprendere perché questa lettera ha un’importanza cruciale, ed è tuttora attualissima, dobbiamo rifarci al grande quadro descritto dalla scuola contro-rivoluzionaria, cui Alleanza Cattolica s’ispira, e ripreso ripetutamente dal Magistero, che descrive la scristianizzazione dell’Europa e dell’Occidente come un processo le cui tappe salienti sono la Riforma protestante, la Rivoluzione francese, la Rivoluzione comunista e la rivolta contro la morale che ha il suo momento vessillare nel 1968. Come ha ricordato da ultimo Benedetto XVI nel corso del suo viaggio in Portogallo, ciascun momento di questo processo muove da «istanze» non sempre irragionevoli, ma quando passa dalle domande alle risposte cade in «errori e vicoli senza uscita» (Benedetto XVI, «Incontro con il mondo della cultura nel Centro Cultural de Belém», Lisbona, 12-5-2010, disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/37wsv92). E ognuno dei momenti in cui si articola quel processo di secolarizzazione e di scristianizzazione che la scuola contro-rivoluzionaria chiama Rivoluzione non è sostenuto solo da nemici aperti della Chiesa e del cristianesimo ma anche, per usare ancora le parole di Benedetto XVI in Portogallo, da «credenti che si vergognano e che danno una mano al secolarismo» (Benedetto XVI, «Incontro con i Vescovi del Portogallo nel Salone delle Conferenze della Casa Nossa Senhora do Carmo», Fatima, 13-5-2010, disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/3xotheh).

L’azione dei «credenti che si vergognano» non è semplicemente individuale, ma si organizza in correnti e movimenti. Così, c’è anzitutto un’importazione di principi e temi del protestantesimo all’interno della Chiesa, il giansenismo. Le teorie dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese sono fatte proprie da diverse correnti cattoliche, dal cattolicesimo liberale al modernismo. Il comunismo trova un corrispondente all’interno della Chiesa nella teologia della liberazione, che il 5 dicembre 2009 Benedetto XVI, ricordando il venticinquesimo anniversario dell’istruzione Libertatis nuntius da lui stesso firmata nel 1984 come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, definiva l’«assunzione acritica fatta da alcuni teologi di tesi e metodologie provenienti dal marxismo», affermando che «le sue conseguenze più o meno visibili fatte di ribellione, divisione, dissenso, offesa, anarchia si fanno sentire ancora oggi creando […] grande sofferenza» (Benedetto XVI, «Discorso ai Vescovi della Conferenza Episcopale del Brasile [Regione SUL 3 e SUL 4] in visita “ad Limina Apostolorum”», del 5-12-2009, disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/ydrb4fq). Lo stesso «rapidissimo cambiamento sociale» e contestazione di ogni forma di morale iniziati negli anni 1960 hanno avuto come controparte ecclesiastica «la tendenza, anche da parte di sacerdoti e religiosi, di adottare modi di pensiero e di giudizio delle realtà secolari senza sufficiente riferimento al Vangelo», per non parlare dei cedimenti sui temi della vita e della famiglia di tanti laici cattolici impegnati in politica. Se sarebbe del tutto improprio concluderne che ogni contestatore della morale cattolica tradizionale è diventato un pedofilo, Benedetto XVI commenta però che «è in questo contesto generale» di «perdita del rispetto per la Chiesa e per i suoi insegnamenti» «che dobbiamo cercare di comprendere lo sconcertante problema dell’abuso sessuale dei ragazzi» (Benedetto XVI, Lettera ai cattolici dell’Irlanda, del 19-3-2010, disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/yhgjq2q).

La posizione di chi importa la Rivoluzione nella Chiesa, pretendendo di restare cattolico, è spesso rivendicata come atteggiamento coraggioso di «cattolici adulti». L’inganno di questa espressione, resa popolare dall’ex-primo ministro italiano Romano Prodi, è stato denunciato da Benedetto XVI quando ha chiuso nel 2009 l’anno dedicato a san Paolo. «La parola “fede adulta” – ha detto in quell’occasione il Pontefice – negli ultimi decenni è diventata uno slogan diffuso. Ma lo s’intende spesso nel senso dell’atteggiamento di chi non dà più ascolto alla Chiesa e ai suoi Pastori, ma sceglie autonomamente ciò che vuol credere e non credere – una fede “fai da te”, quindi. E lo si presenta come “coraggio” di esprimersi contro il Magistero della Chiesa. In realtà, tuttavia, non ci vuole per questo del coraggio, perché si può sempre essere sicuri del pubblico applauso. Coraggio ci vuole piuttosto per aderire alla fede della Chiesa, anche se questa contraddice lo “schema” del mondo contemporaneo. È questo non-conformismo della fede che Paolo chiama una “fede adulta”. È la fede che egli vuole. Qualifica invece come infantile il correre dietro ai venti e alle correnti del tempo. Così fa parte della fede adulta, ad esempio, impegnarsi per l’inviolabilità della vita umana fin dal primo momento, opponendosi con ciò radicalmente al principio della violenza, proprio anche nella difesa delle creature umane più inermi. Fa parte della fede adulta riconoscere il matrimonio tra un uomo e una donna per tutta la vita come ordinamento del Creatore, ristabilito nuovamente da Cristo. La fede adulta non si lascia trasportare qua e là da qualsiasi corrente. Essa s’oppone ai venti della moda. Sa che questi venti non sono il soffio dello Spirito Santo; sa che lo Spirito di Dio s’esprime e si manifesta nella comunione con Gesù Cristo» (Benedetto XVI, «Primi Vespri in occasione della chiusura dell’Anno Paolino», Basilica di San Paolo fuori le Mura, 28-6-2009, disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/ygzekkz).

Nello schema che ho cercato di tratteggiare, un passaggio decisivo per la formazione della mentalità dei «cattolici adulti», che con Benedetto XVI possiamo chiamare anche «credenti che si vergognano e che danno una mano al secolarismo», è l’affermarsi della scuola cattolico-democratica. Un «cattolico democratico» non è semplicemente un cattolico che esprime la sua preferenza, fra le varie forme politiche, per la democrazia. Questo è ovviamente lecito. Ma il cattolico democratico commette due errori. Il primo è quello di considerare la democrazia un metodo di per sé infallibile e una fonte di verità, così che una scelta avallata dal metodo democratico non potrebbe mai essere intrinsecamente cattiva o ingiusta. Se il cinquanta per cento più uno dei cittadini di un Paese in un referendum, o il cinquanta per cento più uno dei parlamentari legittimamente eletti, si pronunciano per l’aborto o per l’eutanasia il cattolico democratico dirà che si sente ancora privatamente vincolato dalla morale cattolica ma dal punto di vista pubblico e politico deve «accettare la scelta democratica». Il secondo errore è quello di non distinguere fra diverse forme di democrazia, e di prendere per buona specificamente quella forma di democrazia che è nata dalla Rivoluzione francese, che – proprio perché afferma l’infallibilità politica e morale del metodo democratico – rischia una deriva verso il totalitarismo, il quale – come ha rilevato tra i primi lo storico israeliano Jacob Talmon (1916-1980) sulla base del suo studio del pensiero di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) – non è affatto incompatibile con la democrazia (cfr. Jacob Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, trad. it., il Mulino, Bologna 1967).

Di qui l’importanza della lettera Notre charge apostolique di san Pio X, che descrive in modo mirabile e condanna gli errori dei cattolici democratici, con una serie di osservazioni che valgono per tutti i «cattolici adulti», fino ai giorni nostri. Tanto più che, seguendo il metodo inaugurato nell’enciclica Pascendi e parzialmente nuovo rispetto al Magistero precedente, san Pio X non si limita a enunciare la condanna del sistema del Sillon, ma ne propone dapprima una ricostruzione e una sintesi, cui fa seguire la confutazione e la critica. Nella terza parte della lettera mostra i riflessi pratici sul piano educativo e politico delle dottrine del movimento, e nella quarta parte enuncia e motiva la condanna.


1. Esposizione delle teorie del Sillon

La prima caratteristica del Sillon che san Pio X prende in esame attiene al metodo: si tratta della «pretesa di sfuggire alle direttive dell’autorità ecclesiastica» con il pretesto che il terreno su cui ci si muove «non è quello della Chiesa». Potrebbe sembrare che il Sillon si opponga giustamente al clericalismo affermando l’autonomia dei laici nella vita politica. Ma si tratta, secondo san Pio X, di distinguere, applicando le regole già enunciate nell’enciclica Il fermo proposito pubblicata dallo stesso Pontefice nel 1905. Dal punto di vista tecnico i laici del Sillon, impegnati sul terreno politico e sociale, godono certamente di autonomia. Non godono, invece, di alcuna autonomia dal punto di vista dottrinale, tanto più che propongono le loro dottrine in nome e come conseguenza del Vangelo. Se sono autonomi nelle loro scelte tecniche, non possono quindi essere autonomi rispetto alla dottrina e ai principi, e l’autorità ecclesiastica ha il diritto di denunciare le loro deviazioni dottrinali, senza che questo implichi alcun clericalismo né alcuna indebita ingerenza. La rivendicazione di un’autonomia rispetto ai principi è sbagliata, e «anche se le loro dottrine fossero esenti da errore sarebbe già stata una gravissima mancanza alla disciplina cattolica». Ma «il male è più profondo»: sbagliando metodo, anche dal punto di vista dei contenuti il Sillon «è scivolato nell’errore».

Il Sillon è un movimento politico-sociale che si propone anzitutto il miglioramento della condizione delle classi operaie. Questo scopo sembra a prima vista corrispondere al grande programma tracciato da Leone XIII (1878-1903) nell’enciclica Rerum novarum (1891). Lontanissima dagli insegnamenti di Leone XIII è però la dottrina del Sillon quando, contro gli espliciti ammonimenti di quel Pontefice, ritiene che l’elevazione sociale del popolo non possa compiersi se non enunciando come principio la tesi secondo cui appunto nel popolo risiede l’origine dell’autorità, e indicando come programma la realizzazione di un ideale di egualitarismo forzato e di «livellamento delle classi» attraverso l’opera dello Stato. Il principio e il programma del Sillon partono da un giudizio nuovo sulla storia dell’Europa, diverso da quello enunciato nel Magistero dei Pontefici. Il Sillon sogna una società del tutto nuova e disprezza il passato europeo, dimenticando che nel passato – pur con i limiti e le imperfezioni di ogni realizzazione umana – non tutto è da buttare via, e anzi una civiltà cristiana è già esistita.

Rivolgendosi ai vescovi francesi, in una delle pagine più significative della lettera, san Pio X esclama: «No, venerabili fratelli, occorre ricordarlo energicamente in questi tempi di anarchia sociale e intellettuale, in cui ciascuno si pone quale dottore e legislatore; non si edificherà la società diversamente da come Dio l’ha edificata; non si edificherà la società se la Chiesa non ne pone le basi e non ne dirige i lavori; non si deve inventare la civiltà, né si deve costruire la nuova società tra le nuvole. Essa è esistita ed esiste; è la civiltà cristiana, è la società cattolica. Non si tratta che di instaurarla, ristabilirla incessantemente sulle sue naturali e divine fondamenta contro i rinascenti attacchi della malsana utopia, della rivolta e della empietà: Omnia instaurare in Christo».

San Pio X prosegue nell’esposizione della dottrina del Sillon attraverso l’analisi di tre parole chiave: dignità umana, emancipazione, partecipazione. Il Sillon si propone anzitutto come scopo «la cura della dignità umana»: ma il suo concetto di dignità, intesa come autonomia delle coscienze da ogni regola esterna, ha radici filosofiche molto dubbie. Lo strumento per promuovere la dignità umana consiste in una triplice emancipazione del popolo: emancipazione politica, da ogni autorità estranea al popolo; emancipazione economica, dai «padroni» che opprimono chi lavora; emancipazione intellettuale, da una «casta dirigente» che ingiustamente pretenderebbe d’imporre un predominio culturale. Il popolo, secondo il Sillon, dev’essere libero; ma la vera libertà è l’uguaglianza, intesa come «livellamento delle condizioni», appiattimento della società perché tutti siano uguali.

Nel sistema del Sillon la promozione della dignità umana tramite l’emancipazione è il momento negativo, che dovrebbe aprire la strada a un momento positivo, «la partecipazione, più grande possibile, di ciascuno al pubblico governo». Anche la partecipazione, come l’emancipazione, si articola in tre livelli: politico, attraverso la proclamazione del principio che l’autorità risiede nel popolo e solo temporaneamente è delegata con le elezioni ai governanti, «in modo tale che ogni cittadino divenga in un certo modo re»; economico, attraverso – afferma il Sillon – non il socialismo ma il lento affermarsi di un sistema cooperativo che a poco a poco sostituisca l’impresa a conduzione privata e padronale, in modo che «ogni operaio diventerà in un certo senso padrone»; morale, tramite la crescita nel popolo dell’«amore per l’interesse professionale e per l’interesse pubblico» che trasformerà ogni cittadino in autorità, abolendo l’odiosa e umiliante distinzione fra chi esercita l’autorità e chi vi è sottomesso. L’«educazione democratica del popolo» che il Sillon si propone realizzerà secondo il movimento francese la fraternità e completerà, con la libertà e l’uguaglianza assicurate dall’emancipazione, la versione sillonista dell’ideale della Rivoluzione francese: liberté, égalité, fraternité.


2. Confutazione e critica

Le teorie del Sillon possono sembrare attraenti e favorevoli al progresso dei più poveri. Contengono, tuttavia, errori fatali. Anzitutto il Sillon pone nel popolo la fonte ultima dell’autorità, contro l’insegnamento di tutta la dottrina sociale della Chiesa, esposto in particolare da Leone XIII nell’enciclica Diuturnum (1881), secondo cui l’autorità non è stata inventata da qualcuno, o conferita tramite un contratto sociale, ma deriva dalla natura e quindi da Dio autore della natura. Non è illecito – insegna Leone XIII, e conferma san Pio X – che sia il popolo a designare i detentori dell’autorità tramite le elezioni: purché sia chiaro che con le elezioni non s’«inventa» o si crea l’autorità, ma si stabilisce semplicemente da chi deve essere esercitata.

Potrebbe sembrare che il problema dell’origine dell’autorità sia semplicemente una questione filosofica, senza grandi conseguenze pratiche. Una volta ammessa la liceità del sistema democratico potrebbe apparire non poi così importante stabilire se le elezioni creino l’autorità o semplicemente stabiliscano chi deve esercitarla. Ma in realtà non è così, e la risposta al quesito circa l’origine ultima dell’autorità – se derivi dalla natura, e quindi da Dio, oppure dal popolo – ha conseguenze pratiche molto importanti. Chi, come il Sillon, non riconosce l’origine naturale dell’autorità finisce normalmente per considerare la gerarchia nella società come qualche cosa di sgradevole, al massimo come un male necessario, da cui ci si deve per quanto possibile liberare. È questo il significato profondo e il sentimento rivelato dalla teoria sillonista dell’emancipazione. Una teoria, nota san Pio X, che corrisponde alla concezione della Rivoluzione francese e si oppone a quella rivendicazione del valore positivo dell’autorità e della gerarchia che è invece caratteristica della dottrina sociale della Chiesa.

Se l’emancipazione politica corrisponde alla liberté in senso rivoluzionario, quella che il Sillon chiama emancipazione economica e intellettuale realizza l’égalité intesa come livellamento sociale, per cui «ogni disparità di condizione è una ingiustizia o, almeno, la minima giustizia». «Principio – nota san Pio X – sommamente contrario alla natura delle cose»: non è affatto dimostrato che la società su cui si sia fatto passare un ideale rullo compressore per livellare le differenze, cioè la società maggiormente priva di gerarchie, sia la migliore. Anzi, la dottrina sociale della Chiesa insegna – salva la condanna delle disuguaglianze così eccessive da essere ingiuste – precisamente il contrario.

In terzo luogo, accanto alla liberté e all’égalité, il Sillon accoglie dalla Rivoluzione francese anche la fraternité attribuendo a questa parola il senso rivoluzionario di relativismo e d’indifferentismo. La fraternità consisterebbe nel ritenere che le questioni dottrinali e lo stesso problema della verità non siano poi molto importanti, nel porsi «al di là di ogni filosofia e religione» e nel rinunciare a convertire gli altri alla fede cattolica, accontentandosi di condividere una comune umanità. San Pio X insisterà nella terza parte della lettera sulle conseguenze di questa tesi sul piano educativo, ma già qui enuncia il principio secondo cui ultimamente «non vi è vera fratellanza fuori della carità cristiana».

Infine, la radice stessa del pensiero del Sillon, la sua nozione di dignità umana, non appare conforme alla dottrina sociale della Chiesa. «Dignità» per il Sillon significa autonomia della coscienza da ogni autorità esterna, sostituita da una coscienza responsabile la quale «non obbedisce che a se stessa». Errore, nota il Pontefice, di natura illuminista e che porta fra l’altro non al vero amore per il «popolo» ma al disprezzo sistematico degli umili ritenuti «immaturi» in quanto non hanno ancora raggiunto una tale autonomia e, quindi, sono al di sotto della «dignità umana». Come spesso accade, l’affermazione di un concetto ideologico di «povero» finisce facilmente per portare al disprezzo dei poveri veri e concreti.


3. La vita nel Sillon

Nella terza parte della lettera san Pio X mostra gli errori del Sillon in azione nella vita quotidiana del movimento e nel suo comportamento socio-politico. La dottrina del Sillon, infatti, non rimane nei discorsi e sui libri, ma si cala nella proposta di uno stile di vita e di un metodo educativo. Anzitutto, nota il Pontefice, il Sillon cerca di vivere la sua dottrina dell’emancipazione rinunciando, per quanto possibile, alla gerarchia. Gli studi «vi si fanno senza maestro»: nelle riunioni del Sillon non c’è chi insegna e chi apprende ma si tratta piuttosto di «vere cooperative intellettuali, dove ognuno è maestro e scolaro»; «perfino il sacerdote non è più che un compagno». Questa è anche la «causa segreta delle deficienze disciplinari» del Sillon anche nei confronti del Papa e della dottrina: l’educazione del Sillon non insegna a obbedire, e – ispirata dal «soffio della rivoluzione» – critica lo spirito di gerarchia che anima la Chiesa. Come spesso accade, nella critica di tutte le autorità, l’unica vera autorità diventa il Sillon stesso, tanto che quelli fra i cattolici che non abbracciano la sua causa diventano – «diventiamo», dice san Pio X – «ai suoi occhi nemici interni del cattolicesimo, come se non comprendessimo nulla del Vangelo e di Gesù Cristo».

In verità il Sillon confonde la causa della Chiesa con quella della democrazia come forma di governo, «infeuda la sua religione a un partito politico»; mentre «l’avvento della democrazia universale non interessa l’azione della Chiesa nel mondo». Di più: il Sillon non si limita a considerare fuori della Chiesa chi non esprime una preferenza esclusiva per la democrazia, ma considera obbligatoria l’adesione «ad un genere di democrazia le cui dottrine sono errate», cioè il tipo di democrazia uscito dalla Rivoluzione francese e fondato sull’Illuminismo. La Chiesa non condanna la preferenza per la democrazia, ma distingue fra diversi possibili tipi di democrazia, alcuni dei quali – come quello propagandato dal Sillon – sono inaccettabili. Il Sillon, invece, accecato dal suo democratismo a senso unico, non si accorge neppure del carattere anticristiano della democrazia francese sua contemporanea, e di fronte alle leggi esplicitamente anticattoliche, che attaccano la famiglia e la Chiesa, i suoi membri impegnati in politica non reagiscono. Di fronte «alla Chiesa violentata» il movimento «incrocia le braccia», affermando capziosamente che «in ogni membro del Sillon vi sono due uomini: l’individuo, che è cattolico e il membro del Sillon, l’uomo d’azione, che è neutro». Si tratta di una distinzione che farà molta strada, nel secolo XX, fra quegli uomini politici che diranno per esempio: come individuo sono cattolico, e rifiuto l’aborto o l’eutanasia, come politico non posso certo mettere a rischio la mia carriera o le mie alleanze per questi problemi.

Nella sua storia il Sillon inizia con il proporre una democrazia cattolica, con la formula: «la democrazia sarà cattolica o non sarà». Ma sostituisce poi la formula con un’altra, «la democrazia non sarà anticattolica»: «non più d’altronde che antigiudaica o antibuddista», nota con spirito san Pio X. Le due formule non sono affatto equivalenti. È allora costituito un nuovo movimento, chiamato «Sillon più grande», di cui l’originario Sillon è presentato come il nucleo, che dovrebbe riunire tutti i fautori della democrazia, che si tratti di «cattolici, protestanti o liberi pensatori». Programma pericoloso, perché «la riforma della civiltà è opera innanzitutto religiosa; poiché non vi è vera civiltà senza civiltà morale, e non vi è vera civiltà morale senza vera religione: è una verità dimostrata ed è un fatto storico». E tanto più pericoloso perché il «Sillon più grande» impegna i cattolici che ne fanno parte a non fare proselitismo fra i loro compagni di movimento, anzi a «dimenticare ciò che li divide» e insistere su ciò che li unisce – un altro slogan che farà molta strada. Non ne potrà risultare, afferma san Pio X, che «una rumorosa agitazione, sterile per il fine proposto, e che tornerà a profitto di agitatori di masse meno utopisti. Veramente si può dire che il Sillon, con l’occhio fisso ad una chimera, prepara il socialismo».

Ma, aggiunge il Pontefice, «temiamo che vi sia di peggio». Gli slogan che si vanno diffondendo nel Sillon, del tipo «Non si lavora per la Chiesa, si lavora per l’umanità» e «Il Sillon è una religione», evocano il rischio non solo di un errore di educazione e di metodo, ma di dottrina: un pericoloso scivolamento dalla religione cattolica a quella vaga «religione dell’umanità» laicista preparata dalle «oscure officine» massoniche che noi, scrive san Pio X, «conosciamo anche troppo bene». I capi del Sillon, che «non temono di fare, fra Vangelo e rivoluzione, blasfemi raffronti», rischiano di ridurre la loro associazione a «misero affluente» del grande fiume della Rivoluzione, di cui san Pio X dà qui una celebre e profetica definizione: «il grande movimento di apostasia organizzato in ogni paese per stabilire ovunque una Chiesa universale che non avrà né dogmi, né gerarchia, né regole per lo spirito, né freni per le passioni e che, sotto pretesto di libertà e di dignità umana, ricondurrà nel mondo, se questo trionfo fosse possibile, il regno legale dell’inganno e della forza, l’oppressione dei deboli, di coloro che soffrono e che lavorano».


4. La condanna dei «cattolici adulti»

Il problema di fondo, nota san Pio X, non riguarda soltanto un complesso di dottrine politiche o un metodo educativo, ma coinvolge l’idea stessa del Signore, il tipo d’immagine di Gesù Cristo cui ci s’ispira. Il Sillon trascura in Gesù Cristo la divinità, l’autorità, la legge, la croce, presentando un Cristo pacifista più che pacifico, umanitario più che umano, tollerante non solo con gli erranti ma con lo stesso errore. Cristo, nota il Pontefice, non ha promesso la felicità perfetta in terra, ma ha indicato per una «felicità possibile» la strada dell’obbedienza alla Sua legge, del sacrificio, della croce. La «regale via della Croce» e il rapporto necessario con Cristo che parla nella storia attraverso l’autorità della Chiesa sono «insegnamenti che a torto si applicherebbero solo alla vita individuale in vista della salvezza eterna; sono insegnamenti eminentemente sociali che ci mostrano in Nostro Signore Gesù Cristo ben altra cosa che un umanitarismo senza consistenza e senza autorità».

Non basta condannare le deviazioni. Occorre che nasca un’azione sociale e politica dei cattolici che parta dall’autentica figura di Gesù Cristo, dalla dottrina enunciata dal Magistero, ma anche da una lettura della storia della Chiesa e della civiltà che mostri come «le questioni sociali e la scienza sociale non sono nate ieri» e hanno già trovato in passato linee per una valida soluzione: i «veri operai della restaurazione sociale, i veri amici del popolo non sono né rivoluzionari, né innovatori, ma tradizionalisti».

Quanto al Sillon i suoi capi devono dimettersi, la sua struttura come organizzazione nazionale dev’essere sciolta, i membri devono mettersi a disposizione dei Vescovi per ricostruire – senza rinunciare alle proprie preferenze democratiche, «purificate da tutto ciò che non è conforme alla dottrina della Chiesa» – «Sillon cattolici» su scala diocesana, «per ora» indipendenti gli uni dagli altri, di cui comunque non potranno fare parte i sacerdoti.

Questi ordini di san Pio X saranno formalmente ubbiditi: almeno in foro esterno, nella grande maggioranza, i capi e i membri del Sillon daranno al Pontefice una prova di obbedienza e dimostreranno di voler rimanere cattolici. Il grande interesse che la lettera Notre charge apostolique presenta ancora oggi, e anche per i nostri tempi, non consiste tuttavia tanto nello specifico riferimento al Sillon, un movimento morto ormai da tanti anni, ma nel fatto che attraverso la vicenda del Sillon il documento fornisce una magistrale descrizione dell’ideologia dei cattolici democratici e del modernismo sociale. Questi fenomeni, a differenza del Sillon, non sono morti. Anzi, sono stati sistematicamente ripresi fino ai giorni nostri da personaggi più astuti nel mascherare le loro vere intenzioni e certamente meno disposti a sottomettersi ai Pontefici.


IL CASO/ Niente provetta, ora basta un negozio per un figlio artificiale - Luigi Santambrogio - giovedì 24 giugno 2010, il sussidiario.net
I più piccini hanno solo qualche settimana, alcuni portano ancora il cerotto a coprire la ferita ombelicale. Altri, di qualche mese più grandicelli, indossano caldi vestitini in cashmere, gonnelline con delicati pizzi, camiciole dai motivi floreali. Insomma, capi da boutique.
Sono bambini, da zero a tre anni, maschietti e femminucce, con capelli a frangetta o dal ciuffo libero: alcuni sorridono a paiono interrogarti con i loro grandi occhi blu. Altri ancora cercano un’improbabile consolazione stringendo al petto animaletti di peluche. Potrebbero anche piangere o dire qualche parola, tanto sembrano veri e reali.

Ecco, questa è la notizia e pure la sorpresa: questi bimbi non sono bimbi. Sono bebè cloni, neonati finti con ancora il cordone ombelicale, copie di figli mancati, cresciuti o venuti al mondo da pochi mesi. Finti. Ma abbastanza naturali da sembrare veri.
Sono i figli artificiali, mica nati in provetta ma in laboratori artigiani e confezionati con le più sofisticate tecnologie. È l’ultima follia dell’estate 2010, il costoso regalo ambito da molte coppie italiane. Si chiamano Reborn Doll, si possono spupazzare e portare a spasso per la città tenendoli in fasce o nelle carrozzine. Come farebbe una vera mamma. Terribile, eppure vero.

Il giocattolo “per adulti” è pubblicizzato su diversi siti internet ed è in vendita in alcuni megastore di Roma e Milano: i prezzi partono dai 200 euro, ma possono superare i duemila. Labbra tumide, grinze nella pelle e dettagli curati, dall’alluce fin sopra ai capelli; a facilitarne l’effetto surreale sono i materiali con cui vengono realizzate le bambole: ceramit o vinile pregiato, molto simile alla morbida e liscia pelle di un neonato, lavorato con una tecnica chiamata “reborn” (rinato).
Non hanno tuttavia un cuore che batte, come gli androidi di Blade Runner, ma questo non basta a scoraggiare i finti genitori che su internet o nei negozi specializzati della Capitale comprano i pargoletti plastificati, preferendo il termine “adottare” a quello di “acquistare”. C’è qualche mamma virtuale che ne ha già comperati una decina in pochi anni (il costoso gadget infatti è in circolazione da tempo), ma tengono il segreto in famiglia, vergognose di questa maternità di plastica.
Quest’anno il baby clone è diventato acquisto di massa, regalo più ricercato tanto che per i modelli di alcune marche, bisogna prenotarli con mesi d’anticipo. Capita, racconta il negoziante di “Al Sogno” (tempio del giocattolo, centralissimo, in piazza Navona da oltre mezzo secolo) anche che qualche coppia abbia chiesto di riprodurre il proprio figlio da piccolo, per ricordarlo così com’era. In quel caso, il cliente è stato messo in contatto con alcuni artisti tedeschi: portando delle foto di un bimbo è possibile crearne le stesse sembianze.
Insulsa e infelice moda, la vanità di possedere l’ultimo oggetto più trendy per un regalo trasgressivo e fuori dall’ordinario? Forse, e se così è anche la cosa più bella al mondo, come la nascita di un figlio, sarebbe corrotta dalla stessa menzogna: un clone di bimbo hi tech che pare vivo a sostituire la noia della solita playstation o telefonino che serve pure il caffè.
E se invece in quella corsa al baby clone ci fosse qualcosa di più? A dare retta ai chi vende questi “non bambini”, il “di più” è una finestra sull’indicibile, sul desiderio, a volte impossibile ma implacabile, di avere un figlio vero, di una maternità per qualche ragione negata eppure sempre inseguita. L’ultima spiaggia, per chi non ha sufficiente iniziativa o coraggio di tentare altre strade: l’inseminazione artificiale o l’adozione di un bambino in carne e ossa. Oppure l’estrema consolazione di chi un figlio l’ha avuto ma gli è stato crudelmente strappato. Illusioni che rasentano la follia, inutile ricerca di un volto e di un corpo perduto da toccare e amare una seconda volta, nell’inganno (accettato e voluto) di un suo fantasma sintetico.
Forse nelle Reborn Doll c’è tutto questo: dunque la questione è seria. Quasi cristiana, verrebbe da dire, anche se di uno strano Vangelo apocrifo. Reborn, cioè rinato, si chiamano quei bambolotti senza cuore. E che altro è il cristianesimo se non la Nascita, cioè Dio rinato uomo che rende eterne, uniche e intoccabili tutte le altre nascite del mondo e della storia.

Nessuno osi giudicare quelle mamme per finta e quel desiderio incompiuto e per questo traviato di maternità. Ciascuno guardi nel profondo del proprio guazzabuglio se vuole sperare di capirci qualcosa. Siamo fatti per essere amati e ricambiare, per generare e non per finire. Forse quei bambini di plastica vogliono dirci questo. Forse…


Avvenire.it, 24 giugno 2010 - I ripensamenti del movimento femminista (ma non in Italia) - Sesso libero, pillola, aborto Il grande freddo - Gianfranco Amato
L’insospettabile quotidiano comunista Liberationha aperto un vivace dibattito sulla crescente "allergia" delle francesi tra i 25 e i 35 verso la pillola anticoncezionale – «rimettendo in discussione il suo aspetto dogmatico» – a favore di metodi più naturali. Catherine El Mghazli, membro del movimento francese per la pianificazione familiare, afferma che il ricorso a questi metodi (pur in una chiave contraccettiva) sarebbe dettato dalla «moda ecologica del momento».

Il sorprendente confronto avviene in un periodo nel quale si ricordano i 50 anni della pillola anticoncezionale, un anniversario che ha rappresentato per molte ex femministe l’occasione di un ripensamento. Un’interessante rivisitazione della rivoluzione sessuale, che alcune protagoniste di allora guardano ormai con disincanto, e talora con sincero pentimento. Comincia a farsi strada l’idea che la pillola abbia creato l’illusione effimera di una libertà sessuale senza conseguenze e di un’affettività senza impegni, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.

Persino un’eroina della rivoluzione sessuale come Shere Hite – autrice del celebre The Hite Report on Female Sexuality (1976), best seller in 29 Paesi – si è pubblicamente ricreduta in una recente intervista al Times: «Ricordo quando cominciai a prendere la pillola – afferma – ricordo di quanto fossi eccitata per il fatto di poter controllare la mia sessualità; ricordo l’incontenibile entusiasmo delle donne attorno a me che si sentivano finalmente libere di poter esprimere la propria sessualità senza lo spettro dell’aborto». E continua: «Anche se c’erano voci femministe fuori dal coro, come quella di Barbara Seaman, che mettevano in guardia circa gli effetti collaterali della pillola, parlando di infarto, ictus, cancro, trombosi, nessuno sembrava ascoltarle. Tanto appariva allettante l’idea del sesso libero». «Oggi – confessa l’ex pasionaria – mi pento profondamente di quei giorni. È stato meraviglioso ma orribile».

Prima di lei anche l’attrice ribelle Jane Fonda, tra le icone del femminismo militante, ha personalmente sperimentato come sia crollato il mito della «liberazione delle donne», arrivando poi alla riscoperta della fede. «Ho incontrato la grandezza dell’universo cristiano abbastanza recentemente – ha dichiarato l’attrice – e sono rimasta colpita da quanta ignoranza ci sia a riguardo, ignoranza che fino a qualche anno fa era patrimonio anche della sottoscritta. Nessuno come Cristo ha saputo celebrare la grandezza delle donne».

Ma non basta. Lorraine Murray, giornalista e autrice di Confessions of an Ex-Feminist, proprio negli anni ’70 incontra a scuola il movimento di liberazione femminile, cui aderisce al grido di «free love», amore libero. Dopo essere caduta in quella che lei ha definito la «prima grande bugia» – ovvero la banalizzazione del sesso vissuto senza alcuna responsabilità – incappa anche nella «seconda grande bugia», diretta conseguenza della prima: la «soluzione alternativa» alla pillola. E così conosce la tragica esperienza dell’aborto, che la segnerà per sempre. Ma proprio attraverso quel «punto di sutura eternamente mal cucito», come direbbe Charles Péguy, passerà per Lorraine la vera liberazione dall’inganno ideologico, e l’incontro con la fede: «Guardando in un’immagine sacra lo sguardo amorevole della Vergine Maria verso il Figlio che teneva tra le braccia – spiega – sono riuscita improvvisamente a scorgere tutta l’ingannevole mistificazione dell’ideologia femminista: strappare un figlio a una madre genera sempre conseguenze devastanti per entrambi».

Dell’esperienza di queste tre donne colpisce l’intelligenza di una ragione umana che non si lascia intrappolare dal preconcetto, ma che si apre alla realtà fino al coraggio di riconoscere l’errore.
È davvero deprimente, di converso, dover constatare che mentre altrove è vivace e aperto il confronto sulla mitologia della rivoluzione sessuale e dei suoi derivati – pillola, aborto, instabilità dei legami – in Italia tutto ciò resti ancora un inviolabile tabù, un granitico totem ideologico che incombe sul panorama culturale. Le intellettuali nostrane che si ergono come epigoni di un femminismo d’antan talora col loro tetro dogmatismo appaiono come figure patetiche. Un connubio malinconico di amarcord e settarismo, che non concede il minimo spazio concettuale al dubbio o all’autocritica.
Gianfranco Amato


L’umiltà di arrendersi all’evidenza - Era il giugno 2000 quando l’allora ministro della Salute Umberto Veronesi, in merito alla vicenda di Eluana Englaro, dichiarò che «c’è un migliaio di famiglie distrutte dalla penosa presenza di questi morti viventi». di Assuntina Morresi – Avvenire, 24 giugno 2010
Qualche mese dopo, lo stesso ministro istituì un «Gruppo di lavoro su nutrizione e idratazione nei soggetti in stato di irreversibile perdita della coscienza», la prima sponda istituzionale a sostegno della richiesta del padre di sospendere alimentazione e idratazione a sua figlia Eluana.
Il documento finale legittimava tale sospensione in persone in stato vegetativo permanente (Svp). Nel testo si affermava che «per essi (individui in Svp, ndr) non sarà mai più possibile un’attività psichica, e in essi è andata perduta definitivamente la funzione che più di ogni altra identifica l’essenza umana.

Essi (così come il feto prima del terzo mese, prima cioè dello sviluppo di un sistema nervoso funzionante, o il bambino nato anencefalico, capace di respirare e di movimenti riflessi o spontanei degli arti) sono esseri puramente vegetativi, la cui 'sopravvivenza' è affidata ai presìdi che parenti e società sono capaci o disposti a fornire».


Non più persone, insomma, quelle in stato vegetativo (Sv) secondo alcuni esperti, che oggi però avrebbero difficoltà a ripetere quelle espressioni: le novità delle neuroscienze sull’attività cerebrale di persone in Sv, insieme alla dichiarazioni dei familiari che considerano alimentazione e idratazione dei propri cari «un atto dovuto», indipendentemente dalle modalità con cui sono somministrate, hanno cambiato totalmente il quadro di riferimento in questo àmbito, tanto che adesso non si usano più le espressioni 'permanente' e 'persistente', per definire lo Sv, ma si indica da quanto tempo quella persona è in quelle condizioni. La possibilità che persone in Sv abbiano qualche capacità di relazionarsi con l’ambiente dovrebbe almeno far riflettere chi li ha considerati «morti viventi», proprio in virtù di quel progresso scientifico di fronte al quale tutti dovrebbero dimostrare un po’ di umiltà, e che troppi invece considerano una bandiera da sventolare solo quando fa comodo.


La possibilità che alcune persone in Sv possano provare dolore, o siano capaci di entrare in contatto con chi è intorno, dovrebbe interessare anzitutto chi ha sempre negato queste possibilità. Se è vero, come riportato dal Documento Veronesi, che nel 2000 «il gruppo 'Bioetica e neurologia' della Società italiana di neurologia invece considera l’idratazione e la nutrizione una forma di sostentamento eticamente doveroso in generale, ma non nei confronti degli individui in Svp, in quanto essi sarebbero da considerare già morti (anche se non rispondenti ai requisiti di legge per l’accertamento di morte)», proprio questi studiosi dovrebbero prendere atto delle novità in campo, e trarne le conclusioni.
Per chi invece ha sempre ritenuto che ogni persona, dal concepimento alla morte naturale, in ogni condizione, conserva sempre intatta la propria dignità, queste importanti scoperte niente aggiungono al valore di ogni essere umano, che per vivere ha diritto innanzitutto a essere nutrito. L’aumento della conoscenza del loro stato non potrà che migliorarne assistenza e condizioni di vita, magari con qualche forma di ausilio finora impensabile.


«Siamo in lotta contro la narcosi del cuore» - A pochi giorni dal Natale, un medico, mio amico, ha ricevuto una telefonata di una paziente che aveva cercato di convincere a non abortire. - di Giuseppe Noia – Avvenire, 24 giugno 2010
«Scegliere l’aborto è fonte di sofferenza e impoverimento della capacità gestazionale e affettiva del 'genio femminile' Come medico, ricercatore e studioso della vita prenatale, queste mi sembrano evidenze dolorosamente sperimentate»
«Buongiorno dottore, volevo comunicarle che è andato tutto bene. L’intervento è riuscito ed io, adesso, mi sento molto bene. Auguri per un felice Natale». Questa telefonata, mi ha detto, gli aveva gelato il cuore: dall’altra parte del filo, una persona, con apparente serenità, parlava del figlio perduto come di una condizione di malattia, per cui era stato «necessario l’intervento»; aggiungeva poi che «era andato tutto bene» e che lei si sentiva «molto bene»; infine faceva gli auguri per un «felice Natale».

Questo episodio mi ha fatto vedere quanta falsità medica, umana ed esistenziale c’è dietro il dramma dell’aborto: innanzitutto il freddo e innaturale distacco (credo più come forma di difesa di quella madre) dal dono della maternità, considerata quasi una malattia con un figlio da togliere come un tumore; in secondo luogo il significato dell’«intervento» (cioè l’aborto volontario). Anche se tecnicamente è andato bene, sicuramente non l’avrebbe fatta sentir bene per i giorni, i mesi, gli anni successivi; infine gli auguri per un felice Natale!


Quale Natale felice avrà vissuto, nel profondo, quella donna proprio in quei giorni in cui l’umanità e la storia si apprestavano a ricordare un concepimento e una nascita assolutamente straordinaria? Quale straordinaria bellezza o scienza umana è stata cancellata dalla violenta negazione di esistenza di quella fragile creatura, definita, per la sua debolezza, da Madre Teresa «il più povero tra i poveri»? Cosa si porterà dentro, per tutta la vita, quella donna che augurando al medico un Natale felice, augurava crescita e prosperità agli altri, vivendo lei il vuoto, l’assenza del figlio, regalando a se stessa la stridente evidenza che senza «la vita del figlio» quelle parole erano senza senso: auguri (dal latino augeo) è infatti sinonimo di crescita e rigogliosità, è una proiezione ricca di speranza per il futuro. Quale crescita umana, quale futuro può portare la terribile scelta di morte che permette di estirpare la presenza biologica del figlio dal grembo della propria madre?


Purtroppo questo è il nostro tempo. Questa è l’aria che respiriamo. È talmente anestetizzato il nostro cuore che non avvertiamo ciò che di più naturale e semplice dovrebbe essere percepibile. Una narcosi profonda dell’anima che fa chiamare diritto un delitto! (Giovanni Paolo II). Questo episodio viene riferito non per accusare le donne: l’aborto è sempre una scelta tragica e nella mia trentennale esperienza di ginecologo ho visto solo dolore, prima e dopo la decisione. Ho visto la sofferenza delle donne, donne con ferite più o meno grandi, ma sempre ferite, non rimarginate e non rimarginabili, anche a distanza di molti anni. Ho conosciuto l’aborto come fonte di sofferenza fisica e psicologica, un impoverimento delle capacità globali del mondo femminile, della capacità gestazionale e affettiva del «genio femminile» (Giovanni Paolo II), in definitiva un impoverimento della dignità della donna e delle sue scelte pienamente consapevoli.


Queste considerazioni non sono il frutto di una interpretazione morale e religiosa, ma, come medico, ricercatore e studioso della vita prenatale sono la sintesi di centinaia di casi pervenuti alla mia osservazione e seguiti nel tempo. Esse quindi rappresentano un dato dolorosamente sperimentale che è suffragato da una metodologia scientificamente rigorosa. La grande problema culturale di oggi è proprio la mancanza di evidenza oggettiva e di verità sulla persona umana. Allora si può capire il significato delle parole di Giovanni Paolo II che, nel suo libro di poesie «Trittico Romano», afferma: «Se vuoi trovare la sorgente, devi andare controcorrente». Per me queste parole sono già una risposta alla narcosi del cuore nel senso che la sorgente da ricercare è la verità sulla persona umana, sulla sua dignità e la sua sacralità. Per trovare questa sorgente c’è la fatica di una ricerca che soffre la dimensione dell’isolamento e della ghettizzazione da parte dell’establishement culturale vigente, che non cammina secondo il comune sentire e non cavalca la «captatio benevolentiae» della moda corrente.


Sla, salasso per le famiglie - «Ha la Sla, non le resta altro che andare a Lourdes». Come possono reagire a una comunicazione del genere, fatta da un medico, un malato e la sua famiglia? Eppure secondo lo studio realizzato dalla Fiaso (Federazione italiana delle aziende sanitarie e ospedaliere) in collaborazione con la Fondazione Istud e l’Aisla succede anche questo quando si tratta di comunicare al paziente una diagnosi di una malattia terribile perché mortale, ma che, se spiegata nel modo giusto, può essere affrontata diversamente. – Avvenire, 24 giugno 2010

Per Maria Giulia Marini, responsabile sanità e salute della scuola di formazione e management Fondazione Istud: «Il problema grave è proprio la comunicazione: stiamo dando una notizia pessima al paziente e dobbiamo renderci conto che ci troviamo in un campo minato».

Per i prossimi anni si attendono in Italia 3.600 nuovi casi di Sla, più di quanti se ne siano registrati fino a oggi (2.400 circa). Eppure ci sono anche delle diagnosi ombra, quelle imprecise, quelle non fatte che farebbero salire la stima a seimila. Malati complessi quelli di Sla, che perdono l’uso della muscolatura, a un certo punto non possono più nutrirsi come tutti e hanno bisogno dell’alimentazione artificiale tramite la Peg, fino a perdere l’uso della parola, ma non dell’intelletto. Per questo, fondamentale è dotarli di un comunicatore elettronico che costa, come costano gli ausili (nelle fasi finali la malattia grava sui bilanci familiari fino a 65 mila euro) e da due anni è richiesto che questi e altri diritti dei malati e di chi si trova in condizione di cronicità e terminalità vengano riconosciuti come livelli essenziali di assistenza nella cura.

Da due anni i Lea sono una promessa del Governo. Lo scorso anno tra Governo e Conferenza Stato Regioni non si è trovato l’accordo: il nomenclatore tariffario è fermo al 1999, una vita fa. Per questo lunedì scorso la manifestazione di Aisla e di altre associazioni della disabilità e la promessa del sottosegretario Letta di farsi garante delle loro richieste. Ieri alla Camera il ministro Fazio ha rassicurato durante il question time: lo schema di revisione dei Lea «contiene numerose disposizioni la cui 'portata innovativa' potrebbe portare un significativo miglioramento per la tutela dei malati di Sla».


Dura la replica di Perferdinando Casini (Udc): il ministro dia la sveglia al collega Tremonti: «La sitauzione è insostenibile, non si può più aspettare – va ormai ripetendo da mesi il presidente di Aisla Mario Melazzini, malato anche lui –. Pazienti e specialisti chiedono una maggiore attenzione, avendo ben chiaro la presa in carico globale della persona».

Due le regioni virtuse in questo, Lombardia e Veneto, la prima con l’assegnazione di un voucher socio sanitario, la seconda con il coinvolgimento diretto del medico di famiglia nell’attivazione dell’assistenza domiciliare. (F.Loz.)

Nella fase terminale si arriva a spendere 65mila euro Ma non c’è ancora l’accordo per garantire ausili e livelli essenziali di assistenza


Olanda - Il dolore è intollerabile? - Allora muori - Lorenzo Schoepflin – Avvenire, 24 giugno 2010
Sono stati 2636 i casi di euta nasia registrati in Olanda nel 2009. È quanto si apprende dalle statistiche rese note in questi giorni nei Paesi Bassi. Continua, dunque, l’escala tion iniziata con la legalizzazione della 'dolce morte', nel 2002: dai 1815 casi del 2003 si è passati ai 2120 del 2007 e ai 2331 del 2008. Nel 2009 l’incremento sull’anno precedente è stato del 13%, tanto da convincere il Ministero della Sa lute ad avviare un’indagine in me rito all’applicazione della legge. Jan Suyver, presidente della Commis sione incaricata di monitorare la pratica dell’eutanasia in Olanda, ha affermato che il numero crescente dei casi potrebbe dipendere dal fat to che con il passare degli anni l’eu tanasia ha smesso di essere un tabù, consentendo ai medici di dichiara re con più tranquillità i loro inter venti per procurare la morte dei pa­zienti.


Phyllis Bowman, dell’Associazione per il diritto alla vita, si è detta invece convinta che l’eutanasia stia sempre più prendendo campo in Olanda a causa della scarsa attenzione che le istituzioni dedicano al tema delle cure palliative. A dicembre Els Borst, già Ministro del la Salute e sostenitrice della legge varata nel 2002, aveva ammesso che con la legalizzazione dell’eutanasia la qualità delle cure per i malati terminali era peggiorata. La Borst aveva poi aggiunto che il sistema sanitario olandese deve garantire più assistenza a coloro che desiderano morire in modo naturale. Contrastano con queste preoccupazioni le nuove linee guida per l’applicazione dell’eutanasia su malati in stato di non coscienza, che giungono dall’Associazione dei medici olandesi. Le linee guida sono state pubblica te dopo che molti dubbi erano sta ti sollevati sull’opportunità di pro cedere per i pazienti che avevano e spresso il desiderio di morire ma che sono impossibilitati a confer mare le loro volontà. In questi casi – si legge nelle direttive – il medico può scegliere due strade: se giudica che il paziente si trovi in stato di sofferenza tollerabile può procede re all’intensificazione delle cure palliative, ma se il dolore viene ritenuto insopportabile può praticare l’eutanasia. Le linee guida non costituiscono un’integrazione alla legge ma rivestono un’importanza rile vante poiché – vi si legge – inten dono mettere al riparo da azioni pe nali i medici che le rispetteranno. Lorenzo Schoepflin