Nella rassegna stampa di oggi:
1) LA STORIA/ "Ho la grazia di essere miserabile". Padre Aldo Trento si racconta - Marina Corradi INT. Aldo Trento - giovedì 29 luglio 2010 – ilsussidiario.net
2) Zapatero continua... – dal sito http://www.libertaepersona.org
3) La "legge del buon samaritano" - Di Lorenzo Bertocchi - 28/07/2010 – dal sito http://www.libertaepersona.org
4) Avvenire.it, 29 luglio 2010 - Un rapporto governativo Usa sui test genetici fa luce su favole e affari - Non è vero che tutto è già scritto. Ecco la conferma di ciò che sapevamo - Giacomo Samek Lodovici
5) Avvenire.it, 29 luglio 2010 - LA FORZA DELLA FEDE - «Così per Caterina abbiamo preso d’assalto il cielo» - Lucia Bellaspiga
6) Avvenire.it, 29 luglio 2010 – diritti - Catanzaro, esclusa da concorso perché incinta: tar annulla graduatoria
LA STORIA/ "Ho la grazia di essere miserabile". Padre Aldo Trento si racconta - Marina Corradi INT. Aldo Trento - giovedì 29 luglio 2010 – ilsussidiario.net
L’intervista di Marina Corradi a padre Aldo Trento è contenuta nel libro di quest’ultimo I dieci comandamenti, primo titolo della collana Lindau I libri di Tempi. Il volume sarà in vendita, al prezzo lancio di 10 euro anziché 12, presso lo stand di Tempi al Meeting per l’amicizia fra i popoli (22-28 agosto, Fiera di Rimini, padiglione C3).
Aprile 2010. Padre Aldo Trento è di passaggio a Milano. Lo incontro a casa di un suo amico a Concorezzo. Non gli avevo mai parlato a tu per tu. Mi colpiscono la faccia semplice, da contadino del bellunese, e gli occhi chiarissimi, con qualcosa di infantile. Queste sono alcune delle domande che gli ho rivolto e le sue risposte.
Quello che non capisco è come fai a parlare di Cristo come di una Presenza assolutamente concreta. È una cosa che mi meraviglia. Io, Gesù Cristo non lo vedo. Lo cerco, lo inseguo, ma non è una Presenza come lo puoi essere tu ora davanti a me. Capisco bene il Barabba di Lägerkvist, che, dopo avere girato a lungo attorno al Golgota, dice sconfitto: «Ho desiderato di credere». Per me, pure nel desiderio, Gesù Cristo resta spesso un fantasma.
Anche a me accadeva quello che tu dici, una volta. Ciò che ha dato concretezza a Cristo è stato il modo in cui mi ha guardato Giussani, il modo in cui mi ha tenuto con sé e accompagnato. Attraverso lo sguardo di don Giussani, Cristo è diventato una Presenza concreta accanto a me.
D’accordo, tu hai conosciuto Giussani, ma d’altra parte non a tutti quelli che hanno incontrato Giussani ne è venuta una uguale certezza di fede. Mentre tanti uomini non incontrano né Giussani né alcun testimone credibile di Cristo. Di loro, che ne è?
Credo che chi conosce un cristiano autentico e prosegue tranquillamente per il suo cammino sia un borghese, che ha in fondo sulla vita una domanda modesta. Quanto a quelli che non incontrano nessuno, penso che operi una sorta di selezione naturale in base all’intensità della domanda di senso. Se la domanda è davvero forte, un uomo cerca e cerca: finché non trova.
E questi ultimi sono dei prediletti? Esistono, i prediletti?
Che esistano, lo testimonia la Scrittura e sono quelli che Dio castiga di più, perché non smettano di cercarlo.
Hai detto due anni fa al Meeting: la depressione è una grazia. La depressione, come tu sai molto bene, è anche una profonda sofferenza. Grazia, dunque, perché?
Per me è stata ciò che mi ha spinto a cercare oltre i miei limiti, la mia miseria, la mia ideologia giovanile. In maniera anche atroce: per anni non ho dormito, avrei sbattuto la testa contro il muro per la disperazione, desideravo di morire. Ma la depressione è stata la ferita che ha tenuto aperta la mia domanda di Cristo. Oggi chiunque abbia una sofferenza psicologica ritiene di essere malato e va dal medico. Ma io non credo che siamo tutti malati. È che non sopportiamo ciò che tiene quella ferita aperta: che sia depressione, o una malattia, o anche magari l’innamorarci di qualcuno di cui non dovremmo. Vogliamo eliminare in fretta i problemi. Magari moralisticamente vogliamo essere “bravi”. Giussani su questo era radicale: mai invitava a tirarsi indietro, ma sempre ad andare a fondo, ad affrontare ciò che ci si poneva come sfida. A me disse: se dovessi non dormire per un anno, e questo servisse a tenere sveglia la tua domanda di Cristo, ti direi di non dormire. Invece ciò a cui tendiamo è soffocare le ferite, analgesizzarle e addormentare la domanda.
[Quest’uomo, pensi, è di una radicalità che affascina e fa paura.] Tu parli e mostri di vivere di un’unica ragione, Gesù Cristo. Ma prova a guardare alla vita della maggior parte degli uomini oggi, che sembrano fare di Cristo, dunque di un senso ultimo, a meno. Come giudichi tu uno che, non credendo in Dio, nella difficoltà o nella vecchiaia, o anche solo nel vuoto che percepisce, sia più o meno educatamente disperato?
Lo giudico ragionevole. La disperazione, in chi sia convinto di essere solo al mondo e di andare verso il nulla, mi sembra un segno di lucidità, di un non raccontarsi storie.
Dunque è un aut aut: o in Cristo, o non c’è nulla per cui vivere davvero.
Sì, è un aut aut.
Senti: ma se vent’anni fa, quando eri drammaticamente depresso, ti avessero preso e curato con i migliori psicofarmaci, se ti avessero “sistemato” e rasserenato, oggi come saresti?
Non so. Non sarei come ora e credo fermamente che Dio abbia “voluto” questo per fare ciò che ha fatto. Non avrei cercato come ho cercato. Ora posso dire che quella sofferenza, che è stata davvero grande, ha avuto un senso: nei moribondi che assisto, così come in tanti che mi scrivono chiedendo aiuto come a un padre. Ora posso capire le “notti dell’anima” di cui parlano alcuni santi. Capisco quel buio, che è un vuoto teso a provocare una più intensa domanda.
Ma allora dalla depressione non bisogna curarsi? Mi sembra un’idea pericolosa.
Sarei un masochista se rispondessi di no. Dio ci ha creato per essere felici, non per soffrire, e tanto meno per soffrire questa malattia esistenziale che toglie non solo il gusto, ma anche la voglia di vivere. Il problema è accogliere questa malattia, come del resto ogni altra, come una possibilità di redenzione, di purificazione, come occasione per dire con tutta la propria libertà “sì” a Cristo, guardandolo in faccia. Come la ragione e la fede camminano insieme, così anche la fede non può non favorire e sostenere tutte quelle possibilità che la medicina offre per alleviare o vincere il dolore, quando è possibile. Ricordando sempre però che, in questo mondo, il dolore come la morte accompagnano sempre l’uomo. Per cui l’unico senso del dolore lo si coglie guardando il Crocifisso e il Cristo risorto.
Sono tanti, padre Aldo, quelli che ti scrivono?
Tantissimi. Ho ricevuto, dal Meeting del 2008, migliaia di e-mail. È stato come se parlare di depressione in quel contesto, e affermare addirittura che la depressione potesse avere un senso buono, fosse come scoperchiare una pentola. Un’esplosione. Quanti, quelli che si sono sentiti autorizzati a domandare una parola sulla sofferenza e a chiedere consiglio. Tantissimi ragazzi. Mi commuovono i ragazzi: siamo abituati a dire che i giovani sono degli sfortunati. No, gli sfortunati sono i genitori, siamo noi, che gli abbiamo dato ben poco di buono. Loro sono figli uguali a quelli di ogni generazione e forse più assetati: sono, anzi, pura domanda.
Ci sono altre cose che non capisco. Scrivi sempre della tua casa ad Asunción e dei moribondi che vi trovano ricovero. Tu vedi dunque ogni giorno una quantità di dolore per me inimmaginabile. Come fai, di fronte a tanto dolore, a ritenere che la vita sia un bene, un dono di cui essere grati a Dio? (Io, da ragazza, pensavo che nascere fosse una disgrazia).
Anch’io per molto tempo ho pensato che la vita fosse un male e ho passato dei momenti in cui non riuscivo a stare davanti, se non con molta fatica, ai miei genitori, vedendo in loro, per il fatto di avermi messo al mondo, il fattore principale della mia sofferenza. Solo nell’abbraccio di Cristo, nell’abbraccio riconosciuto, ho capito finalmente che nascere è un dono.
Ma questo dono in che cosa consiste? Oggi, magari tacitamente, tanti dubitano che la vita sia un dono.
Che la vita sia un dono io non l’ho capito a priori, perché me l’hanno insegnato al catechismo; quando poi ho conosciuto il “male del vivere”, non ho più sopportato i discorsi sul “dono della vita”, anzi, li rifiutavo. Ho colto il dolore come un dono per me, solo quando ho fatto l’esperienza di quello che Giussani definiva «Io sono Tu che mi fai», cioè quando ho cominciato a guardare me stesso con gli occhi del Tu, del Mistero. Vedevo il mio Io fiorire e, intorno a me, crescerne i frutti nelle opere di carità che riempiono questa parrocchia. Solamente quando quel cumulo di macerie, che era il mio Io, è stato messo insieme dalla grazia di un incontro e, dopo lunghi anni di pazienza, ho cominciato a sorridermi, a guardarmi con simpatia; da lì è sbocciato tutto, come un dono imprevisto, come una letizia che mi accompagna.
Padre Aldo, tu non hai paura della morte?
Spero di morire come i miei malati: abbracciato.
Ma intendo il dopo, ciò che c’è dopo, l’Aldilà. Come lo pensi?
Credo che sia un ulteriore ed eterno domandare ed essere dissetati, senza fine. Domandare ed essere dissetati, in una dinamica continua di desiderio e appagamento. Altrimenti, il Paradiso sarebbe noioso. Sarà un domandare ed essere sempre di nuovo abbracciati. Però senza il dolore.
Che cosa pensi dello scandalo della pedofilia nella Chiesa?
Vedi, il fatto è che io non riesco a non provare pietà anche per i pedofili. Perché so, dalla mia esperienza ad Asunción, che spesso essi stessi sono figli di violenze. Perché credo che io stesso, se Dio non mi tenesse la mano sulla testa, potrei essere capace di grandi peccati. Chi ha piena coscienza della propria miseria non sa più accusare, puntare il dito e gridare alla lapidazione. Chi ha coscienza della propria miseria ha pietà.
Il diavolo per te chi è? Come opera sugli uomini?
Il Demonio, quello che insegnano la Scrittura e la Chiesa. Però preferisco non parlarne, non evocarlo. Troppo forte è la memoria degli incubi e delle ossessioni che mi hanno perseguitato per anni. Io prego ogni giorno Dio di morire senza fare male a me stesso, agli altri e alla Chiesa.
Ma tu non ti chiedi perché il dolore, perché il mondo è pieno di dolore?
Non credo che nessun uomo possa essere santo e nemmeno giungere alla sua maturità, senza il dolore, senza affrontare la sua croce. Non c’è scorciatoia: per di lì bisogna passare.
Io ho il terrore del dolore, dopo che ho perso mia sorella bambina. Ho il terrore che mi vengano tolti i miei figli.
Pensa, però, che Dio non ci chiede mai prove troppo grandi per un uomo, prove che quell’uomo non possa sopportare.
Certo, se Cristo fosse quella Presenza concreta di cui tu parli, questo cambierebbe davvero la vita. C’è sempre di mezzo questo fatto di “non vederlo”.
Tu dici che non vedi perché non puoi toccare e misurare, perché sei dentro, come tutti, alla nostra cultura positivista. Ma se tu guardi che cosa succede ai nostri malati che si convertono ad Asunción, sei costretto a dire che c’è in loro un’autentica guarigione. Allora, se opera, “c’è” (è vero); se opera, Cristo è vero.
Che cosa fa bene, che cosa cambia in meglio un uomo?
Secondo me, come mi ha insegnato mia madre, confessarsi spesso. La confessione cambia e guarisce. E l’Eucaristia cambia ontologicamente una persona: il corpo di Cristo in noi ci cambia.
Nella quotidianità, nel fare magari apparentemente banale di tutti i giorni, che cosa fa bene?
L’aderire alla realtà. Mai sfuggirla, mai rifugiarsi nei propri pensieri, chiudersi nella propria stanza, isolarsi. Stare di fronte alla realtà che ci è data, affrontarla. Osservare molto. A me faceva bene guardare gli alberi, le piante e descriverli per iscritto. Per uscire dalle mie ossessioni. Stare tenacemente nella realtà, che è la circostanza in cui Cristo ci si presenta in quel momento. Questo mi ha insegnato Giussani, ed è lo stesso sguardo che ritrovo in don Julián Carrón e in don Massimo Camisasca.
Zapatero continua... – dal sito http://www.libertaepersona.org
In Spagna, nel mezzo di una gravissima crisi economica e sociale, il governo socialista del leader Luis Zapatero ha inflitto al Paese un ulteriore durissimo colpo alla civiltà della vita. Dal 5 luglio è entrata in vigore la nuova normativa di riforma sull’aborto, che de facto rende lo stesso una banalissima pratica sciolta del tutto da ogni vincolo etico-morale di rispetto per la persona.
La legge del 1985 che depenalizzò l’aborto in Spagna, rendendo un diritto quello che fino ad allora era un delitto, prevedeva l’autorizzazione solo nelle ipotesi di malformazione del feto, gravi rischi per la salute psichica o fisica della madre, violenza sessuale. Questi pochi scrupoli di coscienza del legislatore sono stati spazzati via dalla riforma Zapatero, che sta suscitando una forte alzata di scudi in tutto il Paese, Partito Socialista compreso, a causa della evidente aggressività a-morale di stampo radicale eugenetico che la legge presenta. Vediamo i punti cardine succintamente.
Con la nuova legge si alza la soglia, fino a 14 settimane, entro cui la donna sarà assolutamente libera di scegliere la soppressione del feto. In caso di malformazione del feto, sarà possibile l’aborto fino alla 22ª settimana.
Addirittura, sfidando il ragionevole margine di errore della diagnostica clinica, la legge prevede che – ove venisse diagnostica una patologia incurabile o «incompatibile con la vita del feto» – sarà eliminato ogni limite all’aborto. Ma il punto ancora più preoccupante – per lo sfaldamento di ogni vincolo solidaristico e pubblico della legge – è il fatto che le minorenni, dai sedici anni in su, sono autorizzate ad abortire liberamente, senza più la necessità del parere vincolante dei genitori, ma dietro una mera comunicazione agli stessi: in altri termini, se per un verso il diritto civile ritiene il minorenne privo della capacità giuridica di agire per il semplice acquisto di un bene od una normale transazione patrimoniale – proprio in quanto minore – per converso lo ritiene pienamente capace di agire laddove disponga la soppressione di una vita umana.
La disumana aggressione di questa riforma ai pilastri giuridici della tutela della persona ha portato ad una sollevazione dell’opinione pubblica a più livelli. In Parlamento il Partito Popolare ha già sollevato un’eccezione di illegittimità costituzionale della legge e si auspica la sua possibile sospensione in via cautelare: infatti la Corte Costituzionale spagnola già con sentenza del 1985 aveva creato un precedente affermando che la vita del non nato (sic) sia un bene giuridico costituzionalmente protetto dall’art.50 della Costituzione, Magna Carta spagnola. La liberalizzazione del’aborto fino a 22 settimane lascia praticamente il bimbo in grembo privo di protezione, alla mercè della libertà assoluta della madre.
A livello regionale – essendo la Spagna un Paese che al pari dell’Italia ha introdotto una forte autonomia legislativa e amministrativa alle Generalitat (Regioni, ndr) – la Navarra ha già presentato ricorso costituzionale contro la riforma Zapatero. A livello sanitario diverse associazioni che rappresentano i medici contestano al governo il peso insopportabile di una responsabilità che non intendono assumere, ovvero la decisione di sopprimere il feto, in luogo dei genitori o in presenza di malformazioni gravi che pregiudicano la vita. Infine, la dichiarazione di principio della riforma Zapatero, secondo cui l’aborto rientra nei diritti fondamentali della persona, apre un gravissimo vulnus giuridico nel sistema occidentale, e ripropone una questione dirimente che troppi legislatori e politologi – anche e purtroppo nel mondo cattolico – affrontano con evidente disagio se non ritrosia: la affermazione forte e chiara del rapporto necessario tra norma e morale nello Stato laico. CR n.1152 del 24/7/2010
La "legge del buon samaritano" - Di Lorenzo Bertocchi - 28/07/2010 – dal sito http://www.libertaepersona.org
Quante volte da bambini ci siamo sentiti dire dalla mamma che “il cibo non si spreca”, quante volte a fatica abbiamo trangugiato il pasto per non “far soffrire chi non ha nulla”. A parte la retorica buonista i numeri però mostrano che la questione non è per niente banale, effettivamente le nostre società post-moderne sprecano veramente grandi quantità di generi alimentari.
Negli USA si butta qualcosa come il 40% del cibo prodotto, mentre in Italia si può dire che ogni giorno circa 4.000 tonnellate di cibo ancora “buono” finiscono tra i rifiuti: pane, ortofrutta, latte, formaggi e carne. A ciò poi si possono aggiungere frutta e verdura che restano direttamente nei campi, gli scarti dell’agro-industria, dei mercati ortofrutticoli all’ingrosso, nonché i ritiri di mercato per controllare i prezzi delle derrate agricole.
Le cause di questa situazione sono varie e complesse e sono di tipo culturale, economico, sociale e politico. Il solidarismo cristiano proprio in questo campo è particolarmente attivo, al punto che per alcuni questo sarebbe l’unico spazio tollerabile di “ingerenza” nel sociale della Chiesa. Non mancano sensibilità “laiche” al problema, infatti, ONLUS di varia estrazione operano un filantropismo fondato sulla bandiera dell’etica in economia, bandiera che spesso assume le vesti di un credo quasi religioso anche se limitato ad una prospettiva di “salvezza” soltanto materialistica.
In Italia da un punto di vista normativo il passaggio fondamentale per sbloccare questa situazione è stato l’approvazione della L. 155/2003, la cosiddetta “legge del buon samaritano”, emanata dal governo Berlusconi allora in carica: una legge improntata sulla logica della sussidiarietà. Prima di questa legge il problema “fame e spreco” era trattato o in riferimento al passato, o rispetto al tema più generale della “fame nel mondo”, ma mancava un riferimento che si ponesse in modo pragmatico e operativo. Curioso notare che l’iter legislativo partì da una mamma – Cecilia Canepa – che vedendo lo spreco nella mensa della scuola dei figli si mise in moto coinvolgendo la Fondazione Banco Alimentare Onlus e così si arrivò, nel giro di 18 mesi, a far varare dal Parlamento italiano la “legge del buon samaritano”. Con questa legge – la prima in Europa - aziende, mense scolastiche, ristoranti, supermercati, ecc., non sono più responsabili del corretto stato di conservazione, del trasporto, del deposito e infine dell’utilizzo degli alimenti “invenduti”, ma le responsabilità sono trasferite alle organizzazioni di volontariato che li offrono ai bisognosi. In buona sostanza, con l’abolizione di queste rigidità che paralizzavano le donazioni, si è voluto incentivare la beneficenza e ora le Onlus che effettuano senza scopo di lucro distribuzione di prodotti alimentari sono state equiparate ai consumatori finali. Per lo standard italiano questa legge ha anche un ulteriore pregio: unisce sintesi ed efficacia, infatti, ha un solo articolo di 5 righe, nessun regolamento attuativo, eppure, riesce a modificare la destinazione di tonnellate e tonnellate di generi alimentari.
Per dare una dimensione del fenomeno si può citare proprio l’esempio del Banco Alimentare che complessivamente nel 2009 ha raccolto qualcosa come 78.270 tonnellate di alimenti che sono stati ridistribuiti gratuitamente a 7.711 associazioni ed enti caritativi che assistono circa 1.300.000 poveri ed emarginati in Italia. Tutto ciò è permesso dall’opera di ben 1.244 volontari e soltanto 86 dipendenti; il Banco opera nel nostro paese dal 1989.
Va detto che c’è ancora molta strada da fare e nonostante alcune eccellenze la “legge del buon samaritano” è poco conosciuta e poco applicata: il livello degli scarti alimentari è ancora elevato, troppo elevato. Come diceva Madre Teresa di Calcutta: “Ciò che mi scandalizza non è che esistano poveri e ricchi, ma che esista lo spreco”
Forse non è una caso che l’approvazione di questa legge sia potuta avvenire grazie all’impegno del Banco Alimentare le cui radici cristiane sono note, infatti, se guardiamo alla storia i seguaci di Cristo hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nella difesa degli indigenti.
Questo ruolo è stato così importante che di fronte al rapido sviluppo dei cristiani l’imperatore Giuliano, in una lettera datata 362 d.C., scriveva ad un sacerdote pagano: “gli empi galilei non offrono sostegno solo ai loro poveri, ma anche ai nostri; tutti vedono che noi non diamo aiuto alla nostra gente” e si impegnò per lanciare delle istituzioni benefiche pagane nel tentativo di uguagliare i cristiani ed arginarne la diffusione. Insomma, fin da subito la testimonianza dell’amore fraterno fondato su quello del Cristo Crocifisso ha innescato una sorta di circolo virtuoso, anche se animato da una volontà di contrapposizione, segno del “lievito” inesorabile di un nuova realtà.
Il passo del Vangelo di Luca del “buon samaritano” nel corso della storia ha dato frutti meravigliosi ispirando a grandi santi istituzioni benefiche come ospedali, opere pie, case di accoglienza, mense per i poveri, monti di pietà, ecc.
Ad esempio il ‘400 italiano ha visto i frati minori osservanti percorrere le neo-nate città italiane contribuendo proprio alla stesura di codici e leggi utili ad organizzare le strutture civiche, informandole con il loro spirito cristiano profondamente attento al “bene comune”. Particolarmente interessanti risultano i Monti di Pietà in cui diritto, giustizia, morale e carità vanno a coniugarsi in un orizzonte evangelico: la caritas non è mera solidarietà, ma anche quando diventa prestito su pegno è sempre segno di un Amore ricambiato, cammino verso una “salvezza” al di là della vita terrena.
La L. 155/2003 - “legge del buon samaritano” – rappresenta un esempio di quanto ancora oggi quel “lievito” continui a far crescere il Vangelo nella vita sociale e culturale, perciò dovrebbe far riflettere quando in ambito politico si parla di solidarietà e di sussidiarietà. Dovrebbe far riflettere perché dimostra come più delle parole la buona politica si deve misurare sui fatti. La storia ci insegna qualcosa a proposito di questo “lievito” e l’apporto fondamentale che può dare al bene di tutti, credenti e non credenti. A buon intenditor poche parole.
Avvenire.it, 29 luglio 2010 - Un rapporto governativo Usa sui test genetici fa luce su favole e affari - Non è vero che tutto è già scritto. Ecco la conferma di ciò che sapevamo - Giacomo Samek Lodovici
Ieri, un giornale sono stati pubblicato anche in Italia i risultati di un rapporto del Government accountability office (Gao), un organismo governativo americano che ha smentito impietosamente l’attendibilità dei test genetici per conoscere il rischio di contrarre una malattia che ha componenti genetiche. Li ha resi noti "Repubblica", e ha fatto bene. La Gao ha inviato, infatti, un campione di Dna dello stesso soggetto a diversi laboratori ottenendo risultati contraddittori e ha poi mandato dei campioni di altri soggetti, di nuovo ricevendo previsioni molto contrastanti. È emerso, insomma, che questi test non sono per nulla affidabili e, a volte, procurano angoscia e terrore per previsioni infauste (per esempio di cancro) ma assolutamente infondate. Tutto ciò a caro prezzo: negli Stati Uniti il costo dei test oscilla tra i 300 ed i 1.000 dollari e il business per i signori di questo mercato dev’essere davvero cospicuo, visto che solo per pubblicità fa spendere ogni anno tre miliardi dollari; senza contare, ovviamente, che prospettare la spada di Damocle di una malattia è il modo migliore per vendere farmaci.
Le contraddizioni dei referti dipendono da molte cause: dal modo di interpretare i dati, dalla storia sanitaria familiare dei soggetti, dall’etnia di appartenenza (che determina una differente vulnerabilità alle patologie) e così via. Oltre a ciò, sull’insorgere di una malattia incidono anche le condizioni psichiche del soggetto, in forza di quella profonda unità che (a dispetto di tanti proclamati dualismi) caratterizza psiche e corpo. Inoltre, come ha detto al giornale romano Francesco Cavalli Sforza – filosofo nonché divulgatore nel campo della genetica –, anche quando le malattie hanno una forte causa ereditaria sono comunque connesse a fattori ambientali e alla storia individuale della persona. Così, per Cavalli Sforza, «nessun uomo è figlio solo dei suoi geni», il nostro destino non è scritto una volta per sempre nel Dna. Con le debite specificazioni, lo stesso discorso si potrebbe ripetere – lo ha fatto per esempio il neuroscienziato Filippo Tempia in un’intervista su "Avvenire" del 9 giugno – in merito all’influsso del cervello sul nostro comportamento.
Tornando alla questione genetica, preme sottolineare il tema della libertà perché si sente non di rado parlare del «gene della violenza», del «gene del tradimento», eccetera. Questi discorsi affermano che tutto il nostro agire è scritto nei geni, negano la libertà umana e quindi cancellano la nostra responsabilità morale (e, in fondo, anche giuridica). Tuttavia, con buona pace dei tentativi di dimostrare che l’uomo è una macchina, non è possibile ridurre l’essere umano alla sola componente biologica, perché noi siamo costituiti anche da una dimensione spirituale, quell’anima di cui parlano, già prima del cristianesimo, alcuni filosofi greci. Per dimostrarne l’esistenza esistono diversi argomenti filosofici, che il lettore può ricostruire anche su alcuni manuali di storia del pensiero. In definitiva, il nostro Dna può implicare delle predisposizioni, dei tratti caratteriali e temperamentali, ma, nondimeno, grazie allo spirito siamo in grado, almeno in una certa misura, di trascendere i condizionamenti, possiamo sperimentare la vertigine della libertà, siamo capaci di interrompere la prevedibilità e l’inderogabilità dei nessi fisici di causa-effetto e di dare inizio a qualcosa di nuovo. Come ha scritto la filosofa Hannah Arendt, agire significa incominciare e l’inizio dell’uomo «non è come l’inizio del mondo, non è l’inizio di qualcosa bensì di qualcuno, che è a sua volta un iniziatore».
Giacomo Samek Lodovici
Avvenire.it, 29 luglio 2010 - LA FORZA DELLA FEDE - «Così per Caterina abbiamo preso d’assalto il cielo» - Lucia Bellaspiga
«La mattina di quel 12 settembre ero baldanzoso come un bambino e non sapevo che Caterina, la mia Caterina, doveva morire quella sera stessa. Era scritto che alle 21,30 sarebbe finito il mondo. Per me. Per sempre. O sarebbe cominciato un nuovo mondo». Inizia così, senza preavviso (come la gran parte delle tragedie) la tragedia di Caterina Socci, studentessa 24enne il cui cuore una sera senza alcun motivo si stanca di battere. Mancano dodici giorni alla sua laurea e in famiglia la vita sembra procedere senza sussulti, addirittura gioiosa («Non c’è nessuno più felice al mondo!», afferma quel mattino suo padre), tanto che la madre, con il buon senso di tutte le Cassandre, sorride allarmata: «Non dirlo, per carità... Non si sa mai cosa ci riserva la vita». E difatti quella sera di quasi un anno fa «il telefono squillò alle 21,30».
Comincia con uno squillo di telefono la gran parte delle storie di ragazzi (sono migliaia in Italia) che, per un incidente d’auto o uno scherzo del cuore, cadono in stato vegetativo. E con la sentenza di medici che non lasciano speranza: «Le hanno tentate tutte per rianimarla, ormai stanno mollando»...
In "Caterina, diario di un padre nella tempesta" (Rizzoli) Antonio Socci, noto giornalista, racconta il travaglio di questa sua figlia teneramente amata, ma è subito evidente che la cronaca del suo calvario è solo un pretesto per dire molto di più: di quanto accade nel letto di Caterina si sa poco, lo stretto indispensabile (dal primo capitolo, quando leggiamo che incredibilmente dopo un’ora e mezza il suo cuore si è rimesso in moto, solo a pagina 189 scopriamo che oggi "si è svegliata dal coma ed è cosciente"). Caterina non è la protagonista, è l’espediente: il perno, il motore immobile intorno al quale si genera il vero miracolo da raccontare.
Da quel 12 settembre 2009, infatti, un popolo immenso si è mosso attorno a lei, migliaia di persone che non l’hanno mai conosciuta hanno rivolto una supplica a Dio, hanno camminato accanto a un padre e una madre nella tempesta. Più di uno addirittura (e sono le lettere più toccanti) essendo malato terminale ha offerto le proprie sofferenze in cambio della guarigione di Caterina, qualcun altro i suoi ultimi mesi di vita purché lei riaprisse gli occhi. «Ho chiesto a Gesù di darmi la vostra croce per un po’. Vorrei essere il vostro cireneo», ha osato una madre.
Socci racconta tutto questo con commosso stupore, certo del fatto che il sacrificio di Caterina (e di tanti altri figli come lei) è origine e causa di insperate conversioni: «Quale mondo perverso stanno salvando i ragazzi e le ragazze crocifissi in questo reparto di rianimazione?». Non vite inutili, dunque, ma «le truppe scelte da Gesù in persona, i temerari, gli avventurieri del suo amore sconfinato».
All’indomani dell’arresto cardiaco, mentre di ora in ora la paura della morte lascia spazio a un incubo non meno spaventoso, quello di «danni immensi, devastanti, probabilmente irrecuperabili», è Socci stesso che chiama a raccolta chiunque possa offrire la forza della preghiera, ma poi la marea monta spontanea: ottomila e-mail irrompono nel suo blog, gli raccontano di figli che ce l’hanno fatta contro ogni previsione dei medici, lo implorano di non cedere, gli offrono la propria preghiera anche di non credenti ("Un giorno, quando potrò, racconterò quante persone che si dicono atee o agnostiche, per tenerezza verso Caterina, in queste ore hanno ricominciato a pregare", scrive Socci).
Ce lo ripete al telefono, seduto accanto a lei: «La mia figlia crocifissa ha convertito tante persone». E prima di tutti ha convertito lui, fervente cattolico ma «fino a quel 12 settembre diverso da oggi». La cosa che ha più imparato in questi mesi «è a prendere alla lettera l’insistenza di Gesù che nel Vangelo ci dice di chiedere, di importunarlo per essere esauditi. Gesù si fa strappare letteralmente i miracoli, a iniziare da Cana quando a insistere è Maria. Prima io supplicavo, chiedevo grazie, ma in fondo restava sempre un atomo di scetticismo, quasi che la preghiera fosse un messaggio in bottiglia gettato nel mare... Fino al 12 settembre pensavo: lui può tutto, se vuole la guarirà. Ora invece mi sono fatto mendicante, chiederò e busserò fino all’ultimo respiro. È questa la mia conversione». C’è un uomo più potente di Dio - ricorda il Curato d’Ars -, ed è l’uomo che prega. "Il regno dei Cieli appartiene ai violenti", ci provoca il Vangelo. «Dunque noi abbiamo preso d’assalto il Cielo», confessa Socci.
Attraverso le tante lettere che riporta, incontriamo un numero impressionante di storie di speranza, di figli dati per persi dalla neurologia e invece risvegliati ("Ai medici disperati io rispondevo con una totale fiducia nel loro lavoro - scrive una madre -, li incoraggiavo dicendo che stavo pregando per loro, per le loro mani"), o invece di genitori che in silenzio, senza apparire sui giornali, eroicamente amano i loro ragazzi addormentati, senza aspettarsi in cambio neanche un battito di ciglia. «Sono loro che mi hanno consolato, mi hanno scritto di lottare anche contro l’evidenza, di pregare da mattina a sera. Non immaginavo potesse esistere qualcosa del genere».
È soprattutto per loro che è nato questo libro (50mila copie e cinque edizioni nelle prime due settimane), «per ringraziare i tantissimi cui non ho potuto rispondere - spiega Socci -. E poi per restituire un patrimonio di testimonianze che non potevo tenere solo per me, perché tanti altri genitori hanno bisogno di sapere che quando tutto sembra perduto c’è ancora qualcosa da fare, pregare, pregare e pregare». Ma anche per far conoscere quegli eroi silenziosi, «genitori speciali che portano croci incredibili». Infine tendere una mano concreta ai sofferenti: «Il dolore del mondo è un oceano sconfinato. Se facciamo la nostra piccola parte, al resto pensa la Madre dolce e benedetta. Con i diritti d’autore di questo libro aiuterò, finché avrò respiro, opere missionarie e di carità».
Col suo risveglio Caterina ha contraddetto la scienza. Poi lo ha rifatto pronunciando una notte la parola della rinascita, «mamma».
Ora la battaglia resta lunga e difficile, ogni giorno forse un piccolo progresso, «ma l’unica cosa certa è il lieto fine, perché vince sempre Lui», conclude suo padre. «Comunque vada». Anche se Caterina restasse inchiodata per sempre al suo letto, incapace più di cantare come faceva una volta, di correre o anche solo di vedere. Ferma sempre a dodici giorni dalla sua laurea. Parole vertiginose, «così pesanti da dire...», ma che grondano dolore e magnificenza. La lezione, ancora una volta, gli viene da Caterina, che alla scomparsa di don Giussani aveva scritto l’unica verità: la morte non ha l’ultima parola.
Lucia Bellaspiga
Avvenire.it, 29 luglio 2010 – diritti - Catanzaro, esclusa da concorso perché incinta: tar annulla graduatoria
Sentenza storica del Tar di Catanzaro nella lotta alle discriminazioni e per l'affermazione del principio di pari opportunità per uomini e donne in materia di accesso al lavoro: su ricorso presentato dalla lavoratrice e con l'intervento ad adiuvandum della consigliera regionale di parità della Calabria Stella Ciarletta il Tribunale Amministrativo Regionale ha disposto l'annullamento della graduatoria del concorso pubblico per titoli ed esami per la copertura di 2 posti come dirigente biologo presso l'Arpacal, nonchè dei provvedimenti amministrativi con i quali l'Amministrazione ha escluso la ricorrente dalla prova orale in quanto in stato di gravidanza, violando così un principio costituzionale nonchè la normativa in vigore in materia di pari opportunità e contrasto alle discriminazioni di genere, contenuta nel Codice sulle Pari Opportunità tra uomo e donna.
«La sentenza - secondo la consigliera - assume un significato strategico, condannando una grave discriminazione operata dalla Commissione nell'escludere la concorrente dal concorso solo perchè in stato di gravidanza. È importante ricostruire brevemente i fatti: la dottoressa si iscrive al concorso e, superata la prova scritta, viene ammessa all'orale; la data di convocazione coincide con il periodo del parto e la concorrente chiede di posticipare l'orale a un giorno successivo. La Commissione esclude tale possibilità, ma concede di poter effettuare l'esame lo stesso giorno ma in un'altra sede più vicina alla donna, e malgrado la stessa accetti, suo malgrado, tale proposta, non le viene mai comunicata la sede dell'esame e, ironia della sorte, partorisce proprio il giorno prima. Dopo di che il silenzio dell'Amministrazione, che si interrompe solo con la pubblicazione della graduatoria finale del concorso».
È evidente come la Commissione abbia ignorato le legittime richieste della concorrente, andando in aperto contrasto con i principi costituzionali di parità uomo donna sul lavoro e in particolare del Codice Pari Opportunità laddove vieta, all'art. 27, trattamenti discriminatori nell'accesso al lavoro. In tal senso, scrive il Tar nel provvedimento "l'applicazione concreta di tali enunciazioni imponeva, nella specie, alla
Commissione di consentire alla ricorrente di svolgere la prova orale successivamente al parto e nel rispetto delle condizioni di salute della madre e del bambino».