martedì 27 luglio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Dalla_stampa: Spagna, primo aborto «segreto» per legge - Michela Coricelli - Avvenire 21-7-2010
2) Un metodo infallibile - Come rinnovare la teologia - di Inos Biffi - (©L'Osservatore Romano - 26-27 luglio 2010)
3) Avvenire.it, 27 luglio 2010 - Oltre la secolarizzazione - Il segno di Duisburg nell’Europa che rivuole catacombe - Davide Rondoni
4) L’ERRORE DI NUSSBAUM CHE PARLA DI «PRIVILEGIO» ANTI-OMOSESSUALE - Per lo Stato il matrimonio ha rilevanza sociale non sentimentale - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 27 luglio 2010
5) IL CINEMA DEI VALORI - In Usa «Blind Side» ha avuto incassi da capogiro e fatto vincere a Sandra Bullock il premio più ambito. Da noi esce solo in dvd. Racconta di un campione di football diventato tale grazie ad una famiglia che l’ha adottato - Il film Oscar sulle adozioni in Italia non si può vedere - Unica proiezione al Fiuggi Family Festival - La tesi della Warner Italia: «È una storia ambientata nel mondo dello sport e da noi certe pellicole non fanno incassi» - DI ILARIO LOMBARDO - Avvenire, 27 luglio 2010

Dalla_stampa: Spagna, primo aborto «segreto» per legge - Michela Coricelli - Avvenire 21-7-2010
Madrid. Si è presentata in una clinica di Barcellona per abortire.
Sola.
I suoi non sanno nulla.
E forse non sapranno mai che la loro ragazza – a 17 anni – la scorsa settimana ha deciso di interrompere una gravidanza senza neppure avvertirli.
È stato il quotidiano La Razon a rivelare la storia (ovviamente del tutto anonima) del primo aborto compiuto in Spagna da una minorenne che non ha informato né genitori né tutori.
Lo prevede la nuova legge del governo di José Luis Rodriguez Zapatero, entrata in vigore il 5 luglio.
Contro la depenalizzazione continuano a fioccare le critiche, soprattutto nel mondo cattolico.
In una lettera pastorale, l’arcivescovo di Burgos, monsignor Francisco Gil Hellin, l’ha definita come una «tirannia» che, «solo in Spagna, ha distrutto più persone delle popolazioni di Saragozza, Cordova e Burgos».
In riferimento all’obiezione di coscienza, l’arcivescovo aggiunge: «Questa legge non è una legge», nessuno «ha il diritto di eliminare un innocente. Dunque, non obbliga. Al contrario, esige un’opposizione frontale e senza distinzioni».
Uno dei punti più spinosi del testo riguarda proprio le minorenni.
A 16 e 17 anni non hanno più bisogno dell’autorizzazione di madre o padre per fermare una gravidanza: vengono trattate a tutti gli effetti come delle donne adulte, nonostante la legge spagnola proibisca loro di comprare un pacchetto di sigarette.
I genitori, in teoria, devono essere informati.
Ma ci sono delle eccezioni: se c’è il rischio di «conflitto» – qualora l’intenzione di abortire generasse violenze o pressioni in casa – l’adolescente non sarà nemmeno obbligata ad avvertire i suoi.
Dovrà soltanto spiegare la sua vicenda al medico, che a sua volta potrà ricorrere ad un assistente sociale o psicologo per capire realmente se dice la verità.
È quello che è accaduto qualche giorno fa a Barcellona.
La 17enne ha parlato di «un conflitto» in casa.
Il medico ha chiamato un assistente sociale, che ha studiato il caso e ha visitato il quartiere della ragazza; qualche giorno dopo ha diagnosticato una «situazione familiare di conflitto» e lo ha detto al ginecologo, che ha deciso di procedere senza informare i genitori.
Michela Coricelli - Avvenire 21-7-2010


Un metodo infallibile - Come rinnovare la teologia - di Inos Biffi - (©L'Osservatore Romano - 26-27 luglio 2010)
Se alla genesi della teologia sta il mistero cristiano, ed essa si può definire come "intelletto della fede", non è pensabile che in una determinata epoca la si possa completamente rifare. Nella diversità dei tempi essa viene alimentata da una tradizione ininterrotta di contenuti e anche di linguaggio, che non ammette discontinuità drastiche e rivoluzionarie, pena la perdita dell'identità. È lecito almeno nutrire qualche perplessità di fronte a un teologo che sia persuaso di proporre dottrine teologiche inusitate e singolari, non mai insegnate prima di lui.
Non per questo, tuttavia, la teologia è destinata a una pura ripetizione. La storia stessa della teologia mostra quanto, senza spezzare la continuità, essa si sia variamente e anche profondamente rinnovata, ma non per aver in certo modo occultato o disatteso il mistero; al contrario, per averlo lasciato emergere con più forza e coerenza.
La teologia non si lascia impressionare e condizionare dal mito del divenire e del progresso, consapevole com'è che essa è nata e di continuo rinasce dalle risorse inesauste e immodificabili della Rivelazione che si è compiuta e non si logora, dalla comunione con la Parola di Dio, antica e sempre nuova.
È anche vero che al rinnovamento della teologia può concorrere una nuova filosofia, ma a condizione che essa offra, per così dire, uno spazio più aperto alla prevalenza e all'intelligenza del mistero e che venga esercitata all'interno dell'"intelletto della fede".
È significativo che il geniale storico della teologia medievale, Marie-Dominique Chenu, affermi che "non è l'ingresso di Aristotele a determinare il pensiero di san Tommaso, così come non è la rinascita dell'Antichità a costituire la teologia del secolo xiii". Questa rinascita ne rappresenta soltanto una componente di rinnovamento: il suo impulso e il suo incremento sono assegnati all'"evangelismo", come egli lo chiama.
Senza dire che non potrà mai essere la filosofia a giudicare la validità di una teologia: questo giudizio spetta solo alla Parola di Dio, mentre la stessa teologia potrà giudicare la pertinenza o meno di una filosofia a concorrere all'intelligenza della fede.
Qui, però, non ci interessa illustrare la relazione tra filosofia e teologia cristiana, ma indicare la scelta grazie alla quale questa potrebbe e dovrebbe ricevere un profondo rinnovamento o nuovo assestamento: una scelta del resto imprescindibile, perché fondata sull'evento da cui nasce la fede e quindi l'"intelletto della fede". Questa via è il cristocentrismo. Veramente, non si tratta affatto di una novità. La teologia cristiana ha sempre avuto al suo centro Gesù Cristo; è nata e si è sviluppata dal suo evento.
Ma forse questa originaria centralità richiede una traduzione più rigorosa, più coerente e più completa. Anzitutto a partire dalla stessa definizione di cristocentrismo.
Esso non significa soltanto l'eccellenza di Cristo rispetto a tutto il resto, ma la sua predestinazione a essere la ragione incondizionata di tutto quello che Dio ha chiamato e chiama all'esistenza.
Ma occorrono altre imprescindibili e essenziali precisazioni. Quando si parla di cristocentrismo, non si intende solo affermare il primato del Verbo, ma il primato o la "precedenza" nel disegno di Dio del Verbo incarnato, morto e risuscitato mediante il quale, nel quale e in vista del quale, "furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili" (Colossesi, 1, 15-17). Ovviamente, non in alternativa ma come a compimento della prospettiva giovannea, secondo la quale non v'è nulla che non sia stato fatto per mezzo del Verbo (Giovanni, 1, 3).
Il "Primeggiante su tutte le cose" (Colossesi, 1, 18) è, esattamente, il Crocifisso glorificato, che tutto antecede, e da cui tutto diparte. È come dire che Gesù redentore, con la grazia del suo perdono, è il fondamento ontologico e il movente storico di ogni cosa (cfr. Colossesi, 1, 17), l'Oggetto dell'eterno "proposito" di Dio.
La Prima Lettera di Pietro parla del "sangue prezioso di Cristo, agnello senza macchia", "predestinato già prima della fondazione del mondo", "manifestato negli ultimi tempi" (1, 19-20), e quanto ai profeti afferma che "cercavano di sapere quale momento e quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che sarebbero seguite" (1, 11). Ma se Gesù risorto da morte è il Predestinato, vuol dire che la figura di umanità originariamente ideata e "preferita" da Dio è l'umanità glorificata del Figlio, al cui successo è orientata tutta la storia.
In essa ogni umanità trova la sua ragione e il suo modello: tutti gli uomini sono predestinati, creati "in grazia", ossia "predestinati a essere conformi all'immagine del Figlio, perché egli sia il primogenito di molti fratelli" (Romani, 8, 29).
Noi possiamo definire tutto quanto abbiamo descritto coi termini di Paolo: "Mistero di Dio che è Cristo" (Colossesi, 2, 2), o più precisamente: "Sapiente mistero di Dio", che è "Cristo crocifisso" (cfr. 1 Corinzi, 1, 21. 23). Ebbene, il compito della teologia è l'esplorazione di questo mistero. Chi vi si dedica ha la missione di "parlare della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli" (1 Corinzi, 2, 7).
È da questo "realismo" e su di esso che si edifica la teologia cristiana, a cui non interessa stemperarsi nel mondo dei piani o dei disegni divini ipotetici. Quello che avrebbe potuto fare Dio lo sa soltanto lui. Tutto è stato creato nella grazia di Gesù crocifisso e risorto.
In particolare è stata motivata su quella grazia la natura dell'uomo. Una "natura pura" per un "puro" fine "naturale" non è mai esistita e di essa noi non possiamo sapere nulla.
Di fatto, l'"Originale" che alla sacra dottrina importa anzitutto conoscere e, quindi, il primo àmbito dell'interesse teologico, è il Crocifisso glorioso da sempre Predestinato, e, quindi, la sua vita con i suoi avvenimenti, nei quali avviene la manifestazione, si potrebbe dire, particolareggiata dell'eterno disegno generato e motivato dalla misericordia.
In questo senso la teologia cristiana è originariamente cristica: il Cristo risorto da morte descrive e offre esaurientemente tutto il suo oggetto. Egli è l'Oggetto che si tratta di capire, in quanto concreta e storica "narrazione" del disegno (cfr. Giovanni, 1, 18). È la dimensione che la cristologia deve assumere.
Ma Cristo non ferma a sé: egli è il Figlio e, perciò, è il rimando al Padre, che nessuno ha veduto e del quale è l'Epifania ed è l'attestazione dello Spirito: in lui si ritrova la Trinità, che si rivela come Trinità creatrice e misericordiosa, che sta al principio di un ordine voluto come una iniziativa di misericordia. È l'ordine che il teologo è chiamato a studiare, che riguarda particolarmente l'uomo, che appare però preceduto, prima della sua creazione, da un mondo angelico già segnato da Cristo e dalle decisioni relative a lui: di accoglienza, ma anche di rigetto, ossia di peccato.
In particolare, Cristo ci disvela un Dio che, nel suo amore misericordioso, dona il Figlio, predisposto come perdono del peccato dell'uomo, il quale trova, così, il suo vantaggio non nel venire al mondo, ma nell'essere redento. Come scrive sant'Ambrogio: Non prodesset nasci, nisi redimi profuisset (Expositio evangelii secundum Lucam, ii, 41-42 ).
La sacra dottrina tratta allora dell'antropologia, cioè dell'uomo esistente unicamente come disposto nella grazia e nella gloria della Croce: una grazia e una gloria in atto nei sacramenti, che Tommaso d'Aquino vede tutta quanta sospesa all'"energia della passione di Cristo" (Summa Theologiae, iii, 62, 5, c). È facile allora avvertire di che cosa tratti l'ecclesiologia: esattamente dell'umanità che sale dalla Pasqua di Cristo e si trova configurata e intimamente associata al Signore risorto da morte. Quanto all'escatologia, essa è l'esplorazione della gloria e quindi del successo del Crocifisso: una gloria che trascende e attrae la storia ed è il fine per cui l'uomo e con lui tutte le cose sono state create e volute dall'eternità.
Se è vero che la teologia cristiana ha sempre fatto questo, riterrei tuttavia che sia possibile, anzi necessario, ricentrarla in modo ancora più coerente e approfondito sul cristocentrismo. Ne verrebbe un forte mirabile impulso di rinnovamento, che vanamente si ricercherebbe altrove.
(©L'Osservatore Romano - 26-27 luglio 2010)


Avvenire.it, 27 luglio 2010 - Oltre la secolarizzazione - Il segno di Duisburg nell’Europa che rivuole catacombe - Davide Rondoni
La parata dell’amore, la <+corsivo>love parade<+tondo> si è trasformata in un incubo. In una tragedia. Come se nell’inutile, vano macello di questi poveri ragazzi, tra cui una italiana – bella e sensibile – di 21 anni, ci fosse un marchio strano, un avviso strano di questa epoca strana. Come in altri casi, ad esempio nell’indimenticato stadio Heysel, lo show è andato avanti.

Dopo molte ore, molti delle migliaia dei ragazzi partecipanti non sapevano nulla di quanto accaduto, storditi dal ballo, dal bere e da altro. Ma l’avviso, il segno che leggiamo dentro questo ballare che si trasforma in morte, dentro questa parata che da eccitante si fa morente, non è quello immediato, evidente che hanno colto subito gli stessi organizzatori. Che hanno deciso: mai più. Non è solo un segno, ennesimo, di «eccesso giovanile» su cui non è giusto speculare. E non si tratta solo del segno che qualcuno ha chiamato del fascino della «tribù».

È vero, c’è in questo potente richiamo a radunarsi, a "sentirsi" vicini, a condividere ritmo e corpo, a condividere modi e gergo, sì c’è un segno dell’ancestrale richiamo degli uomini a fare tribù. Richiamo che le esperienze e i mezzi della globalizzazione, la coscienza delle distanze e dei rapidi modi per superarle, non hanno illanguidito, semmai fortificato e reso potente, più esplosivo. Ma c’è di più di quell’antico segno. La parade è un corteo. Una processione. So che storceranno il naso. Ma è così. Si tratta di una ripresa della usanza antica che, sempre a sfondo religioso, ha mosso cortei di ogni genere, per celebrare dei, imperatori o generali che si credono dei, per ringraziare il cielo di vittorie, per supplicare interventi celesti, per la fine di calamità, o per l’arrivo delle piogge.

È un grande rito. Secolarizzato, come dicono, con una parola che vuol dire poco o niente. Che cosa ormai è secolare e cosa no? Davvero ci sono differenze, in questa epoca di suggestioni e di superstizioni?

Il fatto è proprio questo, il segno purtroppo scritto anche con il sangue, come sempre accade quando la nostra attenzione intorpidita deve riscuotersi e guardare. Un grande rito nel cuore d’Europa. Un grande rito che somiglia (nella sua eccezionale differenza) ai grandi ritrovi dei giovani lanciati da Giovanni Paolo II – ancora storceranno il naso quelli di prima. Un rito di una «tribù» che ha come dei le immagini dell’Amore, della Musica, e della loro medesima Tribù. Come antichissimi riti. Che segno, che avviso per coloro che pensano che l’uomo sia progredito abbandonando quei culti e quei riti.

Che segno per coloro che anche sulla pagine dei nostri giornali e nei parlamenti europei si consumano il cervello per mostrare che credere in Gesù Cristo e mostrare segni cristiani sia oscuro e antidemocratico mentre avere altre fedi, altre superstizioni, e sì, altri riti e "parate" no? Che avviso, che segno per tali cervelli torbidi e oziosi. La loro lotta senza quartiere al cristianesimo, alla Croce e al Crocifisso, punta a far scomparire o a far rientrare nelle catacombe i riti cristiani, le processioni, le preghiere. E se si faranno largo – e già si fanno largo – altre processioni, altri riti, uomini dediti ad altri dei?

Altro che secolarizzazione. Come per i primi cristiani si tratta di vivere in un mondo pieno di adoratori. Di riti strani, dai risvolti spesso violenti, di poteri oscuri. Questo il segno che arriva da Duisburg. Lo stiamo leggendo?
Davide Rondoni


L’ERRORE DI NUSSBAUM CHE PARLA DI «PRIVILEGIO» ANTI-OMOSESSUALE - Per lo Stato il matrimonio ha rilevanza sociale non sentimentale - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 27 luglio 2010
Interrogata, nel corso di un’intervista, se avesse intenzione di risposarsi, Martha Nussbaum – tra le filosofe più in voga del momento e non solo negli Usa – elude la domanda, trasformando la risposta in un’indicazione ideologica: qualora tornasse a sposarsi, essa ci dice, cercherebbe di non perdere la consapevolezza di usufruire in tal modo di un «privilegio», negato alle coppie formate da persone dello stesso sesso.

Ciò che è rilevante in questa risposta non è l’evidente apertura al matrimonio tra omosessuali, ma l’argomento addotto per tale apertura: ritenere il matrimonio eterosessuale un privilegio, che, come tutti i privilegi, andrebbe rimosso, estendendo i benefici di questo istituto a tutti coloro che ne sono esclusi. Ora, che i privilegi siano sempre odiosi e vadano combattuti, va da sé ed è inutile insistere su questo punto. Meno inutile, forse, è ricordare ciò che la Nussbaum sembra aver dimenticato e cioè che i privilegi si combattono non solo estendendoli a chi non ne fruisca, ma anche, ben più semplicemente, abolendoli (come è avvenuto ad esempio in Italia quando quelle antichissime forme di privilegio che si sostanziavano nei titoli nobiliari vennero abolite dalla nuova Costituzione repubblicana).

Se il matrimonio, paradossalmente, venisse abolito (o se se ne cancellasse il rilievo pubblico), gli omosessuali non avrebbe più nulla di che dolersi e quindi più nulla da rivendicare. Ma il vero cuore della questione non è nemmeno questo. Sta, piuttosto, nel fatto stesso che la Nussbaum qualifichi come privilegio il matrimonio eterosessuale. Qui i conti non tornano.

Per ritenere che lo status coniugale costituisca un indebito privilegio a favore degli eterosessuali bisogna infatti ipotizzare che dal matrimonio scaturiscano per i coniugi vantaggi e utili sociali tali da discriminare coloro che dal matrimonio sono esclusi, come appunto gli omosessuali. La verità sta piuttosto nel contrario: è nei confronti dei coniugi che la legislazione moderna in tema di diritto di famiglia tende a mostrare un volto di assoluto rigore, soprattutto quando il matrimonio va in crisi e bisogna regolare le micidiali pendenze economiche e sociali che nascono dal divorzio. Se così non fosse, non si spiegherebbe il dilagare delle convivenze di fatto e la vistosa 'dematrimonializzazione' che caratterizza tutti i Paesi occidentali.

In realtà, ciò che gli omosessuali richiedono non è di poter godere di vantaggi e utili sociali, cioè di una serie di ipotetici privilegi oggi loro negati, ma di uno statuto simbolico, avvalorato pubblicamente dal diritto dello Stato.

Ora, lo Stato non esiste per venire incontro alle esigenze simboliche dei cittadini. Quando le soddisfa è solo perché queste esigenze simboliche corrispondono a esigenze oggettive del bene comune. Così, ad esempio, si può ritenere giusto che una laurea abbia un riconoscimento pubblico (cioè un valore legale), ma non per soddisfare il narcisismo dei laureati, bensì per garantire la società in merito alle specifiche competenze di chi svolga un’attività professionale. Se un uomo e una donna, sposandosi, acquistano il titolo simbolico di coniugi è perché lo Stato ritiene (e ha sempre riconosciuto) lodevole e meritevole di rilievo pubblico non tanto un qualsiasi rapporto affettivo, per quanto intenso, ma lo specifico impegno familiare, procreativo, reciproco e incondizionato di un uomo e di una donna, perché è solo su questo impegno che si fonda l’ordine delle generazioni – e fino ad oggi non si è mai riusciti a dimostrare il contrario.

Nessuno vuol sostenere che ciò che manca al rapporto tra omosessuali sia l’autenticità dei sentimenti (che peraltro può benissimo essere carente anche nel matrimonio eterosessuale): ciò che gli manca è un’obiettiva rilevanza sociale e generazionale. Che questo venga sempre meno capito al giorno d’oggi, anche da parte di un’intellettuale raffinata come Martha Nussbaum, è un segno non piccolo della crisi antropologica della modernità.


IL CINEMA DEI VALORI - In Usa «Blind Side» ha avuto incassi da capogiro e fatto vincere a Sandra Bullock il premio più ambito. Da noi esce solo in dvd. Racconta di un campione di football diventato tale grazie ad una famiglia che l’ha adottato - Il film Oscar sulle adozioni in Italia non si può vedere - Unica proiezione al Fiuggi Family Festival - La tesi della Warner Italia: «È una storia ambientata nel mondo dello sport e da noi certe pellicole non fanno incassi» - DI ILARIO LOMBARDO - Avvenire, 27 luglio 2010

La domanda sorge spontanea: com’è possibi le che un film campione d’incassi negli Stati Uniti, forte di un Oscar per la migliore attri ce protagonista, sia proiettato solo al Fiuggi Fa mily Festival e non trovi spazio nei nostri cinema? «Magie» della distribuzione all’italiana, capace i nizialmente di rifiutare perché «deprimente» un film come The Road , tratto dal l’omonimo romanzo di Cormac McCarthy, considerato un ca polavoro della letteratura con­temporanea. Ma qui, si è anda to oltre. The Blind Side , il film che ha premiato Sandra Bullock, in un inedito ruolo drammatico, prima con il Golden Globe e poi con l’Oscar, che ha fatto com muovere famiglie di americani con quella storia, vera, di un gigante buono del football americano e ha rastrellato 255 milioni di euro, quarto incasso assoluto della stagione, in I talia è disponibile solo in dvd, dopo una fugace apparizione su Mediaset Premium. Una scelta in controtendenza, per la pellicola che, nata dal nul la, al botteghino ha scalzato in America addirittu ra i teen vampiri amati da orde di adolescenti, di

Twilight: New Moon.

Resta la domanda. perché questo film che parla di sport e adozione non è degno di arrivare nei cine ma italiani? «D’accordo con la società produttrice del film – ha raccontato Paolo Ferrari, presidente di Warner Bros Italia – abbiamo ritenuto che il sog getto fosse poco adatto al pubblico italiano, che ha sempre mostrato di gradire poco i film sullo sport e in particolare sulle discipline, come il football a mericano, sconosciute nel nostro paese. L’investi mento promozionale per lanciare un film sul mer cato delle sale è diventato gravoso e le previsioni di incasso per Blind Side sconsigliavano di ri schiare

». Insomma, secondo al Warner, agli italiani, popo lo che vive di pane e calcio, non piacciono i film sullo sport. Eppure Invictus di Clint Eastwood, sembra dimostrare il contrario. Quel film, dove il rugby è uno strumento di lotta politica, dove non si gioca soltanto una partita ma si raccontano e mozioni e storie individuali, o collettive (il Suda frica di Mandela) da noi è andato molto bene. E non è l’unico.

Anche in The Blind Side il football è un pretesto. Anzi è il contesto, dentro cui si dibatte il destino di Michael Oher, un grattacielo d’uomo, campio ne dei Baltimore Ravens. Oggi, a soli 24 anni, la sua storia è diventata un libro e un film. La storia di un ragazzo afroamericano di Memphis, orfano di padre e con una madre tossicodipendente, che non ha nulla, se non un futuro di degrado e la staz za per fendere il quadrilatero verde. Alle soglie di un destino senza destino lo salva Leigh Anne Tuohy (Sandra Bullock appunto), assieme al marito e a due figlie. Reginetta della commedia sentimenta le per un’intera generazione, l’attrice ha abban donato impacci romantici e buf fi corteggiamenti, per un ruolo che lei stessa ha definito «impe gnato e impegnativo»: «Ha su bito avuto un significato molto importante per me: perché par la delle mamme, che si occupa no sempre dei figli, naturali o a­dottati, e non importa da dove vengono».

Anne apre la propria casa di bianchi benestanti a quel bambinone triste di co­lore. Lo adottano, gli pagano gli studi, lo seguono e gli fanno coltivare il suo sogno, racchiuso in po tenza nel suo talento innato: il football. Michael a vrà la ribalta, ma soprattutto avrà una famiglia. È la quinta essenza dell’american dream , nella sua versione caritatevole. Il razzismo della povertà bat tuto dalla pietà e dallo sport che è sfida, conqui sta e successo. E, anche se spesso ci sfugge di men te, solidarietà.