Nella rassegna stampa di oggi:
1) La Madre di Dio e il Palio di Siena - Antonio Socci - da Libero, 1 luglio 2010 - A Siena sta accadendo qualcosa di grave, dal punto di vista spirituale e simbolico, perpetrato dall’establishment cittadino, (post) comunista, con l’avallo dell’arcivescovo.
2) SPAGNA: INCONTRO A FAVORE DELLA VITA DAVANTI AL TRIBUNALE COSTITUZIONALE - Protesta per l'entrata in vigore della legge sull'aborto
3) Ottant'anni fa Joseph Roth scriveva il suo romanzo ispirato alla figura biblica - E Giobbe sbarcò a New York - di Marco Beck - (©L'Osservatore Romano - 2 luglio 2010)
4) Il presidente della Cei in occasione del 155° anniversario della morte del beato Rosmini - È la questione di Dio il problema dell'occidente - Pubblichiamo l'omelia pronunciata a Stresa dal cardinale arcivescovo metropolita di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana nella celebrazione per il 155 ° anniversario del "dies natalis" del beato Antonio Rosmini. - di Angelo Bagnasco - (©L'Osservatore Romano - 2 luglio 2010)
5) L'aborto pugliese – Redazione - venerdì 2 luglio 2010 – ilsussidiario.net
6) LAICITA’/ Se la realtà non è segno, l’io e Dio sono "solo" cultura - Giovanni Maddalena - venerdì 2 luglio 2010 – ilsussidiario.net
7) Pedofilia. L'intervento di Introvigne a Strasburgo: la traduzione italiana – Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa - Udienza sul tema «Abuso di minori nelle istituzioni: garantire la piena protezione delle vittime», Strasburgo, 22 giugno 2010
8) Avvenire.it, 2 luglio 2010 - LA RICERCA - Famiglie disgregate? «Adolescenti in tilt» - Viviana Daloiso
La Madre di Dio e il Palio di Siena - Antonio Socci - da Libero, 1 luglio 2010 - A Siena sta accadendo qualcosa di grave, dal punto di vista spirituale e simbolico, perpetrato dall’establishment cittadino, (post) comunista, con l’avallo dell’arcivescovo.
Qualcosa che avrebbe fatto insorgere Oriana Fallaci, ben più della Moschea di Colle val d’Elsa, e che dovrebbe far indignare tutti i cristiani e tutti coloro che hanno un minimo di consapevolezza culturale.
Prima che dalla Torre del Mangia – o magari dal campanile del Duomo – facciano cantare un muezzin, si devono sapere alcune cose: il Palio, l’antica corsa di cavalli delle contrade in Piazza del Campo, è una festa religiosa, una festa mariana.
Infatti quello del 2 luglio è da sempre dedicato alla Madonna di Provenzano, il santuario cittadino che conserva un’antica icona miracolosa della Vergine. Mentre il Palio di agosto, che si corre il 16 di quel mese, nasce e da sempre è dedicato alla Madonna Assunta che si celebra il giorno prima.
Del resto le contrade si formano precisamente nel medioevo come “popoli”, cioè attorno alle chiese parrocchiali della città e – come scrivono due senesi doc – è fortissimo “questo legame indissolubile fra il Palio e la fede cattolica (la processione dei Ceri e dei Censi, la festa dei tabernacoli, la benedizione del cavallo, le feste patronali delle contrade…..)”.
La devozione alla Madonna ha dato forma alla storia (anche civile) di Siena. Alla Madonna Assunta è dedicato il Duomo, ma anche “il campanone”, che è il simbolo della libertà comunale.
La grande facciata della cattedrale, definita una Summa di marmo, è una rappresentazione della storia umana che ha al centro la figura esile e dolcissima di Maria di Nazaret. E l’antica repubblica senese batteva moneta con la scritta “Sena Civitas Virginis”.
La Madonna – un po’ come in Polonia – era il simbolo stesso della libertà cittadina. Per questo “La Maestà”, cioè la Madonna in trono, è l’immensa tavola di Duccio, dipinta nel 1311, che stava sull’altare centrale della Cattedrale.
E per questo, negli stessi anni, l’altro grande pittore della città, Simone Martini, fu chiamato a dipingere un altro grande affresco della “Maestà” per la Sala principale del Palazzo pubblico.
Perfino il celebre affresco del Buongoverno del Lorenzetti, in filigrana, è un inno alla regalità di Maria.
Alla Madonna è dedicato pure il grande e antichissimo ospedale, “Santa Maria della scala”, fondato nel X secolo dai canonici della Cattedrale.
Ai piedi della “Madonna del voto” furono deposte le chiavi della città quando Siena, alla vigilia della battaglia di Montaperti, fu sul punto di essere assalita e distrutta: era il riconoscimento della sua regalità e non a caso il Palio di questo 2 luglio celebra proprio il 750° anniversario dell’evento.
Perché da allora sempre, nel corso dei secoli, il popolo di Siena è ricorso a Lei per la protezione da pestilenze, terremoti, guerre e ogni altra calamità.
La sua materna protezione – simboleggiata dal suo mantello – è stata rappresentata, nel corso dei secoli perfino sulle tavole dei libri contabili del Comune (le Biccherne), così come la stessa Piazza del Campo ha la forma del mantello della Vergine, in cui Ella accoglie i suoi figli, il popolo senese.
Per tutte queste ragioni da secoli si tramandano rigidissime norme iconografiche che devono essere rispettate nel dipingere ogni Palio che poi viene esposto in Cattedrale e nella Basilica di Provenzano e benedetto dal vescovo durante una solenne liturgia.
Queste regole prescrivono anzitutto che la tela debba avere al suo apice la Madre di Dio che veglia sulla città e governa, maternamente, la sua storia.
In passato il Comune – che assegna l’investitura al pittore – ha chiamato a dipingere il Palio celebri artisti come Guttuso, Sassu, Botero, Vespignani. Quest’anno il compito è stato affidato a un “pittore musulmano”.
Sia chiaro, non è questo il problema, checché ne dicano i leghisti. Fra l’altro sarebbe interessante sapere se sia sempre stato musulmano perché in un’intervista ha sorprendentemente detto: “ho scoperto la spiritualità dell’islam proprio in Italia”. E prima?
Casomai il fatto emblematico è un altro: questo pittore, Alì Hassoun, è libanese. Bisogna sapere che il Libano è l’unico Paese storicamente cristiano del Medio Oriente ed ha subito per secoli l’oppressione musulmana.
Con la seconda guerra mondiale, conquistata l’indipendenza, proprio perché Paese cristiano ha avuto un regime democratico (rarissimo in Medio oriente).
Ma 30 anni fa il Libano è stato militarmente invaso e soggiogato dalla Siria, nell’indifferenza dell’Occidente. E tantissimi libanesi sono dovuti scappare, esuli, perché cristiani.
Ormai da decenni i cristiani libanesi, che hanno subito pesanti persecuzioni, sono costretti a vivere sotto il “padrone” siriano.
Dunque ad Alì Hassoun il Comune – governato sempre dai comunisti – ha fatto dipingere il Palio. E lui ha rappresentato la Madonna con una corona dove stanno una croce, la mezzaluna islamica e la stella di David.
Un sincretismo che strizza l’occhio al più banale “politically correct”, ma che è un pugno nello stomaco per chi sa quanti cristiani sono stati massacrati dai turchi all’insegna della mezzaluna (e quanti sono oggi perseguitati).
Non solo. Attorno al volto della Madonna, Alì ha scritto in arabo “Sura di Maria”, in riferimento alla sura 19 del Corano dove ella è celebrata come madre di Gesù, che l’Islam ritiene un profeta, ma nega categoricamente che fosse Figlio di Dio, Dio fatto uomo (per l’Islam questa è la più grande bestemmia).
Cosicché abbiamo una icona che dovrebbe essere cristiana e celebrare la Madre di Dio, nella quale invece si celebra la Maria del Corano in cui è negata la divinità di Gesù, il fondamento del cristianesimo.
Come se non bastasse la figura centrale e grande del Palio è un presunto san Giorgio, che in realtà è un guerriero saraceno (somigliante al pittore), con la kefiah araba, che trafigge un drago, il quale rappresenta – dice Alì – “un demone”.
Qualunque musulmano lo interpreta come l’Islam che trionfa sull’infedele e sul grande Satana.
Qualche cristiano ha scritto all’arcivescovo, monsignor Buoncristiani al quale tutti questi simboli non danno alcun fastidio. Nemmeno l’arabo del Corano: mica è il latino della messa tridentina che al vescovo di Siena fa venire l’orticaria.
Alessandra Pepi e Giampaolo Bianchi, dicevo, gli hanno scritto:
“Come cristiani, molto prima ancora che come senesi e contradaioli, questo palio ci offende e ci pare una vera bestemmia… la supplichiamo di non permettere che questo dipinto entri nella Casa del Signore.
Lei solo ha l’autorità e la responsabilità della Chiesa di Santa Maria in Provenzano. Lei solo ha la responsabilità dei gesti liturgici che compie a nome di tutti i Suoi fedeli… La preghiamo: non benedica un’immagine che non è cristiana, una Madonna solo madre di un profeta!”.
Il caso vuole, peraltro, che proprio nella Basilica di Provenzano siano state esposte per secoli le insegne e le armi conquistate ai Turchi nella battaglia di Lepanto, come ex voto alla Madonna per aver salvato l’Europa intera dall’invasione turca e dall’islamizzazione.
Nessuno fra i cristiani vuole rievocare guerre. Ma evitare una profanazione sì.
Se è scontato che se ne infischino i comunisti, i quali non credono più a niente e, avendo visto crollare nell’orrore la loro ideologia, cercano di umiliare i cristiani “usando” i musulmani, non è accettabile che se ne infischi un vescovo.
Rievocando le lettere di santa Caterina al Papa, Alessandra e Giampaolo gli scrivono: “ ‘sia uomo virile e non timoroso’… Noi ci crediamo o no, che Maria sia la Madre di Dio? O è diventato solo un modo di dire?”.
Forse per certi vescovi è solo un modo di dire… Ed è la conferma di quanto ha detto il Papa l’altroieri: “il pericolo più grave” non sono le persecuzioni, perché “il danno maggiore” la Chiesa “lo subisce da ciò che inquina la fede”. Dall’interno. Urge una messa di riparazione.
SPAGNA: INCONTRO A FAVORE DELLA VITA DAVANTI AL TRIBUNALE COSTITUZIONALE - Protesta per l'entrata in vigore della legge sull'aborto
MADRID, giovedì, 1°luglio 2010 (ZENIT.org).- Più di 60 entità hanno convocato un incontro davanti al Tribunale Costituzionale il 3 luglio per protestare contro la nuova legge sull'aborto in Spagna.
I manifestanti chiederanno al Tribunale Costituzionale di risolvere urgentemente i ricorsi presentati contro questa legge, e nel frattempo di sospendere la sua entrata in vigore, ha riferito a ZENIT una delle entità che parteciperà alla convocazione, la Federazione Spagnola di Associazioni Pro-Vita.
"Basta alle persone che lucrano sulla sofferenza altrui e con totale impunità, basta mascherare la verità con eufemismi e menzogne", afferma.
Secondo le entità che hanno convocato l'incontro, la nuova legge "ha chiari indizi di essere incostituzionale e provocherà danni irreversibili, visto che le vite umane non possono essere recuperate né le donne possono cancellare le conseguenze dell'aborto".
L'incontro servirà anche a chiedere sostegno istituzionale per le donne in stato di gravidanza in difficoltà e la valorizzazione della maternità come valore personale e sociale.
Tra le altre cose, si chiederà al Governo "di non strumentalizzare le scuole, ponendole al servizio della diffusione della sua ideologia peculiare e perversa sulla sessualità, e di rispettare il diritto dei genitori di educare in libertà i propri figli su questo tema".
Secondo queste entità, spetta al Tribunale Costituzionale "chiedere al legislatore il pieno rispetto dell'articolo 15 della Costituzione, che dice che tutti hanno diritto di vivere".
Tra le altre realtà che hanno risposto alla convocazione, figurano ADEVIDA, l'Associazione Cattolica di Propaganda, l'Associazione Sanitaria Democratica, il Centro Giuridico Tommaso Moro, il Consiglio dei Laici di Madrid, E-Cristians, il Forum Spagnolo della Famiglia e SOS Famiglia.
Ottant'anni fa Joseph Roth scriveva il suo romanzo ispirato alla figura biblica - E Giobbe sbarcò a New York - di Marco Beck - (©L'Osservatore Romano - 2 luglio 2010)
Sono trascorsi esattamente ottant'anni da quando un giovane scrittore austriaco, Joseph Roth, diede alle stampe, senza particolari echi di critica e di pubblico, un'opera di narrativa che solo la sua posterità avrebbe riconosciuto come uno degli esiti più alti della letteratura mitteleuropea: Giobbe. Romanzo di un uomo semplice (Hiob. Roman eines einfachen Mannes). Nato nel 1894 da un ceppo ebraico nella Galizia orientale, oggi compresa nell'Ucraina ma allora piccola tessera di quell'immenso mosaico di terre e popoli che era l'impero austroungarico, Roth si era trasferito a Vienna per completare gli studi universitari. Nella capitale della felix Austria - all'apogeo del suo splendore culturale - aveva imboccato le strade parallele della letteratura e del giornalismo. Sconvolto dalla dissoluzione della compagine imperiale dopo la disfatta del 1918 e dalla conseguente dispersione delle comunità ebraiche costitutive del cosiddetto Ostjudentum, Roth intraprese un inquieto vagabondaggio. Dall'Austria si spostò in Germania, Polonia, Russia. Viaggiò anche in Italia. Il giorno stesso in cui Hitler divenne cancelliere del Terzo Reich (30 gennaio 1933), Roth, di fronte al profilarsi di un regime che avrebbe poi bollato come "cloaca nazista", decise di emigrare a Parigi, dove morì ad appena quarantacinque anni, nel 1939, consumato dall'alcolismo. Gli fu così risparmiato, se non altro, l'immane scempio della Shoah.
In un corposo saggio pubblicato da Einaudi nel 1977, e da allora stranamente non più ristampato, Lontano da dove (il cui significativo sottotitolo recita Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale), Claudio Magris sottolinea la posizione centrale e al tempo stesso anomala di Giobbe, un unicum nell'arco creativo dello scrittore galiziano. Fino al 1929 Roth aveva sfornato romanzi perlopiù di formazione o di critica sociale: Hotel Savoy, La ribellione, Fuga senza fine. Nel 1930, con Giobbe, fece balenare un'inedita prospettiva mitico-fiabesca e, per così dire, metastorica sul mondo della sua infanzia, sulle più profonde radici della sua ebraicità slavo-germanica. Subito dopo, si sarebbe aperta una terza fase, quella che ne avrebbe consacrato la fama a livello mondiale, in virtù di tre titoli: La marcia di Radetzky (1932), epos ironico e dolente del crepuscolo asburgico; La cripta dei cappuccini (1938), definitivo epicedio per la Heimat, la grande patria ormai frantumata; il racconto-parabola La leggenda del santo bevitore (1939), amara prefigurazione della morte del suo autore.
L'"uomo semplice" protagonista di Giobbe (traduzione di Laura Terreni, Adelphi, 2009, pagine 200, euro 9) ci viene incontro fin dall'incipit del romanzo: "Molti anni fa viveva a Zuchnow un uomo che si chiamava Mendel Singer. Era devoto, timorato di Dio e simile agli altri, un comunissimo ebreo. Esercitava la semplice professione del maestro. Nella sua casa, che consisteva tutta in un'ampia cucina, faceva conoscere la Bibbia ai bambini". Condividono con lui quella modesta abitazione la moglie Deborah, incinta, e altri tre figli: il robusto Jonas, l'estroso Schemarjah, la tenera Mirjam. Alle difficoltà economiche fa da positivo contrappunto il monotono ma sereno scorrere di opere e giorni.
I guai per Mendel, moderno Giobbe, cominciano poco dopo la nascita del quarto figlio. Ben presto si scopre che Menuchim è affetto da una grave minorazione psicofisica. Mendel si rifugia nella preghiera. Deborah, angosciata ma non rassegnata, porta il suo infelice figlioletto a Kluczysk, dove vive un santo rabbi dalle virtù taumaturgiche. Il rabbi pronuncia una profezia di guarigione per Menuchim, ma solo "dopo lunghi anni".
Il tempo trascorre. L'amore tra i due coniugi s'isterilisce. Menuchim non esce dalla disabilità. La profezia del rabbi appare sempre più assurda. Jonas e Schemarjah vengono chiamati alle armi nell'esercito russo: una iattura per la famiglia. Mentre Schemarjah emigra clandestinamente negli Stati Uniti, Jonas accetta di arruolarsi. Mirjam, bella e provocante, comincia a degradarsi accompagnandosi con alcuni cosacchi di una vicina guarnigione. Anche per strappare la figlia al vizio, i due coniugi decidono di partire con lei alla volta dell'America, dove li chiama a sé Schemarjah, che a New York sta facendo fortuna come piccolo imprenditore. Devono però lasciare a Zuchnow il figlio disabile, affidandolo a una coppia di compaesani. E questo sofferto abbandono li riempie di rimorsi.
Dopo lo sbarco a New York, la famiglia Singer si riorganizza. Schemarjah, diventato Sam, aiuta i parenti a integrarsi a loro volta. Ci riesce senza sforzo Mirjam, con minor facilità Deborah. Invece Mendel rimane con caparbia naturalezza fedele al suo stile di vita ostjüdisch.
La seconda parte del romanzo si apre per Mendel nel segno di un'apparente tranquillità. Ma ecco che di colpo il presente gli precipita addosso con la violenza di molteplici sventure. In Europa è scoppiata la guerra. Sam, arruolatosi nell'esercito americano, viene ucciso su un campo di battaglia, mentre Jonas risulta disperso. Deborah muore di crepacuore. Mirjam, sedotta da un individuo spregevole, impazzisce. Il ricordo di Menuchim si fa ossessivo. "Sua maestà il dolore è entrato nel vecchio ebreo".
Scatta in lui un moto di ribellione contro il suo Dio spietato. Sta per bruciare i libri di preghiere, tutti i paramenti sacri. Ma qualcosa gli vieta quel gesto estremo, trattenendolo sull'orlo del sacrilegio. Cessa comunque di pregare, convinto che Dio, da lui tanto amato, insista a odiarlo, a volerlo lasciare in vita con un carico inaccettabile di sofferenza.
Poi la guerra finisce. Rinasce in Mendel il sogno di riattraversare l'oceano e tornare da Menuchim. Poco prima di Pasqua giunge a New York un celebre musicista ebreo, Kossak, nativo di Zuchnow. La sera della festa pasquale Mendel viene invitato a cena da un amico. Irrompe il colpo di scena risolutivo: alla tavolata si unisce di sorpresa Kossak, che a un certo punto rivela di non essere altri che Menuchim, guarito secondo la profezia del rabbi e assurto a fama mondiale come compositore e direttore d'orchestra. Si è sposato e ha avuto due figli. Inondato di gioia, Mendel può finalmente "riposarsi dal peso della felicità e dalla grandezza dei miracoli".
Italo Calvino assegnava lo statuto di "classico" a "un libro che si configura come equivalente dell'universo". Attenendosi alla lettera di questa definizione, verrebbe da osservare che il Giobbe di Roth eccede la pur esigente misura della classicità perché gli universi ai quali equivale, cioè che riflette con l'emblematicità di una sineddoche (la parte per il tutto), sono almeno tre: l'ebraismo mitteleuropeo, l'impero multinazionale degli Asburgo, il microcosmo familiare. Al centro di Giobbe campeggia la mitizzazione, peraltro priva di enfasi retorica, dello shtetl, la caratteristica comunità ebraica diffusa in migliaia di esemplari nell'Europa centro-orientale: un mondo tenacemente attaccato ai propri costumi socio-religiosi, custode di valori morali e spirituali, che Roth, pur consapevole del suo irreversibile disfacimento, continua utopicamente a contrapporre alle società occidentali, sempre più ansiose di vendere l'anima ai vitelli d'oro del benessere materiale, dell'arricchimento egoistico e spregiudicato, del successo a ogni costo.
All'integrità dell'Ostjudentum inferse una grave ferita, vent'anni o poco più prima del colpo mortale vibrato dalla Shoah, lo sfacelo di un impero - quello asburgico, appunto - la cui implosione fu accelerata dal collasso alla fine della Grande Guerra.
I due fenomeni sono, in Giobbe come nella maggior parte della narrativa rothiana, inscindibili, conseguenze nefaste di una stessa dinamica storica. E il rimpianto per la perduta tradizione dello shtetl si fonde con la nostalgia per la (relativamente) pacifica convivenza di popoli, etnie, culture differenti sotto la corona unificante di Francesco Giuseppe.
Ma Giobbe è anche, e forse soprattutto, un romanzo sulla quotidianità della famiglia, con infiniti spunti di riflessione riguardanti le problematiche, le gioie, le sofferenze insite nelle relazioni intrafamiliari, in un contesto ebraico che molte analogie permettono di estendere ad ambiti cristiani e persino laicisti.
In primo piano si stagliano le due dimensioni connaturate al protagonista: il ruolo paterno e quello coniugale. Solo in connessione con la storia del pater familias, con gli eventi determinati dalla sua incrollabile pietas, le vicende dei figli acquistano spessore drammatico. Non meno influente sul processo narrativo risulta la crisi del rapporto sponsale tra Mendel e Deborah. È questa, anzi, la vera colpa, il vero peccato per il quale i due coniugi subiscono - nella tagliente logica di Roth - la punizione del figlio minorato, cui si aggiungeranno le disgrazie in terra d'America.
Tutti i destini dei vari personaggi si giocano dunque nella rete relazionale distesa tra le pareti domestiche. E non è un caso che, in un romanzo intessuto di rimandi al paradigma del Giobbe biblico, traspaiano in filigrana echi neotestamentari, non importa se consci oppure inconsci. Così, l'ostinazione amorosa di Deborah nell'invocare dal rabbi di Kluczysk la guarigione di Menuchim non può non richiamare la perseveranza della donna cananea nel supplicare il rabbi di Nazaret. Lo stesso Mendel s'illumina di suggestivi riverberi evangelici, soprattutto nell'epilogo. Circonfuso da un alone di umile maestà che gli proviene dall'esperienza nobilitante del dolore sopportato per amore dei figli (quasi una proiezione del sacrificio di Cristo), nell'ultimo scorcio dell'incontro con il "nuovo" Menuchim il vecchio maestro assapora una gioia evangelicamente "perfetta", sconosciuta al Giobbe dell'Antico Testamento: la grazia di poter riabbracciare il figlio, come il padre misericordioso della parabola di Gesù.
(©L'Osservatore Romano - 2 luglio 2010)
Il presidente della Cei in occasione del 155° anniversario della morte del beato Rosmini - È la questione di Dio il problema dell'occidente - Pubblichiamo l'omelia pronunciata a Stresa dal cardinale arcivescovo metropolita di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana nella celebrazione per il 155 ° anniversario del "dies natalis" del beato Antonio Rosmini. - di Angelo Bagnasco - (©L'Osservatore Romano - 2 luglio 2010)
È la prima volta che mi trovo in questo luogo splendido per la natura, testimone della vicenda umana e sacerdotale di una grande anima, nonché sede di intensa attività spirituale e culturale. Mi è caro portare alla Congregazione e a tutti gli amici la stima grata dei vescovi italiani, insieme all'incoraggiamento a continuare a percorrere la via dell'incontro e del dialogo con la modernità, dialogo che - auspicato dal concilio Vaticano ii - è ispirato da molte luci e aspirazioni comuni, ma che si è rivelato anche irto di ostacoli e precomprensioni non piccole e radicate.
Ma, come era ben chiaro al Nostro, l'incontro con la modernità è un appuntamento non solo ineludibile ma desiderato dalla Chiesa, così come testimonia anche il magistero di Benedetto XVI, che declina sapientemente la fede e la ragione parlando ai cattolici e a coloro che non si riconoscono tali. Il suo esporre il vangelo di Gesù - che rivelando il vero volto di Dio svela pienamente l'uomo a se stesso - è profondo e semplice, capace di parlare alla fede, alla ragione, al cuore. È questo il sentiero da percorrere - la fede, la ragione, il cuore - per poter arrivare alla vita dell'uomo contemporaneo. Ed è ciò che ha voluto fare Rosmini attraverso un lungo e costante, esaltante e sofferto, itinerario di riflessione e di studio, ma innanzitutto di preghiera e di vita. La preghiera, infatti, ci espone alla luce di Dio, Verità somma ed eterna, e la vita coerente alla sua luce la fa diventare esperienza e la consolida in noi.
L'esperienza di Rosmini suggerisce un'ulteriore condizione per colui che crede, pensa e dialoga: l'umiltà. La sua vicenda è stata segnata anche da sofferenze e umiliazioni non piccole proprio da parte di coloro che egli amava nella fede. Attesta una umiltà profonda che si tradusse nella più completa obbedienza d'amore. Tutto accettò con fiducia, fino al pieno riconoscimento dei suoi scritti, tanto da far esclamare a Pio ix: "Sia lodato Iddio, che manda di quando in quando di questi uomini per il bene della sua Chiesa".
Sappiamo che l'umiltà di Rosmini non nasceva da una scarsa consapevolezza di sé, ma da una vita che aveva un centro e da quel centro non si mosse mai, neppure nelle circostanze più difficili: il centro era Gesù, la consapevolezza che Lui guidava la sua vita sempre, anche quando i sentieri apparivano incomprensibili e tortuosi. Se nella vita di un uomo vi è un centro, allora si stabilisce una gerarchia di valori, di peso, di importanza; allora l'anima vive di quel centro. Se poi il centro non è teorico, un'idea o un valore astratto, ma la persona di Dio, allora il cuore può anche sanguinare ma la pace dimora nell'anima: "Il pensiero che tutto ciò che accade è volontà di Dio, è così dolce che basta da sé solo a renderci pienamente tranquilli e contenti. Io non posso finire di ringraziare il Signore...". La vicenda del profeta Amos, che abbiamo appena ascoltata, ci ricorda questo modus vivendi che dovrebbe essere proprio di ogni cristiano: in mezzo a difficoltà gravi, il profeta sta nella pace, certo che Dio lo tiene nelle sue mani.
Anche il santo vangelo ci aiuta a comprendere meglio la missione di Rosmini. Gesù, infatti, si presenta come colui che guarisce il paralitico dalla sua infermità, segno di una malattia più profonda e grave, quella dell'anima: "Coraggio, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati". La malattia costringe quell'uomo a una vita immobile, di oscurità; e il peccato è sempre una oscurità spirituale, una tenebra che costringe a una vita confinata e ridotta rispetto alla libertà e alla gioia. È il male dello spirito, dunque, verso il quale Rosmini si sente mandato da Cristo, è l'oscurità dell'intelligenza che anela alla luce e cade spesso nelle tenebre, che abbraccia e si invaghisce dell'errore e lo esalta come verità. Verso questo anelito dell'intelligenza il Nostro si slancia con le doti di natura e di grazia che Dio gli ha dato e con la lucida consapevolezza delle luci e delle ombre del mondo moderno, ma anche con la certezza che Dio vuole gli uomini salvi e felici. Per questo ha mandato il Figlio unigenito per redimere l'umanità dal peccato attraverso la misericordia e il perdono che fluiscono incessantemente dal cuore squarciato di Cristo. È da quel cuore trafitto che scaturisce la salvezza e la verità di Dio che è amore. Ed è questo amore divino che Rosmini assume come chiave di lettura non solo della sua vita, ma della storia e del cosmo. Ed è alla luce di questa verità che si comprendono quelle tre parole confidate, sul letto di morte, all'amico Alessandro Manzoni: "Adorare, tacere, godere"! Se Dio è amore ed è il Destino ultimo, se è l'Amore che conduce misteriosamente il tempo, allora non resta che contemplare e adorare, ascoltare e tacere, ringraziare e gioire del Dio-Amore anche quando le tenebre sembrano sovrastare. Guidati dalla sua esperienza, siamo condotti nell'oceano della fede e in questo mare sentiamo che è dolce naufragare.
Benedetto XVI, fin dall'inizio del suo pontificato, ha affermato che il problema principe dell'ora presente in Occidente è la questione di Dio. E questo vale innanzitutto per i credenti: che cosa la fede cambia nella vita di una persona e di una società? Che cosa aggiunge la fede a una vita onesta? Ebbene, l'esempio del Rosmini, qui appena accennato, ci mostra che la fede muta la vita alla radice: non toglie responsabilità, pesi e croci, ma tutto illumina di senso e salva con la misericordia e con l'amore. Nessuno è più solo, Dio si prende cura di noi, ogni situazione diventa luogo di incontro e di grazia, si carica di eternità e di infinito, di redenzione per sé e per il mondo. Il presente si tinge di futuro e guarda la terra con gli occhi di Cristo: si riempie di speranza. L'uomo si scopre non condannato a morte ma destinato alla vita, non vagabondo verso il nulla ma pellegrino verso il tutto dell'amore e della felicità.
Nella luce del Vangelo odierno, possiamo dire dunque che la missione intellettuale del Rosmini è un riflesso di quel miracolo: liberare dalle oscurità dell'errore mostrando la luminosità e la bellezza della verità che è Cristo. Egli, infatti, affronta un nodo che la modernità sentiva e tuttora sente in modo particolarmente acuto: il rapporto tra fede e ragione: "Il passo fatto dal Concilio verso l'età moderna - affermava Benedetto XVI in occasione del 40° anniversario del Vaticano ii - (...) appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta sempre in forme nuove".
Sembrava anche allora che queste fossero prospettive opposte, approcci inconciliabili, tanto da confinare i credenti e i non credenti su due fronti muti e sordi tra loro. Che questo sia un punto nevralgico anche ai nostri giorni, non significa che l'opera di Rosmini non abbia segnato la storia del nostro tempo, ma semplicemente che i pregiudizi sono duri a morire; che è necessario parlarsi con animo ben disposto, bonificato dai luoghi comuni; che bisogna applicarsi al pensiero. In modo significativo, il Papa, nell'ultima enciclica, faceva sua l'affermazione di Paolo vi: "Non possiamo dimenticare, inoltre, che la modernità sembra essere entrata in una nuova fase dai confini più incerti, fino al dubbio sulla capacità stessa della ragione come facoltà del vero e del bene". Coerente alla continua Tradizione della Chiesa, il Nostro non ha dubbi sulla forza della ragione, dono del Creatore, e si dedica a elaborare una filosofia capace di raggiungere il fondamento della realtà, una metafisica che pone attenzione anche al soggetto conoscente senza cadere nel soggettivismo che allontana e distorce il reale.
Egli non solo intende pensare la fede, ma vuole pensare nella fede, convinto che se da un lato la filosofia non deve essere "mescolata con i misteri della religione", d'altro lato una "filosofia sana" non può che giungere a "conseguenze favorevoli alla religione" (cfr. A. Rosmini, Epistolario completo, Casale Monferrato, vol. iii, pag. 53). Se all'origine dell'essere creato, infatti, vi è Dio Creatore, allora le vie della conoscenza non si oppongono tra loro, ma si completano. La ricerca dell'uomo, seppur distinta per ambiti, non dovrebbe mai perdere di vista la totalità come orizzonte, pena la frantumazione non solo del sapere, ma dell'uomo stesso, punto di partenza e d'arrivo del conoscere. E la filosofia ha, per eccellenza, questo scopo: essa conduce fino alla soglia del mistero, fino alle domande fondamentali alle quali soccorre la fede in Gesù Cristo, senso fondamentale, salvatore e fine di ogni cosa.
Sì, Rosmini si colloca sulla linea della più viva e feconda Tradizione, quella di avvertire la carità intellettuale come una delle forme più urgenti di carità, non meno necessaria di altre forme pur necessarie. Egli è consapevole che la fede in Gesù, proprio perché attiene la verità tutta intera e l'amore che salva, non riguarda solo i sentimenti personali e la dimensione del privato, ma interpella l'intelligenza e la libertà dell'individuo e della società. Per questo può parlare all'uomo di sempre, anche all'uomo moderno; può incontrare e fecondare ogni società e cultura.
A noi tutti, che abbiamo la grazia della fede, tocca questa responsabilità di testimoni e messaggeri intelligenti e lieti, facendo nostre le parole che Rosmini nel 1851 rivolse ad alcuni fratelli alla vigilia dei voti: "Consentiamo insieme alla carità di Dio in noi di espandersi secondo le sue dimensioni in altezza verso il sommo bene, in larghezza con l'abbraccio di tutti gli uomini, in lunghezza perché l'amore è fedele, in profondità fino al dolore della croce".
(©L'Osservatore Romano - 2 luglio 2010)
L'aborto pugliese – Redazione - venerdì 2 luglio 2010 – ilsussidiario.net
Sono parecchie le fonti del diritto, italiano e internazionale, che sanciscono l’assoluta libertà per tutti i cittadini di pensare ed agire secondo le proprie convinzioni personali e la propria coscienza. Per qualcuno, tuttavia, questi obblighi si possono calpestare in nome dell’unica libertà e dell’unica opinione che deve essere valorizzata: la propria. Tutto questo accade in Puglia, una terra dove, da 5 anni, chi governa non fa che autoincensarsi per la propria (presunta) capacità di garantire ai cittadini un livello di libertà altissimo grazie all’invenzione di nuovi diritti. Peccato che in nome di questi nuovi diritti ci si dimentichi dei principi cardine della democrazia.
La Giunta regionale della Puglia con la delibera "Progetto di riorganizzazione della rete consultoriale", n. 735 dello scorso marzo, prevede che le Aziende Sanitarie Locali (ASL) indichino delle selezioni per l’implementazione del personale dei consultori, escludendo però medici e ostetriche che abbiano, esercitando un diritto di legge, scelto l’obiezione di coscienza rispetto alle interruzioni volontarie di gravidanza.
I medici obiettori di coscienza hanno impugnato la delibera davanti al TAR, ma anche gli Ordini dei Medici pugliesi, i sindacati e il Forum delle Famiglie hanno avanzato parecchie perplessità sul provvedimento. La discriminazione è evidente tanto quanto il disegno politico che c’è dietro.
La delibera non solo viola lo spirito della legge 194/78 che regolamenta la possibilità di interruzione delle gravidanze e che si propone soprattutto di sostenere le donne a superare i problemi rivenienti da una gravidanza inattesa, mettendola preliminarmente in condizioni di non dover ricorrere all´estremo quanto terribile rimedio dell´aborto, ma viola anche l’articolo 3 della Costituzione italiana che sancisce l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge senza distinzione di religione, di opinione o di condizione personale.
Ma non finisce qui. La delibera è in palese contrasto anche con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che costituisce uno dei capisaldi del Trattato di Lisbona, recentemente entrato in vigore. L’Unione europea, dopo l’entrata in vigore del Trattato, è diventata membro a pieno titolo degli strumenti internazionali di tutela dei diritti fondamentali ed è quindi chiamata a far rispettare la Carta dei diritti fondamentali ad ogni singolo stato membro.
Insieme ad alcuni miei colleghi ho presentato un’interrogazione scritta alla Commissione europea nella quale si chiede se essa non ritiene che il provvedimento della Regione Puglia costituisca violazione dell’articolo 9 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali sulla Libertà di pensiero, di coscienza e di religione, e dell’articolo 10 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea sulla Libertà di pensiero, di coscienza e di religione che garantisce inoltre il diritto all'obiezione di coscienza.
E’ sconcertante quanto appena raccontato. Soprattutto per l’incredibile metodo utilizzato. Il metodo dell’ambiguità e della menzogna. Lo stravolgimento della realtà, in questo caso specifico, è arrivato all’apice. Nel motivare il provvedimento, la Giunta regionale pugliese, per bocca degli assessori Fiore e Gentile è riuscita addirittura a dire che c’è “la ferma volontà di garantire la piena applicazione della legge 194 e la tutela dei diritti delle donne”. Siamo tutti curiosi di sapere di quali diritti parlano.
E vogliamo anche comprendere se l’obiettivo di questa gente sia quello di evitare che le donne ricorrano all’interruzione di gravidanza oppure, al contrario, quello di rendere i consultori delle vere e proprie fabbriche di aborti. Vista la criminalizzazione e il conseguente tentativo di epurazione degli obiettori di coscienza non sembrano esserci dubbi.
LAICITA’/ Se la realtà non è segno, l’io e Dio sono "solo" cultura - Giovanni Maddalena - venerdì 2 luglio 2010 – ilsussidiario.net
La filosofia, si sa, è la più strana delle discipline. Per molti è solo la materia “per la quale e senza la quale tutto rimane tale e quale”. Purtroppo o per fortuna, invece, la filosofia è la forma con cui concepiamo la realtà e non è possibile non averne una; anche la negazione della filosofia è una filosofia. Che ne sia la causa o conseguenza, è la filosofia che presenta i modi di pensare la vita, i significati delle parole, la società. Insomma, la cosiddetta mentalità.
Ci chiediamo, allora: a che punto siamo? Quale mentalità la filosofia odierna sta contribuendo a creare o quale si impegna a riflettere? La mentalità filosofica di oggi è dominata da quello che si chiama “naturalismo”. In che cosa consiste? De Caro (in Calcaterra, Pragmatismo e filosofia analitica 2006) identifica tre leggi portanti: l’esclusione di oggetti non naturali, l’antifondazionalismo e la continuità scienza-filosofia.
Ci sono due modi di intendere queste leggi. Il primo è uno scientismo duro (Dennett, per fare un nome). In questa versione esiste solo quello che la scienza “positiva” - in particolare la fisica - riconosce o arriverà a riconoscere, non c’è nessuna fondazione del nostro sapere al di là della conoscenza “scientifica” e la filosofia stessa è parte della scienza e come tale verrà pian piano dissolta in essa.
C’è un’altra versione, più soft o pluralista, che pur mantenendo le medesime leggi, le interpreta nel senso che negli oggetti naturali devono essere inclusi anche i prodotti culturali (McDowell), che la scienza non può avere a sua volta pretese fondative e che il sapere filosofico-umanistico può convivere con quello scientifico: “un modesto realismo non metafisico, adeguatamente conforme ai risultati delle scienze” (Putnam).
Le due versioni, però, condividono un assunto: essere naturalisti significa sostenere che “il mondo è causalmente chiuso” (Määttänen). Ciò significa che anche nella seconda versione si può accettare che esista una “cultura” con tutti i suoi significati belli e profondi, si può pensare che ci siano ragionamenti non scientifici eppure validi e persino che si deve essere “realisti”. In molte versioni esiste anche un’ontologia, cioè un chiedersi quale sia la natura degli oggetti. In fondo si va molto vicino a un ragionevole senso comune ormai lontano dagli eccessi del nichilismo di fine Novecento.
Eppure, con quel nichilismo - soprattutto nella sua versione “gaia” espressa da Del Noce - c’è una sottile affinità perché anche per il naturalismo l’ambito della realtà, per quanto ampio e non più in dubbio quanto alla sua esistenza, è chiuso, cioè non funziona mai come “segno”. Così emerge quella che era la radice comune a ermeneutica e analitica: negare che la realtà funzioni come segno e che quindi possa rimandare a un’altra realtà completamente oltre sé (meta-fisica) e che possa provocare interpretazioni la cui validità dipende dall’aver più o meno compreso quella realtà metafisica.
Se si esclude il valore del segno, i suoi terminali, l’io e Dio - per semplificare à la Newman - non hanno più senso se non come valori culturali. Si arriva così all’estrema ammissione di un naturalista scientista come McGinn: “L’essenza di un problema filosofico è l’inspiegabile salto, il passaggio da una cosa all’altra senza nessuna idea di quale sia il ponte che permette questo passaggio” (The Mysterious Flame, 2002). La filosofia - parole sue - è perciò “futile”. Paradossale destino: si studia tanto per tornare a “tutto rimane tale e quale”. Il modo normale (“naturale” e non “naturalista”) di pensare tende invece a sostenere che si pensa proprio per conoscere e cambiare la realtà, che oggetto del pensiero sia tutta la realtà, fisica o meta-fisica, e che tutto possa essere letto come “segno”. La curiosa alleanza tra l’intellettualismo scientista e l’irrazionalismo del nostro proverbio fa nascere il sospetto che pensare il “segno” sia antipatico a tutti quelli che hanno un pregiudizio da difendere e che hanno già deciso di non voler essere disturbati da troppe domande.
Pedofilia. L'intervento di Introvigne a Strasburgo: la traduzione italiana – Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa - Udienza sul tema «Abuso di minori nelle istituzioni: garantire la piena protezione delle vittime», Strasburgo, 22 giugno 2010
Intervento del dottor Massimo Introvigne, delegato ad hoc della Santa Sede
1. Sono un sociologo delle religioni, e tra i temi di cui mi sono occupato c’è l’abuso dei minori in istituzioni religiose. Ho scritto diversi testi su questo argomento. Questo breve intervento si concentra sul problema dell’abuso di minori in istituzioni della Chiesa Cattolica. Il problema è stato trattato in profondità da Papa Benedetto XVI nella recente Lettera pastorale ai cattolici dell’Irlanda del 19 marzo 2010. Il punto di partenza di questa lettera è che ci sono sacerdoti che hanno abusato di minori. Alcuni casi sono sconcertanti, e perfino disgustosi. Questi casi – negli Stati Uniti, Irlanda, Germania, Austria e altrove – spiegano la parole molto severe del Papa, la sua richiesta di perdono alle vittime, e la sua affermazione che la Chiesa «deve in primo luogo riconoscere davanti al Signore e davanti agli altri, i gravi peccati commessi contro ragazzi indifesi». Anche se ci fosse un solo caso – e purtroppo i casi sono più di uno – sarebbe sempre un caso di troppo. Nulla in questo mio intervento intende negare l’orrore di quanto è avvenuto in alcune istituzioni cattoliche, che costituisce oggetto di vergogna per la Chiesa intera.
2. Benché il Papa non abbia certamente voluto proporre un’analisi sociologica della crisi, come sociologo sono colpito dalla profondità della sua riflessione, che s’inserisce in dibattiti di grande attualità in corso fra i sociologi e gli storici sociali – soprattutto dopo la pubblicazione nel 2007 dell’influente opera di Hugh McLeod The Religious Crisis of the 1960s (Oxford University Press, Oxford) – sulla rivoluzione silenziosa che ha profondamente cambiato le abitudini morali, religiose e sessuali degli Europei e degli Americani del Nord nei decenni 1960 e 1970. Il Papa afferma che in Irlanda – ma la sua osservazione è ugualmente valida per altri Paesi – si è verificata una «rapida trasformazione e secolarizzazione della società», «un rapidissimo cambiamento sociale, che spesso ha colpito con effetti avversi la tradizionale adesione del popolo all’insegnamento e ai valori cattolici», con un «indebolimento della fede» e una «perdita del rispetto per la Chiesa e per i suoi insegnamenti»: «è in questo contesto generale che dobbiamo cercare di comprendere lo sconcertante problema dell’abuso sessuale dei ragazzi».
3. Come il Papa afferma nella stessa lettera, «il problema dell’abuso dei minori non è specifico né dell’Irlanda né della Chiesa». La rivoluzione sessuale e morale degli anni 1960 ha coinvolto l’intera cultura occidentale. Se il Papa ha espresso «la vergogna e il rimorso» della Chiesa Cattolica, il sociologo deve sottolineare che il problema riguarda tutte le società occidentali dopo la Seconda guerra mondiale e non soltanto la Chiesa. Paragonare i sacerdoti cattolici ad altre categorie può sembrare per qualche verso di cattivo gusto. Ma nello stesso tempo è importante per comprendere il problema nel suo contesto specifico. Secondo l’opera molto spesso citata di Philip Jenkins Pedophiles and Priests (Oxford University Press, New York 1996, pp. 50 e 81), se si paragona la Chiesa Cattolica ad altre organizzazioni religiose negli Stati Uniti si scopre che i casi di abuso di minori sono stati più numerosi in altre denominazioni e religioni, almeno nel periodo di tempo esaminato da Jenkins. Tra l’atro, questi dati dimostrano che il problema non è il celibato. Il personale religioso di altre comunità e religioni è in maggioranza sposato. Il numero di maestri di ginnastica e allenatori di squadre sportive giovanili che sono stati condannati per abuso sessuale di minori negli Stati Uniti nell’arco di cinquant’anni è di circa seimila (cfr. Michael Dobie, «Violation of Trust; When Young Athletes Are Sex-Abuse Victims, Their Coaches Are Often the Culprits», Newsday, 9 giugno 2002, p. C25). Secondo il cosiddetto Rapporto Shakeshaft, commissionato dal Ministero dell’Educazione degli Stati Uniti e pubblicato nel 2004, il 6,7% degli alunni delle scuole elementari pubbliche americane è stato molestato da maestri o da personale non insegnante (C. Shakeshaft, Educator Sexual Misconduct. A Synthesis of Existing Literature, U.S. Department of Education, Office of the Under Secretary, Washington D.C. 2004, p. 20). Lo stesso documento ci ricorda che negli Stati Uniti due terzi degli abusi sessuali su minori non vengono da persone estranee alla cerchia familiare – compresi i sacerdoti cattolici e i pastori protestanti – ma da membri della famiglia: zii, cugini, fratelli e purtroppo anche genitori.
4. Per quanto riguarda i sacerdoti e le istituzioni cattoliche, pochi Paesi hanno compiuto uno sforzo di raccolta di dati paragonabile a quello del rapporto irlandese della Commission to Inquire into Child Abuse (il cosiddetto Rapporto Ryan) o del rapporto statunitense pubblicato nel 2004 dal John Jay College della City University of the New York. Quest’ultimo esamina gli anni tra il 1950 e il 2002, e conclude che 4.392 sacerdoti e religiosi statunitensi (su un totale di oltre 109.000) sono stati accusati di molestie sessuali a minorenni, con un numero di condanne congruamente più basso. Ci sono anche stati casi clamorosi di sacerdoti accusati ingiustamente. Lo studio del John Jay College ci dice, come si legge spesso, che il quattro per cento dei preti americani è pedofilo? Non è così. Secondo la ricerca, il 78,2 per cento delle accuse si riferisce a minori che hanno superato la soglia della pubertà. Avere un rapporto sessuale con una, o un, diciassettenne non è certo una bella cosa per un adulto, e lo è ancora meno per un prete, ma non è pedofilia. In effetti nell’arco di cinquantadue anni il numero di sacerdoti e religiosi accusati di pedofilia, nel senso tecnico di rapporti o molestie sessuali a minori prepuberi, è 958. Anche in questo caso, le condanne sono in numero molto minore rispetto alle accuse.
5. Permettetemi di ripetere che i casi di abusi sessuali di minori da parte di sacerdoti cattolici, benché siano meno numerosi di quanto alcuni media hanno riferito e non siano più diffusi tra i sacerdoti che tra altre categorie in frequente contatto con minorenni, sono oggetto di seria preoccupazione e di «vergogna e rimorso» per la Chiesa, come ha detto il Papa. Nessuna statistica può attenuare la tragedia. Come ha reagito la Chiesa? A questa domanda occorre rispondere tenendo ben fermo il riferimento ai dati e ai testi, che spesso non sono ben compresi da giornalisti che hanno scarsa familiarità con il diritto canonico o con la Chiesa. Per esempio, è stata molto criticata l’istruzione Crimen sollicitationis, che risale al 1922. Normalmente si legge che questa istruzione è del 1962. Ma in effetti il testo del 1962 della Crimen sollicitations è identico a quello di un’analoga istruzione del 1922 intitolata Pagella, se si eccettuano tre piccole aggiunte relative ai membri d’istituti religiosi. Lo stesso testo del 1922 non costituiva tanto una nuova normativa quanto una compilazione di vecchie norme, che si trattava di armonizzare con il Codice di Diritto Canonico che era stato allora da poco pubblicato, nel 1917. Alcuni che attaccano le diocesi cattoliche hanno scoperto la Crimen sollicitationis solo perché è citata nel motu proprio di Giovanni Paolo II Sacramentorum sanctitatis tutela del 2001. Qualcuno ha pensato di avere finalmente trovato la prova decisiva contro la Chiesa, un documento che avrebbe coperto le inchieste sugli abusi sessuali del clero con uno spesso velo di segretezza. Ma in realtà la Crimen sollicitationis faceva obbligo alle vittime e a chiunque altro fosse venuto a conoscenza degli abusi di denunciarli sollecitamente all’autorità ecclesiastica. Che la successiva procedura canonica dovesse svolgersi a porte chiuse e in segreto era (ed è) normale per cause di questo genere in tutti gli ordinamenti giuridici, e protegge la riservatezza della vittima non meno di quella dell’accusato, che può essere a sua volta colpevole ma anche innocente. Non ha niente a che fare con il tenere nascosti i fatti alle autorità degli Stati, un problema che cade completamente al di fuori dell’oggetto e degli scopi della Crimen sollicitationis, Ma forse l’aspetto più importante è che la Crimen sollicitationis ha avuto una circolazione molto limitata, e fino al primo decennio del secolo XXI le diocesi che dovevano occuparsi di casi di abusi sessuali commessi da sacerdoti in genere non sapevano neppure che l’istruzione esistesse (cfr. John P. Beal, «The 1962 Instruction Crimen sollicitationis: Caught Red-Handed or Handed a Red Herring?», Studia Canonica, vol. 41 [2007], pp. 199-236).
6. Con il già citato motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela del 2001 e il relativo regolamento costituito dalla lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede De delictis gravioribus, pure del 2001, la Chiesa ha riformato le norme canoniche relative a certi crimini, compreso l’abuso sessuale di minori da parte di sacerdoti e religiosi. Queste regole sono già di per se stesse una prova di quanto la Chiesa Cattolica prenda sul serio il problema dell’abuso di minori da parte di sacerdoti. Lo include nei «delicta graviora», i «crimini più gravi» che le diocesi devono segnalare alla Congregazione per la Dottrina della Fede a Roma. Contrariamente a quanto talora si è letto, le nuove regole non hanno sottratto al vescovo locale la sua responsabilità. In effetti, la Congregazione studia i documenti che arrivano dal vescovo e in molti casi autorizza l’avvio di una procedura nella diocesi locale. In questo caso il processo è condotto nella diocesi, e la Congregazione opera sia con una funzione di consulenza sia come istanza d’appello. Si deve notare che il Promotore di Giustizia presso la Congregazione può presentare appello anche contro una decisione della diocesi locale che ha giudicato innocente l’imputato. In altri casi la Congregazione e il vescovo possono imporre sanzioni amministrative, come l’esclusione del sacerdote da ogni ulteriore esercizio pubblico del suo ministero. Fin dall’inizio della procedura si raccomanda che il vescovo locale adotti «misure precauzionali per la salvaguardia della comunità, comprese le vittime». Le direttive della Santa Sede, contenute nel testo Guida alla comprensione delle procedure di base della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) riguardo alle accuse di abusi sessuali, precisano pure che «va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte».
7. È piuttosto importante notare che la procedura della Congregazione rubrica tra i «delitti più gravi» l’abuso sessuale di minori, ma questo «non significa solo contatto fisico o abuso diretto, ma comprende anche l’abuso indiretto […]. È compreso anche il possesso, o il download da Internet, di materiale pornografico dove compaiono minori. Questo tipo di comportamento è considerato un reato in diversi Paesi. Mentre il browsing su Internet può essere involontario, è difficile concepire situazioni dove sia involontario il download, che non solo implica compiere una scelta o scegliere una specifica opzione, ma spesso comprende un pagamento tramite carta di credito e la fornitura da parte dell’acquirente di informazioni personali che permettono d’identificarlo. […] Secondo la prassi della Congregazione per la Dottrina della Fede anche questo comportamento è considerato un delictum gravius» (Mgr. Charles J. Scicluna, Promotore di Giustizia, «The Procedure and Praxis of the Congregation for the Doctrine of the Faith regarding Graviora Delicta», disponibile sul sito Internet della Santa Sede).
8. Il motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela e le varie direttive della Santa Sede sono state accompagnate da documenti delle varie Conferenze Episcopali, come la Carta di Dallas del 2002 negli Stati Uniti, le «Direttive su come si debba procedere in casi di abusi sessuali da parte di sacerdoti e religiosi che rientrano nella sfera d’influenza della Conferenza Episcopl\ale Tedesca» (Leitlinien zum Vorgehen bei sexuellem Missbrauch Minderjähriger durch Geistliche im Bereich der Deutschen Bischofskonferenz), pure del 2002; e simili documenti in Irlanda, nel Regno Unito e altrove.
9. Il John Jay Report del 2004 concludeva che c’era stato un «significativo declino» nel numero di casi nuovi – da non confondersi con casi più antichi, che venivano alla luce o arrivavano a un processo dopo molti anni – emersi nella Chiesa Cattolica fra il 2000 e il 2003. Ci si attende che un nuovo rapporto del John Jay College, di prossima pubblicazione, insista su questa tendenza. Questo conferma che le misure prese dalla Chiesa Cattolica tra la fine del secolo XX e l’inizio del XXI sono state ragionevolmente efficaci. È anche importante notare che il diritto canonico non ha mai favorito le incertezze o i veri e propri insabbiamenti da parte di qualche vescovo. Ai vescovi irlandesi Benedetto XVI ha scritto nella sua lettera: «Non si può negare che alcuni di voi e dei vostri predecessori avete mancato, a volte gravemente, nell’applicare le norme del diritto canonico codificate da lungo tempo circa i crimini di abusi di ragazzi». Ci furono mancanze di vescovi? Sì, ci furono. Ma furono mancanze commesse contro il diritto canonico, non a causa o con il favore della normativa. Beninteso, il diritto canonico è opera di uomini e come tale può sempre essere migliorato.
10. La Chiesa Cattolica crede pure che la radice profonda di questa tragedia sia il peccato. Benché questo punto possa essere più difficile da capire per i non credenti, il Papa nella sua lettera ha anche affermato che i problemi dei sacerdoti derivano per una parte importante dal fatto che «le pratiche sacramentali e devozionali che sostengono la fede e la rendono capace di crescere, come ad esempio la frequente confessione, la preghiera quotidiana e i ritiri annuali, sono state disattese». A queste pratiche il Papa raccomanda di tornare. Nello stesso tempo sono state prese misure anche sul piano del diritto e della prassi amministrativa, che sono state piuttosto efficaci e forse possono essere studiate da altre istituzioni che oggi patiscono gli stessi problemi. Nessuno ha fatto di più per instaurare nella Chiesa procedure nuove e più rigorose per affrontare questa tragedia del cardinale Joseph Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI. Per questa ragione, sia come cattolico sia come studioso sono profondamente turbato dagli attacchi alla persona e all’insegnamento del Santo Padre. Sono convinto che uno studio di questa materia fondato sui dati e sui documenti, più che sulle emozioni e sui ritagli di stampa, potrà sia confermare come siano appropriati «la vergogna e il rimorso» cui ci chiama il Papa, sia fare emergere il suo ruolo luminoso di avvocato tanto delle vittime quanto di quella stragrande maggioranza dei sacerdoti cattolici che non ha niente a che fare con gli abusi e continua a offrire in silenzio la sua opera quotidiana per l’amore di Dio e per il bene comune della nostra umanità sofferente.
Avvenire.it, 2 luglio 2010 - LA RICERCA - Famiglie disgregate? «Adolescenti in tilt» - Viviana Daloiso
Sempre più problematici. Sempre più disorientati. E sempre più soli. È un quadro drammatico, quello del mondo adolescenziale italiano, in cui a episodi di cronaca sconvolgenti – ultimi, in ordine cronologico, i numerosi suicidi di ragazzini legati alla bocciatura a scuola – si affianca la constatazione di una conflittualità col mondo adulto ormai del tutto incapace di trovare sbocchi positivi. Lo sanno bene gli operatori dei quasi duecento consultori familiari di ispirazione cristiana che – disseminati sull’intero territorio nazionale – vedono crescere in modo allarmante il numero di giovani e di famiglie che vi si rivolgono: migliaia, ogni anno, in cerca di aiuto e di risposte di natura educativa.
Una realtà, quella dei consultori, che negli ultimi mesi ha fornito importanti spunti di ricerca sul disagio giovanile, raccolti in numerosi e diversificati progetti di ricerca dall’"Università" della famiglia, quell’Istituto di antropologia per la cultura della persona e della famiglia nato un anno fa a Milano – l’iniziativa è stata di Cattolica, Regione Lombardia, Ospedale Maggiore e, appunto, Confederazione dei consultori di ispirazione cristiana – che negli ultimi mesi proprio sulla problematicità del rapporto tra adolescenti e adulti ha incentrato tutta la sua attenzione operativa e formativa. «Quello che stiamo cercando di mettere in campo è un approccio sempre più attento al mondo adolescenziale e delle famiglie – spiega il presidente dell’Istituto e della stessa Confederazione dei consultori, l’avvocato Goffredo Grassani –, certi che per risolvere i problemi si debbano affrontare a un livello pedagogico e valoriale, ma prima di tutto concreto».
Dove concretezza, per l’Istituto e per il centro di ricerca e formazione che lo affianca (il Creada), significa analizzare quel disagio a partire dai casi reali, misurati e raccolti e sul campo: quelli dei ragazzi che attraverso i consultori sono entrati a far parte di gruppi di dibattito, di laboratori di confronto con genitori e insegnanti, oppure – nei casi più difficili – quelli che sono stati presi in carico e seguiti dall’Unità operativa di Neuropsichiatria infantile dell’Ospedale Maggiore, dove l’équipe guidata dal direttore Antonella Costantino si occupa da vicino di monitorare i ragazzi da un punto di vista clinico e sanitario.
In questo senso, per esempio, si è mosso l’ultimo protocollo di studio incentrato sui casi di 511 giovani che si sono rivolti ai consultori: un progetto che ha offerto dati interessanti sulla natura del disagio adolescenziale. E da cui, tuttavia, sono arrivate anche buone notizie: come quella che nel 34,8% dei casi, ad esempio, il ragazzo si è presentato al centro da solo. «Un dato fondamentale – spiega la professoressa Maria Luisa Di Natale, prorettore della Cattolica e direttore scientifico del Creada – per comprendere come la necessità di una risposta educativa arrivi dai ragazzi stessi». In molti casi è poi la famiglia ad attivarsi: sempre nel protocollo preso in esame, per il 38,9% dei casi i ragazzi sono arrivati nei consultori con entrambi i genitori o uno dei due (quasi sempre la madre), ma c’è stato anche il frequente caso (21,5%) di genitori che si sono recati al consultorio soli per tentare di risolvere problemi relativi ai propri figli adolescenti. Infine, invece, il dato forse più allarmante, quello di un’alta percentuale di adolescenti "problematici" (il 21,1%) di ragazzi che provengono da famiglie in cui i genitori sono separati o divorziati: «Numeri che lasciano supporre – continua la De Natale – una corrispondenza tra problematicità dei figli e situazione familiare».
Proprio su questo aspetto, peraltro, si stanno concentrando altri due progetti di ricerca del Creada, volti a indagare da vicino come i figli di coppie separate affrontino la costruzione di una nuova famiglia. «Le istituzioni educative sono oggi chiamate non solo a mettersi in rete e a misurarsi con i ragazzi, ma anche sul mondo stesso degli adulti, su come le problematicità dell’uno si riflettano nell’altro e lo influenzino – spiega ancora Grassani –. È anche la coppia, su cui si fonderanno le famiglie di domani, che ha bisogno di essere formata, seguita, preparata».
Viviana Daloiso