Nella rassegna stampa di oggi:
1) IL CARD. BAGNASCO: SERVE UNA NUOVA GENERAZIONE DI POLITICI CATTOLICI - In Italia esiste “un problema di coerenza personale”
2) La moralità del conoscere da Bonaventura a Rosmini - La carità non è un concetto - In occasione della memoria liturgica di san Bonaventura pubblichiamo ampi stralci di una delle relazioni tenute all'ultimo convegno che si è svolto a Bagnoregio a cura del Centro studi bonaventuriani su "La carità rivelazione della verità" e il relatore, nell'intervento "Carità e verità in Rosmini", ha puntato a sottolineare come nel beato roveretano, a differenza del santo di Bagnoregio, il concetto di carità trovi la sua collocazione in una trattazione teologica e spirituale, e solo successivamente filosofica. - di Luciano Malusa - (©L'Osservatore Romano - 15 luglio 2010)
3) Ideologie della qualità della vita: Engelhardt e Singer, due profeti della bioetica laica - Di Marco Luscia – dal sito http://www.libertaepersona.org
4) Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - E’ uscito il mio libro: “Caterina” - E’ uscito oggi in libreria il mio libro “CATERINA. diario di un padre nella tempesta” (Rizzoli). Qua sotto anticipo la prefazione (uscita anche su Libero di oggi) dove spiego il perché mi sono messo in questa impresa
5) TOY STORY 3/ Quel sequel affascinante (contro ogni aspettativa) sui balocchi che ricordano la vita - Beppe Musicco - giovedì 15 luglio 2010 – ilsussidiario.net
6) Avvenire.it, 15 luglio 2010 - A proposito di biotestamento - Storia di Rudd che voleva morire e fatto fragile chiese di restare vivo - Michele Aramini
7) Avvenire.it, 15 luglio 2010 - BUENOS AIRES .- Argentina, nozze gay - arriva il sì del Senato - Michela Coricelli
8) EllaOne - Pillola «del dopodomani», primo ok Usa - Il farmaco che interrompe una gravidanza fino al quinto giorno ha ricevuto il via libera preliminare dalla Fda - di Lorenzo Schoepflin - Avvenire, 15 luglio 2010
9) «Down e felice»: Eleonore mette in crisi la Francia - L’incredibile battaglia di una ragazza di 24 anni affetta da trisomia 21 contro l’eugenetica legalizzata sta facendo parlare di sé l’intero Paese Protagonista di iniziative pubbliche, conferenze e interviste, instancabile promotrice con la famiglia di un’associazione che porta il suo nome, la giovane si batte contro la selezione preimpianto degli embrioni che recano i segni dell’anomalia genetica E fa breccia nei francesi. – Avvenire, 15 luglio 2010
10) Un figlio senza rischi, illusione in provetta - di Vincenzo Savignano – - Avvenire,15 luglio 2010 «Der embryo als produkt»: l’embrione come prodotto. È il titolo dell’articolo del medico-giornalista Warner Bartens sulla recente sentenza della Corte di giustizia di Lipsia, che ha dato il via libera in Germania alla diagnosi preimpianto sugli embrioni. Bartens, 44 anni, da anni cura una rubrica personale dal titolo provocatorio «Medicina e follia» sulla Süddeutsche Zeitung , noto quotidiano di orientamento socialdemocratico e progressista.
11) Ru486 - Emilia-Romagna per il day hospital. Umbria, è polemica – Avvenire, 15 luglio 2010
IL CARD. BAGNASCO: SERVE UNA NUOVA GENERAZIONE DI POLITICI CATTOLICI - In Italia esiste “un problema di coerenza personale”
ROMA, mercoledì, 14 luglio 2010 (ZENIT.org).- Per uscire dalla situazione di crisi culturale che attanaglia l'Italia occorre un rinnovato senso di responsabilità e una nuova generazione di politici cattolici. Ad affermarlo è il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), il Cardinale Angelo Bagnasco.
In una intervista a “L'Osservatore Romano” il porporato è tornato su quanto già auspicato da Benedetto XVI nel 2008 durante il suo viaggio a Cagliari e poi ribadito dal suo Segretario di Stato, il Cardinale Tarcisio Bertone.
“L'affezione per la cosa pubblica – ha fatto notare il porporato – sta scemando e sempre più rarefatto è il consenso intorno al bene comune, privilegiando ciascuno beni di piccolo cabotaggio e senza prospettiva alcuna”.
“Per questa ragione anch'io ho fatto riferimento a un 'sogno' per evocare una direzione di marcia verso cui camminare”, ha aggiunto richiamando un messaggio lanciato in occasione della prolusione per il Consiglio episcopale permanente del gennaio scorso.
“Nella prolusione – ha continuato – mi riferivo appunto a 'una generazione nuova di italiani e di cattolici che, pur nel travaglio della cultura odierna e attrezzandosi a stare sensatamente dentro ad essa, sentono la cosa pubblica come importante e alta, in quanto capace di segnare il destino di tutti, e per essa sono disposti a dare il meglio dei loro pensieri, dei loro progetti, dei loro giorni'”.
“Penso che attorno a questo tema nevralgico della nostra società, che chiama in causa la testimonianza della Chiesa, occorra il concorso attivo di tutti”, ha quindi sottolineato aggiungendo che “come Vescovi italiani ci impegneremo a una specifica riflessione in merito”.
Rispondendo poi alla domanda se esista sui temi etici in Italia un problema di rappresentanza politica delle posizioni cattoliche, il Presidente della CEI ha commentato che “più che un problema di rappresentanza politica esiste un problema di coerenza personale”.
“Credo – ha evidenziato – che sempre più siano necessari fedeli laici capaci di imparare a vivere il mistero di Dio, esercitandosi ai beni fondamentali della libertà, della verità, della coscienza”.
“Come detto nella citata prolusione dello scorso gennaio – ha proseguito –, 'cresce l'urgenza di uomini e donne capaci, con l'aiuto dello Spirito, di incarnare questi ideali e di tradurli nella storia non cercando la via meno costosa della convenienza di parte comunque argomentata, ma la via più vera, che dispiega meglio il progetto di Dio sull'umanità, e perciò capaci di suscitare nel tempo l'ammirazione degli altri, anche di chi è mosso da logiche diverse'”.
In merito, invece, alla crisi economica il Presidente della CEI ha detto che “c'è ancora molta disoccupazione” e di non riuscire a scorgere “concreti e sicuri segnali di inversione di tendenza, anche in grandi realtà industriali della mia Genova. Serpeggiano tra la gente preoccupazioni serie e pungenti”.
“Non mi riferisco ovviamente a un discorso di macroeconomia per il quale non ho le competenze – ha precisato –. Semplicemente constato che se gli strateghi possono rassicurare sul medio periodo, ritenendo che la strada giusta sia stata imboccata, come Vescovo vedo molta gente senza lavoro e sono turbato da tanta sofferenza e insicurezza su come arrivare alla fine del mese”.
“Un certo assestamento c'è stato perché le famiglie si sono adattate, utilizzando meglio le risorse ed evitando gli sprechi. Però c'è una fascia che aveva ben poco da risparmiare e che obiettivamente è in affanno.”
“Credo che il criterio dell'equità economica sia quello da seguire – ha poi suggerito –, dovendo ciascuno dare in rapporto alle proprie capacità. Sta poi a chi ha la responsabilità politica affrontare in concreto la situazione, declinando l'equità economica dentro a una cornice di libertà politica e di coesione sociale. Solo così i tre valori in gioco - la libertà politica, la giustizia economica, la coesione sociale - si salvaguardano insieme”.
Affrontando poi la questione dello smarrimento del senso di coesione nazionale, il Cardinale Bagnasco ha osservato che “proprio riandando indietro nel tempo, si scopre che quando a prevalere sono state logiche di campanile e ci si è contrapposti in nome del proprio 'particolare' si è registrata una battuta d'arresto”.
“Al contrario – ha osservato –, quando si è innescato il meccanismo virtuoso della cooperazione, allora le forze culturali, sociali, economiche e spirituali, si sono sommate e non annullate. Penso che la crisi in atto debba dunque spingere l'Italia a ritrovare se stessa”.
Per questo ha espresso apprezzamento per lo sforzo di quanti, come il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, “invitano continuamente a ritrovare la coesione e la convergenza, al di là delle legittime differenze”.
Nel corso dell'intervista, il porporato ha quindi toccato anche il tema del federalismo, affermando che non si tratta di “una ricetta magica” quanto di “un'intuizione ben presente nella dottrina sociale della Chiesa, che sin dai tempi di Pio XI chiama in causa il principio di sussidiarietà - poi introdotto a Maastricht - per sottolineare che quel che può essere fatto dalle realtà intermedie non deve essere avocato a sé dall'istanza centrale”.
“Infatti più si è vicini alla realtà, più la si può accompagnare con efficienza e oculatezza – ha aggiunto –. Ciò posto, il principio suddetto va coniugato con quello di solidarietà per evitare che chi sta indietro resti ancora più arretrato”.
Con uno sguardo, infine, alla Settimana sociale dei cattolici italiani che si terrà dal 14 al 17 ottobre a Reggio Calabria, il Cardinale ha parlato di “una serie di questioni non più rinviabili”, come “creare impresa, educare, includere nuove presenze nel nostro Paese, introdurre i giovani nel mondo del lavoro e della ricerca, compiere la transizione istituzionale”, che oggi definiscono in modo puntuale il volto del bene comune, che solo garantisce la tenuta unitaria dell'Italia e la ripresa economica”.
“Certamente è la speranza cristiana che fa da sfondo, e ancor prima da movente, a questa rinnovata stagione di impegno dei cattolici italiani dentro la società di oggi”, ha quindi concluso.
La moralità del conoscere da Bonaventura a Rosmini - La carità non è un concetto - In occasione della memoria liturgica di san Bonaventura pubblichiamo ampi stralci di una delle relazioni tenute all'ultimo convegno che si è svolto a Bagnoregio a cura del Centro studi bonaventuriani su "La carità rivelazione della verità" e il relatore, nell'intervento "Carità e verità in Rosmini", ha puntato a sottolineare come nel beato roveretano, a differenza del santo di Bagnoregio, il concetto di carità trovi la sua collocazione in una trattazione teologica e spirituale, e solo successivamente filosofica. - di Luciano Malusa - (©L'Osservatore Romano - 15 luglio 2010)
"La carità è quella virtù soprannaturale per la quale noi ci uniamo a Dio coll'amarlo come il bene essenziale, il sommo bene e il fonte di tutti i beni". Così Antonio Rosmini nel suo Catechismo disposto secondo l'ordine delle idee. A differenza di san Bonaventura, Rosmini tende a distinguere puntigliosamente l'approccio filosofico alle grandi tematiche della filosofia cristiana da quello teologico, pur rilevando la continuità tra teologia e filosofia e l'ancillarità sostanziale della seconda. Il concetto di carità, per Rosmini, trova la sua collocazione in una trattazione teologica e spirituale, e solo successivamente filosofica. Il senso profondo della carità sta nell'unione dell'uomo con Dio; la carità quindi si distingue profondamente dall'amore inteso in senso naturale.
Tra l'amore e la carità, afferma Rosmini, vi è la differenza che vi è tra verità naturale e verità soprannaturale. L'amore naturale oggettivo, pur buono e lecito, non regge nella dinamica della ricerca del bene di cui la volontà possa appagarsi. "La carità all'incontro trova e possiede il fine assoluto dell'amore che è Dio Uno e Trino. E come l'ama in se stesso, positivamente e immediatamente conosciuto, così l'ama negli uomini ne' quali egli dimora, e, in un diverso modo, in quelli altresì, ne' quali egli può dimorare, e sono tutti quanti vivono in terra".
Rosmini ci offre nella Teosofia (libro iii, parte i) un'acuta analisi del mistero trinitario che fonda l'essenza della carità. Il Padre, secondo la tradizione teologica, crea eternamente l'essere del Figlio: è "beneficiente". "La carità che appartiene all'essenza divina (in quanto però questa stessa identica carità procede dal Padre e dal Figlio è la persona dello Spirito Santo) considerata nel Padre, prende forma di beneficenza, perché il Padre dà tutta la propria natura alle altre due persone, e da lui come da principio vengono tutte le cose che sono: nel Padre dunque si ravvisa la prima, infinita, assoluta e universale beneficenza".
Il Figlio ama il Padre nella dimensione della riconoscenza. "Nel Figlio la carità prende forma di riconoscenza e di gratitudine. Il Figlio riconosce sì fattamente tutto dal Padre e a lui riferisce tutto, che la stessa spirazione dello Spirito Santo egli riconosce come ricevuta dal Padre, e a lui la riferisce". La dimensione dello Spirito è quella dell'unione dei due atti, di beneficenza e di riconoscenza. "Nello Spirito Santo la carità essenziale prende forma d'unione. Trattasi d'unione del subietto infinito intelligente col subietto stesso infinito inteso, per via d'infinito compiacimento che è l'unione stessa amorosa nell'ultimo atto. Trattasi d'unione del tutto col tutto che raddoppia, per così dire, se stesso coll'intelligenza e si triplica nell'amore senza cessare d'essere un unico e identico tutto. In questa unione finisce, riposa, sussiste la stessa beneficenza e la riconoscenza, come in ultimo loro termine semplificate e consumate". Il bene quindi, scaturendo dallo Spirito, ha la caratteristiche di essere unificatore, uno, consolatore.
Dalla dimensione dell'amore assoluto di Dio discende anche l'aspetto intellettuale della carità. Si arriva alla dimensione intellettuale dalla dimensione della donazione. La carità non è un concetto costruito: è un convincimento profondo che poi si traduce in direttiva di vita per un atto volontario. "La perfezione dell'anima - scrive Rosmini ai fratelli laici del suo Istituto - consiste in una squisita carità di Dio; la carità poi è il massimo comandamento, il compendio, la perfezione, e il fine di tutta la legge. Perciò l'Istituto di questa Società esige, che noi ci studiamo di coltivare l'amore di Dio senza metterci limite alcuno, e che chiediamo a Dio questo amore istantemente (...) La carità del prossimo sia in noi un amore universale, che abbracci nel Signore tutti gli uomini, e tutte le nazioni".
L'universalità della carità significa che il prossimo va amato in tutte le dimensioni sue, da quelle fisiche a quelle spirituali a quelle intellettuali. Compito specifico dell'Istituto pensato da Rosmini è, paradossalmente, l'amore nella dimensione effusiva, nel primato della volontà nell'atto morale.
Alla carità intellettuale si arriva distinguendo i doveri che la carità comporta. "Gli uffici di carità, rispetto al bene del prossimo, a cui tendono direttamente, sono di tre specie - afferma Rosmini -. La prima specie comprende quegli uffici che tengono a giovare immediatamente al prossimo in ciò che riguarda la vita temporale: e questa si può chiamare carità temporale. La seconda specie comprende quegli uffici che tendono a giovare immediatamente al prossimo nella formazione del suo intelletto e nello sviluppo delle sue facoltà intellettuali: e questa si può chiamare carità intellettuale. La terza specie comprende gli uffici di carità che tendono a giovare al prossimo in ciò che spetta alla salvezza delle anime: e questa si può chiamare carità morale e spirituale".
Per Rosmini la carità temporale, o materiale, non significa da sola molto: senza la finalità spirituale non avrebbe senso il sovvenire ai bisogni dell'uomo in difficoltà materiali. D'altro canto le difficoltà dell'uomo nascono dalla sua condizione moralmente debole, e non sono dovute a circostanze solamente sfavorevoli in senso materiale. Quel che conta per Rosmini è l'orientamento spirituale. L'amore per il prossimo, in cui si specchiano il Creatore e la vita personale divina perfetta, significa soprattutto amore per la verità. "Questo è il punto centrale della dottrina della carità intellettuale. Poiché la carità è via alla verità e sua pienezza, la società che prende il nome della carità deve custodire in modo preclaro, contemplare e indagare la verità, ed essere ottima ed istancabile promotrice della cognizione della verità fra gli uomini. Di qui deriva il genere di carità che abbiamo chiamato intellettuale, il quale tende immediatamente a illuminare e arricchire di cognizioni l'intelletto umano".
Spiega Rosmini: "Chi ha ricevuto l'incarico di dirigere la carità intellettuale nella Società, a onore del solo Sapiente, Dio Padre, e del nostro Signore Gesù Cristo, intenda anzitutto che l'ordine delle verità è un bene infinitamente più grande del loro numero, e quindi, prima di tutto, sia sollecito del loro ordine, e soltanto dopo del loro numero. Uno è poi l'ordine assoluto delle verità, per cui tutte le scienze diventano una sola, ammirevole per chi la contempla e per l'unica essenza in cui si scorgono tante cognizioni, la quale essenza è l'oggetto della beatitudine umana, cioè Dio, da cui derivano tutte le cose; e infine per l'unico ottimo fine, che è sempre Dio, a cui tutte tornano" (Costituzioni dell'Istituto della Carità, n. 801).
Lo studio delle supreme verità, filosofiche e teologiche, porta alla conoscenza del volere di Dio rispetto agli uomini ed alla considerazione dell'amore universale. Quindi diviene un incentivo per fare il bene, ubbidendo a lui. Rosmini non può ignorare che lo iato tra il sapere, cioè il possedere la verità sotto il profilo intellettuale, e l'agire morale e pratico, è insuperabile da chi muove con forze puramente naturali. Nello scritto Dell'Idea della Sapienza (contenuto nell'Introduzione alla filosofia) viene descritta con chiarezza la difficoltà di passare dal momento intellettuale dell'acquisizione della verità e del riconoscimento del bene, al momento della realizzazione di esso. Il passaggio dall'intendere la verità ed il criterio di essa, nell'Essere ideale, al realizzare il bene avviene solo in grazie della divina Sapienza, che quindi consente all'uomo di essere capace del bene e dell'amore in un contesto di riconoscimento e di completa realizzazione; carità intellettuale quindi significa in ultima analisi amore della Sapienza.
(©L'Osservatore Romano - 15 luglio 2010)
Ideologie della qualità della vita: Engelhardt e Singer, due profeti della bioetica laica - Di Marco Luscia – dal sito http://www.libertaepersona.org
Per comprendere quali siano le ragioni teoriche su cui poggia l’idea di persona esposta nel precedente articolo, mi sembra importante ricordare in breve il pensiero di due notissimi studiosi di bioetica appartenenti alla sfera cosiddetta “laica”. Premetto che in questa sede, per motivi di spazio non presenterò il pensiero di alcuni “bioeticisti” Italiani, come Mori, Maffettone e Lecaldano; ritenendo, per altro, che le linee essenziali della bioetica laica, siano tracciate comunque in modo sufficientemente chiaro dai due pensatori di cui tra breve dirò.
Per bioetica laica intendiamo quel pensiero che prescinda, nel formulare i propri giudizi morali, da qualsiasi riferimento alla morale cristiana, o comunque che eviti qualsiasi discorso relativo “all’essenza, alla natura delle cose”, insomma ad un Creatore ordinatore. Un’etica di questo tipo, a mio avviso, necessariamente sarà debole, non potendo fondarsi su alcunché di assoluto, di certo, di stabile; è bene precisare che il termine assoluto riguarda non soltanto il riferimento a Dio, come Signore della vita, ma pure il coraggio di riconoscere alla vita umana, con una scelta ragionevole e umanissima, un valore intangibile in ogni momento del suo sviluppo. Conseguentemente, gli autori che metodologicamente evitano ogni riferimento all’esistenza di una natura umana come dato di partenza indisponibile, oscilleranno su posizioni più o meno estremiste, alla ricerca di criteri che salvaguardino l’assoluta autonomia del soggetto e dei suoi desideri. Poiché è questo, per loro, il valore assoluto. Troveremo così, chi ritiene che il bene di un comportamento derivi da una scelta convenzionale, chi dall’opinione di una maggioranza. Troveremo chi, con ottimismo, pone ostinatamente la propria fiducia nel primato della ragione buona, che scaturirebbe d’incanto dal pubblico dibattito.
Ma a ben vedere tutte queste ragioni muovono da un assunto: “la bioetica laica può venire legittimamente considerata come l’ultima tappa di quel processo di secolarizzazione che, nel mondo moderno, in seguito allo sfondamento del fondamento metafisico, ha portato alla distruzione di qualsiasi principio assoluto”.
Ed è proprio questo rifiuto di ogni fondamento che espone il pensiero degli autori di cui subito diremo, a pericolose derive disumanizzanti, capaci di porre in discussione i principi elementari del rispetto e dell’amore verso l’altro. L’assoluto di questi signori altro non è che il relativo; questa è la loro opzione, la loro scommessa.
H.T. Engelhardt, che pur si dichiara credente, si richiama a due principi, il principio di autonomia e il principio di beneficenza.
Il principio di autonomia esprime l’idea che solo il consenso di coloro che sono coinvolti può essere fonte di valori morali, frutto di un contratto, di una negoziazione.
Tale asserzione può essere altresì espressa : “Non fare agli altri ciò che essi non vorrebbero fosse fatto loro e fai loro ciò che ti sei impegnato contrattualmente a fare”. Si tratta, come evidente, di una raccomandazione di non ingerenza, tipica di coloro che Engelhardt chiama, “stranieri morali.” Tale principio che vorrebbe limitare la dimensione individualistica dallo sconfinare nel campo altrui è detto anche, del permesso.
Come dire: soltanto chi partecipa attivamente alla discussione attorno ai valori e ai diritti, ha titolo di essere tutelato, ma chi -per varie ragioni- in tale discussione non è in grado di entrarvi può, se gli va bene, essere tutelato per gentile concessione del più forte. Ma di questo vedremo in concreto. Di fatto chi non può far sentire la propria voce, non esiste, se non nel pensiero e nella cura di qualcuno che si assuma il compito di “farlo esistere”, di dire: «ci sei , per me tu sei importante!».
A questo principio si associa il principio di beneficenza che è dato dal rispetto degli accordi stipulati.
Il principio di beneficenza può essere formulato semplicemente così: fai agli altri il loro bene.
Ma attenzione, tale definizione non tiene conto di un aspetto: il bene da farsi, è ciò che ritiene tale il soggetto beneficiario del presunto bene! Insomma ad alcuno può essere imposto un bene che egli non voglia. Pertanto il bene personale è stabilito dal soggetto; non esiste quindi un bene vero, condivisibile da tutti. Così, utilizzando un paradosso, se mio desiderio è drogarmi, se questa azione non procura danno ad alcuno, io non solo posso farlo, ma è altresì moralmente neutra l’azione di chi mi procura la dose.
Il concetto di persona secondo H. T. Engelhardt.
Se la morale si fonda sul consenso dei partecipanti “al dibattito”, essa appare subito qualche cosa di relativo e provvisorio, frutto del prevalere degli interessi dei più forti. Pertanto -direbbe Engelhard- non tutti gli esseri umani sono persone e quindi il loro destino è lasciato al buon cuore dei soggetti liberi e consapevoli.
“Per Enghelhardt, perché ci sia la persona umana ci deve essere vita mentale di livello superiore, mentre non basta che ci sia una qualunque vita mentale:«non è plausibile sostenere che i feti siano persone in senso stretto. In effetti, non ci sono prove nemmeno per sostenere che persino gli infanti siano persone in tal senso. Qualunque tipo di vita mentale possa esistere per i feti e gli infanti, essa è comunque minima, cosicché lo status morale dei mammiferi adulti, ceteris paribus, sarebbe superiore a quello dei feti o degli infanti umani”.
In tal caso, un bambino appena nato, non ha alcun valore proprio; il valore gli è conferito dalla madre; il feto, il bambino è “una cosa vivente”, di cui disporre a piacimento.
Ascoltiamo ancora il “nostro” Autore: “così il feto di una donna che vuole un bambino assume un notevole significato(…). Il feto può esser visto come una forma speciale di proprietà molto preziosa (…). Può accadere anche l’opposto. A causa delle circostanze del concepimento, delle provabili circostanze della nascita , o del fatto che il feto è handicappato o deforme, può essergli attribuito un valore negativo. Il feto può essere visto come qualcosa di minaccioso, di dannoso, può essere valutato negativamente oppure odiato”.
In questo caso il principio di autonomia annienta ogni altro valore, così come la vita biologica non conta nulla di fronte alla volontà della persona autonoma, che diviene fonte assoluta di valore.
Se dunque dovessimo considerare quanto detto sopra, il feto, il bambino, l’handicappato, non sono in grado di dire sì o no, di opporsi a ciò che il soggetto reputa buono, perché di fatto non esistono come persone e pertanto possono essere trattati come cose. Eppure, molto spesso, la presenza in una famiglia di un soggetto debole ha la capacità di attivare tesori di energie e di grazie, rivelando, ai sani, regioni del proprio essere altrimenti sconosciute.
E’ sin troppo evidente la dimensione eugenetica presente nelle idee del nostro autore ed è questa la radice culturale che soggiace al dibattito sull’embrione, sul diritto alla vita, sull’aborto, venendo meno la forza del diritto naturale, che fonda la dignità della vita umana in ogni istante del suo sviluppo. E così si apre la strada ad ogni forma di arbitrio.
L’uomo, secondo un’idea pervasa di titanismo, domina la natura secondo fini e valori che egli inventa, conferendo senso e ordine alla realtà secondo una logica utilitaristica, predatoria, in una parola, violenta. Sentiamo ancora Engelhardt: “Se nella natura umana non c’è nulla di sacro(…) non sussisterà più nessuna ragione per cui, con le dovute cautele, non la si possa trasformare radicalmente”. Sarebbe interessante conoscere quali siano queste cautele di cui parla l’autore, gli orrori realizzati in campo biogenetico, sono sotto gli occhi di tutti.
Insomma -secondo questo modo di intendere- nel grembo materno non c’è una persona umana che stia realizzando gradualmente tutto il proprio potenziale intrinseco.
Eppure, la scienza documenta in modo inequivocabile come già nel grembo materno il bimbo interagisca con la madre, provi piacere, dolore, sogni; come una volta nato, la musica ascoltata attraverso il corpo della madre, venga da lui riconosciuta e addirittura lo rilassi.
Sulla vita prenatale si veda, ad un primo livello, l’agile volumetto di Carlo Billieni, “Se questo non è un uomo”.
Il concetto di persona secondo Peter Singer.
Singer, rafforza ulteriormente la prospettiva illustrata sopra, giungendo a delle considerazioni impressionanti.
Anche Singer propone una visione della vita umana fortemente improntata su criteri individualistici.
Partendo da tale prospettiva l’autore australiano non fa differenza sostanziale fra uomini e animali; l’unica differenza è rappresentata dal grado di autocoscienza e razionalità. Ma tale differenza non è -come si potrebbe pensare- lo spartiacque fra uomo e animale, quanto fra persone umane e animali dotati di coscienza e razionalità, tra pre-persone quali bambini, neonati, cerebrolesi, e non umani superiori.
Gli animali superiori, “le persone non umane,”sarebbero lo scimpanzé, il delfino, la balena, e il maiale. E così Singer può affermare che: “Alcuni esseri appartenenti a specie diverse dalla nostra sono persone: alcuni non lo sono (…) abbiamo ragioni molto forti per dare più valore alla vita delle persone cha a quella delle non persone. E così sembra che sia più grave uccidere, per così dire, uno scimpanzé, piuttosto che un essere umano gravemente menomato che non è persona”.
Il valore della persona, come più volte affermato, dipende da qualità possedute o meno; le conseguenze ci paiono ovvie.
Partendo da tali valutazioni per Singer l’aborto è lecito anche in uno stadio avanzato della gravidanza: “In realtà anche un aborto a gravidanza avanzata, per le ragioni più banali è difficile da condannare in una società che massacra forme di vita di gran lunga più sviluppate per il sapore della loro carne”. Insomma è assai più grave uccidere un maiale che abortire un bambino al nono mese.
Perciò, con perfetta consequenzialità, Singer ammette l’infanticidio: “Ci sono meno ragioni contro l’uccisione sia dei bambini che dei feti di quante ce ne siano contro l’uccisione di coloro che sono capaci di considerare se stessi come entità distinte nel tempo.(...)l’infanticidio è stato praticato in società che vanno geograficamente da Thaiti alla Groenlandia... In alcune di queste società l’infanticidio non solo era permesso ma, in certe circostanze considerato addirittura obbligatorio. (...)Potremmo noi pensare di essere più civili dei migliori moralisti greci o romani?”.
Personalmente penso di poter rispondere di sì: oggi, di fronte ad una creatura indifesa e malata, non fuggiamo gettandola da una rupe, ma diventiamo per essa strumento di cura e di amore -questo perlomeno fino a quando la mentalità egoistica e insensibile proposta da Singer non si sarà diffusa-. A parte il fatto che mi sconcerta l’idea che i filosofi e gli intellettuali in forza della ragione posseggano la chiave interpretativa del bene e del male; molto spesso infatti sono le persone semplici, prive di pregiudizi, quelle che vivono secondo il dettato del buon senso e della legge naturale a capire cos’è il meglio per l’uomo.
Ma per Singer non è così. Nella sua prospettiva sono gli interessi in gioco a determinare il valore che i giocatori attribuiscono alle cose e quei “ valori” sono decisi da chi dispone di più forza, di più risorse, più “intelligenza”, più conoscenze. Per cui secondo tale logica è possibile immaginare una gerarchia di valore fra le persone umane in base al principio della forza di imporsi.
L’assenza di un fondamento di valore -se non quello di tipo utilitaristico- disegna un mondo che si trasforma in una lotta di tutti contro tutti.
Dunque a parer nostro Singer -per affermare che il valore della vita umana varia a secondo delle situazioni- sente la necessità di “riscrivere” i comandamenti: ciascuno deve assumersi la responsabilità delle conseguenze delle sue decisioni; è dovuto rispetto nei confronti del desiderio di coloro che vogliono vivere o morire; si devono mettere al mondo dei bambini solo se li si desidera; non si possono operare discriminazioni in base alla specie.
Questi nuovi comandamenti, negano il valore della sacralità della vita e quindi della sua indisponibilità, aprono perciò la via al suicidio, all’eutanasia, all’aborto, alla selezione eugenetica, purché il soggetto si assuma la responsabilità di decidere, per se stesso o per un altro qualora quest’ultimo non fosse in grado di esprimersi. E’ interessante notare inoltre come Singer voglia parificare la specie umana alle altre specie animali, con ciò privando l’uomo di ogni dignità ontologica e metafisica, per abbassarlo al rango della materia.
Non poteva che essere così da parte di un pensatore per il quale Dio non esiste.
Ed è curioso e consequenziale come in Spagna di questi tempi sia emersa l’idea di tutelare i gorilla e la loro dignità alla stregua di persone umane.
L’ideologia della qualità della vita
Tutte le considerazioni sin qui svolte affondano le proprie radici nell’ideologia della qualità della vita. Su tale assoluto gran parte degli studiosi di bioetica non credenti fondano le proprie argomentazioni. Qualità che come in gran parte abbiamo visto riposa su tre assunti: una vita appare degna di essere vissuta se in essa prevale il piacer rispetto al dolore; una vita appare degna di essere vissuta se il singolo può soddisfare i propri interessi; una vita è degna di essere vissuta se dotata di alcune capacità funzionali essenziali per lo sviluppo della persona.
Ma quali sarebbero -secondo questa ideologia- quelle capacità che renderebbero la vita degna di essere vissuta? Il non morire prematuramente, la buona salute, l’essere adeguatamente nutriti, il possedere un’abitazione adeguata, il muoversi liberamente, la possibilità di godere del piacere sessuale, l’uso dei cinque sensi, l’immaginare, il pensare, il ragionare, l’essere in grado di esprimere i propri desideri creativi. Mi pare evidente in tutto ciò una pericolosa prospettiva utopica. Quanti di noi infatti potrebbero -secondo quanto esposto sopra- ritenere di vivere una vita degna? L’evidenziare gli elementi che rendono una vita degna di essere vissuta, non predispone forse i soggetti ad uno stato di frustrazione perenne, alla ricerca smodata di ciò che manca, al rifiuto del debole, dell’imperfetto, del provvisorio e in definitiva, al rifiuto della vita stessa? E tutto ciò in un contesto globale che privilegia il successo, il piacere, il presente, a scapito del senso globale dell’esistenza.
La dottrina della qualità della vita mi pare come la sovrastruttura elaborata dall’ideologia dominante, attenta a giustificare i forti a scapito dei deboli, nonché -ancora una volta- la lotta perenne di tutti contro tutti. Essa non trae origine dall’amore e dalla compassione, intesa come un patire insieme, ma si maschera di pietà per scaricare la coscienza dei singoli rispetto alla responsabilità che ci accomuna in quanto esseri umani.
Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - E’ uscito il mio libro: “Caterina” - E’ uscito oggi in libreria il mio libro “CATERINA. diario di un padre nella tempesta” (Rizzoli). Qua sotto anticipo la prefazione (uscita anche su Libero di oggi) dove spiego il perché mi sono messo in questa impresa
Antonio Socci
Quei bambini del lebbrosario…
Tante persone – scrivendo al mio blog – hanno continuato, nel corso dei mesi, a chiedermi come sta Caterina e come si evolve la sua situazione. Alcuni mi parlano delle proprie afflizioni, delle prove che devono vivere e mi domandano come riuscire a non restarne schiacciati.
Ho scritto questo libro per loro e per ringraziare i moltissimi che hanno pregato e pregano per Caterina. Ma oso (sfacciatamente) mendicare ancora preghiere ardenti perché restiamo nella tempesta o – almeno – siamo ancora in cammino. Un cammino lunghissimo, drammatico e pieno di pericoli e incognite.
Questo libro vuole essere anche un atto di fede in Gesù che ci esorta a pregare come se avessimo già ottenuto ciò che chiediamo. E quindi un atto di ringraziamento.
Insieme vuole essere il mio ringraziamento a Dio per averci dato Caterina. Lo ringrazio di averla creata e fatta cristiana. Lo ringrazio di averla fatta così buona e bella, anche nell’anima.
Lo ringrazio dello splendido popolo cristiano in cui è cresciuta e che l’ha sostenuta nella terribile prova presente. A questo popolo chiedo, con gratitudine, ancora preghiere per la nostra principessa…
Voglio testimoniare infine ciò che ha sostenuto me finora, ciò che mi ha dato conforto, coraggio, forza e anche gioia, pur fra le lacrime. Perché forse può essere un conforto e un abbraccio per altri che si trovano nella prova.
È un gesto d’amore che voglio fare con Caterina e per Caterina, verso molti sofferenti che sono soli, che non hanno la fortuna di avere tanti amici accanto, come abbiamo noi. Vorrei che ci sentissero vicini.
La Madonna ci esorta ad aver compassione della sofferenza di tutti come l’abbiamo per il dolore dei nostri figli. Come se fossero tutti nostri figli.
Tentare di dare anche un soccorso materiale, concreto, è una delle cose che abbiamo deciso di fare, fin dall’inizio del dramma di Caterina.
Abbiamo aiutato i bambini del lebbrosario di un Paese del Terzo Mondo (non posso essere più preciso perché il regime di quel Paese non tollera che si parli di lebbra: ne pagherebbero le conseguenze i missionari) che ci hanno sciolto il cuore facendoci sapere, tramite un meraviglioso missionario, di aver pregato per Caterina.
Li sentiamo come parte della nostra famiglia e della nostra compagnia.
Il dolore del mondo è un oceano sconfinato. Se noi facciamo la nostra piccola parte, il possibile, al resto pensa Lei, la Madre dolce e benedetta. Anche con i diritti d’autore di questo libro, dunque, voglio continuare aiutando – finché avrò respiro – altre opere missionarie e di carità per i più poveri e abbandonati.
Per esempio sosterremo il Meeting Point International (partner dell’Associazione Volontari per il Servizio Internazionale, AVSI) della splendida Rose Busingye[1] che a Kampala rappresenta una luminosissima speranza per tante donne poverissime e ammalate di Aids.[2]
Vorremmo aiutare anche – in ricordo di Andrea Aziani (di cui parlo nel libro) – i ragazzi più poveri delle disastrate periferie di Lima in Perù, per metterli in condizione di poter studiare.
E anche una grande opera come Radio Maria, che sta compiendo un mirabile sforzo missionario in Africa.
Infine vorremmo aiutare, con adozioni a distanza, le povere ragazzine cristiane del Pakistan, dove essere cristiani condanna a una sorte pesantissima, a volte orrenda.
Cosicché da un grande male che ha colpito la nostra famiglia, per grazia di Dio, possano nascere un bene e un conforto per tanti che sono sottoposti a dure prove.
Con Caterina, offriamo le nostre sofferenze per la gloria di Gesù, perché sia visibile la sua misericordia già quaggiù e per la salvezza dell’umanità intera (a cominciare da coloro che odiano).
Antonio Socci
[1] Per capire chi è Rose consiglio di leggere Un’avventura per sé (a cura di Paola Brizzi e Alberto Savorana), BUR 2008, pp. 17-25.
[2] Nel 2008 è stato presentato al festival di Cannes un documentario su Rose e le donne del Meeting Point, Greater, che è stato premiato dalla giuria presieduta da Spike Lee.
TOY STORY 3/ Quel sequel affascinante (contro ogni aspettativa) sui balocchi che ricordano la vita - Beppe Musicco - giovedì 15 luglio 2010 – ilsussidiario.net
Ne hanno fatta di strada i personaggi di Toy Story, a partire da quello che li rappresenta un po’ tutti: nel 1995, lo sceriffo Woody era simpatico, ma anche un po’ troppo viziato, conscio del suo ruolo di leader.
Geloso, al punto di giocare sporco con Buzz, il nuovo splendente arrivato, tutto lucine, ronzii e fischi. Era una miscela perfetta: da una parte gli anni ’50, il western, la televisione in bianco e nero, dall’altra Star Wars, la tecnologia, il futuro.
La lungimiranza di John Lasseter e della Pixar è stata di tenere unite queste due anime, di farle crescere insieme: la stupefacente nitidezza dell’animazione digitale e una narrazione tradizionale, che si rifà a sicuri modelli dell’innocenza infantile. Amicizia, dedizione, fedeltà, impersonate da una banda di balocchi di plastica e pezza, una lavagnetta magica, una cane a molla e uno vero.
Quattro anni dopo la Pixar supera sé stessa, realizzando uno dei migliori sequel della storia del cinema, per livello della storia e profondità degli argomenti affrontati. Woody viene tentato dall’immortalità del collezionismo, ma al tempo stesso si confronta con una fine che è di tutti, anche dei giocattoli: la dura realtà è che Andy, il tanto amato bambino, sta crescendo, e prima o poi il distacco sarà inevitabile.
Ma Toy Story 2 era perfetto in sé, non lasciava tutti col fiato sospeso in attesa di un nuovo episodio, non aveva bisogno di altro. Per questo motivo molti erano pronti a scommettere che la decisione della Pixar di realizzare Toy Story 3 sarebbe stata solo un cedimento alle logiche del mercato, sempre affamato di nuovi film in 3-D. E poi cosa si sarebbe potuto dire di più?
Era una sfida, ma già dalla poderosa sequenza iniziale di Toy Story 3 si capisce che la Pixar non teme né rischi né confronti. L’apertura, ricca di scene rocambolesche e spettacolari panorami, rende onore ai personaggi del film, ripercorrendo le gesta e l’eroismo di Woody nella fantasia di Andy. Quello che nei primi due film era un personaggio spesso in bilico tra luci e ombre, qui diventa il vero eroe, il protagonista che era sempre stato nell’immaginazione del bambino che ci giocava.
Ed è significativo anche come Buzz gli ceda il passo, ritagliandosi un ruolo maggiormente comico, quasi volesse fare da spalla alla vera star della vicenda. Toy Story 3 parte effettivamente dalla consapevolezza cui sono arrivati i personaggi alla fine del secondo film: Andy è cresciuto, sta per lasciare la casa e la sua stanza, andrà al college; chissà da quanto tempo non usa più i suoi giocattoli. Loro lo sanno, come sanno che probabilmente il loro destino sarà in una scatola in soffitta o regalati a un asilo.
Ma al di là dell’entusiasmo dei compagni per quella che sembra essere una nuova avventura, Woody vede l’asilo più o meno come il signor Carl di Up vedeva l’ospizio: la triste fine della storia. Se con Andy deve finire, sia. Però non così. C’è una stupefacente e tenera costante nell’agire di Woody in tutto il film, un continuo (e inascoltato) richiamo ai suoi compagni d’avventura: loro, i giocattoli, appartengono a Andy.
Sotto le loro suole c’è scritto il suo nome col pennarello; di questo devono essere fieri, ma anche coscienti. Solo lui può decidere quale sarà la loro sorte, e - la sicurezza di Woody in questo è granitica -, Andy deciderà per il loro bene.
Allontanarsi da questo non solo non è una buona idea, ma soprattutto è tradire quello che si è stati fino a quel momento. Se quella di Woody sembra una voce nel deserto, i fatti ben presto gli daranno ragione: al di là dell’enfatica accoglienza di Lotso, un orso di peluche, e della presenza di nuovi personaggi (tra cui l’irresistibile Ken, strepitoso protagonista anche dei titoli di coda), l’asilo si rivela essere una sorta di campo di prigionia gestito da una sorta di “cupola” dei giocattoli, un luogo da cui evadere a tutti i costi, con scene degne dei migliori film di guerra.
È un’escalation di azione, humour e brivido, che ricorda le scene migliori di Indiana Jones, fino ad arrivare al momento più drammatico del film, quando, di fronte veramente “all’infinito e oltre”, i vecchi compagni si stringono in un semplice e commovente gesto di solidarietà. Alla fine ci penserà comunque un “deus ex machina” a tirarli fuori da una situazione apparentemente senza scampo, e sarà anche molto divertente. Ma ormai il distacco dalla casa e dal padroncino è inevitabile.
La cosa bella è il fatto che Andy mostri un lato sconosciuto: crescendo, il ragazzo è anche maturato, e cogliendo un misterioso suggerimento, porterà la storia a una conclusione che renderà meno doloroso l’addio, suggellando il film come una delle realizzazioni più affascinanti cui il cinema di animazione (e non solo) ci abbia fatto partecipare.
Avvenire.it, 15 luglio 2010 - A proposito di biotestamento - Storia di Rudd che voleva morire e fatto fragile chiese di restare vivo - Michele Aramini
La notizia non avrebbe nulla di eccezionale se non fosse che la volontà di vivere è stata espressa da un uomo – un inglese di 43 anni – a cui stavano per staccare il respiratore che lo teneva in vita. E se non fosse che la Bbc è riuscita a catturare le immagini del fatto, accaduto nove mesi fa nel reparto neurologico dell’ospedale Addenbrooke di Cambridge, mentre una troupe stava realizzando un documentario. La diffusione del servizio televisivo ha avuto grande risonanza su tutti i quotidiani inglesi di ieri e ha impressionato l’opinione pubblica della Gran Bretagna, riportando alla ribalta la delicatezza delle decisioni di fine vita.
Il caso è veramente da manuale. Richard Rudd era stato investito con la moto il 23 ottobre 2009, in seguito all’incidente era rimasto completamente paralizzato, con le ulteriori complicanze di una polmonite e di un blocco renale. Il padre aveva autorizzato i medici a interrompere la respirazione artificiale, perché quando un incidente simile era accaduto a un suo amico Richard aveva espresso la volontà di non vivere attaccato a una macchina. Giunti al momento decisivo i medici hanno però notato che Richard per la prima volta aveva sbattuto gli occhi. Ovviamente gli hanno chiesto se volesse rimanere in vita e lui per tre volte ha mosso gli occhi verso sinistra, per dire il suo sì, la sua volontà di vivere.
La vicenda fa riflettere: innanzitutto, sulla grande incertezza e sulla variabilità della volontà personale di sospendere le terapie. Dovremmo sapere molto bene che un conto è la volontà espressa quando si è in piena salute o sotto l’influsso doloroso della difficile condizione esistenziale di un amico o un parente, tutto un altro è decidere di se stessi nel momento in cui si diventa fragilissimi e appesi alla vita con un filo. Si scopre, allora, che non desideriamo affatto spezzare questo filo, per quanto sottile esso sia. Una simile mutevolezza delle decisioni nei confronti del proprio vivere, seppure in condizioni precarie, dovrebbe rendere più attenti rispetto alla vincolatività che si vuole attribuire alle direttive da lasciar scritte nei cosiddetti testamenti biologici. Per la salvaguardia di un valore essenziale, quale è quello della vita umana, è certamente meglio che tali direttive siano solo orientative e che i medici possano decidere il miglior bene per il malato.
In secondo luogo bisognerebbe spazzar via tutti i veri o presunti "ricordi" di parenti e amici, che appaiono con regolarità nelle cronache su episodi simili: da essi infatti può scaturire un danno irreparabile per la persona impossibilitata a esprimersi. La forma scritta – per quanto incapace di tener conto dell’evoluzione di una persona – è il solo modo affidabile per eventualmente manifestare le proprie volontà. Essa è un mezzo necessario di protezione della vita di fronte a malintesi, sentimentalismi, o interessi di terzi. Il favor vitae, poi, è un principio cardine di ogni ordinamento davvero civile. Purtroppo, però, in più Paesi si sta scivolando nella direzione di un’aperta superficialità nei confronti della vita, per cui tutti i casi limite vengono considerati nient’altro che vite inutili: di fronte a esse ogni appiglio sembra sufficiente per dare la morte, giustificandosi col dire che così si sta semplicemente realizzando la libertà del morente. Chi si oppone a questo scivolamento nel disimpegno nei confronti degli esseri umani più fragili viene persino accusato di essere attaccato materialisticamente alla vita.
Richard Rudd vuole vivere. Speriamo che ora nessuno lo accusi di «vitalismo».
Michele Aramini
Avvenire.it, 15 luglio 2010 - BUENOS AIRES .- Argentina, nozze gay - arriva il sì del Senato - Michela Coricelli
In Argentina diventano legali i matrimoni gay: il Senato ha approvato la legge che autorizza le unioni omosessuali, dopo che la Camera lo aveva già approvato lo scorso maggio. L'Argentina è il primo Paese dell'America latina ad autorizzare i matrimoni gay. Il disegno di legge, sostenuto dal governo di centro-sinistra della presidente Cristina Fernandez de Kirchner, è stato approvato con 33 voti a favore e 27 contrari dopo più di 15 ore di dibattito in aula.
«È un giorno storico», ha detto il capogruppo del partito al potere, Miguel Pichetto, ricordando che il dibattito è stato messo in calendario per il 14 luglio, giorno di commemorazione della Rivoluzione francese. «È la prima volta che si vota per una legge a favore delle minoranze», ha aggiunto.
«La società argentina è cambiata: ci sono dei nuovi modelli famigliari, ha detto il capogruppo al Senato dei radicali all'opposizione, Gerardo Morales, spiegando come questa legge sia pensata per tutelare i diritti delle minoranze.
Come già accaduto in Spagna nel 2005, il progetto prevede che dal Codice civile argentino scompaiano i termini «moglie e marito», sostituiti semplicemente dalla parola «contraenti». Un escamotage linguistico che implica molto di più: una trasformazione sociale e antropologica che suscita appassionate critiche, energiche condanne, ma anche applausi ed entusiasmi. Il Paese è diviso in due, come il Senato.
Di fatto, fino all’ultimo momento nessuno dei due fronti – il sì (appoggiato dall’Oficialismo, che sostiene il governo della presidente Cristina Fernandez Kirchner) e il no – ha azzardato previsioni sul voto: l’approvazione era appesa ad un filo.
Contro la legalizzazione era stato presentato un progetto alternativo per riconoscere le unioni civili gay, escludendo però l’equiparazione con il matrimonio vero e proprio, dunque la possibilità di adozione e il diritto di ricorrere ai procedimenti di fertilizzazione assistita. Ma ha prevalso la posizione più netta e radicale e la proposta – nonostante il placet della Commissione di legislazione generale del Senato – è stata bloccata in extremis, tramite impugnazione.
Anche le richieste di referendum sono state un buco nell’acqua. Ma la società argentina non è rimasta a guardare. La manifestazione più affollata è stata quella di martedì sera, a Buenos Aires, di fronte alla sede del Senato. Circa 100mila persone (200mila secondo alcune fonti) sono scese in piazza in difesa del matrimonio eterosessuale: «Vogliamo una mamma e un papà», si leggeva sui cartelli, in linea con le parole del cardinale Jorge Bergoglio. I bambini hanno il diritto di nascere e crescere nell’«ambiente naturale del matrimonio», aveva ricordato il cardinale argentino. È stata una protesta pacifica, trasversale: i partecipanti hanno scelto uno sgargiante colore arancione per bandiere e cappellini, prendendo le distanze da tutti i partiti dell’arco argentino. Giovani e anziani, famiglie e single: in piazza (nonostante il freddo dell’inverno di Buenos Aires) hanno sfilato persone di tutte le età e di diversi credo. Insieme ai cattolici (i più numerosi), c’erano anche alcune organizzazioni evangeliche e parte della comunità ebraica.
La politica è stata chiamata in causa, inevitabilmente: al termine è stato letto un manifesto in cui i partecipanti hanno promesso che non voteranno «mai più per quei politici che appoggiano il matrimonio omosessuale o si astengono o si assentano dalla votazione». Contro l’iniziativa, inoltre, sono state raccolte oltre 800mila firme.
La spinosa legge era stata approvata dalla Camera bassa lo scorso 5 maggio. Ma quattro città argentine avevano già anticipato la polemica nazionale, regolarizzando le unioni civili gay a livello municipale. Prima fra tutte Buenos Aires, con la Legge delle Unioni Civili del 2002. Nonostante gli strappi legislativi locali, la giurisprudenza argentina non si è mai messa d’accordo: dallo scorso dicembre si sono sposate nove coppie gay, ma diverse nozze sono state annullate dai giudici dopo poche settimane.
L'Argentina è quindi diventata il primo Paese dell'America latina ad autorizzare le nozze gay, e il decimo al mondo dopo Olanda, Belgio, Spagna, Canada, Africa del sud, Norvegia, Svezia, Portogallo e Islanda.
Michela Coricelli
EllaOne - Pillola «del dopodomani», primo ok Usa - Il farmaco che interrompe una gravidanza fino al quinto giorno ha ricevuto il via libera preliminare dalla Fda - di Lorenzo Schoepflin - Avvenire, 15 luglio 2010
Alla fine è arrivata l’approva zione da parte di una commissione della Food and Drug Administration, l’agenzia statunitense del farmaco: la Fda ha diffuso nei giorni scorsi un documento dove si parla della pillola dei cinque giorni dopo, conosciuta anche come EllaOne o Ulipristal (il principio attivo), come di un farmaco «sicuro» ed «efficace» nel prevenire la gravidanza.
Solitamente questo tipo di approvazione è seguito dalla commercializzazione del farmaco. Le associazioni pro life degli Stati Uniti hanno protestato in modo vibrante perché alla base dell’etichettatura di EllaOne come «contraccettivo» vi è la ridefinizione dell’inizio della gravidanza, fatto coincidere con l’impianto in utero dell’embrione e non con il concepimento. La commissione ha espresso il proprio voto favorevole confortata dai test clinici sponsorizzati dalla Hra Pharma, l’industria farmaceutica francese che produce EllaOne, dai quali risulta una migliore efficacia nell’interrompere la gravidanza dell’Ulipristal rispetto alla classica pillola del giorno dopo. Durante le audizioni tenute dalla commissione della Fda, Kirsten Moore, presidente del Reproductive Health Technologies Project, ha suggerito che sul 'bugiardino' di EllaOne non venga riportato il consiglio di procedere a un test di gravidanza prima dell’assunzione così che la donna non possa sapere se le pillola ha agito come un abortivo.
Wendy Wright, presidente dell’associazione «Concerned Women for America», ha dichiarato che Hra Pharma non ha fornito dati su eventuali effetti collaterali. Donna Harrison, autrice di studi sulla pericolosità della Ru486, ha affermato che EllaOne non dovrebbe essere commercializzata: «Non esistono dati sufficienti relativamente ai casi in cui una donna resti incinta nonostante l’assunzione della pillola». Critica anche la Conferenza episcopale americana: il cardinale Daniel Di Nardo ha parlato di inganno per le donne che usano contraccettivi ma che non ricorrerebbero mai all’aborto.
«Down e felice»: Eleonore mette in crisi la Francia - L’incredibile battaglia di una ragazza di 24 anni affetta da trisomia 21 contro l’eugenetica legalizzata sta facendo parlare di sé l’intero Paese Protagonista di iniziative pubbliche, conferenze e interviste, instancabile promotrice con la famiglia di un’associazione che porta il suo nome, la giovane si batte contro la selezione preimpianto degli embrioni che recano i segni dell’anomalia genetica E fa breccia nei francesi. – Avvenire, 15 luglio 2010
Eleonore Laloux, 24 anni, è una sorridente ragazza francese che si è battuta più degli altri per un lavoro. Nella pittoresca cittadina di Arras, non lontano da Lilla, è regolarmente impiegata presso gli uffici amministrativi di una clinica privata. Ormai a suo agio con i colleghi, si rende conto in genere solo all’uscita dall’ufficio che nonostante tutto resta spesso una persona 'anormale' negli sguardi dei passanti che incrocia.
Sguardi che le fanno male, perché la classificano in un batter d’occhio in una casella giudicata a priori priva di speranza: quella delle persone down. Senza neppure sospettare la ricchezza di una vita piena d’aspirazioni, sentimenti, voglia e sforzi quotidiani per quella piena integrazione che ad Eleonore, ormai, pare a portata di mano.
Dallo scorso marzo, con l’incoraggiamento dei genitori, Eleonore ha deciso di far sentire la sua voce anche sulla scena nazionale, divenendo portavoce dell’associazione «Gli amici di Eleonore». Nata sullo sfondo del dibattito sulla nuova legge di bioetica ancora in corso, l’associazione si batte contro i nuovi rischi di stigmatizzazione e di eugenismo emersi negli ultimi mesi. In particolare, contro la prospettiva che il test prenatale sulle probabilità d’imbattersi nella trisomia 21 (anomalia cromosomica più nota con lo storico appellativo di «sindrome di Down») venga automaticamente incluso in tutte le diagnosi pre impianto legalmente autorizzate.
Contro ogni pronostico, la forza della testimonianza e degli argomenti di Eleonore hanno fatto rapidamente breccia, innescando in poche settimane una valanga di adesioni all’associazione, di visite al suo sito Internet, di conferenze pubbliche e faccia a faccia fra la combattiva portavoce e personalità politiche di primo piano. Incontriamo Eleonore, i suoi familiari e un altro membro del collettivo proprio nel bar di fronte all’Assemblée nationale, la camera bassa del Parlamento, dove la piccola delegazione è stata appena ricevuta da Jean Leonetti, il deputato neogollista che coordina tutto il processo di revisione legislativa sulla bioetica su mandato del presidente Nicolas Sarkozy. L’incontro ha offerto spiragli positivi e Leonetti «pare condividere molti degli argomenti
Mdell’associazione», assicurano Eleonore e gli altri. a alla ragazza, preme innanzitutto insistere sulla propria storia personale, sfociata oggi, dopo anni di difficile apprendistato della vita, in tante certezze piccole e grandi, così come in una gioia di vivere che balza subito agli occhi: «Sono ottimista, perché siamo ormai in tanti a vivere in modo ordinario e non in luoghi chiusi. I luoghi chiusi non sono una buona cosa, non offrono un avvenire. Occorre lavorare per essere felici», assicura Eleonore, dribblando con determinazione ogni inciampo d’elocuzione in agguato. E nella vita di tutti i giorni, cosa conta davvero? «La mia più grande gioia consiste nel vedere la mia famiglia attorno a me. E poi, ho anche molte amiche e amici. Anche con loro mi sento felice. Usciamo ogni tanto anche per delle gite, e ogni volta è uno spasso. Sono delle persone super per me. Per il mio compleanno, tanti sono venuti a trovarmi ed è stato fantastico. M’intendo bene anche con i miei colleghi che sono divenuti spesso amici».
Eleonore s’interrompe a tratti, per l’emozione, ma tiene in tutti i modi a mostrare la propria determinazione e autonomia nella battaglia nazionale che ha da poco abbracciato assieme a tanti amici: «Quando prendo la parola in pubblico, parlo sempre con tutto il cuore. Voglio far uscire ogni volta tutto quello che provo. La gente spesso mi dice che è stata davvero toccata dalle mie parole e in questi casi sono contenta il doppio. Spero solo che tanti altri seguiranno l’esempio che cerco di mostrare». Nella vita di Eleonore, ormai, i progetti privati corrono sullo stesso binario degli interventi pubblici già annotati in un’agenda sempre più piena: «Il mio progetto principale resta di continuare a battermi per l’associazione accanto ai miei genitori. Sono convinta che l’unione fa la forza. Come persona toccata dalla trisomia, voglio battermi a fondo e non abbasserò mai lo sguardo. Un altro sogno si realizzerà per me già a dicembre. Mi trasferirò in un appartamento tutto mio e al contempo ciò mi permetterà di cominciare ad aiutare delle persone anziane dipendenti. Ho voglia di dar loro da mangiare e di accompagnarle in tutti gli altri bisogni di ogni giorno. È quello che voglio fare di più nella mia vita e sono certa che in futuro non ci saranno problemi».
Chi affianca Eleonore si batte per sensibilizzare l’opinione pubblica sui troppi pregiudizi ancora in circolazione. E per ricordare che il destino di chi è malato di trisomia 21 non è mai ineluttabile. Esistono oggi percorsi di accompagnamento e di stimolazione efficaci. Tante nuove prospettive si stanno aprendo, nonostante la penuria cronica di fondi pubblici, come ricorda Emmanuel Laloux, padre di Eleonore e presidente dell’associazione: «Oggi diverse unità di ricerca in Europa sembrano più vicine che mai a trovare trattamenti terapeutici. Occorre mettere a disposizione un po’ più di denaro. Perché se si riuscirà a migliorare le qualità intellettuali delle singole persone, diventerà sempre più semplice per loro un’integrazione nella vita ordinaria: la scuola, la formazione, il lavoro, un alloggio autonomo».
Un figlio senza rischi, illusione in provetta - di Vincenzo Savignano – - Avvenire,15 luglio 2010 «Der embryo als produkt»: l’embrione come prodotto. È il titolo dell’articolo del medico-giornalista Warner Bartens sulla recente sentenza della Corte di giustizia di Lipsia, che ha dato il via libera in Germania alla diagnosi preimpianto sugli embrioni. Bartens, 44 anni, da anni cura una rubrica personale dal titolo provocatorio «Medicina e follia» sulla Süddeutsche Zeitung , noto quotidiano di orientamento socialdemocratico e progressista.
Nei giorni scorsi ha deciso di dedicarsi con un lungo articolo al verdetto della Corte di Lipsia che ha detto sì alla diagnosi preimpianto degli embrioni ottenuti da fecondazione artificiale per individuare la presenza di eventuali malattie genetiche e scartare l’embrione 'difettoso'. Il verdetto della Corte è legato a un caso verificatosi a Berlino: un ginecologo aveva ammesso di aver effettuato un test di questo genere su alcuni embrioni tra il 2006 e il 2007 per conto di tre coppie, che avevano avuto già figli malformati. Il medico era stato prosciolto da un Tribunale di Berlino nel maggio del 2009, ma la Procura della capitale aveva fatto ricorso e il caso era arrivato alla Corte di giustizia di Lipsia che ha scagionato definitivamente il ginecologo.
Bartens nella sua lunga e articolata disamina afferma che le sentenze di una Corte di giustizia «dovrebbero semplificare una materia, sciogliere dei nodi: in questo caso invece si rischia di rendere tutto più complesso e di sollevare nuovi dubbi e perplessità». La decisione della Corte di Lipsia può essere anche interpretata come la conseguenza di una nuova concezione della vita «il cui obiettivo primario sembra essere diventato la possibilità di calcolare ed evitare i rischi dalla culla alla bara. Garantire a tutti una vita il più possibile sana o comunque senza malattie gravi o debilitanti sembra essere l’obiettivo primario della medicina». E la diagnosi preimpianto sembra aver trovato un suo posto in questa nuova concezione della vita. «Tuttavia – aggiunge Bartens – scartare quelli malati e scegliere gli embrioni sani non significa automaticamente garantire una vita sana al nascituro. Ci sono altri elementi, fattori ambientali, incidenti di diversa natura, eventi contingenti che non hanno nulla a che fare con la genetica ma possono influire in modo determinante sulla vita e sulla salute di ogni essere umano».
Bartens quindi passa a un’analisi prettamente medico-scientifica della materia, ricordando prima di tutto che «la maggior parte delle malattie sviluppate dai neonati ha in una minima percentuale un’origine genetica», mentre esse «sono invece spesso causate da gravidanze o parti difficili». In secondo luogo «è comprovato scientificamente che la presenza di anomalie genetiche in un embrione non determina automaticamente una malattia nel nascituro. Un esempio è la mucoviscidosi, meglio conosciuta come fibrosi cistica, malattia genetica evolutiva identificata nel 1989. Questa malattia può portare alla morte entro il 30° anno di età, ma se la fibrosi cistica viene diagnosticata in tempo il paziente ha praticamente la certezza di poter condurre una vita pressoché normale».
Idubbi e le perplessità in Germania sulla diagnosi preimpianto restano: dopo la decisione della Corte di Lipsia, anzi, sembrano aumentare. «Dopo questa sentenza – conclude Bartens – alcuni genitori potrebbero sentirsi ancora più in colpa per non aver evitato la disabilità del proprio figlio. Non si può escludere l’ipotesi che qualcuno possa essere tentato dall’idea di stabilire a priori di avere un figlio biondo, con gli occhi azzurri e magari più intelligente e bravo degli altri».
Dopo che la Corte di giustizia di Lipsia ha detto sì alla diagnosi preimpianto sugli embrioni, il quotidiano progressista tedesco «Süddeutsche Zeitung» scende in campo denunciando che «scartare i malati e scegliere i sani non significa garantire una vita sana al nascituro. Ci sono altri elementi che influiscono sulla salute dopo il parto»
Ru486 - Emilia-Romagna per il day hospital. Umbria, è polemica – Avvenire, 15 luglio 2010
Nonostante le linee guida ministeriali dispongano il ricovero ordinario, l’Emilia Romagna conferma sull’uso della Ru486 negli ospedali la propria linea, espressa in un documento del 15 aprile. Ieri l’assessore alla Salute, Carlo Lusenti, ha infatti riba dito che nella sua Regione la pillola viene somministrata «o in day hospital con presa in carico ospedaliero fino al 14° giorno, o in regime di ricovero ordinario su richiesta della donna o del medi co ». Aggiungendo che l’esperienza derivante dalla sperimenta zione della Ru486 «in quattro anni non ha fatto registrare alcun problema rilevante». L’assessore ha anche fornito i dati dei ricor si all’aborto farmacologico nella sua Regione, scelto «da un bas so numero di donne tra coloro che hanno interrotto una gravi danza: il 3,8% del totale nel 2006, il 5% nel 2007, il 4,7% nel 2008, il 6,8% nel 2009».
Intanto dure critiche contro la posizione dell’assessore alla Sa lute dell’Umbria sulla Ru486 arrivano, all’indomani delle sue dichiarazioni ad Avvenire , da Sandra Monacelli, capogruppo Udc in Consiglio regionale. Sul ricovero ordinario previsto dalle linee guida Vincenzo Riommi aveva sostenuto che «non spetta ai politici stabilire il tipo di ricovero» che va invece «scelto dai medici sulla base delle condizioni cliniche». Aveva criticato, inoltre, «l’ipocrisia» dei governatori che scelgono il ricovero di tre giorni, perché «alle donne viene data in una mano la pillola, nell’altra il foglio per le dimissioni».
Riommi «dovrebbe andare a leggersi i tre pareri del Consiglio superiore di sanità, massima autorità sanitaria istituzionale i taliana, composta, appunto, da medici, e non da politici», è la replica di Monacelli. Se la Regione dovesse discostarsi dalle in dicazioni del ministero, «dovrà assumersene tutte le responsabi lità ». «La vera ipocrisia – ha aggiunto – è quella di chi cerca di introdurre surrettiziamente nel nostro Paese l’aborto a domicilio». Critiche anche dall’associazione Scienza & vita di Perugia e dal Fo rum delle associazioni familiari: «I politici che vogliono usare la Ru486 per introdurre l’aborto a domicilio nella nostra regione, fa rebbero bene a dirlo apertamente, anzichè cercare di nasconder si dietro argomentazioni che non convincono nessuno». (F.Ass.)