mercoledì 21 luglio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Dove nasce la dignità umana - Da: Chiesa, sesso e morale, Sugarco Di Marco Luscia – dal sito http://www.libertaepersona.org
2) Massimiliano Parente: dalla Beozia direttamente a il Giornale - Di Francesco Agnoli – dal sito http://www.libertaepersona.org
3) Dalla_stampa: I San Patricios - di Rino Cammilleri - Il Timone n. 95 Luglio-Agosto 2010
4) Un caso Englaro a lieto fine - Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 20 luglio 2010
5) E’ un fatto universale che l'esistenza umana chiusa nella sua autosufficienza, per quanto pretenda di avanzare in senso positivo, non ha alla fine altra prospettiva che il fallimento. Il Male ...- Carlo Di Pietro – dal sito pontifex.roma.it
6) Una parola vale l’altra - Da “diritti riproduttivi” a “sviluppo sostenibile”. Viaggio nel vocabolario creato dalle istituzioni internazionali, pieno di espressioni che possono voler dire tutto e il contrario di tutto - Laura Borselli – Tempi
7) Non abbiamo né santi né eroi - Anno 2010. Per la prima volta i preti ordinati dagli istituti missionari italiani sono tutti stranieri. Per padre Pietro Gheddo la colpa non è solo della crisi della fede e della natalità - Piero Gheddo – Tempi
8) Un problema morale? - Lorenzo Albacete - mercoledì 21 luglio 2010 – ilsussidiario.net
9) Antony Flew, padre dell'ateismo conferma l'esistenza di Dio dopo una ricerca razionale... - Ai membri di Regina della Pace di Medjugorje - 21 luglio - email ricevuta da Antonio Chilà
10) QUELLA LEGGE CHE BESTEMMIA LA GIUSTIZIA - RICCARDO REDAELLI – Avvenire, 21 luglio 2010



Dove nasce la dignità umana - Da: Chiesa, sesso e morale, Sugarco Di Marco Luscia – dal sito http://www.libertaepersona.org
Vediamo ora di chiarire dove realmente risieda il fondamento della dignità di ogni uomo, la radice della sua intangibilità.
Dirò subito che la persona non sorge in un dato momento dello sviluppo embrionale: essa ha origine con l’embrione stesso, un’ origine che conoscerà uno sviluppo lungo tutto il corso dell’esistenza.
Il dato primario che si accompagna al concepimento è l’emergere, da un incontro –spermatozoo ed ovulo materno- di un nuovo soggetto, di una nuova individualità. Questo, mi pare, sia stato ampiamente dimostrato.
Il primo tratto della persona, sia essa un embrione, un feto, un bambino, un adulto, un anziano, è la sua esistenza. Perciò, come afferma il filosofo Paul Ricoeur, ciò che conta non è il cogito, bensì il sum, non il pensiero, ma l’essere. Ciascuno di noi è, in modo esclusivo. Tutto sta racchiuso nel patrimonio genetico, il futuro è lì. Prima di ogni caratteristica, qualità o proprietà personale, vi è il semplice essere. “Ciascuno di noi è anzitutto una riserva di essere: essere vivo, dinamico, operoso, non inerte, statico, immobile. E’ l’atto d’essere che sorregge tutto l’uomo e che gli consente di svolgere squisitamente attività spirituali ( l’autocoscienza, la comunicazione, la libertà, il pensiero ecc… )”.


E non si dimentichi che un’attività spirituale è svolta persino da figli portatori di handicap, dai malati cronici; anzi, essi sono spesso il “tempio” dove si celebra la liturgia della sofferenza e dell’amore, della rinuncia, della gratuità, della preghiera. Al riguardo vorrei ricordare una straordinaria testimonianza di due genitori di un bimba Down: nel giorno del suo battesimo così le scrivono: “Carissima Anna, oggi è il giorno del tuo Battesimo il giorno in cui entri a far parte della grande famiglia dei figli di Dio. Ma noi crediamo che il Signore già da tempo ti avesse nel suo cuore e ti ha voluto farcene dono perché ne avessimo cura per conto suo. Dobbiamo dire che sei stata un dono con sorpresa(…). Stiamo capendo ora che cosa significhi realmente sindrome di Down. Quello che possiamo dirti ora è che non molti sono così e che quindi in un certo senso tu sei rara. Ed è proprio questa rarità che ti fa più preziosa, perché sei più delicata, più fragile, ed hai bisogno di più aiuto per imparare a crescere. Ciò però non ti impedirà di amare, anzi ti aiuterà a farlo con più sincerità e con più gioia. Ti assicuriamo che noi, persone non rare, facciamo fatica ad amare, perché ci costruiamo barriere chiusure che ci impediscono di farlo. Siamo sicuri che tu ci aiuterai a migliorare, anzi hai già cominciato a farlo”.


Questo è il comportamento di chi ama la vita, diametralmente opposto alla logica eugenetica, del diritto al figlio sano. La mamma ed il papà di Anna sembrano persone lontanissime, distanti ed incomprensibili a chi ha ceduto alla logica dell’efficienza, del consumo, della qualità della vita, del tempo sradicato da ogni eternità, dell’attimo che persegue il piacere.


Ma torniamo al quel primo “esserci”, all’atto del concepimento, al momento in cui si attivano infinite potenzialità ed in cui comincia il faticosissimo cammino dei primi nove mesi di vita.
La persona per realizzarsi, per dar luogo al progetto che è inscritto in quel primo istante, deve essere accolta, deve trovare un tu, che predisponga l’accoglienza. Questo tu è la madre, una madre distinta dal concepito; essa rappresenta l’ambiente, il luogo, fatto di elementi biologici, fatto di carne, ma anche di attesa, di paure, insomma di spirito. Una madre non produce un bambino, lo accoglie; persino lei, da sola, nulla potrebbe. Pertanto l’espressione fare un figlio ci appare anch’essa inadeguata; è necessario un padre perché il miracolo della vita abbia luogo. Ma neppure padre e madre insieme sono i proprietari di quella nuova creatura. Certo l’enfasi di una certa ideologia femminista ha identificato la madre e solo lei come unica titolare di diritti sul proprio figlio; il che è aberrante.
Il frutto del concepimento non appartiene alla madre e per confutare la tesi di coloro che sostengono che il figlio è proprietà materna, di cui disporre.

Osservava il filosofo Romano Guardini in un libretto pubblicato nel 1949: “(…) il bambino nel grembo materno, se da un lato le appartiene e vive in lei, dall’altro lato è a lei sottratto, poiché è sottoposto alla legge della propria personalità, ancora latente certo, ma già data. La Madre non è la padrona della vita in divenire, ma questa le è affidata”. E ancora: “Esser madre non significa produrre vita - anche gli animali fanno questo- , ma dare la vita a un uomo. E un uomo è una persona, dapprima come assopita e poi, pian piano, destatesi; così, in immediato rapporto con la madre, cresce un essere che formandosi si sottrae a lei seguendo la propria destinazione interiore”. Proprio come l’adolescente, che dopo essere dipeso per anni dai genitori, scopre la propria identità separandosi, ma senza quel legame, quella dipendenza durata anni, egli non diverrebbe mai uomo. Tutti dunque siamo “legati,” dipendiamo l’uno dall’altro; l’autonomia, come patente dell’essere persona è una pura astrazione.

Quindi mi pare lecito dire che, dal momento in cui un nuovo essere si affaccia alla vita, dovremmo comunque accoglierlo, poiché non è lecito disporre di alcuno, anche se questo qualcuno non ha ancora sviluppato certe qualità, in primis quella di difendersi. Ciò potremmo affermarlo seppure negassimo Dio.
Ma una bioetica che neghi Dio, come abbiamo visto, fatica a riconoscere il debole, finendo con l’approdare nelle “regioni” dove domina la logica del più forte. Da questa logica discende l’idea secondo la quale i criteri di scelta rispetto alla vita siano dettati da ragioni di tipo utilitaristico; insomma le ragioni di Singer e di Engelhardt e per il vero di molti altri che si collocano nel loro solco.


La ragione su cui si fonda la dignità dell’uomo, la sua particolare dignità, che lo distingue da ogni altro essere vivente -va affermato con forza- sta in una relazione che lo sorregga.
E’ la chiamata all’essere da parte di Dio che fonda la dignità personale: “la persona è fondata sulla relazione con Dio: la personalità -che è sviluppo successivo- è il frutto del cammino dell’uomo positivo o negativo, l’uomo è persona in tutti i momenti della sua maturazione spirituale, materiale emotiva”. L’uomo viene alla vita come persona per poi sviluppare la personalità. I negatori del titolo di persona all’embrione, al feto, al bambino appena nato affermano che la persona è l’essere in relazione; ma per loro, relazione, significa soltanto autocoscienza, responsabilità piena. Questo tipo di interpretazione della natura dell’essere personale mi sembra fortemente riduttiva, perché esistono relazioni spirituali profonde anche senza parole, anche fra sconosciuti. Altrimenti dovremmo dire che un uomo dormiente non è persona, che un mongoloide non è persona, che un malato di demenza senile non è persona.


Corpo materiale e anima spirituale formano la persona, e poiché lo spirituale non può prodursi dal materiale esso è dato dall’esterno, nell’atto del concepimento. Dobbiamo perciò supporre che nell’uomo venga insufflata l’anima. L’anima, secondo una consolidata dottrina teologica di matrice tomista, prepara gli organi di senso; l’anima si costruisce un corpo, e il corpo è l’anima che prende consapevolezza di sé.
In questa meravigliosa pagina del filosofo Emonet credo si sintetizzi assai bene la posizione cattolica rispetto al mistero dell’anima. “Se l’anima umana si prepara un corpo così strutturato, non è semplicemente per nascere a se stessa, ma anche per nascere a tutto ciò che esiste sia nella conoscenza che nell’amore. Grazie al suo corpo l’anima può ricevere in sé tutte le cose e nascere ad esse conoscendole. Inoltre è ancora grazie al corpo che l’anima può uscire da sé per incontrare le cose portandosi verso di esse nell’amore. Così nella conoscenza l’anima accoglie in sé tutte le cose e nell’amore porta se stessa presso le cose”.
Nella prospettiva cristiana dunque è possibile fugare tutti i pericoli che una dimensione dell’umano puramente materiale trascina con sé.


Per concludere questo nostro breve saggio torniamo alla bioetica laica, ai paradossi cui porta, dovendosi per definizione fondare sul consenso. Un consenso generatore di valori che mutano in continuazione, e ciò in relazione alla forza dei “contraenti”che si accordano sui principi.
Il punto di partenza della prospettiva laica mi pare possa essere così riassunto: seppure esiste una verità essa non può essere conosciuta; seppure è rintracciabile la ragionevole evidenza di certi principi -ma su di essi non si raggiunge l’accordo- i principi vanno subordinati al valore del consenso, che risulta perciò essere l’unico assoluto.
Perciò un’etica di questo tipo mi appare tutto fuorché razionale; essa è il prodotto di pressioni e stati emotivi, di interessi e di mode, delle indicazioni sociali prevalenti. Come si può definire scelta ragionevole l’aborto, come si possono definire conquiste di civiltà l’eutanasia, il divorzio breve, lo sfascio sistematico della famiglia ? Le leggi che pretendono di dirsi legittime solamente perché frutto di un consenso, in realtà non mi paiono portatrici di ragione, bensì di interessi, che nelle ipotesi più tristi fanno il gioco di ragioni elettoralistiche. Di conseguenza nel nostro mondo è andata diffondendosi una mentalità totalitaria che non ammette neppure la discussione rispetto a certe tematiche.


L’etica laica mi appare come un’etica debole, esito, sempre provvisorio, di rapporti di forza che azzerano chiunque non sia in grado di difendersi da solo, di far valere le proprie ragioni. Si tratta dunque di una prospettiva violenta che si traveste del valore di un’errata idea di tolleranza, la quale parte dal presupposto che gli esseri umani siano stranieri l’uno all’altro.
Esito funesto di un consumismo sfrenato, che si coniuga ad un mondo senza Dio, così come concepito e in parte realizzato dal pensiero radical-marxista.
Voglio concludere con un episodio accaduto durante una delle mie lezioni, in una quinta liceo.
Esposte le idee propugnate da Singer, alcuni alunni non hanno trovato nulla da ridire sul fatto che la vita di un maiale sano abbia maggior dignità della vita di un neonato malato, oppure che in caso di carestia l’infanticidio possa essere ammesso, vista la scarsità di risorse, o ancora che un figlio handicappato, nel caso di costi eccessivi per il mantenimento da parte di uno Stato, possa essere soppresso per ottimizzare le risorse, magari per allevare maiali sani da poter mangiare.


Tanto -si dice- il neonato non è persona; non parliamo poi del bimbo nel grembo materno, egli vivrebbe solo per gentile concessione della madre!
Ora, molti di questi ragazzi, non hanno mai ragionato su tali temi, sono totalmente a digiuno di questioni di bioetica; ma allora cosa ha fatto sì che certe idee aberranti a loro sembrino delle tutto normali? Questo interrogativo deve inquietarci; molti di loro ragionano già ormai pervasi da una concezione della vita totalmente materialistica, protesa all’utile, dove i principi cardine sono l’individualismo, l’allontanamento di ogni imperfezione, di ogni sacrificio, di ogni orizzonte morale. Sono giovani lasciati in balìa della cultura neutralista, che si proclama laica e perciò rispettosa di ogni diversità.
Ebbene essi, lasciati a se stessi, hanno sviluppato idee di una tale intolleranza, di una tale violenza verso i più deboli che mi lasciano senza parole e magari sono quegli stessi che appendono fuori casa la bandiera della pace o che si commuovono per lo sterminio delle foche.


Spesso -direbbe Augusto del Noce- l’amore per il lontano, maschera l’odio per il vicino.
Il nostro tempo esaltando l’individuo, esaltando la libertà di coscienza ha dimenticato che nessuna coscienza è un oracolo, anzi. Ci si dimentica che ogni coscienza può scegliere rettamente soltanto se è educata a dei principi a dei valori. Oggi l’unico principio appare l’opinione, il confronto dei punti di vista che nascono a livello emotivo e per questo ogni volontà di approfondimento, di radicamento è vista con sospetto. Gli stessi padri del liberalismo sarebbero sconcertati da una perdita così radicale dei principi che fanno il sentire comune, l’ethos condiviso.
Speriamo che i dibattiti in corso e l’esigenza di significati, di senso, che emerge da una realtà sempre più frammentata, apra la strada verso una rinascita della morale, per il bene dell’uomo, per il bene del più debole.
Da: Chiesa, sesso e morale, Sugarco


Massimiliano Parente: dalla Beozia direttamente a il Giornale - Di Francesco Agnoli – dal sito http://www.libertaepersona.org
Ho scoperto oggi l'allucinante esistenza di tale Massimiliano Parente, egocentrico scrittorucolo convinto di essere un grandissimo intellettuale. Parente è un radicale (ma dai!) e scrive su Il Giornale.

Pezzi grotteschi, come quello di oggi, 20 luglio:

...Insomma, alla fine il peggior discorso dei discorsi sui valori è proprio «il valore della vita», quando c’è sempre qualcuno a un certo punto che ti tira fuori il valore della vita, come se la vita fosse quotata in qualche listino di Wall Street un tot al chilo e non fosse il campo di concentramento cosmico che è. Un valore della vita, attenzione, che è invariabilmente il valore della vita umana come espediente per rompere le palle alle vite altrui, magari a una ragazza che vuole abortire o rifiutare un figlio down, poiché per la legge 40 già un embrione è un bambino (ma per coerenza nell’ipocrisia puoi abortirlo dopo, fino a tre mesi), magari appellandosi a una metafisica del Dna, come dire che già la ricetta di una torta è una torta.

O magari salta fuori il valore della vita rispetto a un corpo mantenuto in vita artificialmente, e che strano, più credono nell’al di là più ti attaccano di qua a un respiratore artificiale. Ma come, l’entità immaginaria che vive nei cieli, in cui credete, vi sta chiamando, e voi opponete resistenza? La verità è che ogni discorso sulla vita è di una tristezza infinita perché non vuole vedere la verità, e non vedere la verità non è un valore neppure nei ciechi o non vedenti, come dicono le signorine del valore della vita nella menzogna, spinta fino alla negazione nominale delle cose. Infatti il valore della vita è tale da generare paradossi incredibili, e di tiratina in punturina, per illudersi di sconfiggere la vecchiaia con la chirurgia plastica, non solo tutte le donne più invecchiano e più somigliano a trans (e poi si lamentano se gli uomini vanno direttamente con i trans, dotati anche di altri optional), ma arrivano quelli per cui la vita comincia a quarant’anni, la vita comincia a cinquant’anni, la vita comincia a sessant’anni, la vita comincia a settant’anni, la vita comincia a ottant’anni, e infine, per gli incontentabili dell’illusione, arriva la religione, con il paradosso massimo: la vita comincia dopo la morte. Seicento milioni di anni di farsa chimica e biologica, tremila anni di filosofia, per arrivare a questo.

Nella vita, per fortuna, ci sono anche anedotti simpatici sul valore della vita, per esempio mi ricordo di quando Carmelo Bene, a una puntata del Maurizio Costanzo Show, osò dire «Ma cosa ce ne fotte a noi del Ruanda?», e il pubblico rimase ammutolito prima che si alzasse un brusio di disapprovazione, in quanto non era bene dire quello che diceva Bene, e ci fu qualcuno che si alzò per difendere il valore della vita in nome del Ruanda, del quale, nella vita dei cittadini occidentali, a nessuno fotte niente se non quando ricorre in una conversazione, come le cinque giornate di Milano e Gianni Minoli. In Ruanda, pochi anni dopo, ci andò invece una strafiga come Claudia Koll, e io ero così pornograficamente ossessionato da Claudia Koll da restare molto colpito dalla notizia e pensavo di trasferirmi in Ruanda anch’io, con lei, due cuori e una capanna. Non so quanto avrei resistito senza aria condizionata, senza wireless, senza Xanax, senza Iphone, e però sarei stato con lei, con Claudia Koll.

Ma siccome la vita è orribile e non c’è nessun valore della vita Claudia Koll ci andò non a esportare se stessa e la sua bellezza e a concedersi al Terzo Mondo, al contrario ci andò quando si convertì passando da Tinto Brass a Gesù Cristo, diventando una missionaria, quando a me della missionaria mi interessa solo la posizione. Con il risultato che oggi il Ruanda è nella merda quanto lo era prima della discesa di Claudia Koll, con la morale della favola che noi abbiamo perso una strafiga, e in Ruanda, essendoci lei andata in nome della castità, nessun africano si è mai fatto Claudia Koll, e allora perfino in Ruanda, mi domando, quando gli parli dei valori della vita, i negri o i neri o i di colore che vivono lì mica saranno stupidi, e ci sarà qualcuno che pensa, pensando al valore della vita: ma cosa ce ne è fottuto a noi di Claudia Koll? "

Non sarebbe il caso di scrivere una letterina a Feltri (direttoreweb@ilgiornale.it), che ci liberi di questi buffoni nichilisti?


Dalla_stampa: I San Patricios - di Rino Cammilleri - Il Timone n. 95 Luglio-Agosto 2010
Nel 1846 gli Stati Uniti aggredirono per l'ennesima volta il Messico ma quella volta nelle file yankee militavano numerosi irlandesi, italiani e francesi, che quando si resero conto che stavano ammazzando altri cattolici, come loro, cambiarono fronte combattendo con valore ed eroismo. Una pagina di storia sconosciuta.
Spero prima o poi di catturarne il dvd: i San Patricios li ho intravisti un paio di volte in tarda serata sul canale 7 Gold, che ogni tanto trasmette fiction televisive western americane (una, interessante, sui Daniti, i vigilantes mormoni dello Utah ottocentesco, con Tom Berengere Charlton Heston). Sempre Tom Berenger fa la parte di John Riley, l'irlandese comandante del Saint Patrick's Battalion, in un film - forse - del 2006. Narra di una pagina della storia americana non troppo gloriosa (una delle tante) che da noi solo pochi conoscono ma che, a mio avviso, non può non interessare i kattolici.
La vicenda è presto detta. Nel 1846 gli Stati Uniti condussero l'ennesima guerra di aggressione una delle tante) nei confronti del Messico per strappare a quest'ultimo il New Mexico e la California. Un adagio locale recita: «Povero Messico, così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti!». Infatti, già il cattolico Messico si era visto portare via l'immenso Texas, i cui abitanti di fede schiavista avevano chiamato in aiuto i "fratelli" americani quando il presidente messicano, generale Santa Ana, aveva abolito la schiavitù. Volontari americani (tra cui il celebre frontiersman Davy Crockett, massone e senatore del Tennessee, nonché il famoso scout Jim Bowie, poi morti - pare - eroicamente ad Alamo) guidati dal generale Houston avevano costretto il Messico a venire a patti. Quella del 1846 fu una guerra "ufficiale" (cioè, condotta non da volontari ma dall'esercito) dichiarata dal presidente Polk e terminata due anni dopo, nel 1848, con la solita sconfitta messicana.


Ebbene, in questa guerra tra gli americani militavano molti irlandesi, polacchi, italiani e francesi. I primi, molto più numerosi, erano emigrati per fame. Trattati a pesci in faccia perché poveri e, soprattutto, «papisti», come molti europei si erano arruolati per poter mangiare tutti i giorni, ma gli yankees li tenevano nella stessa considerazione dei negri. Li chiamavano potato heads, teste di patata, sia per il colore dei capelli che per la dieta cui erano abituati (era stata proprio una malattia delle patate, loro alimento principale, che aveva causato migliaia di morti per fame in Irlanda e provocato l'emigrazione di quasi un milione di irlandesi negli Usa).

Quando si accorsero di star combattendo contro cattolici come loro, in 175 gettarono la divisa americana e passarono nel campo nemico. A quel punto il governo messicano comprese di poter sfruttare a proprio vantaggio la cosa e promise buona paga, appezzamenti di terreno e cittadinanza a tutti quei soldati Usa che li avessero imitati. Fu così che circa 700 cattolici (ma anche ex schiavi negri) saltarono il fosso e vennero inquadrati nel neo-costituito Battaglione di San Patrizio, provvisto di bandiera verde e agli ordini del luogotenente Riley.

Gli irlandesi al servizio del Messico, che i messicani chiamavano San Patricios, esordirono nella battaglia di Monterrey, nel settembre del 1846. Il Messico perse quella battaglia, ma i San Patricios si coprirono di gloria sul campo. Per il Messico l'intera guerra non fu che una serie di sconfitte, a Vera Cruz, a Cerro Cordo, a Chapultepec, fino all'ultima e definitiva a Churubusco. Gli irlandesi, sapendo qual sorte li attendeva in caso di sconfitta, erano sempre gli ultimi a gettare le armi.

Antonio Ledetti, in un articolo su Il Giornale del 31 marzo 2010, è stato il solo in Italia a ricordare quell'epopea. Ledetti rammenta che a Chapultepec l'irlandese Patrick Dalton fece fuori il soldato messicano che per primo osò sventolare bandiera bianca. Dalton venne impiccato come disertore dagli americani il giorno stesso della resa. La sua sorte fu seguita da quasi tutti quelli che, via via, cadevano nelle mani dei vincitori.

Solo in venti sopravvissero dei San Patricios, anche perché, appena i giornali riportarono la loro storia, il governo americano fu bersagliato dalle proteste delle Potenze cattoliche, la cui opinione pubblica chiedeva che si tenesse conto delle motivazioni ideali: infatti, i San Patricios non erano gente che aveva disertato per viltà e si era data alla macchia, ma avevano combattuto, lealmente e a viso aperto, per la parte che consideravano giusta. Ma per l'esercito americano non erano che volgari traditori e la cosa fu liquidata così: dopo una buona dose di frustate, i venti che ancora non erano stati giustiziati vennero rilasciati, ma non prima di averli marchiati a fuoco su una guancia con la lettera «D»: Disertore.
Il loro comandante, John Riley, di marchi del genere ne ebbe due, uno per guancia. Rimase in Messico col nome di Juan Reley e vi morì appena due anni dopo, nel 1850.

Quei combattenti irlandesi, che il presidente americano Polk sprezzantemente definiva «senza patria né idee», nel 2002 sono stati invece considerati dal parlamento messicano «difensori della patria», una patria acquisita perché riconosciuta sorella di quella che avevano perduto: non è infatti un certificato a giustificare un'appartenenza, bensì la comune fede religiosa, fonte di un modo di pensare e vivere che rendeva un irlandese (ma anche un italiano, un francese e un polacco) più simile a un messicano che a uno statunitense. Non a caso, vent'anni dopo un altro Battaglione San Patrizio si sarebbe costituito spontaneamente per andare a combattere e morire per il papa Pio IX contro l'aggressione piemontese. Il Messico, dal canto suo, non ha dimenticato quei suoi fratelli d'oltreatlantico e ancora li festeggia il 12 marzo, nel giorno della loro esecuzione in massa.

Ledetti riporta anche i versi di una ballata popolare dedicata ai San Patricios, che a un certo punto recita: «Siamo spariti dalla storia come un'ombra dalla sabbia / ma se nel deserto alla luce della luna vedi un gruppo di fantasmi / sono quegli uomini che sono morti per la libertà lungo il Rio Grande».

Già, per la libertà. Hollywood ci ha abituati a pensare che la «libertà» sia sempre stata dalla parte degli yankees, ma ciò è vero solo dalla seconda guerra mondiale in poi. Prima, c'era il «destino manifesto», la Conquista del West a spese degli indiani, le guerre coloniali a danno della Spagna (Cuba e le Filippine), l’«America agli americani» (cioè, quella del Sud a quelli del Nord), la destabilizzazione del disgraziato Messico (fino alla guerra civile contro i cattolici «cristeros» del 1926-29).

Ma gli irlandesi hanno la testa dura e oggi il 17 marzo Saint Patricks'Day, li vede marciare fieri nei loro kilt ah suono delle cornamuse per le strade americane, mentre i loro musicisti mantengono vivo il ricordo dei San Patricios con i dischi dei celebri Chieftains e dei Fénians (ma anche il mitico chitarrista e folksinger americano Ry Cooder).

Il sacrificio di quel Battaglione è stato celebrato in ben tre film nel 1962, nel 1999 e nel 2006. Forse non dei kolossal come il famoso «La battaglia di Alamo», l'unico diretto (oltreché interpretato) dal grande John Wayne. Ma forse c'è una sottile vendetta della sorte nel fatto che «The Duke» (soprannome di John Wayne) abbia sposato una messicana e abbia terminato la sua vita da cattolico.
di Rino Cammilleri - Il Timone n. 95 Luglio-Agosto 2010


Un caso Englaro a lieto fine - Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 20 luglio 2010
Memorabili sono rimaste le parole di Enzo Jannacci a proposito del caso Englaro, quando ha dichiarato che se suo figlio si fosse trovato nelle condizioni della ragazza di Lecco, «sarebbe bastato un solo battito delle ciglia» a farglielo sentire vivo. Ed è stato proprio un battito di ciglia a salvare Richard Rudd, destinato a subire la stessa tragica sorte della povera Eluana.
Il giorno 23 ottobre 2009, il quarantatreenne Richard Rudd, ex autista di autobus di Kidderminster e padre di due ragazze, ha un appuntamento con il destino. Mentre si sta recando dalla fidanzata con la sua Suzuki 750cc, viene travolto all’improvviso da un’auto che esce a tutta velocità da una stazione di rifornimento. L’impatto tra i due mezzi è particolarmente violento, come conferma il fatto che Richard sia stato scaraventato a sei metri di distanza dalla moto che guidava.
Fin da subito si comprende la gravità delle condizioni dell’uomo.
Viene portato d’urgenza alla Neuro Critical Care Unit dell’Addenbrooke’s Hospital di Cambridge, circostanza che, come vedremo, si rivelerà provvidenziale per Richard.
Anche se inizialmente era in grado di parlare e muove i propri arti, tre giorni dopo l’incidente, a seguito di gravi complicazioni insorte durante l’operazione chirurgica, gli vengono diagnosticati seri danni al cervello ed una paralisi completa. Un ulteriore aggravamento dello stato degli organi interni fa entrare Richard in uno stato comatoso.
Di fronte all’immagine del proprio congiunto inchiodato al letto d’ospedale, completamente paralizzato, in stato vegetativo e tenuto in vita da una macchina, i familiari non hanno esitazioni, ricordando quanto lo stesso Richard andava ripetendo circa la sua intenzione di non volersi mai trovare, un giorno, «intrappolato in un corpo inutile».
Il padre di Richard, soprattutto, era certo che il proprio figlio non avrebbe voluto vivere in quelle condizioni, e a riprova della propria convinzione citava a tutti il fatto che, durante una discussione su un suo amico paralizzato a seguito di incidente, Richard avesse così ammonito i familiari: «Se dovesse mai capitare questo a me, io non voglio sopravvivere vegetando; io non voglio diventare come lui».
Da qui l’intenzione convinta di staccare la spina.
Il padre di Richard, peraltro, come Beppino Englaro, aveva le idee molto chiare sul tema, sostenendo che «mantenere qualcuno vivo artificialmente, mentre soffre e non riesce a migliorare, è come sostituirsi a Dio, in un certo senso, perché significa agire contro natura».
Per sua fortuna, Richard viene affidato alle cure del Professor David Menon uno dei maggiori esperti mondiali del trattamento dei danni al cervello, ed il fondatore, tredici anni fa, proprio della Neuro Critical Care Unit (NCCU) dell’Addenbrooke’s Hospital, una delle più grandi strutture d’Europa con la sua capacità ricettiva di 21 pazienti.
Pur dichiarandosi propenso a seguire le indicazioni della famiglia e ad assecondare la volontà espressa da Richard, il Prof. Menon suggerisce, comunque, un breve periodo di attesa, giusto per consentire un’ulteriore verifica.
E proprio quando la famiglia Rudd si era preparata mentalmente per dire addio al proprio congiunto, avviene l’imprevisto.
Il Prof. Menon si accorge che Richard, nonostante la gravissima situazione in cui versava, è tuttavia in grado di muovere i propri occhi ed interloquire attraverso tale movimento.
Dal giorno dell’inattesa scoperta, il Prof. Menon dedica tre settimane alla comunicazione con Richard per accertarsi che egli fosse effettivamente consapevole della sua condizione. E’ durante tale relazione comunicativa che il medico chiede per ben tre volte al paziente se intende vivere e continuare ad essere curato, e per tre volte Richard risponde di sì con un movimento degli occhi.
«Lui ricordava di aver avuto un incidente», racconta il Prof. Menon, «ed era consapevole di essere in vita grazie ad una macchina artificiale, e di venire nutrito con un sondino naso-gastrico». Poi gli rivolge la domanda cruciale: «Alla fine ho chiesto se corrispondesse alla sua espressa volontà il fatto di continuare la somministrazione dei trattamenti che lo mantenevano in vita, e lui ha risposto, per tre volte, di “sì”, senza dare segni di esitazione».
«La possibilità di comunicare attraverso il movimento degli occhi», sono le parole del Prof. Menon, «ha consentito a Richard di avere l’ultima parola sul proprio destino, e tale circostanza ha cambiato tutto. Questo è un punto cruciale, perché noi sappiamo bene che può esistere una grande differenza tra ciò che un paziente dichiara quando è perfettamente sano e ciò che prova quando si trova in un letto d’ospedale».
L’ironia della sorte ha voluto che un’equipe della BBC, venuta a riprendere la scena dell’addio della famiglia Rudd al proprio congiunto, abbia assistito in diretta alla risposta di Richard circa la sua volontà di continuare a vivere. La BBC ha ripreso tutto e ne è nato un documentario intitolato “Between Life and Death” (tra la morte e la vita), che ha riaperto nell’opinione pubblica, com’era inevitabile, il dibattito sul testamento biologico.
La reazione di Richard ha scioccato i suoi cari, facendo loro percepire il tragico errore che stavano per commettere.
All’inizio, in realtà, tutti i familiari ritenevano che il coma dell’uomo – tenuto in vita da una macchina – fosse irreversibile, sebbene tale categoria di coma non esista. In questo senso, hanno commesso lo stesso errore dei giudici della Corte d’Appello di Milano, i quali, contrariamente alle evidenze scientifiche, hanno reputato non più reversibile la condizione di Eluana Englaro.
Nel caso Rudd l’imprevisto epilogo della vicenda ha fatto rivedere a tanti le posizioni assunte inizialmente.
Il primo a cambiare idea è stato proprio il padre di Richard.
Ha confessato di essere stato colpito maggiormente dal fatto che Richard avesse cambiato idea e non potesse comunicarlo. «Mi tormenta il pensiero», ha affermato il genitore, «che mio figlio fosse in grado di ascoltare le nostre discussioni sulla decisione di farlo morire, e non riuscisse assolutamente esprimere la sua reale volontà».
Il signor Rudd senior ha rivisto persino le sue posizioni sul testamento biologico: «Per quanto mi riguarda, sono contento che Richard sia vivo e che non abbia fatto testamento biologico. Se l’avesse fatto, non avremmo mai saputo se valeva la pena continuare a curarlo».
«Quante volte», ha ricordato ancora il padre di Richard, «ci mettiamo a chiacchierare al pub o al lavoro e preghiamo gli amici di staccare la spina se dovessimo restare in vita grazie ad una macchina; ma questa è pura astrazione, perché nessuno sa mai esattamente cosa vuole, fino a che non si trova concretamente di fronte alla realtà che lo rende fragile».
Ha poi parlato della sua esperienza personale: «Se sei chiamato, come familiare o come amico, a decidere per qualcuno che non è in condizione di farlo, a volte hai la sensazione di decidere tu per lui. E in fondo, forse nessuno ha davvero il diritto di farlo».
Parlando, poi, a proposito delle difficili condizioni in cui si continua a trovare il figlio, ha precisato: «Certo non è lo stesso Richard che conoscevamo prima, ma è sempre lui quando sorride mentre si parla del passato o quando guarda commosso le sue ragazze».
Ora, infatti, nove mesi dopo l’incidente, Richard può muovere lentamente la testa di qualche centimetro, può sorridere ed esprimersi col volto. Pur avendo sempre bisogno di continua assistenza, è comunque in grado di avere relazioni con i genitori e con le figlie Carlotta di diciotto anni e Bethan, di quattordici.
Attualmente, si trova in un’unità di cura vicino casa, nel Worcester, e spera quanto prima di essere ricoverato allo Stoke Mandeville Hospital, dove potrà essere sottoposto ad una terapia riabilitativa per recuperare l’uso della lingua e dei muscoli facciali.
Il caso Rudd dimostra quanto sia fragile e pericoloso il tentativo di ricostruire una volontà ex post, sulla base di affermazioni rese en passant, com’è avvenuto nella vicenda di Eluana Englaro. Noi non sapremo mai quale fosse la reale volontà di quella ragazza nel momento in cui le è stata tolta la vita. Non sapremo mai se lei, come Richard Rudd, avesse cambiato idea e deciso di non voler morire. E questa incertezza getta un’ombra inquietante sul decreto 9 luglio 2008 emesso dalla Corte di Appello di Milano, in cui è stato disposto l’«accudimento accompagnatorio» di Eluana Englaro verso la morte.
Se fossi uno dei giudici che ha partecipato a quella decisione, non riuscirei a restare indifferente rispetto a quanto accaduto a Richard Rudd, e avvertirei la vertigine del dubbio. Quella vicenda del motociclista di Kidderminster non potrebbe non dilaniare la mia coscienza di uomo e di magistrato.


E’ un fatto universale che l'esistenza umana chiusa nella sua autosufficienza, per quanto pretenda di avanzare in senso positivo, non ha alla fine altra prospettiva che il fallimento. Il Male ...- Carlo Di Pietro – dal sito pontifex.roma.it
Chi ha voluto seguire sin qui questa lettera sul diavolo, sul Grande Tentatore - ma ancor più su Cristo Signore, il Grande Vincitore - sarà stato in qualche modo aiutato nella sua contemplazione di Cristo nel mistero delle sue tentazioni nel deserto, e insieme nella comprensione delle esigenze morali e spirituali del nostro essere discepoli di Cristo nel momento delle tentazioni. È legittima, anzi necessaria e insostituibile una lettura «personale» del fenomeno della tentazione: questo coinvolge ciascuno di noi nella sua unicità e irripetibilità. D'altra parte, la lettura «cristologica» che abbiamo fatto delle tentazioni ci spinge, proprio a partire da Cristo come chiave interpretativa e risolutiva dell'intera storia umana, a ritrovare nello stesso tempo la dimensione sociale e storica delle tentazioni: non solo nel senso generale che anche la tentazione più personale (quella più segreta e a tutti sconosciuta) riveste sempre un significato che ... coinvolge la società e la storia, ma anche nel senso specifico che ci sono tentazioni che toccano le comunità e i popoli come tali, e dunque influiscono sul corso della storia dell'umanità. Da questo punto di vista, è già interessante rilevare come l'evangelista Matteo nel narrare le tentazioni di Gesù nel deserto abbia fatto costante riferimento alla storia di Israele, il popolo eletto, come pure sia stato, in qualche modo, l'interprete della presenza all'interno della prima comunità cristiana del fenomeno delle tentazioni.

Gesù Cristo - scrive B. Maggioni «è il compimento di Israele. Ne subì le medesime tentazioni, ma a differenza di Israele le superò. Gesù è il vero autentico Israele». E ancora: il racconto della tentazione «serviva non solo a schiarire le idee su Gesù e sul suo messianismo (del resto ormai chiarissimo a tutti dopo la crocifissione), ma anche a schiarire le idee sulla Chiesa e sul suo compito. Nella tentazione del Cristo la Chiesa ritrova le proprie tentazioni» (Il racconto di Matteo, Assisi 1990, pp.51 e53).

In questa linea è possibile spalancare ancor più la lettura delle tentazioni, in riferimento all'umanità intera, che sta sotto il duplice e con-trastante influsso di Adamo, del primo e vecchio Adamo, e dell'ultimo e nuovo Adamo che è Cristo. Una sintesi efficace della situazione storica universale ci è offerta dal biblista V. Mannucci, che così scrive: «Due Adami si contrappongono, due tipi di umanità si presentano a ognuno di noi, due solidarietà si contendono il cuore degli esseri umani. Dal primo Adam vengono il peccato e la morte per tutta l'umanità, con lui solidale; dal secondo Adam, da Cristo, vengono la salvezza e la vita per tutta l'umanità, a lui associata mediante la fede...

E’ un fatto universale che l'esistenza umana chiusa nella sua autosufficienza, per quanto pretenda di avanzare in senso positivo, non ha alla fine altra prospettiva che il fallimento: omnis homo, Adam! Questa "frustrazione esistenziale" dell'intera umanità è superata dall'azione salvifica di un altro Uomo, l'anti-Adam, Cristo, il quale è la causa unica del superamento in tutti del peccato e della morte: omnis homo, Christus!».

La tentazione, nella sua dimensione sociale e storica, significa la provocazione offerta all'umanità di oggi, nelle sue varie comunità o gruppi o popoli, perché scelga tra l'uno o l'altro tipo di umanità, l'una o l'altra solidarietà. Sono in questione, per riprendere il fondamentale paradigma delle tentazioni di Gesù nel deserto, l'adorazione a Dio o l'idolatria, la fede o l'incredulità, l'obbedienza o la disobbedienza alla volontà divina, il dono di sé o l'egoismo. E le forme di tentazione, al di là della loro varietà che le caratterizza in superficie, rimandano ancora una volta alle tre tentazioni di Gesù: il pane, il successo, il potere.

L'ha affermato con felicissima intuizione il grande scrittore russo EM. Dostoevskij, che nel romanzo I Fratelli Karamazov s'immagina che le «tre domande del terribile spirito» venissero perse senza lasciare traccia su nessun testo. Dovendo «stabilirle di nuovo, di nuovo escogitarle e formularle, in modo da inserirle ancora una volta nelle scritture», il risultato sarebbe che «tutti i sapienti della terra, reggitori di stati, sommi sacerdoti, eruditi, filosofi, poeti» finirebbero per riproporre le stesse «tre domande che realmente furono poste a Te, quel giorno, dal possente e penetrante spirito nel deserto»: infatti, «in queste tre domande è come riassunta in blocco e predetta tutta la futura storia umana, e sono rivelate le tre forme tipiche in cui verranno a calarsi tutte le irriducibili contraddizioni storiche della natura umana sulla terra intera».

L’invito, allora, che viene da quanto abbiamo detto è di interrogarci circa le tentazioni (evidentemente nelle loro diverse modalità e intesità di configurazione) che entrano a mettere alla prova -e insieme a sollecitare al male -la fedeltà a Dio e la coerenza al Vangelo nella vita concreta delle famiglie, dei gruppi delle comunità cristiane, degli ambienti di vita, della società. E un'interrogazione che s'inserisce in quella «purificazione della memoria» e «richiesta di perdono» da parte dei figli della Chiesa che sono stati elementi significativi dell'esperienza del Giubileo e che devono continuare.

E in questa prospettiva, così ampia da essere veramente universale, che la Chiesa -e in essa ciascuno di noi -inserisce la preghiera che le ha insegnato Gesù: il Padre Nostro, in particolare l'implorazione non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal Male. Un'illustrazione particolarmente incisiva di questa preghiera la troviamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica, in un testo che merita di essere riletto integralmente: «Chiedendo di essere liberati dal Maligno, noi preghiamo nel contempo per essere liberati da tutti i mali, presenti, passati e futuri, di cui egli è l'artefice o l'istigatore.

In quest'ultima domanda la Chiesa porta davanti al Padre tutta la miseria del mondo. Insieme con la liberazione dai mali che schiacciano l'umanità, la Chiesa implora il dono prezioso della pace e la grazia dell'attesa perseverante del ritorno di Cristo. Pregando così, anticipa nell'umiltà della fede la ricapitolazione di tutti e di tutto in colui che ha "potere sopra la Morte e sopra gli Inferi" (Apocalisse 1,18), "colui che è, che era e che viene, l'Onnipotente!" (Apocalisse 1,8)» (n. 2854).

Per quanti leggono questo testo e per quanti il Signore ha affidato e affida alla mia cura pastorale prego con le parole della Chiesa, che nella sua liturgia quaresimale così si rivolge al Signore: «O Dio, nostro Padre, concedi al popolo cristiano di iniziare con questo digiuno un cammino di vera conversione, per affrontare vittoriosamente con le armi della penitenza il combattimento contro lo spirito del male». «O Dio, che conosci la fragilità della natura umana ferita dal peccato, concedi al tuo popolo di intraprendere con la forza della tua parola il cammino quaresimale, per vincere le seduzioni del maligno e giungere alla Pasqua nella gioia dello Spirito».
Carlo Di Pietro


Una parola vale l’altra - Da “diritti riproduttivi” a “sviluppo sostenibile”. Viaggio nel vocabolario creato dalle istituzioni internazionali, pieno di espressioni che possono voler dire tutto e il contrario di tutto - Laura Borselli – Tempi
Lo smarrimento all’indomani della caduta del muro di Berlino, l’ansia sacrosanta e insieme lievemente isterica di ripartire, di ricominciare e di farlo con le parole giuste. Perché se dare un nome alle cose è il primo segno di coscienza per un essere che viene al mondo, lo stesso accade per una società frantumata da decenni di divisione. «È allora che, a partire dal linguaggio, la nuova etica globale ha conosciuto un punto di svolta», spiega Marguerite Peeters, direttrice di Dialogue Dynamics, istituto di Bruxelles che studia i concetti chiave, i valori e i meccanismi operativi della globalizzazione. I primi anni Novanta inaugurano un’era di infinite possibilità, per godere della quale occorre intendersi sui termini per dialogare in futuro e raggiungere un consenso ampio su una serie di concetti basilari. È questo l’obiettivo di una lunga serie di conferenze internazionali organizzate dall’Onu, come il summit del Cairo dedicato alla ... salute riproduttiva e quello di Pechino sulla “gender equality” (letteralmente “uguaglianza di genere”). È così che dal 1990 al 1996 viene compilato il vocabolario di norme, valori e priorità necessari alla cooperazione internazionale della nuova era.


Marguerite Peeters è andata a sfogliare quel vocabolario culturale e linguistico, per capire chi lo ha compilato e che cosa vi ha scritto dentro. Quel che racconta non è nuovo, le parole che usa non sono astruse. “Sviluppo sostenibile”, “diritti riproduttivi”, “democrazia partecipativa”: sono espressioni che chiunque ha sentito decine di volte. «È proprio questo il punto – spiega la Peeters. Quel vocabolario noi lo usiamo già, molto spesso senza comprenderlo».

Eppure il linguaggio è una tappa fondamentale della costruzione della civiltà, cartina di tornasole dei cambiamenti e insieme loro motore. «Si tratta di una nuova etica globale – scandisce. Dove l’espressione significa che c’è un tipo di etica che non c’è mai stata prima, pur essendo snodo di una rivoluzione culturale iniziata già con la Rivoluzione Francese. È un’etica postmoderna ed è globale. Globale significa che se andiamo in Africa sentiamo Ong che parlano alle donne africane di diritti riproduttivi, di qualità della vita. Concetti nati in Occidente e calati in un nuovo contesto, in una sorta di neocolonialismo che mira a scalzare quel Dio portato insieme al colonialismo vero e proprio».

I paradigmi messi in atto spaziano dalla salute femminile, alla parità tra i sessi, fino al rispetto dell’ambiente. «Ma questo non significa che non vi sia un principio comune ed è la libertà di scelta assoluta». Prima ancora che scomodare opzioni religiose o politiche, la professoressa invita a guardare al linguaggio stesso. «Consideriamo il caso di un’espressione come “sviluppo sostenibile”. Essa non ha una definizione chiara e puntuale, anzi può essere interpretata in modi diversi e opposti a seconda che ad avervi a che fare sia un socialista o un liberale. C’è una instabilità semantica assoluta che viene quasi trasformata in un principio, in un valore.

Il linguaggio non serve più a dare un nome alle cose, processo fondamentale per conoscere la realtà ed entrarvi in rapporto, ma a tracciare dei confini di ambiguità, a definire uno spazio di interpretazione libera. Per questo dico che il linguaggio ha giocato un grande ruolo nella rivoluzione culturale globale, perché è tramite il linguaggio che si è trasformata la realtà in processo di scelta. Dunque è vero che il linguaggio non esprime più una realtà chiara, identificabile, ma può servire per permettere all’individuo di scegliere di non impegnarsi mai».

La tentazione della genericità

Si tratta di una tentazione atavica, più che di un progetto costruito a tavolino, secondo Giovanni Gobber, docente di Linguistica tedesca e di Linguistica generale all’Università Cattolica di Milano. «Vi è una sorta di imperativo sotteso al linguaggio adottato delle organizzazioni internazionali, quello della genericità». Una tentazione che secondo Gobber prende le mosse dall’obiettivo di costruire il consenso e il dialogo. «Si tratta di una necessità reale, pensiamo alla comunicazione interculturale.

Ora, il punto è come si risponde a questa necessità e il dramma è che sempre di più si pensa che per comunicare con chi è diverso da me devo eliminare da me stesso gli elementi di diversità». Non è dunque il progetto di una presunta “spectre” internazionale, ma una convinzione genuina, il che per certi versi è ancora peggio. «Ci sono aspetti dell’esistenza – riprende Gobber – in cui si chiede al linguaggio di essere il più possibile neutro, generalmente questo accade quando sono implicate delle opzioni morali, sempre foriere di divisioni». Ecco allora che il termine “aborto” lascia spazio all’espressione “interruzione volontaria di gravidanza”, o la parola eutanasia viene parafrasata come “dolce morte” con riferimento alla sua radice greca.

«Gran parte delle nuove parole che ci troviamo per le mani sono vuote o edulcorate. Dove si avverte la violenza si cambia la parola, ma in questo modo non si elimina la violenza che c’è nella realtà. La realtà non è mai asettica o neutra. Né può esserlo il linguaggio».

I diritti prima di tutto

Quello dei diritti delle donne è uno dei campi più “a rischio”, secondo la professoressa Peeters. «Prendiamo un’espressione come “diritti riproduttivi”. La definizione è stata elaborata a porte chiuse da esperti di Ippf (International Planned Parenthood Federation), Oms (Organizzazione mondiale della Sanità) e Unfpa (United Nations Fund for Population Activities) ed è un paragrafo che lascia aperte tutte le interpretazioni possibili: dall’aborto alla maternità, dalla sterilizzazione forzata alla contraccezione ormonale, fino alla fecondazione in vitro».

La salute riproduttiva, recita infatti la definizione che ha trovato la sua sintesi compiuta e formale durante la conferenza del Cairo su popolazione e sviluppo (1994) «è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non soltanto assenza di malattia o infermità, in tutti i contesti riguardanti il sistema riproduttivo, le sue funzioni e i suoi processi. La salute riproduttiva quindi implica che le persone siano in grado di avere una vita sessuale soddisfacente e sicura e che abbiano la capacità di riprodursi e la libertà di decidere se, quando e quanto riprodursi.

In quest’ultima condizione è implicito il diritto degli uomini e delle donne di essere informati e di avere accesso a metodi di pianificazione familiare sicuri, efficaci, disponibili e accettabili secondo la loro scelta così come altri metodi per la regolazione della fertilità che non siano contrari alla legge». È facile andare con la mente all’utopia distopica del Brave New World di Aldous Huxley, dove momento unitivo e procreativo sono separati da tempo: nel mondo nuovo dello scrittore inglese i bambini nascono in vitro e il sesso è libero e innocuo.

«Rievocare queste immagini può sembrare esagerato. In fondo le espressioni del nuovo linguaggio appaiono giuste: chi può dire che sia sbagliato aspirare a una migliore qualità della vita? Quale donna africana, dove spesso partorire significa ancora morire, può rinunciare alla “maternità sicura” promessa dai famosi diritti riproduttivi?».

Ecco perché, sottolinea di nuovo la Peeters, questo linguaggio seducente non risparmia i cristiani, le Ong di ispirazione cristiana e la Chiesa stessa. «Molti cristiani confondono i paradigmi di questa nuova cultura con quelli della dottrina sociale della Chiesa. Spesso inconsapevolmente, senza porsi problemi ideologici. Pensano che sviluppo sostenibile sia sinonimo del rapporto tra uomo e natura descritto dalla Chiesa. Ma dietro questo concetto si può celare un neopaganesimo strisciante, in cui l’uomo non è considerato il custode della natura e della creazione, ma semplicemente un animale come tutti gli altri».

La parola del nuovo millennio

Per questo secondo la professoressa si apre una sfida particolarmente stimolante e urgente per la Chiesa: non solo quella di non confondersi, ma soprattutto quella di continuare a dire che cosa è la libertà. «L’ignoranza – scriveva diversi mesi fa la stessa Peeters sull’Osservatore romano – espone i cristiani al rischio di un amalgama tra la nuova etica e la dottrina sociale della Chiesa. È questo stesso amalgama che ha portato i cristiani occidentali al dissalamento della loro fede, in particolare dopo la rivoluzione culturale degli anni Sessanta.

Resta un enorme lavoro da fare per formulare la risposta che il Vangelo e la dottrina sociale danno alle sfide antropologiche e teologiche della postmodernità. Di fronte alle sfide di un’etica che, nei suoi aspetti radicali, vuole imporre alle culture la trascendenza del diritto di scelta dell’individuo al di fuori del disegno di Dio, i cristiani devono mettere nuovamente in luce la trascendenza della rivelazione divina. Il servizio più grande che la Chiesa può rendere all’umanità è infatti essere se stessa».
Laura Borselli – Tempi


Non abbiamo né santi né eroi - Anno 2010. Per la prima volta i preti ordinati dagli istituti missionari italiani sono tutti stranieri. Per padre Pietro Gheddo la colpa non è solo della crisi della fede e della natalità - Piero Gheddo – Tempi
Ogni anno a giugno gli istituti missionari celebrano l’ordinazione sacerdotale dei loro diaconi e le destinazioni alle missioni. Quest’anno i quattro nati in Italia (Pime, Comboniani, Saveriani e Consolata) non hanno nessun sacerdote italiano – questo almeno mi risulta. Il Pontificio istituto missioni estere (Pime) ordina 11 sacerdoti, ma tutti stranieri: quattro brasiliani, tre indiani, tre birmani e uno della Guinea Bissau. Un amico comboniano mi ha detto che quest’anno hanno chiuso il loro noviziato europeo, che riceve giovani dai sette paesi del continente in cui l’istituto è presente. Il Pime, istituto non religioso (cioè senza i voti), è internazionale solo dal 1989, mentre altri istituti, da sempre internazionali, hanno un maggior numero di sacerdoti dalle missioni. Ma la situazione delle vocazioni missionarie italiane è più o meno uguale per tutti: sì e no un solo sacerdote all’anno, quando va bene. Secondo i dati delle ...

... Pontificie opere missionarie, nel 1934 l’Italia aveva 4.013 missionari nei territori di missione, 7.713 nel 1943, 10.523 nel 1954. Nel 1965 la rivista Fede e Civiltà dei missionari saveriani (che attualmente esce come Missione Oggi) realizzò un’inchiesta da cui risultava che i missionari italiani in missione erano 10.708.

Dopo il Concilio Vaticano II sono aumentati fino ai 16 mila del 1985. Un fatto straordinario, dovuto ai sacerdoti “fidei donum” (diocesani in missione), al volontariato laico nelle missioni e al fatto che molti istituti, congregazioni e ordini religiosi, soprattutto femminili, sono diventati missionari mentre non lo erano mezzo secolo prima. Altre Chiese d’Europa, tradizionalmente missionarie, hanno avuto una forte diminuzione.

La Francia è passata da 22 mila missionari sul campo negli anni Sessanta a 11 mila, l’Olanda da 6 mila a 2 mila, la Germania da 14 mila a 6 mila, gli Stati Uniti da 15 mila a 7 mila, secondo statistiche del 1989.

Oggi la situazione non è certo migliorata. Si calcola che gli italiani in missione siano circa 12 mila, ma «con i capelli sempre più grigi», come scrive Mondo e Missione in un “servizio speciale” dell’ottobre 2008 intitolato “Missionari in via di estinzione?”.

Titolo provocatorio quello scelto dal mensile del Pime, ma questa è la realtà. Dopo quasi sessant’anni nella stampa e nell’animazione missionaria in Italia, esprimo una mia convinzione. Le cause sono certo molte: crisi di fede e delle famiglie, ragion per cui mancano i giovani; crisi delle diocesi e delle parrocchie, dove si incontrano sempre più preti stranieri.

Ma il crollo delle vocazioni missionarie dipende in gran parte dal fatto che la figura del missionario non attira più. Era affascinante fino a quarant’anni fa (Indro Montanelli mi diceva: «Voi missionari siete tutti eroi»), ma è molto decaduta nella cultura del nostro tempo e quasi scomparsa nei mass media d’oggi.

Noi missionari e i nostri istituti abbiamo perso la nostra identità e il nostro fascino. Eravamo gli inviati della Chiesa per portare Cristo e il Vangelo ai popoli e fondare la Chiesa come negli Atti degli Apostoli. Questa era la nostra identità, l’immagine che avevamo noi giovani sognando di diventare missionari. Poi la missione è cambiata e il missionario ha perso l’aureola di eroe e di pioniere, oggi va a servire Chiese quasi ovunque già fondate.

Tutto vero, ma è anche vero che i missionari sono sempre più richiesti dalle giovani Chiese e oggi acquistano in più l’immagine nuova di “ponte fra i popoli, le religioni e le culture”, che nel mondo globalizzato è capace di suscitare interesse e adesioni. Insomma, il missionario potrebbe diventare una figura sempre più attuale, se solo noi missionari mantenessimo, in Italia (e più in genere in Occidente), la nostra identità, il nostro carisma, la nostra carica di entusiasmo evangelizzatore.

Invece l’immagine del missionario si è a poco a poco politicizzata e siamo finiti in una marmellata di buonismo che è diventato la cultura di base del popolo italiano. Sul campo, i missionari continuano il loro lavoro con spirito di sacrificio e fedeltà al carisma, in Italia l’immagine del missionario cambia e secondo me non rappresenta più la realtà. Nelle riviste missionarie di quarant’anni fa gli articoli sull’evangelizzazione dei popoli, le conversioni, i catecumeni, le novità delle giovani Chiese, l’annunzio di Cristo nelle diverse culture, la presentazione di figure di missionari erano alla base di ogni edizione.

Si parlava spesso di vocazione missionaria a vita e ad gentes, proponendola in modo concreto ai giovani. Oggi, ci sono riviste “missionarie” che di missionario hanno poco o nulla; “centri culturali” di istituti missionari che organizzano molte conferenze, ma sui temi della missione alle genti quasi niente e sui missionari in carne e ossa nulla; librerie di istituti missionari, che si suppone vendano libri missionari, che in vetrina mettono tutt’altro; animatori missionari che parlano di “mondialità” e poco o nulla di “missione”; comunità di missionari che hanno perso l’entusiasmo della missione alle genti e la buona abitudine di parlare della loro vocazione, spiazzati dall’indifferenza del mondo moderno. E potrei continuare.

È una deriva generalizzata della quale non incolpo nessuno, ma che ci ha fatto perdere la nostra identità.

Se la chiamata si perde nel caos

Sono convinto che non esista nella mentalità comune del popolo italiano una figura più incisiva e più universalmente accolta di quella del missionario e dell’ideale missionario. Ma noi, per timore di essere considerati “integralisti” e per malinteso senso del “dialogo”, non osiamo più parlare di conversioni a Cristo; mortifichiamo le esperienze missionarie sul campo; riduciamo la missione della Chiesa agli aiuti a lebbrosi e affamati; siamo “a servizio della Chiesa locale”, dimenticando però che questo servizio dovrebbe essere soprattutto volto ad animare missionariamente il gregge di Cristo; pensiamo di fare “animazione missionaria” facendo campagne nazionali contro chi produce e vende armi e su altri temi (battaglie positive, certo, ma non “animazione missionaria”).

In passato, durante le solenni “veglie missionarie” alla vigilia della Giornata missionaria mondiale, si ascoltavano le testimonianze dei missionari sul campo, oggi invece in alcune “veglie missionarie”, organizzate da missionari e da “gruppi missionari”, si contesta la produzione delle armi e sono invitati a parlare gli esperti di questo tema. Ma è possibile che un giovane o una ragazza sentano la voce dello Spirito che li chiama a donare la loro vita alla missione se sono impegnati in marce di protesta come queste?
Piero Gheddo – Tempi


Un problema morale? - Lorenzo Albacete - mercoledì 21 luglio 2010 – ilsussidiario.net
Il presidente Obama ha aperto un nuovo fronte nel già surriscaldato dibattito preelettorale, quello della riforma delle leggi sull’immigrazione, rivelando qualcosa che sembra finalmente essere una novità nell’attuale panorama politico. Si tratta infatti di una materia in cui il presidente ha l’appoggio di un numero crescente di leader evangelici conservatori.
In occasione di un importante discorso sulla necessità di riformare la politica nazionale dell’immigrazione, Obama è stato presentato dal prominente ministro evangelico Rev. Bill Hybells, della Willow Creek Community Church dell’Illinois. Erano presenti anche tre altri pastori evangelici di rilievo a dimostrazione dell’importanza data dal presidente a questo insolito sviluppo politico. Su The New York Times del 19 luglio, Laurie Goodstein ha scritto un interessante articolo sulle possibilità insite in questo sviluppo.
Il fatto è che la maggior parte degli evangelici si oppone al presidente su quasi tutte le materie in discussione, schierandosi con il Partito Repubblicano. Tuttavia, come scrive Goodstein, questa alleanza tra evangelici e Repubblicani ha cominciato a incrinarsi proprio su questo tema. Goodstein cita Matthew D. Staver, fondatore e presidente del Liberty Council, uno studio legale religioso conservatore: “Personalmente sono d’accordo con il presidente Obama su ben poche cose. Dall’altra parte, però, non lascerò che i miei valori vengano sottomessi alla retorica della politica o all’affiliazione partitica, e se su questo punto ha ragione lui, io lo appoggerò”.
Cosa c’è dietro questi sviluppi? Goodstein parla del “lavoro dei pastori evangelici ispanici attivi in politica, che in anni recenti hanno instaurato rapporti con pastori non ispanici nella comune lotta di opposizione all’aborto e al matrimonio tra persone dello stesso sesso”. Questi pastori ispanici stanno cercando pesantemente di convincere questi altri leader evangelici della priorità della riforma sull’immigrazione come problema morale.
A quanto pare, un numero crescente di esponenti evangelici si sta convincendo che gli ispanici sono la chiave non solo della crescita del movimento evangelico, ma anche della riforma della società americana secondo il loro sistema di valori. Per il Rev. Richard D. Lang, presidente della Commissione per l’etica e la libertà religiosa, il braccio politico della Southern Baptist Convention, “gli ispanici sono religiosi, orientati alla famiglia, pro-life, con spirito imprenditoriale… naturalmente conservatori, a meno che vengano distolti da questi valori”.
Alcuni esponenti evangelici non ispanici hanno messo in guardia Lang dal dividere l’esistente coalizione conservatrice, ma lui ha risposto che “potrebbe essere rotta la vecchia coalizione conservatrice, ma non la nuova. E se questa nuova coalizione diverrà una coalizione di governo, avrà al suo interno molti ispanici, che non potranno però essere coinvolti con una retorica anti immigrazione e anti ispanica”.
Le parole del Rev. Lang mostrano come il dibattito all’interno dei conservatori evangelici non si esaurisca nella ricerca di una politica dell’immigrazione conforme alla loro visione della fede cristiana (si veda il dibattito in corso sul significato nei testi biblici del trattamento degli “stranieri” o su quello di “amnistia”), ma coinvolga anche strategie politiche.
Ecco i numeri: negli Stati Uniti vi sono attualmente circa 12 milioni di immigrati illegali, di cui la maggior parte è costituita da ispanici. Circa il 70% di questi si qualificano come cattolici e il 15% come evangelici, molto più orientati verso il Partito Repubblicano che non i cattolici.
Per gli evangelici unirsi alla coalizione per la riforma dell’immigrazione secondo le linee illustrate dal presidente significa navigare in acque turbolente. Questa coalizione raggruppa cattolici, protestanti, ebrei, musulmani e laici. Gli evangelici che parlano di “America cristiana” o di “valori giudaico-cristiani” non si troveranno in una compagnia molto comprensiva. In effetti, per una parte dei sostenitori della riforma la questione è legata ad altri valori, che gli evangelici non possono che contrastare.
Per esempio, sono tutti d’accordo che le politiche dell’immigrazione debbano rispettare il diritto delle famiglie a rimanere unite, ma cosa costituisce una famiglia? J. Kenneth Blackwell, candidato repubblicano a governatore dell’Ohio nel 2006 e ora membro del Family Research Council, riconosce che “l’intero sforzo potrebbe essere vanificato se la legge definitiva dovesse estendere i programmi di riunificazione familiare alle coppie dello stesso sesso. Questo farebbe saltare ogni accordo”.
L’articolo della Goodstein non parla di come la Chiesa cattolica navighi queste agitate acque ecumeniche, ma i numeri da soli mostrano quanto sia importante educare i cattolici ispanici a scoprire le ragionevoli implicazioni della loro fede e a proporle coerentemente a tutti. I vescovi americani lo hanno fatto in materia di aborto e matrimonio, ma è chiara la necessità di un nuovo sforzo secondo le linee suggerite da David Schindler sulla rivista teologica Communio (sull’argomento mi soffermerò in un’altra occasione).
Uno sviluppo promettente per la Chiesa cattolica in America è la nomina di un ispanico ad arcivescovo di Los Angeles, la arcidiocesi ispanica negli Usa. L’arcivescovo Gomez ha certamente trovato un compito tagliato su di lui.


Antony Flew, padre dell'ateismo conferma l'esistenza di Dio dopo una ricerca razionale... - Ai membri di Regina della Pace di Medjugorje - 21 luglio - email ricevuta da Antonio Chilà
Antony Flew, il filosofo che era stato sino al 2004 simbolo mondiale dell’ateismo scientifico e il padre dei vari attuali divulgatori dell’inesistenza di Dio come Dawkinns, durante un convegno a New York dichiarò pubblicamente ed oggi ve ne è prova documentale di essersi convintondell’esistenza di Dio e che questa sua certezza è basata sull’evidenza scientifica.
Flew era da mezo secolo la mente del moderno ateismo filosofico-scientifico precisamente dal 1950 quando espose ad Oxford le sue tesi con Theology and Falsification, che diventò uno tra i libri di filosofia più ristampati del XX secolo.
Contributi come pochi altri ad elaborare seri argomenti teorici sull’esistenza di Dio Espose sistematicamente le sue speculazioni in varie opere, diventando il punto di riferimento filosofico di coloro che proclamano l’incompatibilità fra la scienza e l’idea di Dio.
La clamorosa conversione a Dio di Flew è un evento di grande significato perché non deriva da una crisi di coscienza personale, da una storia privata che esula dai suoi studi filosofici.
Al contrario egli l’ha motivata così: “La mia scoperta del Divino è stato un itinerario della ragione e non della fede”.
Occorre una straordinaria lealtà intellettuale per annunciare a 80 anni, dopo mezzo secolo di gloria accademica, di capitolare di fronte all’evidenza capovolgendo tutto ciò che dallo stesso è stato asserito sino ad oggi dal maestro dell’ateismo e di cui hanno dipeso nomi illustri.
Flew ha scritto nero su bianco gli argomenti principali che lo hanno vinto e convinto, e su quale si fonda la scoperta razionale dell’esistenza di Dio, argomentazione questa che sarebbe stata meritevole di risalto nei mass media attraverso discussioni e dibattiti considerato che l’ateismo sino a quella data aveva teoricamente “provato” il contrario ed oggi si ricredeva con il massimo esponente.
Notevole l’imbarazzo del mondo accademico che preferisce aver ragione anziché correggere i propri errori. Dopo una vita intera di ricerca filosofica indagatrice questa coraggiosa ed eminente intelligenza quale Flew è adesso pervenuta alla conclusione che l’evidenza conduce definitivamente a Dio.
Il Dio che Flew riconosce esistente è quello di Aristotele ed Einstain. Quello a cui arriva la ragione: “Non ho sentito alcuna voce, è stata la stessa evidenza che mi ha condotto a questa conclusione”.
Sono i risultati delle più recenti, sofisticate ricerche nel campo della biologia, della chimica e della fisica ad aver convinto Flew.
Nel ripensamento di Flew sono stati decisivi anche gli argomenti di un geniale scienziato ebreo Gerald Schroeder e delle riflessioni su base scientifica del giornalista cattolico Roy Abraham Varghese col quale poi ha scritto There is a God.
Le evidenti tracce del Creatore che questi due altri autori che da anni indicano riguardano il macrocosmo ed il microcosmo.
Chi infatti ha dato alla materia inerte e cieca le ferree leggi logico-matematiche che ne ordinano meravigliosamente lo svolgimento vitale, nell’infinitamente ed infinitamente grande?
Ma il segno di quella presenza trascendente di quell’intelligenza creatrice si trova poi in tutto quello che è seguito. Nota eloquente quella dell’astrofisico Marco Bersanelli che sancisce:”La struttura del mondo fisico, dagli atomi, ai pianeti, alle galassie è strettamente e dipendente dal valore numerico che assumono alcune costanti fondamentali della natura. La dinamica dell’intero cosmo fin dai primo momenti appare accuratamente predisposta a generare condizioni favorevoli per accogliere la nostra comparsa ad un certo punto della sua storia.
Identica cosa riferisce Stephen Hawking:”L’intera storia della scienza è stata una graduale presa di coscienza del fatto che gli eventi non accadono in modo arbitrario, ma che riflettono un certo ordine sottostante”.
Ciò che ha dato di fatto origine alle tesi di Flew ed altre eminenze scientifiche che a ragion di logica e di coincidenze sorprendenti sono quelle che hanno portato alla formazione di un pianeta “la terra” che, incredibilmente forse da solo, in un immenso abisso inospitale, possiede tutte le eccezionali caratteristiche necessarie, esattamente quelle indispensabili per permettere lo sbocciare della vita.
Come se la terra, scrive Schroeder, fosse stata fabbricata su ordinazione per ospitare la vita.
La distanza ottimale del sole, la sua orbita perfetta, I gas vulcanici hanno permesso la creazione di mari ed oceani, il vento solare della fase T-Tauri si verificasse prima, così salvando i mattoni della vita.
Sempre per lo stesso fortunatissimo “caso” l’atmosfera della Terra, ha uno strato di ozono che protegge da radiazioni letali, ma fa passare la luce ed il calore necessari alla vita. E, per un’altra fantastica casualità, al Centro della Terra, si trova quella massa di piombo fuso che provvidenzialmente protegge la vita sul pianeta da altre radiazioni devastanti e ci permette di vivere sotto un vero e proprio “ombrello magnetico”.
La vita è comparsa sulla terra…la sua probabilità era quasi nulla, era una eventualità statisticamente remota, pressoché prossima allo zero se non vi fosse stata un’azione Divina.
Fred Hoyle, dichiara: credere che la prima cellula si sia formata per caso è come credere che un “tornado” infuriando in un deposito di sfasciacarrozze abbia costruito un boeing.
L’essere umano ed il suo cervello è un’entità fisico-intellettuale immensamente più raffinata e complessa di qualsiasi computer esistente. Eppure non si ritiene assurdo affermare che questo perfetto organismo è stato elaborato e realizzato dal caso.
Ancora più sorprendente è l’esistenza di quel sistema di informazioni chiamato DNA che mette in grado qualsiasi organismo umano con l’accoppiamento di generare in brevissimo tempo un altro essere umano dotato di quel mistero inspiegabile che è la coscienza.
Quale intelligenza dunque ha inventato, formulato e miniaturizzato a tal punto tutte quelle informazioni contenute nel DNA nella giusta sequenza? E quale ha saputo far sì che l’informazione potesse diventare tramite processi naturali, materia biologica?
Di fronte a queste evidenze ed altre che per brevità di discussione non starò ad elencare dettagliatamente Flew si è arreso acclarandone l’argomentazione “chiusa”.
Diceva Einstain: Nelle leggi della natura si rivela una ragione così superiore che tutta la razionalità del pensiero e degli ordinamenti umani è al confronto un riflesso insignificante. Ciò ha contribuito alla consapevole svolta verso Dio di Flew.
Einstein è stato definito il padre della relatività come ateo o panteista spinoziano. Flew esprime chiaramente il pensiero di Einstain che in modo inconfutabile chiarisce quanto espresso: “Io non sono ateo e non posso definirmo panteista, Noi siamo nella situazione di un bambino che è entrato in un immensa biblioteca piena di scritti e lingue, ma non sa come e non conosce libri, scritti e lingue.Il bambino oscuramente sospetta che vi sia un misterioso ordine nella disposizione dei volumi ma non sa quale. Questa mi sembra la situazione dell’essere umano, anche il più intelligente di fronte a Dio”.Npi vediamo l’universo meravigliosamente disposto e regolato da leggi, ma solo debolmente noi comprendiamo queste leggi. La nostra mente limitata è in grado di intuire che una misteriosa forza muove le costellazioni”.
Aggiunge ancora Einstein:”Io non sono un positivista. Il positivismo stabilisce che quanto non può essere osservato non esiste. Questa concezione è scientificamente insostenibile, perché è impossibile fare affermazioni valide su ciò che uno può o non può osservare. Uno dovrebbe dire…solo ciò che noi osserviamo esiste. Il che è ovviamente falso”.
Conclude Flew citando una confessione di Einstein: “La mia religiosità consiste nell’umile ammirazione dello spirito infinitamente superiore che rivela se stesso nei minimi dettagli che noi siamo in grado di comprendere con la nostra fragile e debole intelligenza. La convinzione profondamente appassionante della presenza di un superiore potere razionale, che si rivela nell’incomprensibile universo, fonda la mia idea di Dio”.
Concludo citando un ultimo utile pensiero di Flew che sostiene: “La figura carismatica di Gesù è così speciale che è sensato prendere in seria considerazione l’annuncio che lo riguarda. Paradossalmente se Gesù non fosse esistito ci troveremmo di fronte al più colossale dei miracoli”.
Solò la realtà storica di Gesù permette di comprendere la nascita e lo svolgimento storico del cristianesimo, che senza di essa sarebbe stata un enigma, anzi un miracolo.
Antonio


QUELLA LEGGE CHE BESTEMMIA LA GIUSTIZIA - RICCARDO REDAELLI – Avvenire, 21 luglio 2010
Non avrebbero avuto giustizia comun que. La «legge contro la blasfemia» in Pakistan è un Moloch che da anni si scaglia contro le minoranze religiose e gli intellettuali progressisti senza dar loro la possibilità di u na vera difesa. Ma i due fratelli Emanuel e Sajid, cristiani di Faisalabad, non hanno nep pure potuto sperarci: li hanno trucidati fuori dal tribunale, per mano di un assassino che probabilmente non verrà mai punito.

I loro corpi insanguinati dinanzi al palazzo di giustizia della città sono l’emblema della tra gica situazione d’impotenza in cui si trovano i cristiani di questo instabile Paese dell’Asia meridionale, scosso dai sommovimenti di gruppi islamisti radicali e violenti. Di fatto, al la mercé delle minacce e dei ricatti politici dei fondamentalisti. Minacce e ricatti che av vengono all’ombra di una delle più contro verse e odiose leggi, quella appunto sulla bla sfemia, che adotta per chiunque «ingiuri» il Corano, il profeta Maometto e l’islam la pe na prevista dalla Legge religiosa islamica (la sharia). E cioè la morte.

Un corpus di leggi che dovrebbe proteggere la religione, ma che si è tradotta in uno stru mento di ricatto, di violenza settaria e di segregazione per i non musulmani. Basta che quattro testimoni ac cusino uno o più cri stiani di aver offeso l’i slam perché questi ul timi siano arrestati, spesso maltrattati e sottoposti ad abusi, e condannati a morte da una corte che segue in modo cieco e dogma tico i legalismi previ sti. Così, per vendicar si di qualcuno, basta dire di averlo sentito pro nunciare o scrivere parole ingiuriose contro Maometto per distruggergli la vita, spesso in senso letterale, ed esporre la sua comunità al le vendette e agli assalti di fanatici pronti a credere a ogni imputazione mossa contro le minoranze.

È questa una visione eccessiva, una difesa a critica dei due fratelli accusati in Pakistan? Purtroppo no, solo la semplice descrizione di quanto è accaduto in decine di casi dagli an ni 80 a oggi contro cristiani, induisti, sikh, membri di comunità religiose locali come gli Ahmadiyya, in qualche caso contro musul­mani sciiti. Spesso le accuse sono il frutto di rancori personali, di rivalità economiche, strumenti di pressione per banali questioni di interesse o potere.

Non c’è difesa, perché il meccanismo che le genera è iniquo fin dal principio. È la legge sulla blasfemia il Moloch che permette e per petua tutto ciò. Una legge emanata dal ditta tore Zia ul-Haq nell’ultima parte del Nove cento per compiacere i fondamentalisti, nel l’ambito della progressiva islamizzazione del Paese, e mai modificata nonostante le pro messe di quasi tutti i governi che si sono suc ceduti a Islamabad. In fondo, per quanto in giusta, colpisce le minoranze. Le proteste e gli imbarazzi che causa sono meno proble matici delle reazioni da parte delle scuole co raniche radicali e dei gruppi islamici in caso di riforma.

Ogni qualvolta la comunità internazionale – per la verità senza troppa convinzione – chie de conto al Pakistan di tutto ciò, la risposta i pocrita è che nessuno è mai stato condanna to a morte per blasfemia. Vero: di solito gli ac­cusati vengono assassinati in carcere o du rante il processo. Oppure condannati a mor te dai tribunali e graziati dal presidente, per essere poi condannati all’esilio dal proprio Paese. E quanti altri sono stati uccisi, esposti – con tutte le loro comunità – a feroci pogrom, privati di ogni bene solo perché colpevoli di essere parenti dei 'bestemmiatori'?

L’unica soluzione è l’abolizione delle norme contro la blasfemia, o una radicale revisione in senso garantista dei suoi articoli più con troversi. Il governo non si decide: per debo lezza, incapacità, collusione con gli estremi sti, semplice viltà politica. È allora la comu nità internazionale – che sostiene, finanzia e aiuta il grande e fragile Pakistan – a dover par lare con chiarezza e determinazione: sareb be bizzarro pensare che la democrazia e i di ritti dei cittadini vadano difesi solo nel vicino Afghanistan.