mercoledì 14 luglio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) «Mia figlia rapita dalla giustizia». - Disegnò un fantasma e suo papà finì in galera - Angela Lucanto è stata portata via ai genitori nel 1995, quando aveva 7 anni, e tenuta nascosta per un decennio. Il padre era stato accusato di pedofilia incestuosa ma era innocente. Eppure per quasi 3 anni è rimasto in carcere. E dopo la sua assoluzione la piccola è stata data lo stesso in adozione. Ora è uscito il libro 'Rapita dalla giustizia', in cui questa storia incredibile è raccontata in prima persona dalla stessa Angela…- Avvenire, 10 luglio 2010
2) Razzismo nero - Lorenzo Albacete - mercoledì 14 luglio 2010 – ilsussidiario.net
3) Avvenire.it, 13 luglio 2010 - LA DIFESA DELLA VITA - Ru486: ecco le regole - Ora tocca alle Regioni
4) Avvenire.it, 14 luglio 2010 - il tema della Giornata mondiale - Libertà religiosa passaggio obbligato per la pace – Salvatore Mazza
5) l’allarme Disabili, classi senza «tetto» - DA ROMA - Disabili e manovra: un rapporto senza pace. – Avvenire, 14 luglio 2010


«Mia figlia rapita dalla giustizia». - Disegnò un fantasma e suo papà finì in galera - Angela Lucanto è stata portata via ai genitori nel 1995, quando aveva 7 anni, e tenuta nascosta per un decennio. Il padre era stato accusato di pedofilia incestuosa ma era innocente. Eppure per quasi 3 anni è rimasto in carcere. E dopo la sua assoluzione la piccola è stata data lo stesso in adozione. Ora è uscito il libro 'Rapita dalla giustizia', in cui questa storia incredibile è raccontata in prima persona dalla stessa Angela…- Avvenire, 10 luglio 2010

Raffaella Lucanto, mamma di Angela, mi guarda fisso e mi porge carta e penna. «Mi disegni un fantasma». La penna sul foglio sale, poi arrivata in alto si incurva e scende sinuosa come un lenzuolo...
«Basta così. Lei per questo è già in galera». Non esagera: così è iniziata la tragedia che per suo marito Salvatore ha significato 2 anni e mezzo di carcere da innocente, e per la figlia Angela una reclusione ancora più dolorosa, durata dieci anni. Un rapimento vero e proprio, eseguito non da una banda criminale ma da quella che chiamiamo 'giustizia'.
Che cosa è successo quel 24 novembre 1995?
Angela, che aveva 7 anni, era a scuola, serena come sempre. Entrarono in classe due carabinieri e un’assistente sociale e la prelevarono. A noi non dissero nulla: il pomeriggio andai a prenderla al pullmino e non c’era. Immagini la nostra angoscia, ma soprattutto la paura della bambina, non sapeva perché l’avessero portata in un posto con le sbarre, dove passavano notti e giorni e di mamma e papà non otteneva notizie. Le dicevano che il papà le aveva fatto brutte cose e che solo se lei lo avesse ammesso sarebbe tornata a casa. Ma quelle brutte cose non erano mai avvenute e Angela, che ha sempre avuto un carattere di ferro, non si piegava. Finché una delle zelanti psicologhe che collaboravano con il pm con il compito di 'far parlare' la bambina non le chiese di disegnare un fantasmino e lei lo fece proprio così... Fu interpretato come simbolo fallico e mio marito il 26 gennaio alle 5 del mattino fu trascinato a San Vittore. Non capivamo cosa stesse accadendo, eravamo certi che in poche ore l’equivoco si sarebbe chiarito, invece restò in cella due anni e mezzo.
Ma come nacque questa follia?
Una cuginetta di 14 anni, molto disturbata (poi finì in un ospedale psichiatrico ed è tuttora in cura) aveva accusato il proprio fratello di molestie. Poi man mano aveva allargato la cerchia, tirando dentro i suoi stessi genitori, due fratelli, mio marito, altri parenti e persino uno zio di mio marito che non aveva mai visto e che viveva in America... ma secondo i suoi racconti tutti i fine settimana era in Italia e partecipava alle orge. Non ce l’ho con lei, era malata, il guaio invece è che un pm le ha creduto.
Chi era questo pubblico ministero?
Pietro Forno. Non lo avevo mai sentito nominare prima, ora so che è molto noto per il cosiddetto 'metodo Forno': si interrogano i bambini, li si sottopone a psicologi e assistenti sociali, li si toglie alle famiglie anche senza prove, e tocca al presunto colpevole riuscire a dimostrare la propria innocenza. La posizione di mio marito si aggravò quando la cuginetta di colpo si inventò che oltre a lei violentava pure Angela. Infine il disegno del fantasma divenne la 'prova schiacciante' e Salvatore fu condannato a 13 anni.
Ma in secondo grado e poi in Cassazione la sua completa innocenza fu ovviamente riconosciuta: tante scuse, ci siamo sbagliati...
Fu assolto, sì, ma senza scuse. Ancora aspetto che il pm Forno venga a chiedere perdono per aver distrutto la nostra famiglia, soprattutto la vita di Angela. Dal giorno in cui fu prelevata a scuola non l’abbiamo più vista per dieci anni. Immagini l’inferno di due genitori e pensi a cosa avrà vissuto quella bambina, prima sbattuta al Caf, il Centro di Affido familiare, poi, dopo che io mi incatenai al di fuori perché me la restituissero, trasferita a sirene spiegate e di nascosto al Kinderheim di Genova, da dove tentò persino di evadere, infine data in adozione a una famiglia di Varese. Tenga conto che di tutto questo noi eravamo tenuti all’oscuro: di Angela dalla mattina del 24 novembre 1995 non abbiamo saputo più nulla per un intero decennio.
Qual è stato il momento più atroce?
Non il giorno del rapimento da scuola, ma quando, nonostante mio marito fosse stato assolto, la pratica di adozione è andata avanti. Per la giustizia lui era innocente, ma la stessa giustizia continuava a nascondere Angela e poi la dava addirittura a nuovi genitori! Un ingranaggio, infernale, assurdo, che non sai come fermare.
Oggi Angela è con voi. Com’è avvenuto l’incontro?
Non avevamo mai smesso di cercarla. In casa non spostavamo nulla, i suoi vestitini da bambina, i suoi giocattoli, tutto era lì ad aspettarla. Nell’estate del 2005 scoprimmo da un documento che la famiglia adottiva la portava al mare ad Alassio, così per settimane io e mio marito abbiamo battuto le spiagge. Chissà com’è diventata, ci chiedevamo, ma appena Salvatore l’ha vista l’ha riconosciuta. Che fatica non correrle incontro.
Così siete riusciti a risalire alla famiglia adottiva.
Ma per mesi abbiamo taciuto, andavamo a guardarcela di nascosto fuori da scuola... Il momento più incredibile è stato quando suo fratello Francesco le ha rivolto la parola per la prima volta: temevamo non ci volesse più, invece ci aspettava da sempre. Appena entrata in casa è andata dritta a cercare le sue cose... Angela aveva 17 anni ed era adottata, le era vietato incontrarci e i magistrati le hanno fatto la guerra, ma appena ne ha compiuti 18 è tornata da noi.
Una felicità difficile da immaginare.
La vita di tutti e quattro è ripresa in quel momento, prima c’è una bolla di dolore. Adesso ci resta ancora la fatica di adottarla: per i giudici non è più nostra figlia, ha un altro cognome... E sì che dovrebbero pensarci loro, come risarcimento, invece dobbiamo affrontare tanta burocrazia... Ma non è questa la cosa più paradossale: per il rapimento ci hanno mandato il conto, 60 milioni di lire solo per il primo anno. Il riscatto no, non lo pagheremo!
Avvenire, 10 luglio 2010
IL LIBRO
Una storia incredibile
Terribilmente bello. Terribilmente perché ciò che racconta è accaduto davvero. Bello perché sconvolge, indigna, fa sapere che nella nostra Italia, civile e moderna, queste cose succedono. 'Rapita dalla giustizia' è un libro imperdibile. Raccontato in prima persona dalla stessa Angela grazie alla penna di due giornalisti come Caterina Guarnieri e Maurizio Tortorella (ed. Rizzoli), non fa sconti a niente e a nessuno. Inizia già nel cuore della vicenda: 'Mentre la gazzella dei carabinieri correva veloce per strade di Milano a me sconosciute, l’angoscia mi montava nel cuore...'. I singhiozzi di bambina repressi e il naso che cola, Angela non capisce chi l’abbia presa e perché. Solo poco prima era seduta sui banchi della seconda elementare 'Salvo D’Acquisto' di Masate, fuori Milano. Il libro prosegue incalzante lungo gli anni, sempre più incredibile eppure vero. La bambina, che tutt’al più sarebbe eventualmente una vittima di adulti pedofili, in realtà è trattata come fosse la colpevole, sottoposta alle umiliazioni di chi le ripete che non vedrà mai più i suoi genitori.
Colpisce la forza quasi sovrumana di questa bimba, che non cede ai ricatti, che non accusa il padre di colpe non sue pur di essere liberata, che per tutto quel tempo ha continuato a struggersi dietro i ricordi, soprattutto quello di una testa di ricci color rame, i capelli di sua madre. Manca il fiato, al lettore, quando dopo tanti anni Angela e i genitori si guarderanno di nuovo in faccia e piangeranno insieme: è il 14 maggio 2006, dall’ultima volta sono passati quasi 11 anni. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato lo Stato italiano a risarcire la famiglia per l’interruzione forzata dei rapporti «protrattasi anche dopo l’assoluzione» del padre. Giusto, ma quale cifra ripaga di tanto?
Avvenire, 10 luglio 2010


Razzismo nero - Lorenzo Albacete - mercoledì 14 luglio 2010 – ilsussidiario.net
Fin dal primo momento in cui apparve concreta la candidatura di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti, si è aperto a destra un dibattito sul suo patriottismo. Una parte di questa discussione riguarda le caratteristiche razziali di Obama, riportando alla luce una questione rimasta sepolta sotto strati di “correttezza politica”: data la storia di razzismo di questo Paese contro gli afroamericani, e i ricordi e le interpretazioni di questa storia trasmesse alle generazioni che non hanno partecipato alle battaglie per i diritti civili e alle conseguenti vittorie sul piano giuridico, dato tutto questo, è possibile per una persona erede di questa tradizione essere riconosciuta come un patriota da tutti gli americani, indipendentemente dalle loro inclinazioni politiche?
La questione è tanto affascinante quanto esplosiva se dovesse sfuggire di mano alla gente seria ed essere gestita dai fomentatori di violenza di ogni parte. Eppure, proprio questa è la questione sollevata la scorsa settimana dal potente commentatore conservatore (in radio, televisione e internet) Rush Limbaugh. In questo momento, la discussione sembra essere rimasta viva principalmente nella blogosfera, ma è chiaro che, al di là di quello che uno pensa di Limbaugh e delle sue reali convinzioni e intenzioni, la questione costituisce un fatto politico che non può essere ignorato, se si vuol capire cosa sta succedendo in questo Paese.
Qui di seguito alcune delle osservazioni di Limbaugh: “Abbiamo un presidente e un governo interessati alla vendetta” (presumibilmente per quello che è stato fatto agli afroamericani). Abbiamo eletto “uno che odia l’America”. Obama “non sarebbe stato eletto se non fosse nero”. “Ora siamo governati da un popolo che non ama il Paese”. “La più grande minaccia ci arriva dall’interno”. Obama “vuole creare un’illegale carta dei diritti estranea alla nostra tradizione”, egli “vuole continuamente estendere i diritti di terroristi e spie”. Obama è “il primo presidente nella storia - almeno che io sappia - che vuole davvero la caduta della sua nazione”. Obama “ama punire questo Paese”.
Rush Limbaugh è anch’egli una persona molto discussa, ma quanto afferma sulla mancanza di patriottismo di Obama e le connessioni con il problema razziale è ripreso da altri commentatori considerati autorevoli. Per esempio, da Thomas Sowell, egli stesso un intellettuale afroamericano , che non si presta a essere etichettato come un commentatore “scandalistico”.
Sowell ha scritto di recente nel suo blog che Obama si è presentato come una persona “post razziale”, ma che questa è solo una furba politica e non riflette i suoi veri sentimenti. Un chiaro esempio alla base delle sue motivazioni è la ventennale collaborazione con il pastore nero Rev. Jeremiah Wright.
“Chiunque possa credere che Obama non avesse capito cosa significassero i proclami razziali di Jeremiah Wright, può credere a qualunque cosa… Circa la razza… Barack Obama sa cosa il pubblico vuol sentirsi dire, e questo è quanto ha detto. Ma la sua politica come presidente è stata l’opposto di questa sua retorica”.
E importante ricordare l’esperienza di Obama come “community organizer”, dice Sowell. Per costoro, “il risentimento razziale è merce comune”, perché tendono non a organizzare la comunità, ma “i risentimenti e le paranoie dentro la comunità, indirizzando questi sentimenti contro altre comunità, da cui si possono trarre vantaggi o rivendicazioni, e usando qualsiasi argomento o strumento adatto al raggiungimento dello scopo. Pensare che uno che ha promosso per anni rivendicazioni e radicalizzazioni possa, come presidente, portarci tutti verso l’unità è il trionfo del pio desiderio sulla realtà”. Non deve quindi sorprendere, nota ancora Sowell, che Eric Holder, il Procuratore Generale di Obama, abbia definito una volta l’America “una nazione di codardi” per la sua non volontà di affrontare la sua storia razzista.
La citazione del Rev. Jeremiah Wright mi ha fatto ricordare di un altro pastore battista, Meridian Henry, un personaggio centrale nel famoso pezzo teatrale di James Baldwin Blues for Mister Charlie, pubblicato nel 1964 (e citato da Luigi Giussani nel Senso Religioso). “Mister Charlie” è un termine afroamericano per indicare i bianchi.
La commedia riflette le discussioni tra i seguaci della non violenza di Martin Luther King nella lotta per i diritti civili e coloro che mettevano in discussione la reale efficacia di questo approccio. Meridian è un sostenitore della non violenza e si richiama in questo alla sua forte fede cristiana. Verso la fine della commedia, tuttavia, Meridian incorre in una chiara crisi della sua fede, come risulta da ciò che dice a Dio nel suo ultimo sermone.
“Mi rivolgo a Te questa sera da una tristezza e da domande che finora non avevo conosciuto… Non si tratta di questi giorni bui, abbiamo già conosciuto tempi oscuri. Non è solo che il sangue scorre e nessuno ci aiuta; non è solo che i nostri figli sono distrutti davanti ai nostri occhi. Non è solo che le nostre vite, giorno dopo giorno e in ogni ora di ciascun giorno sono minacciate da persone tra le quali Tu ci hai messo. Abbiamo sopportato tutte queste cose, mio Signore, e abbiamo fatto ciò che i profeti non hanno potuto fare, abbiamo cantato i canti del Signore in una terra straniera.
Quale peccato hanno commesso i nostri padri da dover essere espiato con le catene, la frusta, con la fame e la sete, con i massacri, il fuoco, la corda, il coltello, e per così tante generazioni in questi lidi selvaggi, in questa strana terra? La nostra offesa deve essere stata enorme, il nostro crimine incommensurabile. Ma non è il passato che fa il nostro cuore così pesante, è il presente, Signore, dove è la tua speranza? Chi o cosa toccherà i cuori di questa gente sconsiderata e la distoglierà dalla distruzione?
Non lascerò questa terra, questa strana terra che è la mia casa. Ma posso chiedere ai figli di continuare a sopportare per sempre le crudeltà a loro inflitte da coloro che sono stati i loro padroni e che ora sono, in verità, i loro compatrioti? Che speranza ci può essere per un popolo che nega i propri atti e disconosce la propria parentela e fa questo in nome della purezza e dell’amore, in nome di Gesù Cristo? Quale luce, Signore, è necessaria per vincere una tale oscurità? Non lascerò mai che essa mi conquisti, anche se so che un giorno distruggerà questo corpo. Ma cosa succederà ai figli?
Non ti lascerò andare fino a che non mi darai un segno! Un segno che indichi possibile la nascita di una sorgente nel terribile deserto del nostro tempo, una sorgente della vera moralità che ci conduca, Signore, verso quella pace sulla terra desiderata da così pochi attraverso così tante epoche. Insegnaci a fidarci del grande dono della vita e a imparare ad amarci l’un l’altro e a osare di camminare su questa terra come uomini. Amen”.
Questo mi sembra il livello da cui partire per giudicare l’attuale discussione sull’amore per il Paese e sulla verità della sua storia. Meridian è andato fino in fondo alla questione, secondo quanto la sua fede battista gli ha concesso. Ciò che manca è l’esperienza cattolica della Comunione dei Santi costruita dallo Spirito come Corpo di Cristo sulla terra, il frutto della Sua vittoria sul peccato e sulla morte. Questo è il segno di quella sorgente di vita per cui ha pregato Meridian.


Avvenire.it, 13 luglio 2010 - LA DIFESA DELLA VITA - Ru486: ecco le regole - Ora tocca alle Regioni
Procedura abortiva della Ru486 interamente effettuata in ospedale. Lo prevedono le linee guida del ministero delle Salute, da ieri sui tavoli dei governatori e degli assessori alla sanità delle regioni. Nell’illustrarle il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, ha sottolineato che uno dei due capisaldi su cui si basano le indicazioni del suo discastero è il parere inviato dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi alla commissione europea. Un pronunciamento che ha valore normativo «nazionale», «più alto di quello delle regioni». Quindi un termine di paragone ineludibile. Altro «binario» seguito dalle linee guida sono i tre pronunciamenti del Consiglio superiore di Sanità (Css) sull’uso della pillola abortiva nel nostro Paese.

La comunicazione inviata da Sacconi a Bruxelles a dicembre del 2009, quando come ministro del Welfare ne aveva la competenza, subordina l’immissione della pillola nel nostro Paese al rispetto della legge 194, cioè al fatto che la procedura abortiva sia interamente effettuata «in regime di ricovero ordinario nelle strutture sanitarie, in presenza di una specifica sorveglianza da parte del personale sanitario». Una presa di posizione, quella di Sacconi, che ricalcava quanto affermato già dalla commissione Sanità del Senato sulla messa in commercio del farmaco.

I tre pareri del Css hanno sottolineato inoltre che il rischio per la donna del metodo farmacologico può essere pari a quello chirurgico solo se l’intera procedura avviene in regime di ricovero ordinario, anche per «la non prevedibilità» del momento in cui avviene l’espulsione del feto. Quindi le regioni «non possono non tener conto» del fatto che si tratta dei pareri della «più autorevole istituzione sanitaria del Paese» e di un livello normativo che le travalica, quello nazionale di un ministro.
Tra i criteri non clinici indicati dalle linee guida, c’è la competenza linguistica, e più in generale la capacità di gestire una procedura, che anche se avviene in ospedale, è in parte autogestita dalla donna. Sono da escludere, poi, si afferma, «le minori senza il consenso dei genitori», considerando che «è difficile» la loro comprensione di tutta la procedura comportata dalla pillola.

Il ministero raccomanda «il consenso pienamente informato» sul fatto che l’interruzione della gravidanza potrà essere effettuata «solo in ricovero ordinario», nella maggior parte dei casi con una «durata di tre giorni, fino alla espulsione del materiale abortivo». Si devono comunicare alle donne chiaramente le altre metodiche possibili, eventuali «effetti collaterali», «eventi avversi» e complicazioni comportati dell’uso Ru486 come emorragie e infezioni. È «fortemente sconsigliata la dimissione volontaria», aggiungono le linee guida, «prima del completamento di tutta la procedura perché in tal caso l’aborto potrebbe avvenire fuori dall’ospedale e comportare rischi anche seri per la salute della donna». Si richiede anche l’impegno «a sottoporsi alla visita ambulatoriale di controllo entro 14-21 giorni dalla dimissione».

Il ministero ha già inviato agli assessorati i moduli per uno specifico monitoraggio sull’aborto farmacologico. «Quando avremo i primi dati certi, faremo il punto – ha detto il sottosegretario –. Se si riscontrasse che questi limiti non sono stati applicati, il governo dovrà trarne le conseguenze».
La Roccella ha concluso esprimendo la ferma determinazione di salvaguardare quell’«alta vigilanza sociale» che caratterizza l’Italia nel contrasto dell’aborto, grazie alla convergenza di vari fattori, «orientamenti culturali, attenzione politica, capacità di intervento del volontariato, tenuta di un tessuto comunitario». Si deve evitare che la introduzione della Ru486 sia utilizzata per scardinare le tutele alla salute della donna offerte dalla legge italiana, come è avvenuto in Francia dove, dopo la introduzione della pillola, si è cambiata la normativa, diffondendo l’aborto a domicilio («à la ville»).
Pier Luigi Fornari


Avvenire.it, 14 luglio 2010 - il tema della Giornata mondiale - Libertà religiosa passaggio obbligato per la pace – Salvatore Mazza
La libertà religiosa come "la libertà delle libertà". A precedere tutte le altre. A renderle possibili e plausibili. Di più, a fondarle. La libertà religiosa, dunque, come scintilla senza la quale ogni altra libertà non solo non è possibile, non è neppure vera. Non esiste. E che, al contrario, «quando è coerente alla ricerca della verità e alla verità dell’uomo», illumina e indirizza in maniera sicura il cammino verso la pace.

Già solo nella scelta del tema per la 44a Giornata mondiale della Pace – "La libertà religiosa, via per la pace" – c’è tutto il gusto di Benedetto XVI per una provocazione intellettuale forte, spiazzante. Che parte da quella che quasi sembra una ridefinizione dello stesso concetto di "libertà religiosa", depurandolo dalle mistificazioni di ogni fondamentalismo ma, allo stesso tempo, proiettandolo ben oltre la soglia minimale di una concessione alla semplice libertà di credere.

Come infatti spiega la nota che accompagna la pubblicazione del tema della Giornata, «la libertà religiosa è autenticamente tale quando è coerente alla ricerca della verità e alla verità dell’uomo». Un’impostazione cruciale: che mentre «consente di escludere la "religiosità" del fondamentalismo, della manipolazione e della strumentalizzazione della verità e della verità dell’uomo», in quanto «tutto ciò che si oppone alla dignità dell’uomo si oppone alla ricerca della verità, e non può essere considerato come libertà religiosa», nello stesso tempo «amplia gli orizzonti di "umanità" e di "libertà" dell’uomo», facendo in questo senso della libertà religiosa «una libertà per la dignità e per la vita dell’uomo».

Forte, si diceva, e spiazzante. Dove la forza sta, ancora una volta, secondo quell’impronta ormai immediatamente riconoscibile che rappresenta lo stile a cui ormai Papa Ratzinger ci ha abituato, nel tendere la mano a una ragione con cui la fede chiede di dialogare spogliandosi di ogni rigidità, di ogni chiusura preconcetta, nella certezza che, per una vera ricerca del bene comune, l’una abbia costantemente bisogno dell’altra. E dove il paradosso risalta evidente nel fatto che se, come ovvio, nell’orizzonte di libertà religiosa evocato dal Papa ci sono tutte le situazioni in cui il diritto a professare la propria religione è conculcato fino alla persecuzione e alla morte, il richiamo forse più allarmato è al processo di secolarizzazione che vorrebbe quasi espellere dall’orizzonte della vita pubblica ogni rilevanza del "credere", quasi a volerlo relegare in un privato residuale.

Sarà per questo doppiamente interessante vedere come, nel corpo del Messaggio – che sarà pubblicato a fine autunno – Benedetto XVI svolgerà il suo pensiero. Oggi in ogni caso, così come non si può non pensare ai drammi quotidiani e alle tragedie dei perseguitati a motivo della loro religione, non si può allo stesso modo non riconoscere con sgomento il deserto spirituale e il vuoto della ragione che hanno portato il crocifisso sul banco degli imputati, solo per citare il più eclatante tra gli esempi possibili.

«È inconcepibile che dei credenti debbano sopprimere una parte di se stessi – la loro fede – per essere cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per poter godere dei propri diritti». Benedetto XVI pronunciò queste parole davanti all’Assemblea generale dell’Onu, il 18 aprile del 2008, al cuore di un discorso che meriterebbe di essere ripreso e meditato ancora e ancora, denso com’era di spunti per significare il futuro della convivenza umana. Perché, aggiunse, «il rifiuto di riconoscere il contributo alla società che è radicato nella dimensione religiosa e nella ricerca dell’Assoluto – per sua stessa natura, espressione della comunione fra persone – privilegerebbe indubbiamente un approccio individualistico e frammenterebbe l’unità della persona». E che pace potrebbe mai essere possibile tra uomini spezzati nel loro stesso essere?
Salvatore Mazza


l’allarme Disabili, classi senza «tetto» - DA ROMA - Disabili e manovra: un rapporto senza pace. – Avvenire, 14 luglio 2010
L’ultimo capitolo aperto, dopo la cancellazione della norma che innalzava all’85% la percentuale per l’assegno d’invalidità e della stretta sulle indennità di accompagno, riguarda l’emendamento (a firma Esposito e Latronico) che in commissione Bilancio del Senato ha tolto il limite dei 20 alunni nelle classi dove ci sono alunni con handicap. La denuncia arriva dalle associazioni Fish e Fand, che dopo la manifestazione del 7 luglio non hanno abbassato la guardia sugli interessi delle persone che tutelano. Le due federazioni manifestano così il «loro rifiuto» all’emendamento che, delineando «la prospettiva di classi sempre più sovraffollate», rappresenta «un danno che riguarda tutti i bambini, siano essi disabili o meno». È «l’ennesimo colpo di mano – proseguono –, oltre che iniquo pure piuttosto vacillante e improvvisato sotto il profilo del calcolo economico» in quanto, fanno notare ancora, «senza nessun risparmio effettivo». Peraltro proprio i senatori del Pdl autori della proposta sono intervenuti ieri per sostenere che «si sta facendo una gran confusione» perché il loro scopo sarebbe, all’opposto, «quello di ridurre il numero degli iscritti» nelle classi con disabili, per «favorire l’apprendimento»; per questo i due auspicano ora un «chiarimento» nel 'maxi emendamento' del governo.

Ritenuto necessario per bloccare un «nuovo atto discriminatorio» anche dalle pd Anna Serafini, presidente del Forum infanzia (che ne ha parlato ieri con il sottosegretario alla presidenza, Carlo Giovanardi), e Ileana Argentin, oltre che dal Prc.
Pure la Cgil, con Nina Daita, protesta per quella che «è una vera persecuzione, un’ossessione verso i disabili».