Nella rassegna stampa di oggi:
1) In prossimità della fine – dal sito http://www.libertaepersona.org del 27/07/2010 - Due cari amici, Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, hanno scritto oggi su Libero questo pezzo:…
2) HUMANAE VITAE: UN ANNIVERSARIO DIMENTICATO - di Angela Maria Cosentino (bioeticista, docente universitaria e autrice del volume Testimoni di speranza. Fertilità e infertilità: dai segni ai significati (Cantagalli, 2008), vincitore del premio Donna, Verità e Società, Scienza & Vita, Pontremoli 2009, “per aver mostrato il valore umano e sociale del talento naturale della femminilità”).
3) L’AMORE FAMILIARE VINCE ANCHE LE SFIDE IMPOSSIBILI - “The Blind Side” un film che racconta l’amore familiare - di Antonio Gaspari
4) Strage, uccise 100 milioni di bambine - Mancano all'appello ben cento milioni di femmine. - Il Giornale, 20 marzo 2010
5) Quando gli asini usano le matite per ragliare - Autore: Turra Giada Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 27 luglio 2010
6) Il problema omosessualità nella Chiesa esiste, il Papa lo aveva segnalato. Maggior selezione nei seminari. I giornali speculano, ma alcuni preti forniscono loro buini elementi. Danneggiano la credibilità della Chiesa - Bruno Volpe intervista Massimo Introvigne – dal sito pontifex.roma.it
7) Dimenticare o perdonare? - Lorenzo Albacete - mercoledì 28 luglio 2010
8) IL FATTO/ Il Regno Unito permette ai musulmani di trattare i ciechi peggio dei cani - Gianfranco Amato - mercoledì 28 luglio 2010 – ilsussidiario.net
9) Newman paladino della coscienza - intervista - Il grande pensatore, che sarà beatificato a settembre, cambiò la teologia con una nuova visione storica. Parla il biografo Gilley - «Era critico verso il cattolicesimo liberal: per lui le religioni non erano tutte uguali. - Rivalutò molto il ruolo dei classici» - DA LONDRA SILVIA GUZZETTI – Avvenire, 28 luglio 2010
In prossimità della fine – dal sito http://www.libertaepersona.org del 27/07/2010 - Due cari amici, Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, hanno scritto oggi su Libero questo pezzo:…
Se si trattasse solo di un comprensibile timore che ogni uomo prova in prossimità della fine, forse basterebbe una scommessa, un’ultima guasconata, per arrivare fin sulla soglia storditi abbastanza da non pensarci. Se fosse così, avrebbero ragione l’illuminismo e i suoi epigoni quando indicano nella banalissima paura della morte la banalissima origine della religione.
Se fosse così. Ma evidentemente non lo è, se fior di uomini di ingegno, figli delle più estrose varianti dei lumi, in prossimità del momento cruciale, si sono incamminati lungo strade imprevedibili. Evidentemente, non è così se le loro decisioni ultime tengono banco tra credenti e non credenti.
Se si continua a parlare della conversione di Renato Guttuso (nella foto la sua crocifissione), di quella indecifrabile di Indro Montanelli, di quella inquieta di Oriana Fallaci o di quella quasi certa di Antonio Gramsci. La conversione, o comunque la fiduciosa apertura su una trascendenza a lungo negata, continua a esercitare fascino persino sui disincantati abitanti del terzo millennio poiché va alla radice dell’esistenza di ogni singolo uomo. E sarebbe comico, se non fosse tragico, che gli unici a esserne imbarazzati sono certi cattolici che invitano il prossimo a non convertirsi in nome di una non meglio precisata autenticità.
Eppure, non vi è autenticità più concreta che la risposta al perenne richiamo del Vero, del Bello e Buono indicato da papa Benedetto come cifra del cuore di ogni uomo. Un richiamo pacificatore capace di rendere vero l’essere umano nel momento più importante della propria vita. Quando a San Carlo Borromeo chiesero che cosa avrebbe fatto se gli avessero detto che sarebbe morto entro un’ora rispose: “Cercherei di fare particolarmente bene ciò che sto facendo ora”.
Altri tempi, verrebbe da dire, e per certi non si sbaglierebbe. Erano tempi in cui i sacerdoti tenevano sul loro scrittoio un teschio proprio per aver ben presente la caducità dell’esistenza. Erano i tempi in cui era facile trovare sin nelle case più povere libretti che si intitolavano “Apparecchio alla buona morte”. Eppure, proprio per questo, contrariamente a quanto sostiene la vulgata corrente, erano tempi pieni di vita.
Un uomo del Seicento non aveva bisogno di trovarsi davanti all’assurda tragedia del Love Parade per scoprire che esiste la morte. E, soprattutto, ne aveva avuto ben chiaro il senso. L’uomo moderno, invece, si trova sempre più spesso nella condizione di dover prendere atto dell’epilogo solo poco prima che avvenga. E, allora, non può più fingere. Per tutta la sua esistenza può aver giocato con la sacralità della vita. Può aver occultato, dissacrato, violentato il mistero della nascita, può continuare a ritenerlo un fatto puramente biologico fino all’ultimo atto della sua esistenza.
Ma la morte gli si presenta inevitabilmente anche sotto un aspetto soprannaturale. E, in questo frangente, non c’è teoria che tenga. Per la prima volta, il mistero gli si presenta in forma tanto decisa e prepotente da non essere eludibile. Ma gli si presenta in forma sincera e generosa, come Qualcosa che non deve essere decifrato o svelato, ma come Qualcosa che gli si fa incontro per dirgli chi è veramente. La consapevolezza dell’eterno si fa largo nella coscienza e mostra con le piccole, grandi e concrete evidenze della decadenza che l’eternità non ha nulla a che fare con il dato biologico ma con l’interezza della persona, anima e corpo.
Ed è qui, che la conversione giunge a compimento, nel punto in cui la persona finita scopre che può trarre il senso autentico della propria vita da una Persona che finita non può essere. Oggi, molti sostengono che il problema dell’ateismo sta nella difficoltà di spiegare l’origine della vita. In realtà, il vero problema dell’ateismo sta nella sua strutturale incapacità di spiegarne la fine. Il razionalista può anche illudersi di padroneggiare l’inizio dell’esistenza, ma non potrà mai farlo con la sua fine, neanche puntandosi un pistola alla tempia.
In prossimità della fine l’adulto è molto meno adulto di quanto potrebbe immaginare. Non a caso, gli insegnamenti più concreti sulla morte si trovano nelle fiabe. Ve n’è uno straordinario in un racconto modernissimo, nel film “Mr Magorium e la bottega delle meraviglie”. Al momento di lasciare questo mondo, uno straordinario Dustin Hoffman spiega il senso di tutto dicendo: ‘Quando re Lear muore nel quinto atto, sai Shakespeare che ha scritto? Ha scritto ‘muore’!”. Ci voleva un genio per raccontare in una parola il senso della vita. Ci vuole Dio fare in modo che quel senso non sia vano.
HUMANAE VITAE: UN ANNIVERSARIO DIMENTICATO - di Angela Maria Cosentino (bioeticista, docente universitaria e autrice del volume Testimoni di speranza. Fertilità e infertilità: dai segni ai significati (Cantagalli, 2008), vincitore del premio Donna, Verità e Società, Scienza & Vita, Pontremoli 2009, “per aver mostrato il valore umano e sociale del talento naturale della femminilità”).
ROMA, martedì, 27 luglio 2010 (ZENIT.org).- Il 25 luglio del 1968 Paolo VI ha pubblicato l’enciclica Humanae vitae. Quest’anno l’anniversario non è stato ricordato, eppure sono presenti indicatori culturali e socioeconomici che, purtroppo, confermano l’attualità profetica di quell’enciclica incompresa.
Tra questi, recenti dati Istat che evidenziano, in Italia, il preoccupante aumento di separazioni e divorzi, causa di profonde sofferenze e fragilità per la società; l’inverno demografico, noto da tempo, ma non adeguatamente segnalato per le sue conseguenze negative, viene ora contemporaneamente indicato da economisti e demografi (nonché da Benedetto XVI, nell’enciclica Caritas in veritate) come il fattore principale della crisi economica; leggi contrarie alla verità sull’uomo, orientate ad equiparare la famiglia naturale con le unioni dello stesso sesso, anche con possibilità di adozione, oppure orientate a promuovere una cultura di morte che proclama l’aborto come nuovo presunto diritto anche per destinatari sempre più giovani, sono alcune delle nuove minacce all’autentico bene dell’uomo, presente e futuro.
Potrebbe sembrare un paradosso affermare che aver contrastato e poi ignorato il profondo messaggio dell’Humanae vitae abbia contribuito a scivolare sul piano inclinato delle fughe dalla Creazione, eppure, tutto è iniziati da lì. L’enciclica, che supera l’aspetto morale, infatti, richiama alla questione antropologica e invita a guardare alla Chiesa come Madre che accoglie e Maestra che guida e avverte l’umanità sui possibili rischi (cf. Humanae vitae, 17) di una tecnica applicata alla procreazione che si allontana dalla verità sull’uomo.
La separazione, prima con la contraccezione e poi con la fecondazione artificiale, della dimensione unitiva da quella procreativa dell’atto coniugale (naturalmente collegate per Creazione), sotto la spinta della c.d. rivoluzione sessuale che ha veicolato nuovi interessi economici e ideologici, ha prodotto effetti deleteri nella società, che dovrebbero richiamare ad un ripensamento sull’Humanae vitae e a valorizzare l’Educazione ad un’autentica Procreazione Responsabile (riferita alla fertilità e all’infertilità) che l’enciclica ha ispirato.
Tale Servizio, presente sul territorio nazionale come Confederazione Italiana Centri per la Regolazione Naturale della Fertilità ( www.confederazionemetodinatutali.it) riunisce circa 1000 operatori qualificati che insegnano a giovani e a coppie i moderni Metodi Naturali (Billings e Sintotermici) per risalire, dagli indicatori biologici, ai significati più profondi dell’amore, della vita e del procreare umano. I Metodi Naturali non sono solo metodi diagnostici per conoscere l’andamento del ciclo, per ricercare, distanziare o evitare la gravidanza, ma anche e soprattutto uno stile di vita che rispetta la verità della persona e la grammatica dell’amore, amore umano, totale, fedele, fecondo (cf. Humanae vitae, 9).
Educare a questa proposta è possibile e conveniente, sotto il profilo socio-sanitario, antropologico ed etico. Le coppie che hanno seguito il graduale percorso formativo ne confermano l’efficacia, le ricadute positive per la loro crescita, come pure per l’ecologia umana e ambientale.
L’AMORE FAMILIARE VINCE ANCHE LE SFIDE IMPOSSIBILI - “The Blind Side” un film che racconta l’amore familiare - di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 27 luglio 2010 (ZENIT.org).- Nell’ambito del Fiuggi Family Festival è stato proiettato lunedì 26 luglio il film “The Blind Side” del regista John Lee Hancock, interpretato tra gli altri da Sandra Bullock.
La proiezione ha suscitato entusiasmo tra gli spettatori, i quali hanno applaudito in maniera spontanea alla fine della proiezione.
Si tratta di un film straordinario, che suscita risate e lacrime di commozione.
La storia è quella vera di Michael Oher, un ragazzo di colore nato in condizioni difficilissime. Non ha mai conosciuto il padre, la mamma si trascina tra droga e amanti occasionali. Michael ha almeno dieci fratelli di padri diversi.
All’età di sette anni il piccolo Oher viene strappato alla mamma e dato in adozione a diverse famiglie da cui scappa regolarmente.
Così cresce un ragazzo dal fisico gigantesco e potente, ma con il cuore a pezzi. Senza un letto, senza una casa, senza abiti, senza padre, senza nessuno che si curi di lui, in un ambito sociale degradato con i suoi coetanei che sopravvivono a malapena tra spaccio di droga, consumo di alcool, prostituzione, uso della violenza e delle armi. La maggior parte di loro muore in giovane età.
Alla vigilia del giorno del Ringraziamento, Michael, che tutti chiamano Big Mike, gira solo e infreddolito per le strade di Memphis. Finchè una famiglia bianca, ricca, cristiana, lo incontra e gli offre di andare a dormire da loro.
Quest’incontro cambia la vita a Michael, ma anche e soprattutto a tutta la famiglia che lo ha incontrato.
Esattamente come accade in ogni azione di amore gratuito, la carità cambia la vita e il cuore a tutti quelli che ci capitano dentro.
Michael è docile, buono e molto protettivo. La famiglia lo adotta, lo aiuta negli studi, cerca di ricostruire un rapporto con la madre naturale, lo invita a crescere e a non isolarsi, per questo provano a farlo giocare a Football.
E così Michael cresce proporzionalmente all’amore che riceve e che ricambia. Un miracolo di umanità che libera le potenzialità del ragazzo. Il film infatti ripercorre la storia vera di Michael Hoer che è diventato uno dei campioni più forti del Football americano.
Per la sua intensità e bellezza il film “The Blind Side” ha vinto nel 2009: i premi “Academy Award” come miglior attrice per Sandra Bullock; l’Academy Award nomination come miglior film; Sandra Bullcok per questo film ha anche vinto i premi Golden Globe come miglior attrice protagonista, il Critics Choiche Awarsd come miglior attrice e lo Screen Actors Guild Award come miglior performance femminile.
Il film in questione è straordinario e unico del suo genere perché rivoluziona completamente i luoghi comuni e i pregiudizi ideologici che hanno caratterizzato la concezione della famiglia, soprattutto quella bianca e cristiana del sud degli Stati Uniti.
Nell’immaginario collettivo, le famiglie bianche e cristiane del sud degli USA sono razziste e ipocrite, mentre in questo film si scopre la determinazione con cui la famiglia protagonista ama profondamente il ragazzo adottato fino al punto da rompere le relazioni con chi nutre ancora pregiudizi.
Nessun buonismo mieloso, ma tanto amore vero verso colui la cui infanzia è stata più difficile.
La storia di Michael è estremamente educativa, e mostra come attraverso atti di amore nessun obiettivo è precluso. E’ altresì evidente come la crescita di una famiglia cambia la società.
Imperdibile la scena in cui la Bullock strapazza le montagne di muscoli dei ragazzi della squadra di Football, e li sprona spiegando che sono una famiglia e che come una famiglia si devono difendere.
Resta inspiegabile, come ha sottolineato nell’introduzione alla visione del film, Alessandro Zaccuri, direttore artistico del Fiuggi Family Festival, il perché questo film, che pure negli Stati Uniti ha raccolto incassi notevoli, non sia stato distribuito nelle sale italiane.
Paradossale anche la vicenda della Bullock, che per questo film ha vinto l’Oscar, ma a marzo aveva ricevuto anche il 'Golden Raspberry Awards' meglio conosciuto come “Razzie Awards” cioè il “premio pernacchia d’oro” per il peggior film dell’anno che è stato “All About Steve”.
Singolare scoprire che il film “All About Steve” in Italia è stato distribuito nelle sale, mentre “The Blind Side” no.
Strage, uccise 100 milioni di bambine - Mancano all'appello ben cento milioni di femmine. - Il Giornale, 20 marzo 2010
Lo denuncia un'inchiesta dell'inglese Economist (rilanciata dall'agenzia Zenit il 15 marzo). Il titolo dell'inchiesta britannica, tradotto, suona così: «La guerra contro le bambine; genericidio (Gendercide); uccise, abortite o abbandonate, almeno cento milioni di bambine sono scomparse. E il numero sta aumentando». Il perché è presto detto. Se l'Occidente coccola le sue femmine, crea appositi ministeri perché abbiano pari opportunità e riserva loro «quote rosa» nei posti di comando o in quelli tradizionalmente maschili come le forze armate e la boxe, nel resto del mondo la nascita di una femmina è un dramma.
Per i poveri le figlie femmine sono un peso, perché bisogna trovar loro marito e fornirle di dote. Era così nel mondo precristiano e così è nel mondo che fuori dall'area cristiana è rimasto. In India, per esempio, nelle zone più arretrate ancora oggi non poche donne sono assassinate perché la loro dote è giudicata insufficiente. In Cina è lo stato comunista a provocare l'ecatombe. La politica del figlio unico obbligatorio, per contenere l'espansione demografica, fa sì che i genitori vogliano che tale figlio sia maschio. Ciò, sia per l'antica abitudine (anche da noi si usava augurare «salute e figli maschi») che per un motivo più concreto: è un'assicurazione per la vecchiaia in posti dove il welfare praticamente non esiste.
Prima, per ovviare all'indesiderata nascita femminile, si ricorreva a metodi brutali. Oggi c'è l'ecografia, che è alla portata di tutti, e si ricorre all'aborto. L'Economist calcola che in Cina e nell'India settentrionale le nascite maschili superino quelle femminili di almeno il 20 per cento. Chi ha studiato demografia all'università sa che, a lasciarla fare, la natura sforna alla nascita più maschi che femmine; ma i maschi hanno una mortalità maggiore e le due curve pareggiano solo nelle età fertili, per poi divergere in quelle successive fino a far sì che le femmine superino i maschi. Se si interviene, per così dire, artificialmente sugli equilibri naturali si provocano gli sconquassi ai quali stiamo assistendo. La Cina, per esempio, chiama «rami spogli» i suoi maschi non sposati (e che non possono trovare moglie perché le femmine occorrenti non sono mai nate), il cui numero è uguale a quello di tutti gli americani maschi in età fertile. Ciò provoca traffico di donne, violenze sessuali, suicidi.
Quante sono le donne «mancanti»? Il famoso economista indiano Amartya Sen nel 1990 calcolava sui cento milioni. Ma è sicuro che oggi siano molte di più, anche se le statistiche provenienti dai posti incriminati non sono mai sufficientemente attendibili. Insomma, c'è uno squilibrio innaturale tra maschi e femmine, cosa che nel mondo globalizzato non può non avere preoccupanti conseguenze. Il problema è, comunque, culturale più che economico. Infatti, lo si riscontra in Paesi niente affatto «poveri», come Taiwan e Singapore, nonché in nazioni balcaniche e caucasiche ex comuniste. Il governo indiano ha cercato di contenere il fenomeno vietando per legge l'ecografia ma pare che il divieto abbia avuto scarsa efficacia. Meglio è andata alla Corea del Sud, che si sta avviando alla normalità (ma va detto che il Paese è a maggioranza cristiana). Il problema vero è in Cina, dove il Partito non ha alcuna intenzione di cambiare politica demografica. Alla faccia di Mao, per il quale le donne sostenevano «la metà del cielo». La selezione sessuale fa sì che in certe province cinesi i maschi superino le femmine anche del trenta per cento e a farne le spese sono le nordcoreane, non di rado vendute ai contadini cinesi. Aveva ragione Montanelli, quando affermava che al terzomondo non servono tanto aiuti quanto missionari. Cristiani, naturalmente, perché solo col cristianesimo l'uomo ha smesso di considerare la donna «inferiore». Ma vallo a dire a Hu Jintao o ai fondamentalisti indù.
di Rino Cammilleri
Il Giornale, 20 marzo 2010
Quando gli asini usano le matite per ragliare - Autore: Turra Giada Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 27 luglio 2010
Intervista a don Marco Pozza, autore di - Asini dalle matite colorate -
Perchè gli asini sono necessari: fossero tutti dei geni la scuola non servirebbe a nulla. Ma se ad un asino dai in mano delle matite colorate, il rischio di contemplare un piccolo capolavoro è inversamente proporzionale alle aspettative: è molto alto. In una mattina d'autunno l'ennesima notizia: il tentato suicidio di un ragazzo. Trecento ragazzi la leggono: e un giovane prete assieme a loro. Quel ragazzo potrebbe benissimo essere uno di loro: giovane, avvenente, simpaticissimo. L'ennesimo ragazzo insospettabile. Dal fondo della classe si alza una voce: "Adesso basta!" E' il grido di un'anima giovane: non lo si può evitare, né tantomeno ignorare.
E allora tutti al lavoro. Con un pugno di matite colorate e un sito internet come quaderno virtuale. "Si parla di loro. E si parla pure di Dio. - afferma don Marco Pozza - Non ne parlano facilmente. Però parlano di solitudine, angoscia, tristezza, ansia, malinconia, fastidio, nausea, abisso, baratro. Oltrechè di stelle, fiori, stupori, innamoramenti, estro, fantasia, poesia, passione, luce. Fino a farti supporre che il loro non parlare di Dio sia proprio il loro modo creativo di parlarne. Ti parlano di Lui senza nominartelo: magari per opposti, per mancanza, per distanza, per dissonanza o distorsione. Sono degli asini geniali".
Perchè a tutti piacerebbe vivere in una città colorata. Ma perchè una città sia tale serve gente che abbia il coraggio di prendere in mano i colori ed usarli. Dietro il tutto ci stanno due amici: un prete (don Marco Pozza) e uno sportivo (Alessandro Zanardi), uniti dalla passione per le storie giovani da ricostruire.
Don Marco, il titolo ricalca la sua creativa provocazione. Perchè proprio l'immagine dell'asino come linea guida del vostro lavoro?
Perchè troppi studenti oggi sono assimilati ad un'idea sbagliata di asino che abbiamo in testa. Dare ad uno studente dell'asino significa dipingerlo come persona bistrattata, non valorizzata, alla quale promettere il futuro togliendo la possibilità di giocarsi il presente. Ma è l'asino che offre all'insegnante la possibilità di guadagnarsi il pane: fosse un mondo di gente geniale a che servirebbe la scuola?
Ma questi suoi asini hanno le matite colorate. Che significa?
Significa una cosa molto semplice: che pur essendo asini tengono in mano creatività e genio, fantasia e innamoramento, talento e tanta ispirazione. Oltrechè la nostalgia, forse la matita più bella della quale servirsi per poter scrivere la storia con loro. La rubi nei loro sguardi trafitti e torturati, nei movimenti nervosi, disattenti e studiati, nei lineamenti tetri, cupi e passionali. Nelle tristi occhiate, nei sorrisi funamboli, nei passi e nei passaggi veloci.
I nostri ragazzi stanno cercando: il futuro, la mano, lo sguardo. La Verità.
Ne è uscito una specie di catechismo in versione giovane.
Questa definizione mi sta un po' stretta perchè oggi i giovani sono restii alle definizioni dogmatiche e non s'affezionano a chi pretende di tenere la verità in tasca. Più che un catechismo preferisco definirlo uno Zibaldone stile wikipedia: sono delle riflessioni aggiornabili in continuazione, commentabili, passibili di critica e di miglioramento. Però le domande sono vere ed autentiche perchè nate da loro. Quello che m'interessava salvare era la bellezza dell'imperfezione giovane: troppo spesso chiediamo la perfezione ai ragazzi e poche volte sappiamo tradurre la ricchezza della loro imperfezione.
Siete partiti da un sito internet - possiamo dire un po' per gioco - e ora la realtà si sta dimostrando più interessante di quello che si pensava.
D'altronde si può anche partire per caso quando si fa qualcosa: ma io sono convinto che il caso non sia altro che il vestito che l'Eterno indossa quando decide di viaggiare in borghese tra le strade dell'umanità. Quando abbiamo aperto il sito immaginavamo qualcosa di bello: sta arrivando qualcosa che supera le aspettative. E il merito non è di chi l'ha ideato: ma di coloro che con passione s'aggregano sempre più in questa nostra forma di evangelizzazione.
A chi è rivolto questo testo in particolare?
E' rivolto ai ragazzi che hanno voglia di crescere interrogandosi. E interrogandosi allargare gli orizzonti. Un testo che porteremo nelle scuole dove ci invitano, che qualche parroco sta prendendo come regalo da lasciare ai suoi animatori, che più di qualche professore sta decidendo di usare nelle sue ore scolastiche. Il tema, purtroppo, c'aiuta: chissà quanti altri suicidi si tenteranno. E qualcuno pure riuscirà nell'intento. Ma ogni volta noi proveremo a ripartire perchè se è vero che il suicidio è la fine di un sogno, è altrettanto vero che potrebbe diventare l'inizio di una nuova rinascita. E noi vogliamo cantare la speranza dentro il mondo giovane.
Nel primo mese oltre 7000 copie ordinate: un piccolo successo editoriale se si pensa che d'estate la scuola va in vacanza.
Per me il successo più bello è un altro. Attraverso un'email ci arriva un invito ad organizzare un incontro con tre istituti scolastici riuniti assieme: una cosa normale. Il bello viene quando ci scrivono la città: Corleone (PA). E ciò che ci aggiungono dopo: "Anche qui abbiamo le matite colorate". Per me la soddisfazione più bella: perchè mi parla di un mondo in cui la speranza sa rinascere sempre dalle macerie.
La bellissima prefazione porta la firma di Alessandro Zanardi.
Un amico che, assieme a me, conserva intatta e vergine la voglia di accendere i ragazzi. Spesso ultimamente le nostre storie si stanno incrociando: qualcosa vorrà pur dire. La sua è una storia di andata e ritorno: una storia credibile perchè pagata sulla pelle e impreziosita da una sublime risalita. Non ci poteva essere prefazione più azzeccata per un piccolo lavoro che sogna di diventare il prontuario d'uso per chi ha voglia di non gettare la vita alle ortiche.
Anni fa a Padova c'era il tormentone di don Spritz: ora il suo sacerdozio sta diventando una realtà ben più creativa. Che aggrega, provoca e s'interroga. Da indiscrezioni giunge voce di un grossissimo lavoro già comperato da un colosso dell'editoria che dovrebbe uscire a fine anno.
La ringrazio. Anche don Spritz matura: siamo tutti dentro l'evoluzione della specie. Qualcuno poi viene modificato geneticamente da Dio e allora la creatività è la dote che gli viene data in cambio. Non rinnegherò mai quel soprannome; dietro ci sta la simpatia e l'affetto di centinaia di giovani. Con i quali un giorno ci ritroveremo per raccontarci la vita. Magari sotto lo stello cielo della terra veneta. Per quanto riguarda il futuro c'abbiamo una grande fortuna tra le mani.
Quale?
Che in un tempo di grande crisi economica, le aziende che hanno voglia di investire non cercano più le contraffazioni o i duplicati ma vanno in cerca di intuizioni originali, creative e fresche. La nostra fortuna è che quando capitano le occasioni c'abbiamo qualcosa da poterci giocare. E la nostra passione viene premiata: molto spesso al di là delle aspettative. D'altronde da noi c'è un solo cartello affisso davanti al cantiere: "lavori in corso". Sempre quello, il più creativo. Eppoi la fotocopiatrice non è il nostro strumento preferito: preferiamo la bottega dell'artigiano dove tutto ciò che esce non è mai "in serie".
Bella questa scuola. Per un giorno via le algebriche supposizioni, le matematiche certezze, la letteraria sapienza: Omero e Talete, Anassimandro e Caravaggio, Kuiper e Agostino. La Commedia, Mozart e l'atletica. I diagrammi, gli insiemi, i teoremi e gli assiomi. Le dimostrazioni, il registro, la pagella. E in cattedra sale la nostra esistenza.
Chi firma questa intervista è pure lei una degli asini battezzati da tale sacerdote. Ma essere asini creativi in un mondo di geni noiosi è una sfida intrigante. Perchè, magari sbagliando per inesperienza, potremmo sempre custodire la bellezza d'averci provato.
A tenere accesa la speranza!
Il problema omosessualità nella Chiesa esiste, il Papa lo aveva segnalato. Maggior selezione nei seminari. I giornali speculano, ma alcuni preti forniscono loro buini elementi. Danneggiano la credibilità della Chiesa - Bruno Volpe intervista Massimo Introvigne – dal sito pontifex.roma.it
Lo scandalo dei preti gay e delle loro notti brave, ha destato clamore come era prevedibile. Ne parliamo con il professor Massimo Introvigne, sociologo ed autorevole esperto di cose di chiesa, garanzia di serietà e rigore. Professor Introvigne, la ha turbata la cosa?: " certo, da cattolico non mi ha fatto piacere, ma in fondo hanno scoperto l' acqua calda". In che senso scusi?: " che l' omosessualità fosse presente anche nel clero era noto da tempo e non vi é da sconcertarsi essendo una cosa onnipresente e trasversale. Indubbiamente se queste condotte vengono tenute da un uomo di chiesa obbligato alla castità é maggiormente sconcertante. Però il Papa attuale questo problema lo aveva evidenziato da tempo sollevando le ingiustificate proteste dei soliti ben pensanti ed invece aveva ragione lui". A che cosa si riferisce?: " al fatto che l' accesso ai seminari deve essere maggiormente rigido, che vanno vagliate con accuratezza le tendenze omosessuali dei candidati non per una discriminazione, ma per evitare che domani questi soggetti possano fare danni nell' esercizio del loro ministero sacerdotale".
Alcuni Vescovi infatti sottolineano la scarsa selezione oggi nell' ingresso ai seminari: " é vero ed hanno ragione, il vero nodo é quello e di chi pensa al sacerdozio come ad una sistemazione e basta, dimenticando che il sacerdozio é una missione. Pertanto condivido la durezza del comunicato del Vicariato di Roma che non poteva dire cose differenti. I preti non possono tenere i piedi in due scarpe, o servono correttamente Dio o stanno a casa e si cercano se ci riescono, un altro lavoro".
Questo fatto pensa possa aver danneggiato la credibilità della Chiesa?: " apparentemente direi di sì, almeno a, leggere certe reazioni superficiali. Ma per dare una risposta credibile e seria occorre fare analisi sul lungo periodo e non indagini da rotocalco televisivo, sia pur effettuate da persone autorevoli".
Che cosa pensa dell' atto di Panorama?: " non benevolo e dettato forse da maligne idee, del resto in estate quando mancano gli argomenti seri, si ricore al gossip per vendere. Detto questo, i sacerdoti e la chiesa sono vittime di malevolenza, ma devono anche evitare con prudenza di cadere in condotte vere e innegabili che si prestano alle maldicenze. Mi riferisco ad un caso di Rimini in cui un prete prendeva il sole nudo. Non era la fine del mondo, ma la cosa era vera. Dunque poteva benissimo risparmiarsi la condotta, per lo meno sconveniente e dettata da colpo di sole, visti i titoloni deicati dalla stampa locale al fatto".
Dimenticare o perdonare? - Lorenzo Albacete - mercoledì 28 luglio 2010
Durante lo scandalo del Watergate, un importante commentatore politico (di cui non ricordo il nome) disse che, con il moralismo usato nell’investigare sui peccati di Nixon, neppure San Francesco d’Assisi avrebbe potuto essere presidente degli Stati Uniti.
Questa affermazione mi ritorna spesso alla mente seguendo le audizioni al Senato dei candidati alla Corte Suprema, e continuo a meravigliarmi di come, di fronte a un esame così minuzioso di qualsiasi cosa uno abbia scritto, detto o fatto, vi sia ancora qualcuno disposto ad accettare queste candidature.
Oggi la situazione è decisamente peggiorata, come dimostrato in un interessante articolo di Jeffrey Rosen su The New York Times Magazine di domenica scorsa, dal titolo “La fine del perdono.”
Il problema per i peccatori oggi è internet. Per dirla semplicemente: a quanto pare, qualunque cosa venga messa in internet, qualunque cosa venga fatta per nascondere la propria identità quando si naviga o si chiacchiera in internet, rimarrà lì per per omnia saecula saeculorum, senza apparentemente alcuna possibilità di cancellarla (è deprimente pensare che nell’anno 3010 le mie capacità letterarie e di analisi verranno giudicate su articoli come questo!).
Rosen sintetizza il problema così: “Sappiamo da tempo che il web consente, in un modo mai sperimentato in precedenza, voyeurismo, esibizionismo e indiscrezioni più o meno volontarie, ma stiamo solo ora iniziando a capire quali costi comporti un’epoca in cui così tanto di quanto noi diciamo, o gli altri dicono su noi, rimane permanentemente sui nostri, pubblici, file digitali. L’incapacità di dimenticare di internet minaccia, quasi a un livello esistenziale, la nostra capacità di controllare le nostre identità, di conservare la possibilità di reinventare noi stessi e di ripartire da capo, di superare il nostro altilenante passato.”
Rosen prende in esame anche i tentativi per risolvere il problema di “giuristi, esperti di tecnologia e cibernetici” nella lotta “con la prima grande crisi esistenziale dell’era digitale” (la soluzione che preferirei sarebbe una dichiarazione di “Bancarotta reputazionale”. Personalmente sono pronto a qualcosa di simile già da lungo tempo!).
Questo problema appare particolarmente pericoloso per l’ideale americano del “self-made man.” L’America si è costruita sulla possibilità di sfuggire al peso di essere definiti a priori dal luogo di nascita, dalla “tribù” di appartenenza, dalla classe sociale di provenienza, ecc., per creare da zero una nuova identità, modificando le proprie scelte di vita secondo le necessità o i propri desideri.
È questa capacità che ora viene minacciata da fenomeni quali Facebook, Twitter e altri strumenti di “social networking” (non usando nessuno di questi, sfortunatamente i miei dati non potranno essere trovati alla Biblioteca del Congresso di Washington, dove sembra approdi il materiale di Twitter).
Non voglio però scherzare su questo problema. Rosen fornisce esempi commoventi di vittime di questa situazione e mi dispiace che l’articolo non vada di più al fondo di questa crisi. Il problema sta nel modo in cui concepiamo la possibilità di costruire la nostra identità. La nostra identità di esseri umani è definita dal rapporto con il Mistero infinito che ci crea e ci sostiene in ogni secondo.
Questo Mistero è diventato un Uomo, Gesù Cristo, morto proprio per distruggere la nostra identità di peccatori, di nemici del Mistero, e renderci una nuova creazione dello Spirito Santo, dandoci una nuova identità come figli e figlie in Lui, l’unico beneamato Figlio del Padre. La secolarizzazione di questa esperienza di perdono del peccato, di redenzione, è ciò che ha portato al bisogno di dimenticare, ora però diventato apparentemente impossibile.
Solo in Cristo possiamo trovare il trionfo del perdono sulla dimenticanza.
IL FATTO/ Il Regno Unito permette ai musulmani di trattare i ciechi peggio dei cani - Gianfranco Amato - mercoledì 28 luglio 2010 – ilsussidiario.net
Scene di ordinaria intolleranza nella Londra multiculturale. Questa volta è toccato a quei ciechi che si sono visti sbattere in faccia le porte di bus e taxi, perché accompagnati da cani-guida. Il fatto è che proprio quegli animali, considerati dai britannici i migliori amici dell’uomo, sono ritenuti dalla legge islamica “najis”, esseri impuri, il cui contatto implica per il musulmano devoto la cosiddetta “najasat”, ovvero una condizione giuridico-religiosa che gli impedisce di accedere ad alcuni atti rituali. L’ultimo dei malcapitati, George Herridge, pensionato cieco di settantatre anni che vive con la moglie Janet a Tilehurst, quartiere di Reading, si è rivolto al quotidiano Daily Mail per raccontare le disavventure in cui è incorso a causa del fido Andy, un Labrador nero.
Per ben due volte, infatti, al pensionato guidato da Andy è stato impedito l’accesso al bus pubblico. La prima a causa del rifiuto di un conducente musulmano, e la seconda a causa di due passeggere, una donna islamica e la propria figlia, che alla vista dell’animale impuro sono state colte da un attacco isterico. Il povero Mr. Herridge, peraltro, è avvezzo a simili scene d'intolleranza, cui è costretto ad assistere anche quando si reca in ospedale o al supermercato. La Guide Dogs for the Blind Association, l’associazione dei cani-guida per ciechi, e la National Federation of the Blind (NFB), la Federazione Nazionale Ciechi, hanno confermato che questo problema è assai più diffuso di quanto si possa immaginare e sta «sempre più degenerando».
Jill Allen-King, portavoce della NFB, ha confessato di essere stata ripetutamente lasciata sul marciapiede da tassisti musulmani che si rifiutavano di far salire a bordo dell’auto il suo cane-guida. Un giorno che tentò, invano, di forzare il blocco, fu persino insultata dal tassista, il quale le gridò che, a causa del suo cane, lui avrebbe dovuto tornare a casa e ricorrere alle abluzioni rituali per eliminare la najasat. I guai tra cani e islam non riguardano, però, soltanto le persone non vedenti. E’ capitato anche a Judith Woods, giornalista del Telegraph, che lo scorso 22 luglio ha scritto un commento sulla vicenda.
«In due occasioni, la scorsa settimana - ha raccontato la giornalista - il mio cane si è visto sbarrare le porte dei bus londinesi, non perché sia particolarmente pericoloso, ma per ragioni squisitamente religiose». Il motivo del primo altolà, infatti, era dovuto al fatto che sull’autobus vi fosse una donna musulmana. Non è stata neppure concessa la possibilità di fare delle rimostranze, perché al primo tentativo di protesta le porte del bus si sono chiuse ed il mezzo è partito. La Woods è stata particolarmente sfortunata quel giorno, perché quando è arrivato il secondo autobus, si è vista opporre un successivo rifiuto. Questa volta il problema era l’autista islamico.
«Io so che i musulmani - ha scritto Judith Wooods nel suo articolo - considerano i cani come animali impuri, ma il nostro non è un Paese musulmano, e la società dei trasporti londinesi non è un’organizzazione confessionale». «Io sono cattolica - ha proseguito la giornalista - ma non mi sognerei mai di pretendere che venga imposto il divieto di salire sugli autobus alle persone divorziate». Judith Woods ha confessato di aver avvertito una sorta di «latente forma di intolleranza, mascherata da devozione religiosa». Il fenomeno, tra l’altro, ha assunto un tale rilievo da meritare persino l’attenzione della House of Lords, grazie ad un’interrogazione parlamentare presentata, lo scorso 13 luglio, da Lord Monson.
Il Ministro dei Trasporti, Norman Baker, ha riferito, in proposito, che ai possessori di cani può essere legittimamente richiesto di non salire sugli autobus pubblici, qualora gli animali dovessero creare disagio. Tuttavia, ha precisato che un rifiuto fondato su motivazioni religiose apparirebbe, in effetti, «more questionable», un pochino più opinabile. Il tema della najasat dei cani sta diventando, in Gran Bretagna, un ulteriore elemento di frizione nel tormentato rapporto con la comunità islamica. Ricordo, ad esempio, la vicenda della Polizia del Tayside, regione scozzese, che tempo fa lanciò una campagna pubblicitaria per diffondere il proprio numero di telefono, utilizzando delle cartoline postali in cui era riprodotta l’immagine di un simpatico cucciolo di cane poliziotto.
Tanto bastò per far infuriare la locale e nutrita comunità musulmana, al punto che, dopo la formale protesta di Mohammed Asif, consigliere comunale della città di Dundee, la Tayside Police ha dovuto chiedere pubblicamente scusa alla comunità, e dare immediate disposizioni per il ritiro del materiale spedito. Nei confronti dei cittadini britannici musulmani, inoltre, si ha anche il riguardo di non sottoporli al controllo dei cani poliziotto anti-bomba ed anti-droga, proprio a causa della najasat, come ha denunciato il giornalista Tom Whitehead con il suo articolo, pubblicato dal Daily Express, “Sniffers dogs offend muslims”. Tutta questa vicenda, surreale ma sintomatica, impone alcune riflessioni.
La prima è che con i musulmani non si può parlare di “integrazione” di culture. Siamo di fronte a concezioni antropologiche troppo distanti e tra loro inconciliabili. Comunque impossibili da integrarsi. Si può e si deve, in realtà, parlare di convivenza pacifica, di civile coabitazione, di reciproco rispetto, di mutua comprensione, ma non di più. L’islam stesso, del resto, è un fenomeno che non lascia spazi a cedimenti e compromessi, ed appare intrinsecamente strutturato per l’inclusione e non per l’integrazione, come la storia ha ben dimostrato.
E’ sufficiente pensare a cosa è accaduto alle altre culture nei Paesi dove l’islam è oggi maggioranza, e come esso non sia riuscito ad integrarsi nei Paesi in cui rappresenta una consistente minoranza, neppure dopo secoli di convivenza all’interno di uno stesso popolo. Emblematici sono, ad esempio, i casi dell’India, del Kossovo, delle Filippine, della Thailandia. Ha ragione il Patriarca di Venezia, il Cardinal Angelo Scola, quando dice che «siamo “condannati” al dialogo con l'Islam», perché «si tratta di un processo storico che non chiede il permesso, e che può essere orientato ma non evitato».
Giustissimo. Ma per dialogare occorrono due interlocutori con la piena consapevolezza della propria identità, e soprattutto uno Stato che garantisca un grado minimo di tolleranza reciproca, un clima in cui non debbano avvenire episodi spiacevoli come quelli accaduti a Mr. Herridge, perché, altrimenti, tutto rischia di rimanere a livello di astrazione intellettuale, con effetti contrari ai buoni propositi. Il confronto di civiltà, infatti, non avviene nei dibattiti accademici di seminari, conferenze e convegni, ma si realizza soprattutto a livello di vita vissuta.
Il vero incontro non è tra culture ma tra persone concrete che pure hanno la loro cultura ed una propria fede religiosa, e avviene sempre attraverso l’esperienza quotidiana che gli uomini vivono in famiglia, al lavoro, a scuola, nell’autobus. Per questo esiste una precisa responsabilità di chi deve politicamente guidare i processi di incontro tra civiltà diverse, e sarebbe un gravissimo errore assumere atteggiamenti rinunciatari e pilateschi.
E per questo, ancora una volta, ha ragione il Cardinal Scola quando denuncia «la grande lentezza di risposte» degli europei, che lo stesso porporato - mutuando un’espressione dai Cori della Rocca di T.S. Eliot - definisce «un po’ impagliati», e chiusi nell’astrazione di chi ama «discettare nei propri salotti piuttosto che guardare in faccia i processi della realtà e della vita». Con sano realismo, Sua Eminenza ammonisce che il fenomeno di approccio con la cultura islamica «ci riguarda direttamente non solo perché “questi ci vengono in casa”, ma ancor di più perché mancherebbe la grammatica stessa per intenderci, se noi europei ci chiamassimo fuori». Resta, comunque, imprescindibile una delle condizioni “sine qua non” del dialogo: la garanzia e la concreta realizzazione di un clima di tolleranza reciproca. Senza questa condizione il dialogo rischia di diventare un inutile monologo. O peggio, un astuto inganno.
Newman paladino della coscienza - intervista - Il grande pensatore, che sarà beatificato a settembre, cambiò la teologia con una nuova visione storica. Parla il biografo Gilley - «Era critico verso il cattolicesimo liberal: per lui le religioni non erano tutte uguali. - Rivalutò molto il ruolo dei classici» - DA LONDRA SILVIA GUZZETTI – Avvenire, 28 luglio 2010
Sheridan Gilley, autore del saggio Newman and his age, ovvero Newman e il suo tempo , pubblicato dall’editore Darton, Longman and Todd, è uno dei più importanti esperti del famoso teologo che il Papa beatificherà il prossimo 19 settembre a Cofton Park, vicino al cimitero dell’Oratorio di Birmingham dove Newman venne sepolto il 19 agosto 1890.
All’accademico di Oxford, diventato poi pastore anglicano e infine ricevuto nella Chiesa cattolica nell’ottobre del 1845, Gilley ha anche dedicato una serie di articoli e interventi a convegni. Professore di teologia all’università inglese di Durham dal 1978 al 2002, Gilley è uno specialista del cristianesimo e dell’identità irlandese in epoca vittoriana.
Professor Gilley, perché per Benedetto XVI Newman è così importante, tanto che ha deciso di beatificarlo personalmente?
«Perchè Newman è uno dei più grandi teologi del diciannovesimo secolo. Il pensiero ma anche l’azione di Newman ebbero un impatto pubblico notevole. Il suo tentativo di ricattolicizzare la Chiesa di Inghilterra, che partì dall’università di Oxford, dove Newman insegnava, provocò una reazione pubblica molto ampia».
Perché era così famoso che le sue vicende spirituali, il suo passaggio al cattolicesimo per esempio, diventavano un fatto pubblico?
«Penso che molti, atei, anglicani e cattolici potessero ritrovarsi in Newman: egli stesso era stato prima ateo, poi anglicano per poi passare alla Chiesa cattolica. Io stesso ero anglicano, nel 1993 sono diventato cattolico e ho ritrovato molti dei miei problemi in Newman. Fra l’altro va anche detto che scriveva in un modo meraviglioso. Era un grande divulgatore e la sua autobiografia spirituale, l’Apologia pro vita sua,
è stata letta da migliaia di persone».
Quale fu la sua importanza come teologo?
«La grandezza di Newman sta nel fatto che ha studiato i primi Padri della Chiesa e ha saputo spiegare come, da quel nucleo centrale del Vangelo e della Bibbia, si siano sviluppate le altre fondamentali dottrine cristiane.
Nel Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana Newman ha messo a punto un metodo rivoluzionario per spiegare lo sviluppo degli insegnamenti cristiani dando loro una prospettiva storica. Per lui gli insegnamenti contenuti nel Nuovo Testamento impiegano secoli per svilupparsi, attualizzarsi e diventare dottrine e a questa evoluzione contribuiscono spiritualità e liturgia. Per esempio il credo niceno, secondo il quale Gesù è vero uomo e vero Dio, non è una serie di dottrine che vanno comprese solo con la ragione, ma è uno sviluppo spirituale, dell’insegnamento e della liturgia».
Come si trovò Newman nella Chiesa cattolica?
«Si sentiva molto lontano dal partito degli ultramontanisti, forte a quell’epoca, che propugnavano un’autorità fortissima del Papa. Quando nel 1870 venne proclamata l’infallibilità del Papa, Newman S pensava che il momento fosse sbagliato. Eppure l’interpretazione che Newman dette di quella dottrina, i limiti che, secondo lui, l’infallibilità del Papa doveva avere, furono quelli accettati dalla Chiesa cattolica».
Che cosa avrebbe detto di quello che sta succedendo oggi nella Chiesa anglicana d’Inghilterra che si sta dividendo tra chi è a favore e chi è contro l’ordinazione delle donne vescovo?
«Newman era contro una concezione dipendente dal liberalismo che pensa che tutte le religioni si equivalgono e credeva fermamente nell’autorità. Direbbe che quello che sta succedendo dipende dal fatto che la Chiesa di Inghilterra non ha una singola autorità vivente, un centro vivo di autorità come la Chiesa cattolica. Per Newman la Chiesa era altrettanto importante di Gesù ed essenziale al cristianesimo».
Newman viene spesso presentato come il campione della coscienza contro l’autorità. Che cosa ne pensa?
«Penso che sia una interpretazione sbagliata. La sua famosa frase 'brindo alla coscienza prima e poi al Papa' non è stata letta in modo corretto ed è stata usata spesso per dire che Newman preferiva, all’autorità del Papa, quella della coscienza. In realtà Newman è convinto che la coscienza, nella quale crede profondamente, lo porterà sempre alla Chiesa e ad accettare quello che la Chiesa presenta come vero».
Che cosa pensava Newman del rapporto tra fede e cultura?
«Credeva che per il cristianesimo è difficile mettersi in rapporto con la cultura nella quale vive.
Da un lato il cristianesimo deve vivere nel mondo e trovarsi a suo agio in esso perché il mondo è stato creato da Dio. Nello stesso tempo però il cristianesimo deve redimere il mondo. Newman era profondamente consapevole del rischio di essere troppo amici del mondo, ma anche di quello di volerlo cristianizzare a tutti i costi».
Che idea aveva Newman dell’università?
«Newman, che fu rettore dell’Università cattolica di Dublino dal 1851 al 1857, pensava che l’obiettivo principale di una università fosse la diffusione della cultura più che l’insegnamento della religione.
Aveva anche una idea della cultura piuttosto elitaria, tipica dei tempi nei quali viveva. Lo scopo dell’istruzione universitaria era, secondo Newman, di dare, a una particolare sezione della popolazione, accesso alla tradizione classica. Secondo Newman la cultura era soprattutto cultura classica, filosofia, greco e latino ed era questo che costruiva il gentiluomo o la persona colta».
Che cosa pensa dell’ipotesi tanto sbandierata di recente da alcuni media che egli fosse omosessuale, giustificata dal fatto che abbia voluto essere sepolto col suo amico Ambrose St. John al quale era molto legato?
«È una polemica inesistente. Era infatti normale all’epoca che si sviluppassero fortissimi legami tra uomini e che essi volessero essere sepolti insieme. Newman aveva anche molte amiche donne, ma a quel tempo, negli ambienti di Oxford, la maggioranza di insegnanti erano uomini e quindi inevitabilmente si sviluppavano forti amicizie tra uomini. Chi ha studiato il Newman giovane e adolescente si rende conto benissimo che era assolutamente eterosessuale».