martedì 20 luglio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI all'Angelus parla delle vacanze come tempo di ascolto - La Parola di Dio rimane Tutto il resto ci sarà tolto - (©L'Osservatore Romano - 19-20 luglio 2010)
2) QUANDO MADRE TERESA MI SERVIVA LA COLAZIONE - Nel centenario della nascita, ricordi di una donna molto speciale, dalla bontà senza confini - di Renzo Allegri
3) DAL DIVORZIO A ELUANA ENGLARO - di Paola Ciadamidaro - ROMA, lunedì, 19 luglio 2010 (ZENIT.org).- La scelta di leggere il libro “Scritti di un pro-life. Dal divorzio a Eluana Englaro” scritto da Francesco Agnoli e pubblicato da Fede & Cultura è stata, almeno inizialmente, dettata dalla curiosità suscitatami dalla veste tipografica e dalla immagine in copertina dove c’è in primo piano il cavallo a dondolo…
4) Ecumenismo. La vera storia di una guerra che non ci fu - I patriarchi di Mosca e Costantinopoli minacciarono nel 2003 la totale rottura con Roma. Il pretesto era l'Ucraina. Ma in Vaticano Kasper e Ratzinger sventarono il pericolo. Ecco come - di Sandro Magister
5) “Bell’amore e sessualità”. Redentore 2010, il Discorso del Patriarca S.E. Card. Angelo Scola – dal sito http://angeloscola.it
6) 19/07/2010 – PAKISTAN - Faisalabad: uccisi due fratelli cristiani a processo per blasfemia di Fareed Khan - Rashid Emmanuel e Sajid Masih Emmanuel sono stati colpiti da arma da fuoco all’esterno del tribunale, ferito un poliziotto. Si era da poco conclusa l’udienza e – ammanettati – stavano tornando in carcere. La polizia li stava per scagionare dall'accusa. Da giorni i leader islamici aizzavano la folla, chiedendo la morte dei due.
7) Ineccepibile il documento della Congregazione per la dottrina della Fede in tema di pedofilia. La Santa Sede ha smentito le solite male lingue. Tar Piemonte, una decisione assurda, si vuole cambiare il responso delle urne - Bruno Volpe – dal sito pontifex.roma.it
8) Prevenire l'Aids: quali proposte? - Di Lorenzo Schoepflin – dal sito http://www.libertaepersona.org
9) Avvenire.it, 17 luglio 2010 - Il fondatore della Apple ammette: la tecnologia non è impeccabile, come l’uomo - Viva il tecno-imperfetto - Francesco Ognibene
10) Massimo Introvigne: Giovanni Cantoni, "Il Magistero cattolico e l'importanza della storia"
11) Calabrò: non vincolanti le dichiarazioni sul fine vita - «Il caso Rudd è una conferma della scelta del Senato» - DA ROMA PIER LUIGI FORNARI - Il relatore al Senato del provvedimento: «La condizione tra la vita e la morte richiede umiltà, prudenza e cautela L’esperienza mostra che in condizioni di fragilità si cambia parere» - Avvenire, 20 luglio 2010


Benedetto XVI all'Angelus parla delle vacanze come tempo di ascolto - La Parola di Dio rimane Tutto il resto ci sarà tolto - (©L'Osservatore Romano - 19-20 luglio 2010)
La Parola di Dio è eterna e dà senso al nostro agire quotidiano: "tutto il resto passerà e ci sarà tolto". Rivolgendosi ai fedeli raccolti, domenica 18 luglio, a Castel Gandolfo per l'Angelus, Benedetto XVI ha ricordato l'importanza di cogliere il momento delle vacanze per ascoltare la Parola di Dio.
Cari fratelli e sorelle!
Siamo ormai nel cuore dell'estate, almeno nell'emisfero boreale. È questo il tempo in cui sono chiuse le scuole e si concentra la maggior parte delle ferie. Anche le attività pastorali delle parrocchie sono ridotte, e io stesso ho sospeso per un periodo le udienze. È dunque un momento favorevole per dare il primo posto a ciò che effettivamente è più importante nella vita, vale a dire l'ascolto della Parola del Signore. Ce lo ricorda anche il Vangelo di questa domenica, con il celebre episodio della visita di Gesù a casa di Marta e Maria, narrato da san Luca (10, 38-42).
Marta e Maria sono due sorelle; hanno anche un fratello, Lazzaro, che però in questo caso non compare. Gesù passa per il loro villaggio e - dice il testo - Marta lo ospitò (cfr. 10, 38). Questo particolare lascia intendere che, delle due, Marta è la più anziana, quella che governa la casa. Infatti, dopo che Gesù si è accomodato, Maria si mette a sedere ai suoi piedi e lo ascolta, mentre Marta è tutta presa dai molti servizi, dovuti certamente all'Ospite eccezionale. Ci sembra di vedere la scena: una sorella che si muove indaffarata, e l'altra come rapita dalla presenza del Maestro e dalle sue parole. Dopo un po' Marta, evidentemente risentita, non resiste più e protesta, sentendosi anche in diritto di criticare Gesù: "Signore, non t'importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti". Marta vorrebbe addirittura insegnare al Maestro! Invece Gesù, con grande calma, risponde: "Marta, Marta - e questo nome ripetuto esprime l'affetto -, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c'è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta" (10, 41-42). La parola di Cristo è chiarissima: nessun disprezzo per la vita attiva, né tanto meno per la generosa ospitalità; ma un richiamo netto al fatto che l'unica cosa veramente necessaria è un'altra: ascoltare la Parola del Signore; e il Signore in quel momento è lì, presente nella Persona di Gesù! Tutto il resto passerà e ci sarà tolto, ma la Parola di Dio è eterna e dà senso al nostro agire quotidiano.
Cari amici, come dicevo, questa pagina di Vangelo è quanto mai intonata al tempo delle ferie, perché richiama il fatto che la persona umana deve sì lavorare, impegnarsi nelle occupazioni domestiche e professionali, ma ha bisogno prima di tutto di Dio, che è luce interiore di Amore e di Verità. Senza amore, anche le attività più importanti perdono di valore, e non danno gioia. Senza un significato profondo, tutto il nostro fare si riduce ad attivismo sterile e disordinato. E chi ci dà l'Amore e la Verità, se non Gesù Cristo? Impariamo dunque, fratelli, ad aiutarci gli uni gli altri, a collaborare, ma prima ancora a scegliere insieme la parte migliore, che è e sarà sempre il nostro bene più grande.
(©L'Osservatore Romano - 19-20 luglio 2010)


QUANDO MADRE TERESA MI SERVIVA LA COLAZIONE - Nel centenario della nascita, ricordi di una donna molto speciale, dalla bontà senza confini - di Renzo Allegri
ROMA, lunedì, 19 luglio 2010 (ZENIT.org).- In molte parti del mondo sono in corso manifestazioni per ricordare il centenario della nascita di Madre Teresa di Calcutta, che cade il 26 agosto. Grandi cerimonie in India, a Calcutta, dove la Madre è vissuta per la maggior parte della sua esistenza terrena e dove è sepolta, in Albania, dove era nata, ma ovunque, numerosissime sono le piccole iniziative, a livello popolare, nelle parrocchie e nella associazioni di volontariato, soprattutto organizzate dai giovani per ricordare questa straordinaria figura.
Con Padre Pio e Giovanni Paolo II, Madre Teresa è stata una delle persone che hanno profondamente segnato la storia del cristianesimo del nostro tempo. Padre Pio, con la fiamma della sua altissima esperienza mistica; Giovanni Paolo II con il vento impetuoso dell’azione e dei continui viaggi apostolici; Madre Teresa con l’amore, nudo e assoluto, verso gli ultimi. Le loro vicende, i loro insegnamenti, i loro esempi hanno toccato credenti e non credenti, e continuano ad essere vivi.
Tutti coloro che hanno conosciuto Madre Teresa sono in possesso di ricordi straordinari. Soprattutto le persone che sono vissute accanto a lei. Ma anche i giornalisti che l’hanno avvicinata per lavoro. Noi giornalisti, proprio grazie alla nostra professione, ci troviamo, e non raramente, a incontrare i personaggi più disparati. Per quarant’anni ho fatto l’inviato speciale in grandi settimanali ed ho conosciuto e intervistato una folla sterminata di persone famose: artisti, politici, scienziati, campioni dello sport, divi dello spettacolo, protagonisti di fatti di cronaca, assassini e anche santi.
Tra i “santi”, ci sono stati Padre Pio, Madre Teresa, Giovanni XXIII, ma anche altri, il cui processo di beatificazione è in corso, come Giovanni Paolo II, Madre Speranza, Giorgio La Pira, Marcello Candia, Fra Cecilio Cortinovis e altri. Su tutti ho scritto articoli e anche libri. Di tutti conservo ricordi speciali, perché queste persone hanno un carisma irresistibile e una volta conosciuti è impossibile dimenticarli. Rappresentano la vita nella sua accezione essenziale ed eterna, e trasmettono speranze che oltrepassano le barriere del tempo. Su tutti, il ricordo più vivo, è quello legato a Madre Teresa.
Per una serie di strane coincidenze, con lei ho avuto diversi incontri, lunghe conversazioni, viaggi in macchina. Posso dire che avevo per lei affetto profondo, e lei mi dimostrava una benevolenza tale che io giudicavo amicizia e la mia superficiale vanità mi ha spinto a volte ad approfittarne, chiedendo anche favori che già in partenza io stesso giudicavo “impossibili”. Eppure, nella sua infinita bontà, la Madre trovava sempre il modo di accontentarmi.
Incredibile. Sono certo che tutti coloro che hanno avvicinato Madre Teresa hanno constatato questa sua amorosa disponibilità. Era certamente una grande santa ma insieme una donna di una sensibilità umana così deliziosa, di una bontà d’animo così grande da sentirsi triste se non riusciva ad accontentare chi le chiedeva qualche cosa.
Ho scritto tanti articoli su Madre Teresa, e anche alcuni libri. Ora, per il centenario della sua nascita, ho raccolto in un volumetto, edito dalla casa Editrice Ancora, alcuni ricordi e soprattutto “le parole” che nei vari incontri la Madre mi ha regalato. Non amava molto parlare. Ma quando lo faceva, era estremamente affascinante con quel suo modo essenziale e incisivo di esporre i suoi pensieri. Parlava preferibilmente per immagini. I suoi ragionamenti erano una sequenza di fatti che portavano a una inevitabile conclusione.
Il mio libro si intitola “Madre Teresa mi ha detto”. Titolo pretenzioso. Forse solo chi è vissuto a lungo accanto alla suora di Calcutta potrebbe usare per un libro un titolo del genere, e non è il mio caso. Io ho conosciuto Madre Teresa, l’ho intervistata diverse volte, ma nulla di più. Però, come ho detto, proprio e solo per la sua benevolenza, mi sentivo a lei molto vicino e quel titolo, “Madre Teresa mi ha detto”, rispecchia una straordinaria realtà.
Nel 1965, leggendo un libro di Pier Paolo Pasolini, trovai alcune righe dedicate a Madre Teresa che lo scrittore aveva incontrato durante un suo viaggio in India. Il fatto che Pasolini fosse stato molto colpito dalla suora, mi incuriosiva. Fu il primo contatto. Cominciai a raccogliere informazioni e ogni nuovo dato faceva aumentare la mia curiosità. Decisi che dovevo incontrare e intervistare quella suora. Ci riuscii dopo un’attesa di quindici anni. Ma non si trattò di una intervista. Fu l’inizio di una serie di incontri.
Gli aspetti che mi colpirono subito in lei furono una sensibilità umana grandissima e una bontà sconfinata. Io ero un giornalista qualsiasi, in pratica uno scocciatore che le faceva perdere tempo. Ma anche quando mi dilungavo in domande forse inutili e a volte poco pertinenti non ho mai visto sul suo viso il più piccolo segno di contrarietà.
Quando era a Roma, e le chiedevo di vederla, mi dava appuntamento nel conventino al Celio, dove c’è la Casa madre delle suore da lei fondate, le Missionarie della carità. Diceva: “L’aspetto domattina alle cinque e mezzo”. A quell’ora, nel conventino c’era la Messa riservata alle suore e la Madre desiderava che, prima di parlare con me, ci trovassimo uniti nella preghiera. Arrivavo puntuale e trovavo, sulla porticina del convento, una suora che mi aspettava e mi accompagnava nella cappellina. Seguivo la Messa accanto alla Madre, che stava inginocchiata sul pavimento, in fondo alla cappellina. Per me, invece, faceva preparare un inginocchiatoio comodo e anche una sedia. Dal mio posto, potevo osservare tutte le suore e anche la Madre, che non faceva proprio niente di speciale. Era rannicchiata su se stessa, quasi a formare una palla, e stava concentrata nell’orazione silenziosa come se non esistesse. Ma proprio da quella posizione di annullamento anche fisico, trasmetteva una energia potente e infinite considerazioni che lunghe conversazioni non sarebbero state in grado di suggerire.
Dopo la Messa, la suora che mi aveva accolto mi accompagnava in una stanzuccia del conventino, dove infallibilmente, poco dopo, arrivava la Madre con un vassoio per la colazione. Madre Teresa mi serviva la colazione. Non permetteva di farlo a una delle sue suore, magari a quella che mi aveva accolto sulla porta del conventino. Voleva farlo lei. La prima volta ero confuso e cercai di impedirglielo, dicendo che non avevo fame, che al mattino non mangiavo mai. Ma aveva intuito il mio imbarazzo e non ci fu modo di fermarla. Mi serviva con un commovente amore materno. Caffè, latte, marmellata, fette biscottate. Si preoccupava che mangiassi. E quelle sue attenzioni parlavano più delle interviste. Poi, alla fine della colazione, mi concedeva il suo tempo. Io prendevo i miei appunti con le domande, accendevo il registratore e lei rispondeva.
Riascoltando quelle conversazioni, mi rendo conto che le mie domande erano a volte stupide, inutili, superficiali, ma lei sempre rispondeva con calma portando la conversazione su tematiche importanti o evidenziando, di certi fatti, l’aspetto nel quale si concentrava l’insegnamento.
Come ho detto, quando avevo preso una certa confidenza le chiesi anche dei favori poco pertinenti con il suo stato di religiosa.
Un giorno le chiesi se accettava di fare da madrina a un battesimo. A Natale del 1985, Al Bano, il famoso cantante pugliese, era diventato padre per la terza volta: una bambina, Cristel. Siamo molto amici, fin dagli esordi della sua carriera. Sono stato anche testimone di nozze al suo matrimonio con Romina Power e lui ha tenuto a battesimo uno dei miei figli. Un’amicizia che, con il tempo, è diventata quasi una parentela. A maggio del 1986, Cristel aveva già cinque mesi e non era ancora stata battezzata. Sapevo che Al Bano aveva una solida e concreta fede religiosa. Gli chiesi perciò come mai non avesse ancora battezzato la figlia. Mi disse che continuava a rimandare la cerimonia del battesimo perché non voleva che il rito religioso si trasformasse in una gazzarra, con fotografi e giornalisti, come era accaduto per il suo matrimonio. Cercava un’occasione per una cerimonia religiosa privata, e mi chiese di aiutarlo a organizzarla, magari a Roma. Lo feci volentieri. Parlai con il vescovo slovacco monsignor Pavel Hnilica. Una persona straordinaria, un santo anche lui, amico di Madre Teresa ed era stato lui a presentarmi alla suora. Chiesi a monsignore se poteva battezzare la figlia del mio amico. E gli chiesi anche se fosse stato possibile avere Madre Teresa come madrina. «Non credo proprio», disse il vescovo. «Ma ti consiglio di chiederglielo direttamente, è una donna imprevedibile». La Madre era a Roma. Mi feci coraggio e glielo chiesi. Mi guardò seria, poi rispose: «Come religiosa, non posso prendermi questa responsabilità giuridica. Ma posso fare da madrina spirituale». E così avvenne. Il battesimo fu celebrato nella cappella privata del vescovo. Alla bambina vennero dati i nomi di Cristel, Maria Chiara e Teresa. Un solo fotografo era presente e le foto vennero poi diffuse gratuitamente in tutto il mondo, pubblicate ovunque, anche in Giappone.
Due anni dopo, nell’agosto del 1988, alcuni amici mi parlarono di una storia molto commovente. Una giovane coppia di un paesino vicino al Lago di Bracciano, aveva avuto cinque gemelli. Come spesso accadde in quei casi, i piccoli furono tenuti per diverso tempo in incubatrice. In pratica, furono salvati dall’amore grandissimo dei loro genitori e dalle cure dei medici. Quando finalmente uscirono dall’ospedale, si pensò al battesimo. «Bisogna fare una grande festa», dicevano gli amici della coppia. Uno chiese a me di organizzare qualcosa per attrarre l’attenzione dei giornali. Pensai a Madre Teresa. Ero certo che, conosciuta la storia, avrebbe accettato. E fu così. La cerimonia si tenne nella chiesetta antica di Santa Maria di Galeria. Ognuno dei cinque gemellini aveva un suo padrino, come è previsto dalla Chiesa, ma tutti ebbero Madre Teresa di Calcutta quale loro “madrina spirituale”. La Madre, benché piena di impegni, dedicò mezza giornata a quel battesimo. Si fece accompagnare sul lago di Bracciano e partecipò a tutta la cerimonia. I giornali naturalmente scrissero, pubblicarono fotografie e ci fu grande festa.
Quando penso a Madre Teresa, l’immagine che mi si presenta subito alla mente è lei in preghiera. La prima volta che viaggiai in macchina con lei, ebbi l’onore di sederle accanto. Dovevamo spostarci dalla Casilina, in periferia di Roma, dove c’è una casa delle “Missionarie della carità”, al Vaticano, dove la Madre sarebbe stata ricevuta dal Papa. Avevamo parlato a lungo quella mattina e avevamo fatto tardi. Salimmo in macchina. Guidava il fratello di monsignor Hnilica. Il vescovo sedette accanto al proprio fratello e io accanto a Madre Teresa.
La macchina partì velocissima perché avevamo fretta, eravamo in ritardo. Non si poteva assolutamente fare aspettare il Papa. Madre Teresa guardava dal finestrino. Il suo viso era sereno. Dopo qualche minuto, la Madre ci chiese di pregare con lei. Si fece il segno della croce, da una tasca del suo sari estrasse un rosario. Pregava adagio, con voce sommessa, recitando il “Padre Nostro” e le “Ave Maria” in latino. Noi pregavamo con lei.
La macchina sfrecciava nervosa nel traffico caotico e intenso. A volte si fermava bruscamente, sterzava di scatto, ripartiva imperiosa, abbordava le curve temerariamente, veniva sfiorata da altre auto, impazienti e aggressive, che lanciavano minacce con lancinanti colpi di claxon. Io ero aggrappato alla maniglia e guardavo con preoccupazione l'autista, bravissimo ma spericolato. Madre Teresa, invece, era assorta nella preghiera e non si accorgeva di niente.
Rannicchiata sul sedile, era in colloquio con Dio. Aveva gli occhi socchiusi. Il volto rugoso, piegato sul petto, era trasfigurato. Sembrava quasi emanasse luce. Le parole della preghiera uscivano dalle sue labbra precise, chiare, lente, quasi si fermasse ad assaporare il significato di ognuna. Non avevano la cadenza di una formula continuamente ripetuta, ma la freschezza del dialogo, di una conversazione viva, appassionata. Sembrava che la Madre parlasse realmente con una presenza invisibile.
Un giorno le chiesi, all’improvviso: «Ha paura di morire?». Ero a Roma da alcuni giorni. L’avevo incontrata un paio di volte ed ero andato a salutarla perché tornavo a Milano. Lei mi guardò quasi a voler capire la ragione della mia domanda. Pensai di aver fatto male a parlare di morte e cercai di correggere il tiro. «La vedo riposata», dissi. «Ieri, invece, mi sembrava molto stanca».«Ho riposato bene questa notte», rispose. «Negli ultimi anni lei ha subito alcuni interventi chirurgici piuttosto delicati, come quello al cuore: dovrebbe riguardarsi, viaggiare meno». «Me lo dicono tutti, ma io devo pensare all'opera che Gesù mi ha affidato. Quando non servirò più, sarà Lui a fermarmi».
E cambiando argomento, chiese: «Dove abita?». «A Milano», risposi. «Quando torna a casa?». «Spero questa sera stessa. Vorrei prendere l'ultimo aereo, così, domani, che è sabato, posso stare in famiglia». « Ah, vedo che lei è felice di tornare a casa, dalla sua famiglia», disse lei sorridendo. «Manco da quasi una settimana», risposi per giustificare il mio entusiasmo. «Bene bene», aggiunse. «E’ giusto che lei sia contento. Va a trovare sua moglie, i suoi bambini, i suoi cari, la sua casa. È giusto che sia così».
Rimase ancora per alcuni attimi in silenzio, poi, riallacciandosi alla domanda che le avevo fatto, continuò: «Io sarei contenta come lei se potessi dire che questa sera muoio. Morendo andrei a casa anch'io. Andrei in paradiso. Andrei a trovare Gesù. Io ho consacrato la mia vita a Gesù. Diventando suora, sono diventata la sposa di Gesù. Vede, porto l'anello al dito come le donne sposate. E io sono sposata a Gesù. Tutto quello che faccio qui, su questa terrà, lo faccio per amore suo. Quindi, morendo, tornerei a casa. Dal mio sposo. Inoltre, lassù, in paradiso, troverei anche tutti i miei cari. Migliaia di persone sono morte tra le mie braccia. Sono ormai più di quarant'anni che dedico la mia vita agli ammalati e ai moribondi. Io e le mie suore abbiamo raccolto per le strade, soprattutto in India, migliaia e migliaia di persone in fin di vita. Le abbiamo portate nelle nostre case e le abbiamo aiutare a morire serene. Molte di quelle persone sono spirate tra le mie braccia, mentre io sorridevo loro e accarezzavo i loro volti tremanti. Ebbene, quando muoio, io vado a trovare tutte queste persone. Sono là che mi aspettano. Ci siamo voluti bene in quegli attimi difficili. Abbiamo continuato a volerci bene nel ricordo. Chissà quale festa mi faranno vedendomi. Come posso aver paura della morte? Io la desidero, l'aspetto perché finalmente mi permette di tornare a casa».
In genere, nelle interviste, e anche nelle conversazioni, Madre Teresa era concisa, dava risposte brevi e veloci. In quell'occasione, per rispondere a quella mia strana domanda, aveva affrontato un autentico discorso. E mentre diceva quelle cose, i suoi occhi sfavillavano di una serenità e di una felicità sorprendenti.


DAL DIVORZIO A ELUANA ENGLARO - di Paola Ciadamidaro - ROMA, lunedì, 19 luglio 2010 (ZENIT.org).- La scelta di leggere il libro “Scritti di un pro-life. Dal divorzio a Eluana Englaro” scritto da Francesco Agnoli e pubblicato da Fede & Cultura è stata, almeno inizialmente, dettata dalla curiosità suscitatami dalla veste tipografica e dalla immagine in copertina dove c’è in primo piano il cavallo a dondolo…, gioco ormai quasi desueto nelle nostre famiglie e dunque poco conosciuto dai bambini del secondo millennio, ai quali precocemente si insegna l’uso delle tecnologie.
Sul cavallino, il maschietto, con in mano il frustino e, alle sue spalle, la bambina.
Il titolo del libro sembra quasi sparire, ingoiato da questo coloratissimo quadretto!
E’ comunque evidente quale sarà l’argomento trattato, con una specificazione temporale importante, in cui l’autore svolge una disamina degli eventi degli ultimi 30 anni del ‘900, scorrendoli con occhi, nonostante la tragicità, speranzosi.
Nei primi capitoli viene subito evidenziata la posizione morale, oltreché religiosa, di Agnoli, che, giustamente, insiste sulle differenze di “figure” e ruoli in una famiglia normale e, viceversa, in quelle che il divorzio ci ha regalato, come famiglie allargate; ciò a scapito unicamente di questi ragazzi che, in definitiva, pagano il prezzo più alto della disgregazione familiare, con la distruzione della propria personalità.
L’anello più debole della società umana, cioè il bambino-figlio, viene difeso dall’autore, che, quasi con il coltello tra i denti o, forse, un frustino in mano (metaforicamente parlando), riporta le cifre dell’aborto, di quella piaga che è, e resta, anche dopo la 194, una escalation di omicidi, ancora adesso commessi, molto spesso, clandestinamente.
Egli non ha assolutamente alcuna paura nel “raccontare” ciò che si faceva a Villa Gina, a Roma, dove le donne venivano anche sopraffatte in sala operatoria, per farle abortire, se e quando avessero manifestato gravi ripensamenti…e tutto per la “modesta”cifra di 8-10 milioni delle vecchie lire!
L’innocente viene sacrificato, sempre clandestinamente ed in maniera esecrabile, anche a Napoli, e se la mamma non ha i soldi, può ricambiare il favore con prestazioni sessuali.
Agnoli quindi, definisce la sofferenza morale dell’altra protagonista, la donna (la bimba in secondo piano della copertina, quasi a significarne il ruolo secondario in questa società), alla quale non viene tolta la vita, ma la si marchia irreparabilmente.

Nelle poche righe da pag. 30 alla 32, si riaccende la speranza, perché nel 1973 nasce il Movimento per la Vita e due anni dopo il primo Centro di Aiuto alla Vita, rendendo effettivamente libera la donna di non abortire.
Altre scelleratezze, tuttavia, l’uomo si accinge a compiere, nel nichilismo della tecnologia estrema, quando comincia a giocare con gli ovuli e gli spermatozoi di quest’uomo o di quella donna (non importa se essi nemmeno si conoscono) perché comunque hanno il diritto-dovere alla procreazione artificiale: è arrivato il baby business!
Nella continua ricerca dell’immortalità, ben si inserisce il concetto di eutanasia, laddove in America soprattutto fioriscono le società di crionica per il congelamento dei defunti, tutto ciò che rende l’uomo immortale è da studiare e sviluppare e, se proprio egli deve morire, tanto vale scegliere il modo e il momento, specialmente se si tratta di una vita non degna di essere vissuta.
Ed Eluana muore così (febbraio 2009) denutrita e disidratata perché papà Beppino con la sua confraternita-coorte scientifica così ha deciso per lei, e su questa decisione non possono esserci appelli, in nome di un malinteso e strumentalizzato libero arbitrio.
Agnoli però, attraverso i successivi capitoli, meditando sui grandi scienziati e filosofi (Copernico, Galilei, Pascal, Darwin), dai catari all’eutanasia nazista fino ai giorni nostri, esamina e spiega quello che è il suo concetto di civiltà, non nascondendo tuttavia questo eterno dondolio dell’umanità tra scienza vera e scientismo, tra etica e relativismo, tra materialismo e spiritualismo, ricordando ancora che per Lenin alcune persone sono solo “insetti nocivi” e per Hitler “sottouomini”; anche per i sessantottini e per gli hyppies esisteva unicamente la “lotta dura contro natura”.
L’autore comunque arriva al cuore del libro nell’ultimo capitolo, che è come un grido di aiuto, ma anche di speranza, analizzando il “disastro educativo”, imperniato solo sulla cultura di morte, ma ricordando gli eroi del ‘900, allorquando si chiede “dove sono i ragazzi della rosa bianca, il Vescovo di Munster Von Galen, Edith Stein, Massimiliano Kolbe?”.
Ed ecco sorgere inevitabilmente la domanda che tutti ci poniamo: può esistere ancora nel terzo millennio l’Uomo-Eroe, paladino della vita?
Il cavallino si ferma, perché la risposta è SI',ma alla condizione, unica e irrinunciabile, di cercare la verità, seguendo l’insegnamento di Agostino di Ippona: “ho conosciuto molte persone desiderose di ingannare, nessuna di essere ingannata…è solo la verità che ci rende liberi”.


Ecumenismo. La vera storia di una guerra che non ci fu - I patriarchi di Mosca e Costantinopoli minacciarono nel 2003 la totale rottura con Roma. Il pretesto era l'Ucraina. Ma in Vaticano Kasper e Ratzinger sventarono il pericolo. Ecco come - di Sandro Magister
ROMA, 19 luglio 2010 – Tra i dossier trasmessi dal cardinale Walter Kasper al suo successore, l'arcivescovo svizzero Kurt Koch, nuovo presidente del pontificio consiglio per l'unità dei cristiani (nella foto), uno dei più scottanti riguarda l'Ucraina.

Basti dire che durante la sua visita a Roma nello scorso maggio, il presidente del dipartimento delle relazioni esterne del patriarcato di Mosca e di tutte le Russie, il metropolita Hilarion di Volokolamsk, ha indicato proprio nella questione ucraina l'unico vero ostacolo a un incontro tra Benedetto XVI e il patriarca ortodosso russo Kirill.

Meno di un mese fa www.chiesa ha dedicato alla questione ucraina un intero servizio:

> L'Ucraina fa da arbitro tra il papa e il patriarca di Mosca

In questo servizio si dava conto, tra l'altro, di uno dei momenti più critici del conflitto tra Roma e Mosca con epicentro l'Ucraina, occorso tra il 2003 e il 2004. Il motivo del contendere era l'elevazione a patriarcato della Chiesa greco-cattolica ucraina, fortemente voluta da questa stessa Chiesa ma intollerabile per l'ecclesiologia russa, per la quale non può esistere alcun patriarcato "romano" in un territorio dove già esiste un patriarcato ortodosso.

Proprio così, infatti, esordiva un'aspra lettera del 29 novembre 2003 scritta a Giovanni Paolo II dal patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I:

"Vorrei sottoporre alla vostra attenzione una questione molto seria […]. Si tratta in particolare della vostra intenzione di istituire il patriarcato [greco-cattolico] in Ucraina, intenzione che è stata comunicata al nostro fratello Alessio patriarca di Mosca e di tutte le Russie dal vostro cardinale Walter Kasper, come mi ha reso noto lo stesso patriarca di Mosca".

Dopo un lungo argomentare, Bartolomeo I concludeva che qualora il nuovo patriarcato greco-cattolico dell'Ucraina fosse stato eretto, per il movimento ecumenico sarebbe stata la fine.

Ma le cose si svolsero effettivamente così? Davvero il cardinale Kasper aveva annunciato per iscritto al patriarca di Mosca, all'epoca Alessio, la decisione di Roma di elevare a patriarcato la Chiesa greco-cattolica ucraina? E davvero Kasper dovette correre a Mosca a ritrattare quell'annuncio?

Una fonte autorevole del pontificio consiglio per l'unità dei cristiani ha fornito a www.chiesa una ricostruzione dei fatti molto diversa da quella che risulta dalla lettera di Bartolomeo I:

"Non è vero che il cardinale Kasper abbia annunciato in una lettera al patriarca di Mosca l’elevazione dell'arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica ucraina, cardinale Lubomyr Husar, al rango di patriarca. Una tale lettera, con un annuncio di tale portata, sarebbe stata possibile solo con l’autorizzazione del papa, che mai c'è stata. In una precedente riunione tra cardinali, Kasper non era il solo ad aver espresso delle serie riserve su un tale passo: anche l'allora cardinale Joseph Ratzinger mise per iscritto la sua contrarietà. La lettera di Kasper a Mosca conteneva solo alcune riflessioni sulla storia e sullo statuto canonico dei patriarcati dal punto di vista cattolico, riflessioni che erano identiche a quelle formulate dal cardinale Ratzinger.


"Ma il patriarcato di Mosca o ha male inteso quella lettera o, più probabilmente, l'ha usata per sollecitare altri patriarcati ortodossi a scrivere lettere di protesta a Roma, fra cui quella di Bartolomeo I fu la più pesante. Bartolomeo era sottoposto alle pressioni di Mosca e volle così mostrare che era lui e non Alessio il vero leader 'ecumenico' dell'ortodossia. Papa Giovanni Paolo II, nella sua prudente risposta al patriarca di Costantinopoli, dichiarò la sua 'sorpresa' per quanto aveva trovato scritto nella lettera e invitò Bartolomeo I a Roma. La visita ci fu, si svolse in modo molto pacifico e della controversia relativa al patriarcato ucraino neppure si parlò: silenzio assoluto, come se non ci fosse mai stata. Nemmeno Bartolomeo I è più tornato in seguito sulla questione, al punto che viene da pensare che non lui ma altri abbiano scritto quella sua lettera del 29 novembre 2003, molto erudita dal punto di vista della tradizionale storiografia ortodossa".

*

La stessa fonte del pontificio consiglio per l'unità dei cristiani ha inoltre voluto correggere anche un altro passaggio del servizio di www.chiesa, là dove scriveva che il gelo tra Roma e Mosca è durato fino al termine del pontificato di Giovanni Paolo II, per sciogliersi solo dopo, col nuovo papa:

"Non è così. Dopo l’incidente menzionato sopra, il cardinale Kasper è stato più volte a Mosca e il clima tra le due parti ha cominciato a migliorare. La vera svolta è stata nel 2004 la consegna da parte del papa al patriarca di Mosca della icona della Madre di Dio di Kazan, accompagnata da uno scambio di lettere molto amichevoli fra Giovanni Paolo II e Alessio. Fu questo gesto a rompere il ghiaccio. E così fu possibile che ai funerali di Giovanni Paolo II e alla intronizzazione di papa Benedetto XVI fossero presenti praticamente tutti i patriarcati ortodossi, compreso quello di Mosca: un fatto mai avvenuto in tutta la lunga storia della Chiesa. Quindi il terreno dei rapporti con Mosca e con gli altri patriarcati ortodossi era già ben preparato all’inizio del nuovo pontificato. Da parte di Mosca ci furono poi ulteriori motivi per cambiare atteggiamento, col nuovo papa. Il fatto che Giovanni Paolo II fosse polacco, mentre il successore è tedesco, è certamente uno di questi motivi, ma del tutto marginale in questo contesto".


“Bell’amore e sessualità”. Redentore 2010, il Discorso del Patriarca S.E. Card. Angelo Scola – dal sito http://angeloscola.it
1. L’immagine biblica del bell’amore

La liturgia della Festa del Santissimo Redentore ci riempie della più grande consolazione, quando afferma: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5). Dio Padre, mediante le sue “due mani” – come Ireneo di Lione chiamava il Figlio e lo Spirito Santo – si prende cura di noi e ci sostiene con la speranza che non delude (Rm 5, 5). Lieti nel Signore possiamo affrontare l’esistenza, nel suo intreccio di affetti lavoro e riposo, come figli e figlie nell’Unigenito Figlio di Dio.

L’esperienza comune ad ogni uomo traccia la via maestra per imparare questa tenera figliolanza. È la via del desiderio in senso pieno, cioè in grado di attingere la realtà, non ridotto a pura mossa interiore al soggetto. Il desiderio, in mille forme diverse, dice ad ogni uomo la necessità di essere amato definitivamente, perfino oltre la morte, e lo urge ad amare definitivamente, a sua volta. Qual è allora il criterio che verifica l’apertura totale del desiderio, consentendo questo definitivo reciproco amore?

Una suggestiva risposta ci viene dalla Bibbia: «Io sono la madre del bell’amore» (Sir 24, 18). Qui all’amore viene accostata la bellezza.

Cosa vuol dire bell’amore? Quando l’amore è bello? Tommaso parla della bellezza come dello “splendore della verità”. Per Bonaventura la persona che “vede Dio nella contemplazione”, cioè che lo ama, è resa tutta bella (pulchrificatur) .

La tradizione cristiana, con le parole del Salmo, definisce Gesù Cristo come «il più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 45,3). Il bell’amore pertanto non è un’Idea astratta, ma la persona di Gesù, bellezza visibile del Dio invisibile, che per amore si è fatto come uno di noi. Il bell’amore imprime la sua forma in chi lo accoglie aprendolo a relazioni nuove e partecipate. Questo ci permette di dire che l’amore è bello quando è vero, cioè oggettivo ed effettivo. San Paolo, nel capitolo 5 della Lettera agli Efesini, lo rinviene nell’amore tra Cristo e la Chiesa intrecciato a quello tra il marito e la moglie (cfr Ef 5, 32-33).

2. Una nuova grammatica dell’amore?

Con la dottrina del bell’amore il cristianesimo ha dunque la pretesa di intercettare una delle dinamiche fondamentali della vita dell’uomo. Questo dato, tuttavia, non può ignorare le pesanti prove cui oggi sono sottoposte le relazioni, anche le più intime, come quelle tra uomo e donna, tra marito e moglie, tra genitori e figli. L’amore non è mai stato una realtà a buon mercato, tantomeno lo è oggi. Proprio nelle relazioni amorose si avvertono gli effetti della difficile stagione che stiamo vivendo. È mutata la grammatica degli affetti, anzitutto nel suo elemento determinante che è la differenza sessuale. E dalla sfera privata tale processo sempre più va dilagando nella stessa vita civile.

Tra quanto viene quotidianamente immesso dai codici culturali dominanti e il messaggio cristiano del bell’amore sembra essersi scavato un fossato invalicabile.

Nell’attuale e magmatico contesto culturale si può ancora ragionevolmente credere nella proposta cristiana del bell’amore? Tanto più che molti uomini, pure segnati da secoli di evangelizzazione cristiana – e tra di loro non pochi praticanti -, non comprendono e rigettano gli insegnamenti della Chiesa in materia di amore e sessualità.

Come tacere inoltre, di questi tempi, la bufera che ha investito la Chiesa cattolica per il tragico scandalo della pedofilia perpetrata da chierici e talora coperta per negligenza o ingenuità dal silenzio di autorità ecclesiastiche? Lo scandalo pedofilia, con l’effetto di un detonatore, sembra a molti aver ridotto in frantumi la proposta degli stili di vita sessuale e la visione dell’uomo ad essi sottesa che da secoli la Chiesa persegue. Riguardo al problema specifico della pedofilia mi ha colpito l’osservazione: «La parola spesa in questi mesi da chi opera nel settore, sia esso medico, psichiatra, ricercatore, psicologo, giurista, occupa uno spazio del tutto irrilevante rispetto al fiume di parole emerse in questi mesi da giornali, radio, televisioni, dibattiti… Perché questo silenzio?… È auspicabile che alla denuncia degli scandali, giusta e doverosa, segua anche una riflessione ed un approfondimento della questione, per poterla affrontare in maniera efficace» .

Come pastore non ho una competenza specifica per tentare una qualche risposta circa la natura e le conseguenze di simili inaccettabili abusi. Mi sembra tuttavia che le parole-chiave – “misericordia”, “giustizia in leale collaborazione con le autorità civili”, ed “espiazione” – indicate con addolorata forza da Benedetto XVI nella Lettera ai cristiani di Irlanda, consentano di affrontare ogni singolo caso, dal momento che, come bene è stato detto, anche uno solo è di troppo. Il Papa non si sottrae alla corresponsabilità che ne viene ad ogni membro dell’unico corpo ecclesiale e, in particolare, del collegio episcopale. È uno scandalo che tocca l’intera Chiesa, chiamata ad una profonda penitenza, ad andare alle radici della misericordia, cioè all’incontro personale con il Tu di Cristo. Si tratta di una riforma che non potrà non riguardare tutti i livelli della sua missione.

Anche per queste ragioni sento la necessità di affrontare di petto la domanda circa la credibilità e la convenienza della proposta cristiana in tema di sessualità e di bell’amore.

Come questa radice costitutiva del desiderio dell’uomo può essere da lui concretamente vissuta?

Una sofisticata risposta ci viene dalle neuroscienze. In particolare le neuroscienze dell’etica si sono poste il problema dell’amore nel quadro del loro tentativo di spiegare in termini puramente neuronali il decisivo interrogativo antropologico: cosa significa realmente esistere come esseri pensanti (coscienti)? . Helen Fisher, antropologa americana, considerata tra le esperte del settore, pubblica ormai da diversi anni libri e articoli scientifici, sia specialistici che divulgativi, sul tema dell’amore.

La studiosa, con il suo team di ricerca, ha attribuito un’importanza considerevole al cosiddetto stadio dell’amore romantico (romantic love) . Esso – con l’attrazione sessuale (libido o lust) e con l’attaccamento (attachment) – si ridurrebbe, a detta dell’autrice, ad una delle tre reti primordiali del cervello attraverso le quali si snoda l’intera parabola affettivo-relazionale tra uomo e donna .

Non mi pare azzardato ravvisare in simili posizioni il tentativo di considerare l’uomo come puro esperimento di se stesso, secondo la forte ma emblematica espressione del filosofo della scienza Jongen.

3. Il dato incontrovertibile: l’io-in-relazione

L’alternativa all’uomo come esperimento di se stesso nasce dall’ascolto dell’esperienza umana comune. Essa rivela che l’altro/gli altri non sono una mera aggiunta all’io, ma un dato a lui originario. La personalità di ciascuno è immersa in una trama di relazioni: il dato relazionale è incoercibile.

Fin dal grembo di sua madre ogni uomo, come figlio o come figlia, è situato in una relazione costitutiva. La sua stessa nascita, per quanto potrà essere manipolata in laboratorio, custodisce il mistero dell’alterità: nessun uomo potrà mai auto-generarsi.

La prospettiva antropologica dell’io-in-relazione, accolta in tutta la sua ampiezza, ci porta a considerare in modo adeguato la differenza sessuale . Essa si rivela anzi come il luogo originario che ci introduce al rapporto con la realtà. È la prima ed insostituibile scuola per imparare l’alterità .

Per l’autore del Libro dei Proverbi «La via dell’uomo in una giovane donna» è considerata tra le «cose troppo ardue a comprendersi» (cfr Prov 30, 18-19). A questo proposito un grande biblista commenta: «L’uomo/donna è la via attraverso cui ognuno di noi è inoltrato nel mistero della vita; è ciò che fa passare l’uomo attraverso la figura di colei che sta al suo inizio e che lo fa uscire da sé quando nasce. Questo fa dell’incontro tra i due al tempo stesso un ricominciamento e qualcosa di nuovo» . In altri termini, quando l’uomo e la donna si incontrano fanno l’esperienza da una parte di ricominciare qualcosa che in forza della loro nascita già conoscono, dall’altra di dar vita ad una novità. Questa è possibile quindi perché l’incontro amoroso pone inevitabilmente all’uomo la domanda circa la propria origine. Potremmo esprimerla così: chi sono io che incontrando te incontro me stesso? In quanto situato nella differenza sessuale l’altro da me mi “sposta” (dif-ferenza) in continuazione, impedendomi di rimanere rinchiuso in me stesso. Essere situati nella differenza sessuale si rivela pertanto come un grande dono che, bene inteso, diventa diffusivo di amore e di bellezza. Qui sta l’inestirpabile radice della fecondità. L’amore non è mai un rapporto a due. Infatti la differenza uomo-donna, con questo suo valore originario, trova il suo fondamento nella differenza delle Tre Persone nell’unico Dio. Il bisogno/desiderio dell’altro che a partire dalla differenza sessuale ogni persona, come uomo e come donna, sperimenta non è pertanto il marchio di un handicap, di una mancanza, ma piuttosto l’eco di quella grande avventura di pienezza che vive in Dio Uno e Trino, perché siamo stati creati a Sua immagine.

Cristo Gesù, forma piena del bell’amore trinitario nella storia, spalanca ad ogni uomo e ad ogni donna la possibilità di partecipare a questa esperienza.

4. Assicurare gli affetti

Con la sua morte e resurrezione Gesù Cristo ci ha liberati dalla paura della morte (cfr Eb 2,14-16). Ciò è decisivo per vivere in pienezza gli affetti che si inscrivono primariamente all’interno dell’uomo-donna (differenza sessuale). La paura della morte, infatti, appare spesso la segreta padrona delle relazioni tra l’uomo e la donna, tra i genitori e i figli. Essa è all’origine della smania del “tutto e subito” nei rapporti amorosi che, con la stessa rapidità, si bruciano e si moltiplicano. Ritroviamo questa dinamica nel rapporto tra le generazioni: la decisione di generare o di non generare figli, sovente è determinata dalla paura del carattere contingente dell’esistenza.

L’antidoto contro il veleno di morte che penetra ogni umana relazione è tuttavia già presente nella storia. Sta nella manifestazione della verità dell’amore offertaci dalla morte-resurrezione pro nobis di Cristo. La vittoria dell’Amore sulla morte fa brillare il senso pieno della differenza sessuale: il suo essere destinata al bell’amore che va oltre la morte.

5. La castità: una pratica conveniente

La proposta cristiana circa la sessualità e il bell’amore indica un percorso di vita che conduce a quella soddisfazione e a quella gioia cui il desiderio rettamente inteso spalanca l’uomo. Come educarci concretamente a vivere gli affetti secondo questa integralità ed autenticità? Emerge in proposito una grande parola oggi purtroppo caduta in disuso: castità. Se correttamente intesa, essa si rivela inscritta nella struttura stessa del desiderio come la virtù che regola la vita sessuale rendendola capace di bell’amore.

Casto è l’uomo che sa tenere in ordine il proprio io. Lo libera da un erotismo apertamente rivendicato e vissuto, fin dall’adolescenza, in forme sempre più contrattuali e senza pudore. Certo, l’amore è uno in tutte le sue forme, compreso l’amore ridotto a venere, per usare un’espressione cara a Clive Staples Lewis, il quale definisce così il mero esercizio della sessualità e lo distingue dalla capacità di amare, che implica eros ed agape (Deus caritas est). Ma anche quando si riduce ad un comportamento quasi animalesco, l’amore esprime, in modo del tutto distorto, una domanda di verità.

Nessuno uomo può essere casto se non stabilendo liberamente una gerarchia di valori: «La castità esprime la raggiunta integrazione della sessualità nella persona e conseguentemente l’unità interiore dell’uomo nel suo essere corporeo e spirituale» (CCC 2337). Se noi disaggreghiamo venere, eros ed agape ci condanniamo alla rottura tra la dimensione emotiva e quella del pensiero, di cui la morte del pudore è il sintomo più grave.

A queste condizioni l’esperienza del bell’amore diviene impossibile e il rapporto amoroso è ridotto a una meccanica abilità sessuale, veicolata da una sottocultura delle relazioni umane che si fonda su un grave equivoco: sull’idea, del tutto priva di fondamento, che nell’uomo esista un istinto sessuale. Invece è vero il contrario, come dimostra certa psicanalisi : anche nel nostro inconscio più profondo tutto l’io è in gioco. La castità mette in campo un’esperienza comune a tutti. In ogni ambito della sua esistenza l’uomo sa bene di non poter trovare soddisfazione senza sacrificio. Il sacrificio è una strana necessità, ma è la strada che assicura il godimento. Nella sfera sessuale e nei rapporti amorosi questo è particolarmente evidente. Perché abbiamo definito “strano” il sacrificio? Perché tutti noi avvertiamo una resistenza sana di fronte ad esso. Se siamo fatti per la soddisfazione, perché il sacrificio? Non è forse contrario alla natura della soddisfazione? Il valore ultimo del sacrificio non può quindi risiedere in se stesso, né nel fatto che mi sia imposto dall’esterno, da una qualsiasi autorità. Devo giungere a scoprirne la convenienza, cioè la sua intrinseca ragionevolezza per la piena riuscita della mia umanità. Esso è condizione e non fine.

La croce e la resurrezione di Cristo hanno la forza di mostrare che l’inevitabile sacrificio presente in ogni umana azione ha come scopo positivo il raggiungimento del proprio destino. Il sacrificio spaventa quando non se ne sa il perché. La virtù della castità è una grande scuola al valore misteriosamente positivo del sacrificio. Essa chiede la rinuncia in vista di un possesso più grande. Posso rinunciare se sono certo che questa rinuncia mi fa possedere in pienezza il bene che voglio, come soddisfazione del mio desiderio. Il sacrificio non annulla il possesso, è la condizione che lo potenzia. Il puro piacere non è autentico godimento, tant’è vero che finisce subito. E se resta chiuso in se stesso lentamente annulla il possesso, lo intristisce, lo deprime. A ben vedere l’uomo cerca quel piacere che dura sempre, cioè il gaudium (godimento). Lo aveva ben capito Sant’Ignazio di Loyola. Mi colpisce sempre il fatto che, quando dico queste cose ai giovani, incontro più sorpresa ed interesse che obiezione. Intuiscono che un cammino di castità fin da adolescenti, attraverso la strada di un progressivo dominio di sé che rinuncia a comportamenti immaturi e presuntuosi, apre a una prospettiva di realizzazione nella quale si chiarisce il disegno amoroso di Dio su ciascuno di loro. Sessualità ed amore su queste basi si realizzano compiutamente come possesso nel distacco . In questa luce emergono in tutta la loro pienezza la vocazione alla verginità e al celibato così come quella al matrimonio indissolubile, fedele e fecondo tra l’uomo e la donna.

a) Verginità

La verginità come forma di vita riguarda solo alcuni chiamati alla imitazione letterale della umanità di Cristo, il quale ha vissuto in obbedienza povertà e nella perfetta continenza, e per questo rinunciano alla modalità comune dell’esercizio della sessualità, alla famiglia e alla generazione nella carne. Nella prospettiva del Regno di Dio la verginità anticipa il compimento finale che riguarda tutti gli uomini. Una simile forma di vita non prescinde affatto dal proprio essere situati nella differenza sessuale.

b) Celibato ecclesiastico

Per meglio comprendere questa affermazione conviene guardare in faccia a un’altra delle questioni oggi discusse, quella del celibato. La dedizione a Cristo che il ministero ordinato implica, sul modello del servo sofferente e del buon pastore pronto a spendersi per l’unica pecora perduta, consente ai sacerdoti di vivere il bell’amore.

Chi è chiamato alla verginità e al celibato non è uno che si sottopone a mutilazioni psicologiche e spirituali, ma un uomo che, praticando la castità perfetta, deve pazientemente arrivare all’unità spirituale e corporale del proprio io. La sessualità intesa come differenza non è riducibile alla dimensione genitale, a cui in nome del celibato si rinuncia. Tuttavia nella Chiesa di oggi è necessario uno sforzo educativo in grado di illuminare la scelta del celibato fin nelle sue motivazioni antropologiche. Occorre approfondire un dato lasciato un po’ in ombra. Mi riferisco alla natura nuziale della scelta verginale e celibataria. L’amore, fin dentro la Trinità, possiede sempre una dimensione nuziale, fatta di differenza, di dono di sé e di fecondità. Il celibato quindi non può essere adeguatamente compreso in termini meramente funzionali. Nel celibato il sacerdote non rinuncia al matrimonio e alla famiglia principalmente o solo per aver più tempo da dedicare al proprio lavoro ecclesiastico.

Dal significato profondamente cristologico, escatologico, ecclesiologico ed antropologico del celibato si capisce la ragione della sua profonda convenienza e pertanto della disciplina della Chiesa latina in proposito. Il celibato sacerdotale affonda le sue radici nella stessa chiamata apostolica che chiede letteralmente di “lasciare tutto”. A conferma di questo suo valore originario sta anche tutta la tradizione orientale che per l’episcopato, pienezza del sacramento dell’ordine, ha sempre esigito la scelta del celibato.

c) Indissolubilità del matrimonio

La virtù della castità getta piena luce anche sul carattere indissolubile della relazione coniugale tra l’uomo e la donna nel sacramento del matrimonio. In effetti l’amore per sua natura chiede il “per sempre”, nonostante l’umana fragilità. È nell’indissolubilità del matrimonio che la relazione tra l’uomo e la donna raggiunge la sua vera dignità. L’idea di una revocabilità del dono ferirebbe mortalmente il mistero nuziale e renderebbe inautentica la relazione stessa. Al contrario, l’indissolubilità garantisce la profonda aspirazione dell’uomo e della donna ad un sì irrevocabile. Il “sì” che si esprime nella scelta della verginità e nel celibato si pone così obiettivamente in relazione al “sì” che i coniugi si promettono per sempre nel matrimonio. La fedeltà non è una proprietà accessoria dell’amore. Semplicemente là dove non c’è fedeltà non c’è mai stato propriamente parlando amore. Pertanto i coniugi sono chiamati a vivere nel loro amore fedele, indissolubile e fecondo quanto viene espresso anche nella scelta della verginità e del celibato. Così come i vergini e i celibi incontrano nel matrimonio indissolubile una testimonianza convincente della dimensione nuziale della loro chiamata.

6. Bell’amore e amore casto

Tornando, in conclusione, al tema del bell’amore, siamo ora in grado di identificarlo con l’amore casto, quell’amore che entra in rapporto con le cose e le persone non per la loro immediata apparenza, in sé transitoria, né per il tornaconto che ne può ottenere: infatti «passa la scena di questo mondo» (1Cor 7). Il distacco chiesto nell’amore casto in realtà è un entrare più in profondità nel rapporto con Dio, con gli altri e con se stessi. Neppure l’umana fragilità sessuale rappresenta ultimamente un’obiezione fondata alla castità. Infatti la caduta non viene ad annullare la natura profonda dell’umano desiderio che continua a domandare riconoscimento della differenza sessuale e ad urgere il possesso vero, quello che mai si dà senza distacco. La figura morale compiuta dell’umano non è l’impeccabilità ma la “ripresa”. Essa registra, sempre più col passare degli anni, il dolore per ogni singolo peccato mentre per la grazia del perdono di Dio approfondisce l’amore. Agostino descrive con potenza questa umana condizione: «David ha confessato: “riconosco la mia colpa” (Sal 50, 5). Se io riconosco, tu dunque perdona. Non presumiamo affatto di essere perfetti e che la nostra vita sia senza peccato. Sia data alla nostra condotta quella lode che non dimentichi la necessità del perdono» .


19/07/2010 – PAKISTAN - Faisalabad: uccisi due fratelli cristiani a processo per blasfemia di Fareed Khan - Rashid Emmanuel e Sajid Masih Emmanuel sono stati colpiti da arma da fuoco all’esterno del tribunale, ferito un poliziotto. Si era da poco conclusa l’udienza e – ammanettati – stavano tornando in carcere. La polizia li stava per scagionare dall'accusa. Da giorni i leader islamici aizzavano la folla, chiedendo la morte dei due.
Faisalabad (AsiaNews) – Rashid Emmanuel e Sajid Masih Emmanuel, due fratelli cristiani a processo con l’accusa di blasfemia, sono stati uccisi oggi a colpi di arma da fuoco all’uscita del tribunale. Un commando di sconosciuti ha colpito all’esterno del tribunale di Faisalabad, nel Punjab. I due uomini, ammanettati, dovevano rientrare in carcere al termine dell’udienza. Fin dai giorni scorsi la comunità cristiana della città aveva lanciato l’allarme, nel timore di nuovi attacchi. I musulmani avevano promosso una manifestazione di protesta, in cui chiedevano la condanna a morte per i due fratelli cristiani.
Il delitto si è consumato oggi all’esterno del tribunale di Faisalabad, dove si era da poco conclusa l’udienza per Rashid e Sajid Masih, imputati per blasfemia, ed è stata una vera e propria esecuzione mirata. I due uomini erano ammanettati e sono risultati un facile bersaglio per i fondamentalisti; durante l’attacco è rimasto ferito anche un poliziotto.
Da giorni la comunità musulmana della città, aizzata dagli imam, manifestava chiedendo la condanna a morte dei due fratelli. Essi erano stati arrestati un mese fa, dopo il ritrovamento di alcuni volantini “blasfemi” – profanavano la memoria di Maometto – sui quali vi sarebbe stato il loro nome.
Secondo fonti locali, la polizia stava per scagionare i due dall'accusa di blasfemia perchè all'esame grafologico le firme sui volantini non coincidevano con la grafie dei due fratelli.
Shahbaz Bhatti, Ministro per le minoranze di fede cattolica, parla di false accuse contro i cristiani, fabbricate ad arte da persone che nutrivano rancori personali verso i due fratelli, uno dei quali era un pastore protestante. Anche la famiglia professa la loro innocenza.
Peter Jacob, segretario esecutivo della Commissione nazionale di Giustizia e Pace della Chiesa cattolica (Ncjp), condanna senza mezzi termini l’omicidio dei due fratelli, “a giudizio per un presunto caso di blasfemia” e rinnova l’appello perché il governo abroghi la legge. L’attivista sottolinea lo stato di “profonda preoccupazione” per la comunità cristiana pakistana e stigmatizza “l’apatia” dell’esecutivo nel punire gli abusi legati alla blasfemia.
La settimana scorsa molte famiglie cristiane avevano abbandonato il quartiere di Waris Pura, a Faisalabad, nel timore di violenze. Il 15 luglio un corteo di protesta è sfilato per la città, chiedendo la condanna a morte dei due fratelli. Il giorno successivo, al termine della preghiera del venerdì, le guide religiose musulmane hanno aizzato la folla, invitandola a manifestare nuovamente contro i cristiani. Durante le manifestazioni, la folla ha preso a sassate la chiesa cattolica del Santo Rosario.
L'uccisione dei due fratelli, il cui arresto ha suscitato molto clamore nel mondo cristiano, avviene proprio mentre in Pakistan si trova in visita il segretario di Stato Usa Hillary Clinton.


Ineccepibile il documento della Congregazione per la dottrina della Fede in tema di pedofilia. La Santa Sede ha smentito le solite male lingue. Tar Piemonte, una decisione assurda, si vuole cambiare il responso delle urne - Bruno Volpe – dal sito pontifex.roma.it
Il professor Massimo Introvigne é senza alcun dubbio uno del maggiori e più autorevoli sociologi in Italia e studioso serio di cose ecclesiatiche e religiose. Con lui parliamo della recente determinazione della Congregazione per la Dottrina della Fede in tema di delicta graviora, ovvero di pedofilia e di eresie, scisma, e sacerdozio al femminile, sonora baggianata che alcuni stravaganti di tanto in tanto vanno proponendo. Professor Introvigne, qual é il suo giudizio sulla determinazione espressa dalla Congregazione per la Dottrina della Fede?: " decisamente e chiaramente positiva in quanto inasprendo e rendendo ancor più incisive le sanzioni e disponendo una più effettiva collaborazione anche con la giustizia civile, si é data la netta impressione agli osservatori esterni di una chiesa che vuole fare con durezza, ma anche con giustizia, pulizia al suo interno". Ci sono stati pastori infedeli: " questo é innegabile anche se criminilazzare ... come qualcuno ha fatto l' intera struttura é operazione ingiusta e forse in cattiva fede. La Chiesa non é solo pedofilia, ma in larghissima parte una istituzione che si regge sul lavoro di tanti sacerdoti seri e corretti".

Il Papa Benedetto XVI in ogni caso ha trasmesso un messaggio indiscutibile: " Papa Benedetto XVI da sempre é impegnato in questa battaglia, ma lo era anche da cardinale, smentendo tutte le voci assurde e maliziose messe in giro sul suo conto dai soliti intenzionati a screditare lui per colpire la chiesa. Oggi ne escono male, davanti ad un pontificato che sta mostrando con i fatti e le azioni il suo volto limpido e trasparente. Che altro si deve chiedere di più al Papa? Non saprei".

Intanto vengono maggiormente responsabilizzati anche in vescovi locali: " meglio, in maniera che loro, che hanno il polso delle diocesi e sanno come stanno realmente i fatti, siano in grado di assumere con maggior determinazione, ma senso di equilibrio tutte le opportune inziative. Approvo senza alcuna condizione questa scelta, che avrà anche riflessi in campo teologico con le chiare determinazioni in tema di eresie e metterà certi teologi davanti alle loro responsabilità".

Dal Piemonte arriva una notizia sconcertante. Il Tar ha deciso di far riconteggiare le schede elettorali mettendo a repentaglio la limpida vittoria del Governatore Cota e di fatto, se le cose andassero in un certo modo, ridando alla Bresso quello che in autonomia e democrazia, gli elettori avevano tolto, un vergognoso colpo di mano giudiziario: " la statuizione del Tar, davanti alla quale non si può rimanere indifferenti e scegliere tutte le forme legali di reazione come la protesta e le impugnazioni, rasenta l' incredibile. I giudici non hanno scelto la via del compromesso in caso di irregolarità di farre ripetere le elezioni, dalle quali ancora una volta Cota sarebbe uscito vincitore, ma hanno valutato che nel caso di un certo esisto, verrà dichiarata la Bresso vincitrice. Insomma,mi sa tanto di colpo di mano per sentenza".

Ma a che cosa si deve tutto questo: " in parte ad una volontà politica molto evidente di rovesciare il tavolo con cavilli e sofismi, e poi, semmai, la responsabilità sarebbe da attribuire alle Corti di Appello che hanno ammesso le liste e i criteri oggi contestati. Non si comprende come mai una Corte di Appello faccia una cosa e il Tar decida altra. Staremo a vedere, ma la sensazione é che si voglia cambiare per altra via una elezione democraticamente decisa dal popolo per riportare la comunista Bresso al comando ,é del tutto palese e una violazione della democrazia, un vulnus che merita ogni considerazione".
Bruno Volpe


Prevenire l'Aids: quali proposte? - Di Lorenzo Schoepflin – dal sito http://www.libertaepersona.org
Di seguito un mio articolo su Avvenire del 18 luglio 2010: siamo certi che vagonate di preservativi siano la soluzione alla piaga Aids in Africa? Quello dei programmi di prevenzione dell’Aids che contemplino campagne basate sulla proposta dell’astinenza sessuale è un tema che ciclicamente si ripropone all’attenzione dell’opinione pubblica. Gli ultimi in ordine di tempo a parlare dell’astinenza come di un approccio che “potrebbe ridurre le infezioni” sono stati Alan Whiteside, dell’Università di KwaZulu-Natal, e Justin Parkhurst, della London School di Igiene e Medicina tropicale, in una articolo pubblicato sul South African Journal of HIV Medicine. Dalle pagine del Guardian, poi, i due ricercatori hanno lanciato un appello ai capi di stato dell’Africa affinché si impegnino ad organizzare una campagna per propagandare un mese di astinenza sessuale nell’ottica di ridurre la diffusione di una delle peggiori piaghe per il loro continente. La proposta di Whiteside e Parkhurst si basa su evidenze scientifiche desunte dall’osservazione di popolazioni che praticano l’astinenza sessuale in determinati periodi dell’anno, come ad esempio una setta apostolica dello Zimbabwe durante il periodo di Pasqua, e delle successive valutazioni sul numero dei contagi. Derek von Wissell, direttore del Consiglio nazionale per l’emergenza Aids dello Swaziland, che con il 26,1% ha la più alta proporzione di infezione, ha accolto con favore l’idea anche in virtù dei costi ridotti per metterla in pratica. Ma tra le fila dei sostenitori dell’astinenza come metodo vincente per il contenimento dell’Aids non ci sono solo Whiteside e Parkhurst. Edward Greene è ricercatore presso la Scuola di salute pubblica di Harvard e, dopo aver osservato la drastica riduzione della diffusione dell’Aids in Uganda grazie al progetto ABC (Abstinence, Be faithful, Condom), durante un’audizione di una commissione del Senato USA nel 2003 ammise che molti come lui si erano sbagliati nel credere che l’astinenza non potesse essere una proposta efficace. Proprio negli Stati Uniti, l’ex Global Aids Coordinator, la figura che supervisiona e gestisce i piani di prevenzione della diffusione dell’Aids, Mark Dybul, più volte fu attaccato per le sue posizioni favorevoli al finanziamento di progetti basati sull’astinenza. Da segnalare anche il libro “Affirming Love, Avoiding AIDS: What Africa Can Teach the West” (Affermare l’amore, evitare l’Aids: ciò che l’Africa può insegnare all’Occidente), scritto da Matthew Hanley e Jokin de Irala, il primo già consigliere tecnico in materia di Aids per il Catholic Relief Services , il secondo vicedirettore del Dipartimento di medicina della prevenzione e di salute pubblica dell’Università di Navarra. Nel libro, dati alla mano, i due autori affermano l’importanza dell’educazione e dei programmi volti a cambiare le attitudini sessuali degli africani nella direzione dell’astinenza e della fedeltà. Nella quarta di copertina si legge che l’attenzione ai comportamenti sessuali che sono causa di contagio “è esattamente ciò di cui c’è bisogno e che ha funzionato meglio”: parole di Norman Hearst, professore di epidemiologia all’Università della California.


Avvenire.it, 17 luglio 2010 - Il fondatore della Apple ammette: la tecnologia non è impeccabile, come l’uomo - Viva il tecno-imperfetto - Francesco Ognibene
«Non siamo perfetti, e nemmeno i telefoni lo sono». Di trovate celebri è disseminato l’intero curriculum di Steve Jobs, il geniale fondatore di Apple, "papà" di marchingegni divenuti l’icona di varie epoche, dal MacIntosh all’iPad. Ma della frase che gli è uscita ieri sera davanti alla stampa americana convocata nella sede di Cupertino può andare orgoglioso anche più dell’enormità di pezzi venduti per ogni aggeggio hi-tech uscito dai laboratori californiani.

Ci è voluto un incidente industriale, il più serio da quando i prodotti targati Apple scandiscono la transizione da una fase all’altra dell’era tecnologica, per far scendere la Mela dall’albero dell’impeccabilità sul quale pareva nata. Lo <+corsivo_bandiera>smartphone<+tondo_bandiera> di ultima generazione, infatti, funziona male. E gli stessi tecnici che l’hanno progettato si sono detti «sbalorditi» quando hanno scoperto l’origine del baco.

L’iPhone 4 appena proposto ai consumatori americani – che l’hanno letteralmente razziato con 3 milioni venduti in un lampo – ha mostrato sin dall’inizio un design smagliante, prestazioni da formidabile coltellino multiuso dell’era digitale, ma ha pagato le soluzioni avveniristiche con fatali problemi di ricezione. In parole povere, il telefonino mostra un confortante numero di "tacche" pur in presenza di un segnale assai scadente. Pare sia tutta colpa di un banale errore nella formula che traduce il "campo" sul display, un inciampo rimediabile. Ma è come se Jobs avesse trascurato il motivo per il quale ha senso produrre un cellulare, ovvero consentire alla gente di fare e ricevere telefonate.

Il guaio era subito apparso tanto grave quanto imbarazzante per un prodotto di questa sofisticazione: l’antenna dell’iPhone4, occultata dentro la banda metallica esterna per rendere l’apparecchio esteticamente irresistibile, talvolta "non prende", come si dice con frasario magari poco preciso ma di uso comune. Se poi lo impugni coprendo il dispositivo che capta il segnale, allora il telefonino diventa pressoché inservibile. Hai detto niente: col supercellulare Apple puoi fare di tutto, con applicazioni ludiche che lasciano di stucco, ma a volte succede che non si riesca a telefonare... Per porre rimedio al malfunzionamento, Jobs ha annunciato che i possessori dell’iPhone difettoso hanno diritto a un altro oggetto Apple probabilmente destinato a fare epoca, ovvero una custodia dai poteri taumaturgici che finirà col rendere ancor più desiderabile il «melafonino» nato zoppo.

Perché il telefono portatile è diventato ormai uno strumento nel quale non solo convergono le funzioni più disparate ma si coagulano anche tutte le aspettative che l’immaginario ingenuo della nostra epoca ripone nella tecnologia, trasformata nel contrappeso emotivo a una vita necessariamente "difettosa" per la quale non sempre esiste una custodia magica che risolva problemi e inadeguatezze. Ora Steve Jobs riconosce che a essere imperfetto è non solo l’essere umano ma anche il suo manufatto digitale apparentemente meglio riuscito. E questo realismo umanistico, assai più dell’iPhone, gli vale tutta la nostra simpatia.
Francesco Ognibene


Massimo Introvigne: Giovanni Cantoni, "Il Magistero cattolico e l'importanza della storia"
Trascriviamo la traccia di un testo di Giovanni Cantoni presentato in diversi incontri e ritiri per soci e amici di Alleanza Cattolica nell'estate 2010 (nella foto: da sinistra, il principe dom Bertrand de Orléans e Bragança, della Casa Imperiale brasiliana, Giovanni Cantoni e Plinio Corrêa de Oliveira nel 1972)

«Sì, la memoria storica è veramente una “marcia in più” nella vita, perché senza memoria non c’è futuro. Una volta si diceva che la storia è maestra di vita! La cultura consumistica attuale tende invece ad appiattire l’uomo sul presente, a fargli perdere il senso del passato, della storia; ma così facendo lo priva anche della capacità di comprendere se stesso, di percepire i problemi, e di costruire il domani. Quindi, cari giovani e care giovani, voglio dirvi: il cristiano è uno che ha buona memoria, che ama la storia e cerca di conoscerla»
Benedetto XVI, Incontro con i giovani nella Cattedrale di Sulmona, 4 luglio 2010

La mia breve riflessione sull’importanza che il Magistero attribuisce alla storia e alla storiografia parte da una tesi di Papa Leone XIII (1878-1903), di cui si celebra nel 2010 il duecentesimo anniversario della nascita, tesi esposta in un documento tanto importante quanto trascurato, la Lettera «Saepe numero considerantes», del 18 agosto 1883.

In essa il Pontefice, mentre indica sant’Agostino (354-430) «come maestro e guida» della filosofia della storia, traccia i caratteri dell’apologetica appunto storica, nata originariamente — secondo la sua autorevole ricostruzione — come opera di contrasto a quella svolta da un gruppo di studiosi protestanti, autori di un testo i cui primi tre volumi in folio vengono pubblicati nel 1559 a Basilea, nella Confederazione Elvetica, con il titolo "Ecclesiastica Historia integram Ecclesiae Christi ideam secundum singulas centurias perspicuo ordine complectens (usque ad sec. XII) per aliquot studiosos et pios viros in Urbe Magdeburgica". Il gruppo di studiosi cui il Papa fa riferimento, noto come «i Centuriatori di Magdeburgo» per il modo in cui dividono la loro opera, cioè per centurie, dunque per secoli, e per il luogo — la principale città della regione tedesca della Sassonia — dove, per la maggior parte, essa venne composta, è guidato da Mattia Flacio ed è considerata la prima storia universale della Chiesa dai tempi di Eusebio di Cesarea di Palestina (262-339/340).

Mattia Flacio Illirico — in latino Matthias Flacius Illyricus, in croato Matija Vlačić, nato ad Albona, in Istria, nel 1520, e morto a Francoforte, in Germania, nel 1575 —, teologo luterano dissidente, fu professore di lingua ebraica e greca a Wittenberg, poi professore di Nuovo Testamento all’università di Jena, dai moderni storici apprezzato per la sua attenzione per le caratteristiche del testo e per il suo rispetto per esso ai fini della sua comprensione, cioè — insomma — per la sua acribia filologica. Nel 1556, sempre a Basilea, aveva dato alle stampe un "Catalogus testium veritatis qui ante nostram ætatem Pontifici Romano eiusque erroribus reclamarunt", poi edita in versione ampliata a Strasburgo nel 1562, raccogliendo testi di tutti coloro che, nel corso della storia, avevano «protestato» contro «l’Anticristo papale». A lui si oppone — fra gli «studiosi che nessuno ha superato» — lo storico, religioso e cardinale italiano Cesare Baronio (1538-1607), degli oratoriani di san Filippo Neri (1515-1595), il cui nome è legato alla redazione dei primi volumi degli "Annales ecclesiastici", una storia della Chiesa dalle origini al 1198, e alla revisione del Martirologio Romano (1586-1589).

«Questo genere di persecuzione — così il Pontefice chiama questa sorta di "Kulturkampf "ante litteram e di settore, del quale mi astengo, perché troppo evidente, d’indicare l’attualità e, con essa, la sua diffusione globale — fu praticato prima degli altri, tre secoli fa, dai Centuriatori di Magdeburgo; costoro, non essendo riusciti, come autori e promotori di nuove tesi, ad espugnare le difese della dottrina cattolica, costrinsero la Chiesa alle dispute storiche, come in un nuovo combattimento. Quasi tutte le scuole che si erano ribellate all’antica dottrina seguirono l’esempio dei Centuriatori, e a tale indirizzo si conformarono — il che è di gran lunga più miserevole — alcuni di religione cattolica e di nazionalità italiana».

«Con lo scopo che abbiamo precedentemente indicato, furono analizzati anche i più piccoli elementi del passato: i recessi degli archivi quasi controllati uno per uno; tirate fuori storie senza fondamento; invenzioni cento volte confutate e cento volte ripetute. I lineamenti principali della storia furono rimossi od interpretati astutamente in modo riduttivo; con la reticenza furono facilmente accantonati eventi gloriosi e giustamente memorabili, mentre gli animi si volgevano aspramente a sottolineare e ad esagerare un eventuale gesto imprudente o meno che corretto; per guardarsi da tutte le azioni di questo genere chiunque avrebbe più difficoltà di quanto la natura degli uomini sia in grado di reggere. È risultato addirittura lecito scrutare, con sfacciata acutezza, i riposti segreti della vita familiare, per carpire e diffondere quelli che sembravano più facilmente motivo di spettacolo e ludibrio per la moltitudine, sempre pronta alla denigrazione».

«A queste macchinazioni anche oggi si è dato fiato, tanto che, se non nel passato, di sicuro adesso si può asserire fondatamente che la scienza storica sembra essere una congiura degli uomini contro la verità. Infatti, rinnovate di fronte a tutti quelle precedenti false accuse, vediamo che la menzogna si snoda audacemente fra i ponderosi volumi e negli agili libri, fra i fogli volanti dei giornali e nei seducenti apparati dei teatri. Troppi vogliono che il ricordo stesso degli avvenimenti passati sia complice delle loro offese».

«Ancora più grave è che questa abitudine di trattare la storia ha invaso persino le scuole. Troppo spesso infatti ai bambini vengono presentati libri di testo intrisi di falsità; una volta assuefatti ad esse, soprattutto con l’aiuto della malvagità o della superficialità dei docenti, gli scolari facilmente s’imbevono di fastidio per il venerando passato e d’indecoroso disprezzo per quanto c’è di più sacro: cose e persone. Superate le prime classi scolastiche, facilmente corrono rischi anche maggiori. Infatti, nell’insegnamento superiore si procede dalla narrazione degli eventi alle cause dei fatti; dopo le cause, la costruzione di leggi si basa su valutazioni arbitrariamente elaborate, molto spesso apertamente in disaccordo con la dottrina rivelata da Dio, con l’unica motivazione di dissimulare e nascondere come e quanto le istituzioni cristiane abbiano potuto beneficamente agire nel corso delle vicende umane e nel susseguirsi degli avvenimenti. Questo trova spazio tra i tanti che non si preoccupano di essere incoerenti, di avanzare affermazioni contraddittorie, di avvolgere in tenebre sempre più fitte quella che viene chiamata “filosofia della storia”. Insomma, per non soffermarci sui singoli episodi, essi rigirano ogni motivazione delle vicende storiche in modo da rendere oggetto di sospetto la Chiesa, invisi i Pontefici, e, soprattutto, da persuadere la gente che il potere temporale dei Pontefici romani danneggia l’integrità e la grandezza della nazione italiana».

Per dire il meno, il seme gettato dai Centuriatori non ha assolutamente cessato di produrre frutti avvelenati, non geneticamente modificati, dannosi non soltanto per la religione cristiana, ma per la stessa identità dell’uomo, e non solo in campo genericamente propagandistico ma anche in quello specificamente pedagogico. Di tali frutti ha parlato Papa Benedetto XVI in un importante discorso tenuto il 7 marzo 2008, nella Sala dei Papi, ai membri del Pontificio Comitato di Scienze Storiche. «Come voi ben sapete — ha detto il regnante Pontefice —, fu Leone XIII che, di fronte a una storiografia orientata dallo spirito del suo tempo e ostile alla Chiesa, pronunciò la nota frase: “Non abbiamo paura della pubblicità dei documenti” e rese accessibile alla ricerca l’archivio della Santa Sede. Al contempo, creò quella commissione di Cardinali per la promozione degli studi storici, che voi, professoresse e professori, potete considerare come antenata del Pontifico Comitato di Scienze Storiche, di cui siete membri. Leone XIII era convinto del fatto che lo studio e la descrizione della storia autentica della Chiesa non potessero che rivelarsi favorevoli ad essa».

Confermato da una parte il quadro descritto da Papa Leone XIII, per altro verso Papa Benedetto XVI ne segnala una rilevante modificazione, sulla cui base integra il quadro stesso: «Da allora il contesto culturale ha vissuto un profondo cambiamento. Non si tratta più solo di affrontare una storiografia ostile al cristianesimo e alla Chiesa. Oggi è la storiografia stessa ad attraversare una crisi più seria, dovendo lottare per la propria esistenza in una società plasmata dal positivismo e dal materialismo. Entrambe queste ideologie hanno condotto a uno sfrenato entusiasmo per il progresso che, animato da spettacolari scoperte e successi tecnici, malgrado le disastrose esperienze del secolo scorso, determina la concezione della vita di ampi settori della società. Il passato appare, così, solo come uno sfondo buio, sul quale il presente e il futuro risplendono con ammiccanti promesse. A ciò è legata ancora l’utopia di un paradiso sulla terra, a dispetto del fatto che tale utopia si sia dimostrata fallace».

«Tipico di questa mentalità — prosegue Papa Benedetto XVI — è il disinteresse per la storia, che si traduce nell’emarginazione delle scienze storiche. Dove sono attive queste forze ideologiche, la ricerca storica e l’insegnamento della storia all'università e nelle scuole di ogni livello e grado vengono trascurati. Ciò produce una società che, dimentica del proprio passato e quindi sprovvista di criteri acquisiti attraverso l’esperienza, non è più in grado di progettare un’armonica convivenza e un comune impegno nella realizzazione di obiettivi futuri. Tale società si presenta particolarmente vulnerabile alla manipolazione ideologica».

«Il pericolo cresce — insiste il Sommo Pontefice — in misura sempre maggiore a causa dell’eccessiva enfasi data alla storia contemporanea, soprattutto quando le ricerche in questo settore sono condizionate da una metodologia ispirata al positivismo e alla sociologia. Vengono ignorati, altresì, importanti ambiti della realtà storica, perfino intere epoche. Ad esempio, in molti piani di studio l’insegnamento della storia inizia solamente a partire dagli eventi della Rivoluzione Francese. Prodotto inevitabile di tale sviluppo è una società ignara del proprio passato e quindi priva di memoria storica. Non è chi non veda la gravità di una simile conseguenza: come la perdita della memoria provoca nell’individuo la perdita dell’identità, in modo analogo questo fenomeno si verifica per la società nel suo complesso».

Papa Benedetto XVI passa quindi a ribadire le conseguenze non solo sociologiche, ma soprattutto antropologiche di questo deficit storiografico: «È evidente come tale oblío storico comporti un pericolo per l’integrità della natura umana in tutte le sue dimensioni. La Chiesa, chiamata da Dio Creatore ad adempiere al dovere di difendere l’uomo e la sua umanità, ha a cuore una cultura storica autentica, un effettivo progresso delle scienze storiche. La ricerca storica ad alto livello rientra infatti anche in senso più stretto nello specifico interesse della Chiesa. Pur quando non riguarda la storia propriamente ecclesiastica, l’analisi storica concorre comunque alla descrizione di quello spazio vitale in cui la Chiesa ha svolto e svolge la sua missione attraverso i secoli. Indubbiamente la vita e l’azione ecclesiali sono sempre state determinate, facilitate o rese più difficili dai diversi contesti storici. La Chiesa non è di questo mondo ma vive in esso e per esso».

Quindi il Pontefice regnante osserva la storia nell’ottica non solo della filosofia di tale storia, ma anche della sua teologia e delle scelte pastorali che ne possono derivare e, di fatto, ne derivano: «Se ora prendiamo in considerazione la storia ecclesiastica dal punto di vista teologico, rileviamo un altro aspetto importante. Suo compito essenziale si rivela infatti la complessa missione di indagare e chiarire quel processo di ricezione e di trasmissione, di "paralépsis" e di "parádosis", attraverso il quale si è sostanziata, nel corso dei secoli, la ragione d’essere della Chiesa. È indubbio infatti che la Chiesa possa trarre ispirazione nelle sue scelte attingendo al suo plurisecolare tesoro di esperienze e di memorie».

Prima di proseguire, e di passaggio, mi piace segnalare una «coincidenza» di pensiero e di giudizio — non sono assolutamente in grado di considerare il fatto una «dipendenza» culturale — fra le tesi di Papa Benedetto XVI, secondo cui «[...] una società [...] dimentica del proprio passato e quindi sprovvista di criteri acquisiti attraverso l’esperienza [...] non è più in grado di progettare un’armonica convivenza e un comune impegno nella realizzazione di obiettivi futuri. Tale società si presenta particolarmente vulnerabile alla manipolazione ideologica», e «prodotto inevitabile di tale sviluppo è una società ignara del proprio passato e quindi priva di memoria storica. Non è chi non veda la gravità di una simile conseguenza: come la perdita della memoria provoca nell’individuo la perdita dell’identità, in modo analogo questo fenomeno si verifica per la società nel suo complesso», e quella esposta dal grande scrittore e storico svizzero Gonzague de Reynold (1880-1970), che, a sua volta, ricostruisce una "filière": «Il nostro grande storico svizzero Jean de Müller [naturalizzato tedesco, Johannes von Müller (1752-1809)] diceva: “Considero la storia come un deposito di esperienze ad uso della politica». E commenta: «L’oblio, il disprezzo della storia, bisognerebbe considerarlo come uno dei più gravi fenomeni di degenerescenza e di barbarie. Infatti, il fenomeno sarebbe equivalente per la società a ciò che rappresenta la perdita della memoria per l’individuo. Ma, se l’uomo perde la memoria, prenderà come guida soltanto i suoi istinti».

Quindi espungere o declassare la storia significa espungere o declassare l’esperienza, e l’espunzione dell’esperienza attraverso l’oblio della storia, che, pure secondo il pensatore e uomo politico savoiardo Joseph de Maistre (1753-1821) «[...] è la politica sperimentale», danneggia la società — perciò anche la società cristiana, cioè la Cristianità — in campo politico; e un danno corrispondente patisce la Chiesa in campo pastorale — la pastorale è, per rapporto alla Chiesa, la «politica», la "gouvernance", la «pratica gestionale» dell’istituzione ecclesiastica, dunque, in analogia, quello che la politica è per la società —, in quanto viene meno o viene lasciata inaridire una fonte da cui la stessa Chiesa «[...] possa trarre ispirazione nelle sue scelte attingendo al suo plurisecolare tesoro di esperienze e di memorie».


Calabrò: non vincolanti le dichiarazioni sul fine vita - «Il caso Rudd è una conferma della scelta del Senato» - DA ROMA PIER LUIGI FORNARI - Il relatore al Senato del provvedimento: «La condizione tra la vita e la morte richiede umiltà, prudenza e cautela L’esperienza mostra che in condizioni di fragilità si cambia parere» - Avvenire, 20 luglio 2010
In attesa che la proposta di legge sul fine vita approdi in autunno nell’aula della Camera, Raffaele Calabrò, relatore del disegno di legge approvato al Senato (poi assunto dalla commissione Affari sociali di Montecitorio come testo base), evidenzia il valore di uno dei punti chiave: «la non vincolatività» delle dichiarazioni anticipate di trattamento. «È un principio che ha fatto scalpitare l’opposizione parlamentare – osserva il senatore del Pdl, che è anche docente di cardiologia – la quale durante l’iter parlamentare gridava che un uomo deve sentirsi libero e padrone di decidere di volere accelerare la sua morte e nessuno né tanto meno il medico può andare contro una dichiarazione di volontà scritta. Ma in questi giorni, come relatore della legge, avrei gioco facile ad affermare che la non vincolatività delle intenzioni di volontà non era affatto peregrina».

A cosa si riferisce?

Alla vicenda di Richard Rudd, l’inglese che aveva più volte affermato che lui non avrebbe mai voluto una vita attaccata ad un macchinario, non avrebbe mai voluto trascorrere il resto dei suoi giorni paralizzato, che staccassero la spina se non poteva più avere una vita normale. Ma invece al momento in cui i medici stavano per sospendere la respirazione artificiale, attraverso il movimento degli occhi ha comunicato ai familiari e ai medici che lui, sì proprio lui, aveva deciso di vivere.

Chissà se in Italia vedremo mai il documentario della Bbc che riprende quel momento.

Sono immagini bioeticamente importanti?

Si. Vorrei che fossero in molti a vedere quelle palpebre che si muovono, le pupille che rotano a sinistra per affermare la loro dedizione alla vita. Quel battito di ciglia dovrebbe farci riflettere che trovarsi al confine tra la vita e la morte, come è accaduto al paziente inglese, può portaci a rinnegare quanto credevamo con cieca convinzione, lontani da quella 'misteriosa frontiera'.

Sta difendo il suo operato di relatore del disegno di legge al

Senato?

No, mi muove a parlare la speranza che questa esperienza faccia comprendere che la nostra visione della vita e della malattia, che la nostra concezione di una condizione dignitosa muta a seconda delle circostanze, delle vicissitudini, che godiamo o siamo privati di ottima salute, sia fisica che psichica. Muta persino con gli anni, raramente le persone anziane vorrebbero morire.

Insomma, il decidere 'ora per allora' può giocare brutti scherzi.

La malattia e ancor più quella condizione estrema tra la vita e la morte richiedono umiltà, prudenza e cautela. Ancor più quando una persona si trova in uno stato di fragilità, quando non è più quel leone che affermava sicuro che una vita senza poter correre, lavorare e senza comunicare con il mondo esterno non merita di essere vissuta.

Cosa può scoprire un malato in quelle condizioni?

Che anche con un sondino si conserva una dignità, che anche così si preferisce andare avanti.

Allora quale interpretazione delle dichiarazioni anticipate di trattamento lei teme?

Un 'ora per allora' che non tiene in debita considerazione che la tecnologia e la medicina corrono per fortuna - veloci verso nuovi traguardi, che un soggetto può ignorare mentre stende le sue volontà.

E l’autodeterminazione?

Il valore orientativo delle dichiarazioni non viola in nessun modo l’autonomia del soggetto, presumendo che nessun paziente si priverebbe della possibilità di beneficiare di quei trattamenti che si rendessero disponibili in un periodo successivo alla manifestazione della sua volontà.

E il ruolo del medico?

È esattamente in questo ambito che deve essere inquadrato, non deve limitarsi a eseguire meccanicamente, come un burocrate, i desideri del paziente, ma ha l’obbligo morale di valutarne l’attualità in relazione alla situazione clinica e ai nuovi sviluppi scientifici. Perché un buon medico ricorderà sempre che ogni malato porta con sé un valore incondizionato, fondamento di ogni agire medico.